Nicola Valletta
Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura

CICALATA IN DIFESA DEL FASCINO VOLGARMENTE DETTO JETTATURA

9. Vi credettero i Romani

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9.

Vi credettero i Romani

 

Passiamo pertanto a' Romani, ch'è tardi. Essi, da ciurmaglia ch'eran prima nell'asilo di Romolo, e figli delle rapite Sabine, passarono ad esser signori dell'Orbe, e dalle case pastoreccie al fasto imperiale s'innalzarono, nelle arti di guerra e di pace celebratissimi. Come vanno le cose del mondo! I saggi romani non solo credettero alla jettatura, per costumi di tanti popoli che diedero origine a Roma;38 ma nella loro egregia legislazione,39 eziandio, par che quella si fosse compresa.

In quei frammenti delle Decemvirali leggi, che il tempo edace ha fatti a noi pervenire, due40 ne ritrovo: uno contra i jettatori, che fan male alle persone ed alla vita degli uomini; un altro contro a coloro de' quali la jettatura a corrompere e rovinar le biade è diretta. La legge 14 della Tavola VII è questa: «QUEI • MALOMCARMEN41 INCANTASIT42 MALOMAVENENOMFACSITDUITUE43 PARICEIDADESTOD».44 Cioè: chi superstiziose, e solenni parole, a forma di cantilene abbia contro di alcuno mormorate, e susurrate, ovvero cattivo veleno abbia preparato o dato altrui, soffra pena capitale. E la legge 3 della stessa Tavola VII: «QUEI • FRUGESECSCANTASIT».45 Cioè: si uccida vittima a Cerere colui che le altrui biade con incantazioni obbligasse a non crescere, o, secondo la congettura de' dotti, l'abbia trasportate nel campo altrui.46

Con simiglievoli incantazioni non solo i frutti, le biade, si mandavano a male, o ne' poderi altrui si trasferivano, ma si credea che si espellessero altresí gli stessi dei tutelari da' loro luoghi, e la luna benefica divinità, per non udire gl'incanti delle arti Tessale, sul piú alto cielo si portasse, ed oltracciò, per clamori e suoni, il suo languore volgesse in letizia.47

Io ben so io che la detta pena per le magiche incantazioni fosse irrogata, in quei tempi ancora semplici e rozzi, secondo il comun sentimento. Ma so ancora che altri altramente quelle leggi interpetra. E perché non posso io adattarle alla jettatura ed alle maligne parole de' jettatori invidiosi? Inoltre presso i Romani stessi a che altro era il Collegio degli Auguri destinato, se non per sapersi se, in qualche cosa da farsi, v'intervenisse o no jettatura? A tal fine gli Auguri guardando l'oriente, osservavano se folgorava o tuonava a sinistra, ch'era buon segno, o a destra, ch'era segno di jettatura solenne ed augurio cattivo: conciosiacosa che il settentrione, ch'era a sinistra, credeasi piú alta ed illustre regione. Allo 'ncontro i Greci la destra per le cose fauste e propizie stimavano.48

Gli Auguri osservavano degli augelli il volo, il canto d'essi ascoltavano, ed osservavano il mangiar de' polli, dalla bocca de' quali cadendo il cibo era il piú lieto augurio. Eranvi ancora gli Aruspici, gl'Indovini, e gli dicitori della buona ventura; ch'erano della jettatura interpetri gravissimi.49

 

 





38                 Fortunati i Toschi antiqui,

   Che avean l'arte, e il magistero

   Di sviar per colli obliqui

   Lo stridente fulmin fero.

   Divenia poi sacro il loco,

   U' cadea l'orribil foco.

   D'onde Roma il culto apprese

   Del tremendo Puteale:

   Quindi il poggio si sorprese

   Jettator per te sia tale.

   Non vi por mai piè, ma passa

   Pur lontan con fronte bassa.

                Vedi Vossio, Etimol., voc. Bidental, e Puteal.



