Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO III.   Che è la continuazione del precedente.

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CAPITOLO III.

 

Che è la continuazione del precedente.

 

Donna Beatrice aveva preso il braccio di Cristoval Colon, più che egli non lo avesse profferto. Era d’indole imperiosa, la bella marchesa di Moya; e giustamente lo aveva ricordato ella stessa, che il sangue dei Bovadilla le scorreva nelle vene. Così, senz’altri preliminari, si era impadronita di lui e lo trascinava verso la macchia delle querci, non bene sicuro di medesimo, di ciò ch’ella avrebbe fatto per lui, ma persuaso di aver ritrovato in lei una protettrice animosa. La marchesa di Moya possedeva una delle chiavi del cuore della regina. Ma l’altra, ahimè, l’altra chiave la possedeva il vescovo d’Avila, don Fernando di Talavera, suo confessore, dopo che il mite e buono don Juan Perez di Marcena era tornato al suo convento della Rabida, presso la spiaggia di Palos.

Erano entrati nella macchia, muovendo lentamente per un largo sentiero, che appariva continuazione dei giardini, e metteva ad un santuario campestre. C’era dunque una meta, in capo a quel sentiero, e un buon pretesto per andare a quella meta, cansando lo sguardo dei curiosi. Belle solitudini ascose nel verde, come piacete alle coppie innamorate! Ma qui niente di ciò; don Cristoval non aveva da dir cose tenere; bensì la sua vita, la sua aspra vita, da raccontare alla marchesa di Moya.

– La mia vita, – diss’egli infatti, traendo un sospiro dal petto, – può esser troppo lunga a narrare, troppo lunga per una breve passeggiata; e può essere ristretta in poche parole.

Preferirò sempre di sentirla in un certo numero di passeggiate; – rispose donna Beatrice, ridendo. – Ma se ciò vi spaventa, raccontate in una sola passeggiata, ma lunga. E per incominciare, dove siete nato?

– A Genova, signora; a Genova, città gloriosa, repubblica che fu grande un tempo, e libera, padrona di ; ma le discordie dei suoi cittadini l’hanno data in balìa di forestieri. Duchi di Milano e re di Francia non le hanno lasciato di repubblica che il nome e le insegne. Quanto a me, son nato nel 1446; ho quarantadue anni, signora.

Davvero? non sembra.

– Non sembra? Vedete i miei capelli. Erano biondi, ed ora....

– Li aveva neri il conte di Villafranca, mio nobile , – disse la marchesa di Moya, – e sui trent’anni gli son divenuti bianchi come il fiore del giglio.

– Ed anche i miei, signora, si sono imbiancati sui trenta, a Lisbona, dove mi ero condotto a vivere, dopo tante peregrinazioni sul mare.

– Di grazia, non mi saltate trent’anni! – gridò la marchesa. – Lisbona verrà a suo tempo; dovete incominciare dal principio. I vostri genitori?

Gente popolana, signora. Mia madre, Susanna Fontanarossa, era di umile casato; veniva da una terricciuola della val di Bisagno, accanto alla mia città natale. Debbo dirvi anche il nome di quella terricciuola? È Quezzi, un nido di falchi, sul colmo di una balza. Mio padre è venuto da Quinto, altro paesello non lontano da Genova; e i suoi maggiori si dicono di Terrarossa, che è un casale del nostro Appennino. Siamo già parecchie generazioni di tessitori e di mercanti di lane; ed io tra le lane son nato. Domenico Colombo, mio padre, ha avuto per altro qualche ambizione per me; ha voluto che studiassi di lettere, la grammatica e l’aritmetica, da un suo vecchio amico: povera scuola, ma buona. Tutto quello che io so, anche quel po’ di latino che mi aiuta ad intendere le Sacre Scritture, il gran libro delle consolazioni, io lo devo al mio vecchio maestro della contrada di Pavia.

Pavia! non è una città

– Sì, e delle più nobili d’Italia. Ma si chiama anche Pavia una strada di Genova, quasi di rimpetto all’uscio della casa di mio padre.

