Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO II.   Marinaio e gran dama.

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CAPITOLO II.

 

Marinaio e gran dama.

 

 

La mattina seguente, per non dare una mentita alla notizia di don Alonzo Quintanilla, i mortai del campo Castigliano incominciarono a far piovere entro le mura di Malaga qualche dozzina di bombe. I danni non furono molti, nella città assediata, ma fu grande lo sgomento degli abitanti. E di questo, certamente, si diede pensiero il valì Muza ben Conixà. Era un uomo valoroso, e risoluto di tenere la piazza; tanto risoluto, che aveva chiamato gente dalla costa d’Africa, per confortare con la presenza e il sussidio di prodi Musulmani, induriti ad ogni fatica e saldi nella fede di Allà, il coraggio di una popolazione che gli agi della vita potevano avere intiepidita, in tanti secoli d’incontrastato dominio. Da principio, quella nuova gente aveva fatto prodigi, e con le sue felici sortite rianimati gli abitanti, alla cui intelligenza non era sfuggita la gravità del pericolo. Infatti, s’incominciava a veder chiaro il disegno dei reali di Castiglia, che intorno a Malaga avevano assediati e presi tutti i luoghi fortificati, per lasciarla sola con le proprie difese, e ad essa rivolgere tutti i loro sforzi, prima di stringer d’assedio Granata, la capitale del regno moresco in Ispagna. Ma le felici sortite degli Africani a mano a mano si erano diradate, col crescere delle forze nemiche intorno alle mura; non più successi particolari, che ravvivassero le speranze; non più audaci imprese, che consentissero di vettovagliare la città e di provvedere i foraggi alla cavalleria, senza di cui le audaci imprese e i successi particolari non dovevano esser possibili.

In quelle distrette, e vedendo il turbamento degli animi cittadini, a quella prima pioggia di bombe che prometteva certamente di peggio, il valì Muza ben Conixà credette necessario di aprir negoziati, o di tentare un colpo disperato, se non si ottenessero patti onorevoli. Per altro, egli aveva fatti i conti senza i suoi Africani, gente d’indomito valore, ma agreste e quasi feroce. Costoro, vedendo andare e venire messaggeri dalla città al campo Castigliano e da questo alla città, s’insospettirono, accolsero e fecero correre la voce d’un tradimento del valoroso governatore. Furibondi, diedero l’assalto all’Alcazaba, una delle due fortezze che erano dentro il recinto di Malaga, e se ne impadronirono, trucidandone il presidio e il comandante. Non poterono altrimenti impossessarsi dell’altra fortezza, il Gebelfaro, che ebbe tempo a chiuder le porte e provvedere alle proprie difese.

La conseguenza del fatto fu questa, che si sospesero i negoziati per una resa onorevole. L’assedio fu stretto maggiormente; le bombe piovvero più frequenti in città; la fame incominciò a farsi sentire. Allora i notabili della terra fecero consiglio del come consegnar Malaga, senza esporre stessi e le loro famiglie al furor della plebe; e commisero i nuovi negoziati ad uno dei loro, Alì Dordux, il quale segretamente si condusse al campo di Castiglia. Ferdinando voleva punire gli abitanti della loro pazza resistenza; chiese perciò che la città s’arrendesse a discrezione. Non potendo contentarlo, senza andare incontro ai furori che si volevano evitare, parve miglior consiglio ad Alì Dordux d’introdurre i Castigliani nel Gebelfaro, col favor della notte. Così avvenne difatti: i soldati di Ferdinando e d’Isabella, penetrati nella fortezza, si sparsero tosto per la città, mettendovi lo scompiglio, uccidendo e saccheggiando senza misericordia. Molti furono gli uccisi, molti i prigioni; quei che poterono, ebbero scampo sul mare.

Malaga musulmana vide compiuto in una notte il suo destino, come Troja. Alì Dordux, che ne era stato il Sinone, fu incaricato di ricevere il prezzo del riscatto dai suoi miseri concittadini. E Boabdil scese all’estremo della viltà, mandando un’ambasceria per congratularsi ai reali di Castiglia, che con la presa di Malaga avevano sottomessa tutta la parte occidentale del suo regno.