39            Sulpicia nella satira de' tempi di Domiziano, che con Editto discacciò i Filosofi dalla Città; apud Petr. Burmann: «... Duo sunt quibus extulit ingens / Roma caput, virtus belli, et sapientia pacis». E Virgilio, Ecloga I: «Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes, / Quantum lenta solent inter viburna Cypressi». Gravissima testimonianza fa un Editto di Diocleziano e Massimiano, lib. 5, C. Gregor., tit. de Nupt.: «Nihil, nisi sanctum, ac venerabile nostra jura custodiunt: et ita ad tantam magnitudinem Romana majestas, cunctorum Numinum favore, pervenit: quoniam omnes suas leges religione sapienti pudorisque observatione devinxit».



40            Furono queste leggi due, come rileviamo da Plinio, XXVIII 2, non già una.



41            Carmen, quasi canimen, da cano. A queste incantazioni piene di superstizione, e di malizia, gli antichi attribuirono forza meravigliosa. Virgilio, eclog. 8. S'intende però carme malefico, non già buono, che giova. E fa stupore, che pure a Costantino Magno piacque cosí, L. 3, C. Th., de malef.



42            Incantaverit, cioè abbia mormorate contro di alcuno per legarlo. Quindi appo Orazio, Serm., lib. I, sat. 8, v. 49, incantata lacertis vincula. Agl'incanti de' carmi diede potere su gli Astri, sulla vita degli uomini, e sulle altre cose, la supertiziosa antichità. In questo senso Amphitruo ad Sosiam presso Plauto, Amph., act. 2, sc. I, v. 58: «Huic homini nescio quid est mali mala objectum manu».



43            Paricida esto: che dinotava la pena capitale, cioè capital esto. Joh. Nicol. Funcius, in Leges XII Tab. pag. 342.



44            Cioè excantaverit. Excantare, incantare, e praecantare. L'incantazione nel surriferito luogo L. 14, tab. 7, fu appellata malum carmen. Scaligero sul seguente luogo di Tibullo scrisse: «excantare fruges non est simpliciter incantare sed e loco in locum carminibus traducere».



45            Fecit, deditve.



46            Credeasi che le parole, traendo giú le intempestive piogge o impedendo le opportune, potesser nuocere alle biade. Seneca, Natur. quaest., lib. 4, c. 7; Apuleius, apologia I; S. August., de C. D., VIII 19, e Servius, ad Eclog. Virgil., 8 v. 99: «Atque satas alio vidi traducere messes». Bachius, Histor. Jurisprud. Rom., I 2; Gravin., Orig. Jur. civ., lib. 2, in d. tab. 7; Jac. Gothofred., in XII. Tab., tom. 3 Thesaur. Otton.



47            Plutarco, in vit. Pauli Æmili. Fu ciò accennato da Tibullo, lib. I, eleg. 9:

      Nun te carminibus, num te pallentibus herbis

               Devovit tacito tempore noctis anus?

      Cantus vicinis fruges traducit ab agris;

               Cantus et iratae detinet anguis iter;

      Cantus et e curru lunam deducere tentat;

               Et faceret, si non aera repulsa sonent.

      Quid queror, heu misero carmen nocuisse quid herbas?

               Forma nihil magicis utitur auxiliis.

                E Ovidio. Amor.:

      Carmine laesa Ceres steriles vanescit in herbas:

               Deficiunt laesi carmine fontis aquae;

      Illicibus glandes, etc.

                E Metamorph., lib. VII, fab. 2, e lib. XII, fab. 4. Veggasi Bibliotheca magica Hauberi, e Joh. Nicol. Funcius, in Leg. XII. Tab., pag. 297. Credeasi confortarsi la Luna, e rallegrarsi nella sua mestizia col concento, e collo strepito: Tacitus, Annal., lib. I, c. 29; Livius, lib. 26; Divus Maximus Taurinens. Episcop., Homilia de defectu lunae; onde argutamente Giovenale: «Una laboranti poterit succurrere Lunae».



48            Onde Cicerone: «Ita nobis sinistra videntur, Grajis, et barbaris dextra, meliora».



49            Beaufort, lib. I, cap. 3, e lib. III, cap. 2. Dottamente dimostra il vero giureconsulto, e fu mio caro amico, Emmanuele Duni nella opera Del cittadino, e del Governo civile di Roma, lib. I, cap. 2, che la ragion degli Auspici, come fondamento delle nozze, era l'unico mezzo per propagare, e tramandare ne' posteri il carattere di Cittadino Romano, ed in conseguenza ogni dritto pubblico, e privato, che sulla ragion degli Auspici fondavasi.



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