– Ho inteso.... Proseguite.

Bambino, seguitai mio padre, che aveva tramutata la sua dimora e la sua arte da Genova a Savona, una città anch’essa sul mare, trenta miglia a ponente da Genova. Rimasi laggiù fino ai quattordici anni, età in cui mi diedi all’arte del navigare. Da principio non furono che viaggi brevi alle coste d’Africa, per lane che bisognavano a mio padre; ma spesso mi spinsi più oltre, in Catalogna, ad Almerìa, ed oltre lo stretto di Gibilterra, costeggiando l’Europa per il mar settentrionale, fino ai porti di Fiandra. Ah, il mare! il mare, o signora, ha per noi, figli di Liguria, attrattive possenti.

– È perfido, il mare! – esclamò la marchesa.

– No, non è perfido, signora; è qualche volta terribile, qualche volta crudele, qualche altra pietoso, ma sempre magnifico, grande, sublime. E quanta fragranza, dai suoi gorghi! quante voci che invitano, dai suoi lontani orizzonti! Voi già intendete, signora, che io non mi diedi al mare solamente per traffico; l’amore non conosce ragioni di tornaconto: mi diedi al mare per amor suo, per vivere e morire con esso. Ed ho combattuto, sulle galere di Renato d’Angiò, quando il figliuol suo Giovanni muoveva all’impresa di Napoli, per ricuperare quel regno. Più tardi, nelle acque del Portogallo, sulle galere genovesi, ho combattuto contro le galere veneziane; triste guerra fraterna! Ma noi tutti siamo i figliuoli del tempo nostro, gli schiavi e gli strumenti delle collere sue, veri castighi del cielo. E questa fu per molti anni la mia vita; una vita che si racconta male, sebbene sia tutta presente agli occhi dello spirito.

– V’intendodisse la marchesa di Moya. – Come vorrei partecipare ancor io a tutte queste visioni della vostra giovinezza! Voi siete stato un prode, don Cristoval.

Signora, l’uomo fa quel che può; è molte volte il pericolo che gli comanda l’audacia. Furono spesso arrembaggi e pugne con gli uomini: più spesso guerre con gli elementi scatenati, vele squarciate, alberi spezzati, naufragi, e lotte disperate coi flutti. Una volta, sommersa la mia nave, stetti molte ore in balìa delle onde furiose; dovevo essere inabissato ad ogni istante, ma i santi miei protettori non mi abbandonarono in quel triste frangente, ed afferrai a nuoto la spiaggia. Quel giorno, o signora, io feci voto della mia vita. A chi? lo indovinate? Al mare, al mare che si mostrava tanto crudele con me. Laggiù, lontano lontano, il mio spirito intravvedeva una terra, non visitata da prima; a trovar quella terra, a renderne gli abitanti al culto del Dio vero, consacrai l’esistenza. Schiavo delle collere umane, mi liberai della brutta catena; da quel giorno ero schiavo d’un’idea, che gli uomini possono osteggiare, ma che è mia, ed ha, se io non presumo troppo di me, la benedizione di Dio padre di tutte le creature. Conceda egli, nella sua misericordia infinita, che per me siano chiamate le più lontane, e condotte alla sua fede.

Nobile pensiero, don Cristoval! E i cuori degli uomini, travolti dalle lor collere pazze, non hanno saputo sentirne ancora il benefico ardore!

– Ben dite, signora: cuori travolti dalle collere pazze; ed aggiungete intelletti offuscati dalla peggiore delle ignoranze, che è l’ignoranza caparbia, ammantata d’una mezza dottrina. Ma perdonate, anch’io mi lascio fuorviare dallo sdegno. Ritorniamo al racconto. Il Portogallo, a cui approdavo, era la terra che mi pareva allora la meglio adatta, la predestinata all’adempimento di un decreto celeste. Il Portogallo possiede le isole degli Astori, e l’isola del Legname, che navigatori genovesi hanno scoperte, spingendosi più avanti di tutti nell’Oceano tenebroso; e l’isole degli Astori ha chiamato Azzorre, e quella del Legname Madeira. Possiede le isole del Capo Verde, scoperte da un altro genovese, e un lembo dell’Africa australe, lungo il quale altri genovesi hanno cercata la via delle Indie. Al Portogallo adunque, io, povero naufrago, credevo che mi portasse la volontà divina, per farlo partecipe della nobile impresa.