Ferdinando e Isabella entrarono trionfalmente nella vinta città, il 18 agosto del 1487, desiderati dalla popolazione che il saccheggio e la strage della notte trascorsa avevano ridotta all’estremo della miseria e dell’abbattimento. Lasciata una parte delle soldatesche a rimettere l’ordine nella città e la quiete nei dintorni, i due sovrani fecero ritorno con tutta la corte in Andalusia, deliberati di passare l’autunno a Cordova, e meditare colà il resto delle operazioni di guerra. Infatti, assoggettata la parte occidentale del regno di Granata, niente era più naturale nell’animo loro che il desiderio di possederlo intiero. Per venirne a capo, due partiti si offrivano: o muover subito verso la capitale di Boabdil, la cui caduta avrebbe tratto il resto con ; o prender prima le altre città, e con la presa di Granata coronar la conquista.

Ma il primo partito non era senza pericoli. Il re vecchio dei Mori, Abdallà el Zagal, ritirato a Guadix, vi si era potentemente rafforzato, e possedeva tutt’intorno i luoghi forti di Baza, Vera ed Almeria. La presa di Granata avrebbe potuto accrescere i suoi mezzi di resistenza, facendo rifluire verso di lui quanti Mori lasciasse privi di patria e di sostanze la caduta di Boabdil. Tornava dunque più utile attaccare prima il re vecchio, lo zio, approfittando del malumore che contro di lui nutriva sempre il nipote.

Erano questi i disegni di Ferdinando e d’Isabella, questi i loro pensieri, nella quieta dimora di Cordova. Ma era scritto lassù che, per guerre, per ribellioni, per feste, o per altra ragione, la corte di Castiglia e d’Aragona non avesse mai lungo soggiorno in un luogo. Per quella volta fu una nuova potenza, ugualmente nomade, che scacciò la corte dalle mura di Cordova: la peste, il gran guaio, il gran terrore del medio evo, e di parecchi secoli che gli tennero dietro. Ferdinando e Isabella uscirono dunque da Cordova, lasciando libero il campo alla terribile ospite, e si recarono a svernare nella città di Saragozza. Al cominciar della primavera furono in moto da capo, entrando con l’esercito nella provincia di Almeria, dove molte piazze si arresero, spaventate dall’esempio di Malaga. La guerra di quell’anno fu breve; e non si chiuse con un successo, come era stata incominciata. Forse i Castigliani avevano fatto assegnamento sulla fortuna, e non erano più in numero bastante per tenere il campo contro gli stratagemmi e le audacie del vecchio El Zagal, che era riuscito a soccorrere il castello di Taberna, costringendo le armi cristiane a levare l’assedio. Ferdinando ebbe l’aria di rassegnarsi, ma promise a stesso di far vendetta allegra; per intanto la corte si ritirò a Valladolid. Già ve l’ho detto: quella corte di Castiglia e d’Aragona aveva l’argento vivo indosso, e in nessun luogo poteva star ferma.

Che accadeva frattanto di don Cristoval Colon? Il sognatore di un nuovo mondo seguitava la Corte, pascendosi delle sue speranze, ogni giorno lusingate, ogni giorno deluse.

Ed era più triste che mai; ed anche più solo di prima. Il suo migliore amico, il suo protettore più volenteroso e costante, don Alonzo di Quintanilla, non era mai stato affaccendato come allora, dovendo raccogliere il denaro occorrente ad una grossa levata di soldatesche, la maggiore che mai fosse stata comandata fin allora dai suoi reali padroni. Cinquantamila fanti e dodicimila cavalli dovevano essere pronti nella primavera del 1489 nella pianura di Jaen, per muovere contro l’ardimentoso difensore di Taberna. Per quella grande impresa era necessario trovare i mezzi, e l’accorto Quintanilla faceva capo a tutti gli spedienti dell’arte sua per rifornire il tesoro. Ben altro doveva far egli, che pensare all’amico; il quale prometteva bensì le ricchezze del Gran Cane, e tutte le miniere del Cattaio, ma domandava subito due o tre legni allestiti di tutto punto, per andarle a cercare.

Intanto, quelle favolose miniere del Cattaio, le preziose spezierie, le perle, i diamanti dell’isola di Cipango, e tutte le altre meraviglie che aveva rese popolari il racconto dei viaggi di Marco Polo, esercitavano la vena sarcastica dei gentiluomini di Castiglia. E il primo a ridere di quei sogni del marinaio genovese era don Alonzo di Ojeda. Rideva il piccolo capitano; rideva dell’isola di Cipango, del Cattaio di Marco Polo, dell’Antilla e dell’Atlantide di Platone; ma non rideva più, il poveraccio, quando pensava alla bella marchesa di Moya, sempre severa con lui; anzi, diciamo tutto, più severa che non fosse stata mai. Eppure, don Alvaro di Portogallo, risanato per miracolo dalle sue ferite, non era più alla Corte; non poteva più dargli ombra con le sue grazie trionfali. Ma perchè, se non era per don Alvaro, perchè donna Beatrice di Bovadilla si mostrava sempre più severa, più contegnosa con lui?

Arcani del cuore; e tanto più arcani, quando il cuore è di donna. Così doveva ragionare don Alonzo di Ojeda, per mettere un po’ di pace nel suo. Ma ordinariamente avviene che la pace non si ritrovi, comunque invocata. La pace del cuore è come il sonno, che aspettato e desiderato non viene, e poi, quando più non si aspetta, scende inavvertito a chiudervi gli occhi.

Così avesse potuto metter la pace nel suo cuore l’uomo deriso dai cortigiani di Castiglia! Don Cristoval aveva dovuto seguire la corte a Valladolid, come l’aveva seguita a Saragozza; ma il suo pensiero volava spesso in Andalusia, presso una bella e sdegnosa Cordovana, che lo aveva amato un giorno, ed era passata d’un tratto dall’amore all’avversione, quasi al disprezzo. Perchè? Arcani del cuore anche questi.

Frattanto, per il povero sognatore di mondi, una pena di cuore si accompagnava ad una pena dello spirito. Qualche volta, lo so, una ci consola dell’altra; ma è necessario che quella sia pena felice. Ora, le pene felici non sono che d’una specie: quelle che l’uomo prova per una donna ch’egli ama, da cui è riamato, e d’essere riamato ha la divina certezza nell’anima.

Era a Valladolid, vedendo raramente i sovrani, e poco essendone considerato. Ferdinando e Isabella avevano tante cose da fare! così scarse erano le occasioni di essere ammessi alla loro presenza! E quando accadeva che don Cristoval si trovasse sul loro passaggio, pareva che Isabella non lo vedesse neppure, e che Ferdinando torcesse gli occhi da lui, come accade di torcerli da cosa che rechi molestia, o desti nel cuore un rimorso.

Infatti la vista del genovese non poteva essere gradita al re d’Aragona, così largo a promettere, così corto a mantenere. Da principio infervorato dei disegni di scoperta che quel marinaio gli aveva presentati, lo aveva condotto a sperar molto; poi, raffreddandosi a grado a grado, o per le cure politiche e militari che più da vicino lo stringevano, o per l’effetto che nell’animo suo aveva prodotto l’opinione dei dottori del reame, non sapeva come venire a capo di congedarlo. Se almeno quel sognatore avesse inteso, o se ne fosse spontaneamente partito! Anche il povero sognatore ci aveva pensato, a questa estremità; certamente, in un giorno di scoramento più profondo del solito, si sarebbe volto ai confini.