– E foste anche per quel tempo a Madeira?

– Sì, e più lungamente a Porto Santo, isola vicina a Madeira. Mi avevano condotto laggiù vicende domestiche. A Lisbona, infatti, avevo sposato una figlia del paese, donna Filippa Mognis di Perestrello, dolce e nobile creatura, troppo brevemente vissuta. –

La marchesa di Moya si rannuvolò, a quel ricordo di donna. Era un’immagine fosca, che passava sul fondo luminoso del quadro. Alle figlie di Eva, quando sono assorte nella contemplazione di un bel quadro (ed è sempre un bel quadro la vita di un uomo che abbia destata la loro benevola curiosità) certe immagini fosche non piacciono.

– E laggiù, – diss’ella interrompendolo, – anche laggiù avrete pensato al vostro disegno.

Laggiù come altrove, e forse più che altrove; – rispose don Cristoval. – Di laggiù, infatti, per essere ai limiti estremi del mondo conosciuto, son più frequenti i miraggi, più eloquenti gli indizi del mondo sconosciuto. Perchè quella distesa di mare? Per finir dove? In una sequela di frangenti, divoratori inesorabili di navi e nocchieri? In un dirupo, che non permetta di andare più in ? Di Sirti, di Scilla e Cariddi, favoleggiarono gli antichi; e i navigatori del Tirreno e dell’Adriatico hanno dissipati quei vani terrori. “Non andate più oltre” favoleggiarono che fosse scritto sui monti di Abila e Calpe; tanto che Ercole v’innalzò le sue famose colonne. Pure i Genovesi sono passati ben oltre quelle colonne, non leggendo o non curando il divieto. Voi mi perdonate, non è vero, di ricordarli così spesso, i miei animosi concittadini?

Fatelo pure liberamente, don Cristoval. Io amo i Genovesi; – disse la marchesa di Moya. – Li lascerò odiare da coloro.... che non amano voi.

Grazie, signora. Vi ho parlato di Scilla e Cariddi, due mostri delle acque di Sicilia. Anche laggiù una curiosa illusione degli occhi fa vedere all’orizzonte nuove terre, a cui nessuno è approdato mai, nuove terre che qualche inesperto nocchiero avrà pur ricercate, ma invano. E dalle isole dell’Atlantico è la stessa illusione dei sensi.

– La fata Morgana, non è vero?

– Sì, la fata Morgana. Alle Canarie, a Madera, chiamano questa illusione l’isola di san Brandano, da un monaco scozzese del sesto secolo che narrano esserci approdato; ed anche l’isola delle Sette Città, da sette vescovi spagnuoli che vi si rifugiarono, sottraendosi, nell’ottavo secolo, alla invasione dei Mori. E san Brandano e i sette vescovi son certamente leggende collegate ad una illusione degli occhi, che io non saprei spiegare niente più della fata Morgana di Sicilia. Ma non tutto è vano nelle leggende; io ci vedo un ricordo, sia pure confuso, di antichissime cognizioni. E benedetta l’illusione, che mantiene con le leggende la memoria di ciò che sapevano molto chiaramente gli antichi. Ora, che gli antichi sapessero di terre occidentali oltre lo stretto di Gibilterra, è dimostrato da troppe testimonianze. Io ne accennerò solamente pochissime. Solone, legislatore di Atene, conobbe il vero dai sacerdoti d’Egitto, che ne avevano il ricordo negli annali del loro paese antichissimo; ed essi parlarono a lui di una terra chiamata Atlantide, vasta come Africa ed Asia unite insieme; la qual terra era ad occidente di Cadice, ma molte miglia lontana, e fu un giorno per violenza di terremoti sconquassata, sconvolta, inghiottita dal mare. Di questa terra fa pur menzione Aristotele, che le il nome poco dissimile di Antilla, e la dice scoperta a caso da navigatori Cartaginesi, ma soggiunge che il senato di Cartagine vietò loro di parlarne, per tema che la scoperta profittasse a nemici della patria, e fosse poi volta a danno di questa. Ora io penso che di quella terra inabissata, Atlantide o Antilla che si debba chiamare, siano avanzi e testimoni credibili dalla parte nostra le isole che fronteggiano Africa ed Europa; e penso ancora che altri avanzi, altri testimoni debbano ritrovarsi più lungi, dall’altra parte dell’Oceano.