Ma allora lo trattenevano con buone parole i pochi e ragguardevoli amici. Il Medina Celi sconsigliava la partenza, che sarebbe parsa la fuga di un uomo non ben sicuro del fatto suo; il Medina Sidonia confortava a non disperare, aspettando che si posassero le armi, o per vittoria intiera sui Mori, o per pace vantaggiosa con essi; Alonzo di Quintanilla, in mezzo ai suoi spedienti fiscali, trovava il verso di pagargli una cedola di tremila maravedis, per ordine delle Loro Altezze. – “Vi par egli che vogliano disfarsi di voi?” – gli diceva. – “State di buon animo, don Cristoval; pensano a voi, vi contenteranno quando ne avranno il tempo e l’occasione; ciò che fanno oggi per voi, ne è una prova lampante.” –

Se il buon Quintanilla avesse conosciuto il vero di quella cortesia regale, sicuramente non avrebbe parlato così, o almeno si sarebbe astenuto dal metterci tanto ardore di convinzione. Ben altre potenze, ignote al ministro del tesoro di Castiglia, operavano a favore di Cristoforo Colombo, sull’animo della regina Isabella.

Un giorno che il nostro sognatore passeggiava, tutto assorto ne’ suoi pensieri, per una strada deserta di Valladolid, vide apparire dall’angolo di un palazzo, o convento che fosse (gli edifizi di Valladolid, a quel tempo, parevano tutti conventi), una vecchia donna vestita di nero, imbucuccata nel manto delle vedove, il cui lembo superiore le nascondeva mezza la faccia. Quella donna venne diritta a lui, fermandolo, col gesto.

Egli pensò che fosse una sventurata, a cui dovesse far l’elemosina, e già stava per cercare un maravedis nel suo borsellino. Ma quella donna non era una mendicante, ed egli ebbe modo di ravvedersi tosto, osservando da vicino la sua abbigliatura, severa ma signorile, e la coroncina di chicchi d’ambra, che teneva tra mani. La coroncina era l’indispensabile arnese delle donne spagnuole d’ogni classe; ma la qualità della materia e la finezza del lavoro distinguevano naturalmente una classe dall’altra.

Cavaliere, – disse la vecchia, – perdonate: ho una ambasciata per voi. Una dama, mia protettrice, desidera parlarvi.

– A me? – rispose egli, maravigliato.

– A voi, sì; non siete voi don Cristoval Colon?

– Lo sono.

– È dunque a voi che la mia padrona mi manda. Vogliate trovarvi quest’oggi, a nona, nei giardini del Retrete, dov’ella sarà a passeggiare.

– Come potrò avvicinarmi a lei, non conoscendola? – disse don Cristoval, più maravigliato che mai.

– La conoscete, cavaliere. Le avete reso un gran servizio, di cui ella vi serba molta riconoscenza nel cuore.

– Un gran servizio! Io?

– Sì, rammentatelo, cavaliere; due anni fa, al campo sotto Malaga.

– Ah? – esclamò il cavaliere, ricordandosi. – La marchesa di Moya?... –

Molti pensieri e diversi lo assalsero in quel punto, rammentando Beatrice di Bovadilla. Qualche volta, a Cordova, a Saragozza, ed anche da ultimo a Valladolid, gli era occorso di vederla; ma sempre alla sfuggita, nelle grandi occasioni, in mezzo alla folla dei cortigiani di Castiglia. Forse tre volte, nel giro di due anni, i suoi occhi si erano incontrati con quelli di donna Beatrice; e sempre gli era sembrato che la gran dama non gradisse quell’incontro fortuito. gli doleva; anzi gli pareva naturalissimo quel sentimento che traspariva dagli occhi della marchesa di Moya. Un benefizio ricevuto si scorda volentieri, e mal volentieri si vede chi ce lo ha fatto. E poi, qual meraviglia se il suo aspetto dava noia alla moglie di don Giovanni Cabrera, gentiluomo di camera del re Ferdinando, dama ella stessa della regina di Castiglia, e sorella a don Francisco di Bovadilla, commendatore di Calatrava, ed uno tra i più superbi cavalieri della corte? Non doveva pensar ella del marinaio genovese, del sognatore, ciò che ne pensavano tutti quei cortigiani, così poco amici alle severe speculazioni della scienza, alieni dalle imprese del mare, cui era già molto se mettevano un po’ d’amore i gentiluomini portoghesi, non avendo ai loro spiriti avventurosi quel medesimo sfogo che in Ispagna era offerto dalla guerra coi Mori alla nobiltà castigliana? E tutti alla guerra miravano i nobili della corte di Ferdinando; alla guerra, che dava occasione di belle prodezze, di gloria, di comandi elevati e di pronta fortuna. Del resto, ove si svolge il favore del re, mirano tutti; nessuno ha uno sguardo per chi è trascurato dai potenti della terra. E il re Ferdinando trattava lui come un uomo che si vorrebbe non aver mai conosciuto. La regina non cercava più d’intrattenersi con lui, come qualche volta faceva, prima del consiglio dei dottori di Salamanca. I superbi dispregi del vescovo d’Avila, confessore della regina, avevano distrutti nell’animo di lei i germi di benevolenza che ci aveva seminati il priore della Rabida, don Juan di Marcena. Addio regali udienze, e conversazioni animate, in cui egli recava tutto l’ardore della sua fede a sussidio delle vaghe cognizioni degli antichi, dei racconti e delle favole dei moderni, intorno alla esistenza di lontane isole, oltre il mare tenebroso; mentre Isabella, tenendo sospeso l’ago e il filo d’oro con cui andava ricamando di sua mano un velo per il santo sepolcro di Cristo, ascoltava la storia del Prete Janni d’Etiopia, un monarca cristiano con cui si poteva stringere alleanza per la diffusione della Fede, o la descrizione dei tesori di Ofir, che dovevano servire alla liberazione di Gerusalemme dal dominio dei Turchi. Più nulla, per lui, dopo il responso di Salamanca. Era ammesso nel seguito della corte, come tanti e tanti altri servitori d’ogni grado; ma si doveva ritrovar più lontano dall’orecchio dei padroni, quanto più era vicino alla loro persona.

Immaginate dunque lo stupore di don Cristoval, quando ebbe udito dalla vecchia messaggera che la bella e superba marchesa di Moya desiderava di parlargli, e gli chiedeva un colloquio, all’ora di nona, nei giardini del Retrete.

Signora, – diss’egli alla vecchia, – dite alla vostra padrona che io sarò per quell’ora e in quel luogo ai suoi ordini. –

All’ora indicata, don Cristoval era ai giardini del Retrete, fuor delle mura di Valladolid, un po’ infastidito di quella gita a cui lo obbligava un capriccio di donna, ed anche un po’ curioso di sapere che cosa volesse da lui, oscuro marinaio genovese, una gran dama di Castiglia. Non s’aspettava già una galante avventura, come ogni altro cavaliere avrebbe fatto in una simile occasione. Immaginava dell’altro, ma non intendeva bene che cosa.

Data una scorsa ai giardini, era penetrato in un viale, che metteva ad una macchia di querci, quando gli venne veduta da lontano una dama, accompagnata da una vecchia servente. Riconobbe questa, e non tardò, a riconoscere la dama. Era infatti la marchesa di Moya, che fece un gesto cortese, vedendo il cavaliere, e in quel gesto lasciò ricadere i lembi del gran manto di ferrandina, che portava con la mano serrati alla vita.