– È molto probabile; – disse la marchesa di Moya; – ma voi, don Cristoval, non avete altri argomenti per crederlo?

– Ne ho più che non bisogni a persuadere gli uomini di buona fede. Ma vi annoiereste a sentirli.

– No, davvero, continuate; ditemi i vostri argomenti.

– Essi sono di tre specie, o signora: fondati sulla natura, sull’autorità degli scrittori, sugli indizi raccolti dai naviganti. Per toccare dei primi, vi dirò brevemente che a mio credere, e secondo l’opinione dei più reputati geografi greci ed arabi, mari e continenti ed isole del mondo formano come una sfera, la quale in ogni verso si può percorrere, ed anche in luoghi tanto lontani, che siano come gli antipodi nostri. A detta degli antichi, la maggior parte di questa superficie è stata scoperta; non rimarrebbe da scoprire che uno spazio minore, tra il confine occidentale d’Europa e l’orientale dell’India. Tolomeo, il celebre geografo d’Alessandria, aveva divisa la circonferenza della sfera terrestre in ventiquattro parti, di quindici gradi ciascuna. Quindici parti, da Cadice a Thine, che è verso gli ultimi confini dell’Asia, erano già conosciute al suo tempo; una ne hanno scoperta i Genovesi, navigando dallo stretto di Gibilterra alle Azzorre, a Madera, alle isole di Capo Verde; non ne rimangono d’ignote che otto; come a dire il terzo della circonferenza terrestre.

Incomincio ad intendere, – osservò la marchesa, – ciò che si dice di voi, che volete cercar levante per ponente.

– Proprio così, – rispose don Cristoval. – Si argomentano di ridere dei fatti miei, e dicono il vero senza saperlo. Ma proseguiamo, poichè così vuole la mia cortese ascoltatrice. Thine, segnata da Tolomeo verso i confini dell’Asia, non è l’ultima stazione orientale del mondo. Che altra terra seguisse a Thine fu notato da Plinio, sulla fede di Ctesia e Nearco. Il veneziano Marco Polo, e l’inglese ser Giovanni Maundeville, oltrepassarono quel segno di gran lunga, senza veder punto il confine estremo dell’Asia. È più vasta la sfera terrestre dei trecento sessanta gradi che Tolomeo le assegna? È più ristretta, come vorrebbe l’arabo Alfragano, e come propende a credere un mio dotto amico fiorentino, il fisico Paolo Toscanelli, col quale ho carteggiato fin da quattordici anni fa su questo argomento? Ma sia vasta o ristretta, uno spazio ignoto rimane, tra l’India e la Spagna, e questo spazio non è tutto di mare; isole molte hanno a trovarsi per via, prima di giungere per ponente alle coste orientali dell’Asia.

– Gli avanzi dell’Atlantide! disse la marchesa, che seguiva attentamente il discorso.

– Certamente. E se le autorità greche ed egiziane non bastano, ecco le Sacre Scritture. Dice l’Apocalisse di Esdra che sei parti del mondo son terra emersa, e solo una settima parte è coperta dalle acque. I miei computi sulla circonferenza terrestre, anche ristretta quanto si vuole, dànno ancora una larga superficie di terre ignote, per raggiungere la proporzione tanto chiaramente indicata dal profeta.

– E i dottori di Salamanca non si sono arresi a questa considerazione?