Donna Beatrice di Bovadilla indossava l’abito delle dame spagnuole del tempo suo: un abito che fu poi di tutte le dame italiane del Cinquecento, e che, nelle sue forme estrinseche, somigliava abbastanza a quello delle antiche matrone romane. Infatti, il manto della marchesa di Moya, e per la lunghezza sua fino a terra, e per il modo con cui era girato intorno alla testa, dava un’idea della rica, in cui s’involgevano con tanta severità, ma con tanta grazia ancora, le belle pronipoti d’Ersilia. Per altro, il manto della marchesa, come di tutte le dame spagnuole sul fiore degli anni e nel rigoglio della loro bellezza, diversamente da quello delle vedove e delle fanciulle da marito, lasciava scoperta la fronte, su cui si vedeva accomodato, e capricciosamente affacciato all’ingiù, un piccolo velo nero, la toca, orlato di trinette d’oro, che davano risalto ai capelli neri, come questi e le ciglia lunghe e gli occhi lucenti facevano spiccare il fiorente incarnato del viso. La veste nera, di velluto operato, scendeva lunga fino al piede; ancora portando frappe e sboffi le maniche e il busto, i contrasti del bianco erano dati soltanto dalla gorgieretta e dai polsini di pannolino finissimo; aria tessuta, e gentilmente pieghettata, ma senza i cannoncini, che erano ancora di da venire, insieme col ritrovato dell’amido. La veste lunga a larghe pieghe, condotte e trattenute in una nobile curva dalle stecche del verducato, conferiva alla persona un’aria di dignità che ne accresceva la bellezza; e la statura della dama appariva più alta del vero, per certe suola e tacchi che s’aggiungevano alle sue pianelle di velluto. Con quegli arnesi le signore d’allora custodivano il piede dal fango delle strade. L’usanza non abbelliva il piede, lo so; ma non erano belle le vie di quel tempo. Del resto, l’occhio si era avvezzato a quella forma di calzatura. Se il piede appariva meno aggraziato, c’era sempre da ricattarsene, quando la dama rialzava un tantino i lembi della veste, con la vista di una sottana di seta, dai fregi d’oro e d’argento. E poi, quando la dama lasciava cadere i lembi del manto, appariva aggraziatissimo il busto, in cui, come sempre usarono, le belle spagnuole si stringevano il giro della vita, dando rilievo al colmo del seno e degli omeri. Anche oggi, contro l’usanza, l’igiene protesta, ma invano; e pare che un senso intimo dica a tutte le figlie d’Eva: è dell’uomo la forza, è di noi donne la grazia.

Vedendo la marchesa di Moya, s’intendevano le pazzie di don Alvaro di Portogallo, i gelosi furori di don Alonzo di Ojeda, le ammirazioni estatiche di tutti i cavalieri della corte di Castiglia. Ma della virtù di donna Beatrice non si poteva dubitare. Le ammirazioni restavano a rispettosa distanza, come le nebbie dal disco della luna, quando la bianca signora della notte si compiace di mostrarsi circondata d’un diafano alone. I gelosi furori dell’Ojeda non erano giustificati da nessun diritto particolare; e del resto il povero don Alonzo non li ostentava neanche: siamo noi, gente curiosa e indiscreta, che scrutiamo i cuori e le reni dei nostri personaggi, dando un senso alle frasi più corte, un significato alle guardate più fugaci. La storia di don Alvaro, che sola avrebbe potuto appannare la lucentezza dell’astro, era stata così prontamente e naturalmente spiegata, che nessuno aveva avuto tempo ragione di mormorare. E bene ragionava la bella marchesa di Moya, quando diceva a stessa che don Cristoval Colon, in quella brutta notte di Malaga, non le aveva salvata solamente la vita.

Cavaliere, – disse la dama, movendo lentamente incontro a don Cristoval, che già aveva scoperta la fronte, abbassando fino a terra la sua berretta di velluto, – non vi maravigliate del passo che io faccio. Era questo un obbligo di coscienza per me. Da gran tempo io sentivo il bisogno di parlarvi.

Signora.... – balbettò don Cristoval, inchinandosi ancora.

La marchesa di Moya aveva congedato nobilmente con un gesto la sua donna di compagnia.