– Ci verrò, signora, ci verrò presto. Lasciatemi accennare gli indizi dei naviganti; quelli almeno che ho raccolti io medesimo e che hanno tutta l’efficacia dell’evidenza. Martino Vincenzo, un esperto pilota portoghese, trovandosi con la sua nave quattrocento cinquanta leghe a ponente dal capo di San Vincenzo, vede galleggiare sui flutti e raccoglie a bordo un pezzo di legno, ingegnosamente lavorato, ma non già con istrumenti di ferro, come si usa nel mondo conosciuto. Già da tre settimane, o poco meno, soffiavano venti gagliardi da ponente, quando egli raccattò quel pezzo di legno galleggiante. Esso era dunque venuto da terre occidentali, lontane almeno venti giorni di cammino dai paraggi in cui il pilota si ritrovava quel giorno. E non basta. Un altro di questi pezzi di legno, lavorato con pari arte, e canne di smisurata grossezza, vennero alla spiaggia, nell’isola di Porto Santo, dove un mio cognato, Pietro Correa, le raccolse. Altre di queste canne enormi, di specie sconosciuta, furono raccolte alle isole Azzorre, ed io stesso le vidi coi miei occhi, nel palazzo di Sua Altezza Alfonso V, re di Portogallo. Ho detto che quelle canne sono di specie sconosciuta; ma di canne smisurate parla anche Tolomeo, ascrivendole all’India. Volete di più? Tronchi e rami di pini furono rigettati dal mare sui lidi delle Azzorre; e di pini non è traccia in quelle isole. Ma udite anche questa, o signora: due cadaveri umani furono ritrovati alla spiaggia, insieme coi tronchi dei pini; e nel color della pelle e nelle fattezze del volto, non somigliavano a nessuna specie dell’Europa o dell’Africa. Una terra, è laggiù, ne ho la certezza, una terra è laggiù, di cui tanti segni ci vengono, quasi per invito a scoprirla.

– E il re di Portogallo non si è persuaso, a tanta varietà, a tanta ricchezza di indizi rivelatori?

– Non si è persuaso, signora. Amico delle scoperte, protettore di Martino Behaim, che ha introdotto nella navigazione l’uso dell’astrolabio, per riconoscere dall’altezza del sole il punto in cui si trova il naviglio, Giovanni II mi ha ascoltato, come aveva fatto suo padre; è andato anche più oltre, ha dato da esaminare la mia proposta ai più famosi cosmografi del suo regno, don Roderigo medico, l’ebreo Josef, e don Diego Ortiz di Calzadiglia, vescovo di Ceuta e suo confessore. Questi luminari mi hanno dato del pazzo. E dopo costoro, mi fu contraria anche la sentenza d’un consiglio di prelati e di dotti. Soltanto perchè era di diversa opinione don Pedro Meneses, conte di Villa Real, ed uno dei più reputati cavalieri di Portogallo, mi tennero a bada un pezzo, mandando nel frattempo una caravella sulla via che io avevo indicata, di dalle Azzorre.

Sleali! – esclamò donna Beatrice, sdegnata.

Sleali, sì, ma furono puniti del loro infame tradimento. Mi avevano chiesto i miei disegni, le carte che io stesso avevo delineate, a sussidio della ideata navigazione. Ed io, cieco, credevo che costoro, finalmente persuasi della verità, si disponessero ad accogliere la mia proposta. Mi tennero a bada, vi ho detto; intanto la caravella, fornita delle mie carte, partiva da Lisbona, col pretesto di portar vettovaglie e soccorsi per le navi del re, alle isole del Capo Verde. Giunta colà, prese il largo, verso ponente; ma al primo rumoreggiar dell’Atlantico, i marinai spaventati diedero volta. Cuori da poco! E, ritornati a Lisbona, inventarono audacemente di aver fatto lungo cammino, quanto io ne avevo indicato nelle mie carte, senza trovare indizio di terra. Io, naturalmente, fui da quel giorno più deriso che mai. Ma il segreto era custodito da troppi; non fu mantenuto. E si rise della credulità di re Giovanni, e di me non si seppe dire se fossi più matto o più impostore. Tanta perfidia da una parte e tanta ingiustizia dall’altra, finirono di rivoltarmi. Nulla mi tratteneva in Portogallo, dove ogni speranza era perduta, e dove anche la mia sventurata moglie era morta. Povero e triste presi il mio unico figliuolo per mano, e segretamente partii da Lisbona. Fui allora a Genova, per rivedere mio padre. La mia buona madre non era più tra i viventi. Poco rimasi in patria, dove avrei potuto bensì trovar modo di campare la vita navigando per traffichi, ma dove non mi era dato trovare i mezzi di navigare per la scoperta del nuovo Mondo, che mi stava, che mi sta sempre nell’anima.