– Mi accompagnerete voi al palazzo reale; – soggiunse, quasi a spiegare il congedo che dava all’ancella. – Ragioniamo intanto, se non vi dispiace. L’obbligo che avevo, lo intenderete facilmente anche voi. Dovevo ringraziarvi di quanto avete fatto per me. Se voi non eravate, il pugnale del Moro fanatico mi avrebbe colpita, come don Alvaro di Portogallo, e forse uccisa. Dovevo ringraziarvi, ripeto, riconoscendo in voi il mio salvatore. I casi della guerra me lo impedirono, e forse più la commozione, la confusione di quei giorni. Caduta Malaga in nostro potere, si partì così prontamente per Cordova! e da Cordova, dal centro dell’Andalusia, ci cacciò anche più prontamente la peste, fino nel cuore dell’Aragona. Laggiù, a Saragozza, nel palazzo dell’Aljaferia, avrei desiderato vedervi da vicino; ma voi apparivate di rado alla corte; si sarebbe detto che fuggiste le occasioni, tanto cercate da me. Lo so, vi hanno trascurato, vi hanno anche offeso, occupandosi così poco di voi. Ma lasciate ora che io parli per me. Un’altra guerra ci allontanava frattanto da Saragozza; e a me pareva, del resto, che per ringraziarvi fosse un po’ tardi. Debbo dirvi tutto ciò che ho pensato? Fu un brutto sentimento, indegno di una donna leale. Mi dispiaceva di dover arrossire davanti a voi.

Signora.... – mormorò don Cristoval, che per quel principio di colloquio non sapeva proprio dir altro.

– Sì, mi dispiaceva; – ripigliò la marchesa di Moya. – Non lo avete mai provato anche voi un sentimento simile? Si sa di non aver tutta la colpa di una dimenticanza, di un ritardo, di un momento di confusione; si vorrebbe che gli altri c’intendessero, ci perdonassero, ci offrissero il modo di riparare l’errore, mettendone in chiaro le ragioni; e si capisce intanto che gli altri non possono pensare nel modo nostro, indovinare quello che abbiamo nell’anima. E si vorrebbe andar loro incontro, e scusarci, e non si può più; oppure il tempo passa, e la vergogna è tanto cresciuta, che non si pensa di rimediare al mal fatto, mostrando di averlo dimenticato. Così ho tralasciato di venire a voi; così avevo perfino abbandonata la speranza di parlarvi. E pure qualche volta mi accadeva di vedervi. Ma voi siete tanto orgoglioso, don Cristoval!

– Io, signora?

– Voi, sì, voi. Ah, non ve ne accorgete, dell’aspetto con cui vi mostrate alla gente? Uomo grande, vivete coi vostri sogni di gloria, sorridete ai fantasmi che vi passano luminosi davanti agli occhi della mente, e non badate agli umili vermi che strisciano ai vostri piedi, alle povere farfalle che passano, sfiorandovi le guancie con le ali vagabonde. Non è così, don Cristoval?

Signora, c’è un po’ di vero, in ciò che dite; – rispose don Cristoval; – tutto quello che riguarda i miei sogni, i fantasmi della mia mente. E può darsi che l’esser chiuso in me (di chi è la colpa, poi?) mi faccia parere superbo. Ma gli umili vermi.... e le capricciose farfalle.... son cose che non conosco. Un povero verme, se mai, debbo sentirmi io, in questa nobile terra di Castiglia. Ma di farfalle, se dobbiamo parlar per figure, io non so che me ne sia passata accanto pur una.

Davvero?

Credetelo, signora. Mi sarà più facile d’intendere il linguaggio fiorito di una gentile figliuola della vecchia Castiglia, che di usarlo a nascondere il mio pensiero. Non so mentire, marchesa di Moya. Vi sembro un orgoglioso, e sono un umile; mi credete un giudice severo per gli altri, e sono una misera creatura, che teme severo il giudizio degli altri per .