– E la vostra Repubblica? Perchè non rivolgervi a lei?

Signora, – rispose malinconicamente don Cristoval, – è detto nel Vangelo di nostro Signore: nemo propheta in patria. Si ha poca fortuna nel luogo ove si è nati. Pensate del resto, che la Repubblica di Genova non era in condizione di pensare ad un’impresa, da cui rifuggiva il re di Portogallo, un re non ad altro intento che alla scoperta di nuove isole sull’Atlantico. Genova, dopo tutto, non si è illustrata nelle ardite navigazioni altrimenti che per opera di privati cittadini. A me sarebbe bisognato di trovare uno o più partenevoli, come era stato il caso di Ugolino Vivaldi, che trovò un potente aiuto nei forzieri e nella buona volontà di Tedisio Doria. Ma basti di ciò. Povero ero ritornato in patria; povero ne ripartii per le coste di Spagna, di questa nobile Spagna, che io speravo più umana del Portogallo. Giunsi finalmente al porto di Palos, ma dopo aver consumato nel viaggio il mio piccolo avere. Lavorerò, dissi fra me; sono un cosmografo, farò carte pei naviganti di Palos e di Moguer. M’ingannavo anche qui. Solo a chi è sicuro dell’indomani si proferiscono tutti ad aiuto. Non trovai da lavorare; provai i primi terrori della miseria, che non sa più da qual parte rivolgersi. Rammentai allora, e fu miracolo, che la mia povera Filippa aveva una sorella, e che questa sorella era maritata nella piccola città di Huelva, ad un certo Muliar. Andiamo da costoro, dissi tra me; avranno compassione dell’innocente che è con me, lo terranno in casa loro, lo nutriranno almeno, fino a tanto che io non abbia trovato il modo di ripigliarlo, senza che egli soffra la fame. Detto fatto, presi il mio piccolo Diego per mano, e m’incamminai verso Huelva. Ma il fanciullo non poteva camminar molto; era anche rifinito dai patimenti. Bussai allora ad un convento di Francescani, che è poco lungi da Pàlos, sulla collina, e si chiama Santa Maria della Rabida. – Che cosa volete? mi chiese il converso, venuto ad aprirmi. – Fratello, risposi, che la pace di Dio sia con voi; un tozzo di pane e un po’ d’acqua per questo fanciullo che muore.

Povero amico! – esclamò donna Beatrice, i cui occhi erano bagnati di pianto.

– Ah signora! Iddio veda le vostre lagrime, come quel povero frate ha vedute le mie. Di , mentre il fanciullo divorava il suo pane, di passava il padre guardiano, don Juan Perez di Marcena; un dotto uomo, signora, e meglio ancora, un sant’uomo. Già confessore della regina Isabella, non lo ignorate, si era trovato male nel frastuono di una corte, e, lasciando volentieri ogni speranza di onori e di grandezze future, aveva amato meglio ritornare alla pace del suo modesto convento. Non sono molti gli uomini come don Juan di Marcena, nel mondo. Iddio certamente ispirò la sua risoluzione, per metterlo sul mio cammino, a soccorso della mia creatura, a conforto del mio spirito abbattuto. Egli mi ascoltò benevolo, mi consolò, chiese di udire i miei casi, mi volle suo ospite. Anch’egli sapeva di geografia, ne studiava per suo diletto nelle ore di riposo, ne ragionava spesso con un savio amico suo, don Francisco Garcia, della vicina città di Palos. E tutti e due conobbero i miei disegni, ascoltarono le mie ragioni, ne furono facilmente convinti, dirò meglio, infiammati al pari di me. – Andate alla corte di Castiglia, mi disse un giorno don Juan di Marcena; io terrò in custodia il vostro piccolo Diego; eccovi una borsa con un po’ di denaro per il viaggio, e una lettera per don Fernando di Talavera, priore del monastero del Prado, e confessore della regina. È il mio successore nell’alto uffizio; è un dotto uomo, è un mio amico, vi assisterà.