– Sia; – replicò la marchesa. – Non vermi ai vostri piedi, dunque! Eppure son tanti! ed io li vedo, coi miei occhi di donna. Quanto alle farfalle, ben potreste aver creduto d’incontrarne taluna.... giudicando da certe apparenze. E questo sospetto mi cuoceva. Cercavo i vostri sguardi, don Cristoval, e voi non cercavate i miei. Pure, qualche cosa ci univa; lo sapevate voi, mio salvatore; non potevate ignorare che lo sapessi, non potevate credere che lo dimenticassi io. E vi ho seguito sempre, da lontano, desiderando quest’ora, e non osando mai di affrettarla. Non mi crediate vana di piccoli trionfi, come tante e tant’altre donne. Ho desiderato questo momento, perchè.... perchè ho inteso il vostro pensiero, conosciuta l’altezza dell’animo vostro; perchè volevo chiedervi in che cosa potesse riescirvi utile l’amicizia che vi offro qui, alla libera, stendendovi una mano leale. Non la ricuserete, io spero. Ho la mia superbia ancor io; sono una Bovadilla, e non si rifiuta impunemente la mia amicizia, quando io la offro a chi stimo. Debbo io dunque pentirmi di avervi stimato? –

Don Cristoval prese la mano che la marchesa di Moya gli stendeva, con quel piglio di strana confidenza, in cui si sposavano due sentimenti opposti, la tenerezza e l’orgoglio.

– Ah, bene così! – diss’ella. – Quando poi conoscerete meglio questa povera Beatrice, essa avrà il coraggio di farvi una domanda.

– Non v’intendo, signora.

– È bene che non m’intendiate, per ora. Vi ho già detto che mi dispiace di dover arrossire. –

Un altro l’avrebbe interrotta qui, osservando che le fiamme del rossore le tornavano meravigliosamente a viso. Don Cristoval non pensava a queste cose; don Cristoval stette zitto, lasciando che la marchesa di Moya continuasse un discorso, ch’egli non sapeva dove andasse a parare.

E la marchesa di Moya, dopo una breve pausa, continuò:

– Noi siamo dunque amici, don Cristoval. Voi non conoscete ancora intieramente me, come io conosco, o mi par di conoscere, i tormenti dell’animo vostro. Vi ho promesso di farvi una domanda, e nel farla mi svelerò a voi con sincerità.... come ho da dire?... fraterna. Voi ora mi dovete dare un buon esempio: svelarvi a me; non già nei segreti del vostro pensiero, che io so, ma nelle vicende della vostra vita. Questa io non la so; volete voi dirmela? –

Alla inattesa domanda, don Cristoval rimase, come è facile indovinare, sconcertato e perplesso; sconcertato nell’animo, perplesso nella lingua, che non seppe proferire una parola formata.

– Vi dispiace? – ripigliò la marchesa di Moya.

– No, – rispose egli, – non può dispiacermi una prova di alta benevolenza come questa; ma un tal pensiero da parte vostra....

– Un capriccio, volevate dire? – interruppe la dama. – Non è un capriccio; è l’onesto desiderio di penetrare nella vostra vita, per esservi utile come e fin dove potrò. So quel che pensate; mi par di intendere ciò che soffrite; ma tutto ciò che siete mi sfugge. Voglio poter dire, parlando di voi, tutto quanto sarà necessario per vincere, per rispondere a tutte le obiezioni, per superare tutti gli ostacoli. Vivo alla corte, son donna, ed ho le mie arti per aiutare le persone che stimo. Non crediate già, bel cavaliere, di aver solamente per amici i due Medina, amici fiacchi, del resto, e il buon Alonzo di Quintanilla.

Incomincio ad intendere, – disse don Cristoval, – a chi son debitore di qualche atto della regia benevolenza, che non mi è stato cessato come tutti gli altri.

– Ed io ho piacere che incominciate ad intenderlo, se basterà a persuadervi che non ero un’ingrata; – replicò la marchesa. – Animo dunque: voglio saper tutto da voi.

– E tutto vi dirò, signora. Certamente è Dio che v’inspira.

– Ah, ecco lo spirito che facilmente si esalta. Iddio sceglierebbe a quest’ufficio un’assai povera creatura. Ma sia come volete, o crediamo pure che sia. Venite, don Cristoval, ritorniamo alla macchia. Oggi la regina, mia buona signora, è in consiglio, ed io ho libertà fino a notte. Datemi il vostro braccio, e parlate, parlate a lungo; io non vi voglio interrompere. –

 



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