– Come vi abbia assistito so io; – disse la marchesa di Moya.

– Infatti, – rispose don Cristoval, – uomo dotto, ma non di scienze naturali, mi ha lasciato dire, ma senza quasi ascoltarmi; poi, prendendo a pretesto le gravi cure della guerra che toglievano alle Loro Altezze il tempo per altri pensieri, mi fece intendere che avrei perduto il mio. Il re Ferdinando era allora all’assedio di Loya; finito questo con la presa della città, mosse contro Moclin, dove la regina Isabella andò presto a raggiungerlo. Non c’era modo di avere udienza dai reali di Castiglia; ma io non mi diedi per vinto, aspettai che ritornassero a Cordova. Ritornarono, ma per correre nella Galizia, a reprimere le ribellioni del conte di Lemos. Vivevo frattanto, delineando carte nautiche e ricopiando antichi manoscritti. La gente credeva che io fossi destinato a grandi fortune, sapendo che aspettavo udienza dai sovrani, e vedendo che ero accolto, ben voluto da ragguardevoli personaggi, come il razionale di Castiglia, don Alonzo di Quintanilla, e dal nunzio pontificio, monsignore Antonio Geraldini, a cui, come italiano, era stato presentato. Il nunzio fu un’altra provvidenza per me, facendomi conoscere al fratel suo don Alessandro, precettore di Sua Altezza l’Infanta, e presentandomi, unitamente con lui, a don Pedro Gonzales de Mendoza.

– Il terzo re di Castiglia; – soggiunse donna Beatrice; – così chiamano alla corte il gran cardinale ed arcivescovo di Toledo.

Degno uomo anche quello. Mi ascoltò; a tutta prima dubitò che le mie proposte sapessero d’eresia; ma fu pronto a ricredersi. Son debitore a lui dell’insigne onore che ebbi, d’essere presentato alle Loro Altezze, nella città di Salamanca, dove si erano condotte a svernare.

– Ci siamo, a Salamanca.

– Ci siamo, signora. Come fossi accolto dal re e dalla regina vi è noto. Udirono anch’essi, parvero credere, e commisero il mio disegno all’esame di un consiglio di dotti. A don Fernando di Talavera fu ordinato di radunare una giunta dei migliori astronomi e cosmografi del reame, i quali, sotto la sua presidenza, ascoltassero me, considerassero la mia proposta, e ne facessero giudizio, che alle Loro Altezze sarebbe stato riferito. Si adunarono; ma erano pochi gli astronomi e i cosmografi; la più parte dottori di altre scienze, versatissimi in queste, ma poco o punto intendenti delle naturali, come era necessario per me. Che giorni, signora, in quel convento di Santo Stefano! E che vani argomenti ho io dovuto sentire contro le mie ragioni matematiche intorno alla forma della terra! Una sfera io la dicevo; quale eresia! Non aveva cantato il re David nel suo salmo centesimo terzo: extendens coelum sicut pellem?

– Non so il latino, don Cristoval.

– Ah perdonate; – riprese egli, sorridendo a suo malgrado. – Il reale salmista vuol dire a Dio; tu hai steso il cielo sulla terra come una pelle, ossia come una tenda di pelli. L’immagine biblica è presa dalle tende dei popoli pastori dell’Asia, che fanno per l’appunto di pelli i tetti delle loro mobili case. Ora, dicevano i miei giudici, se Dio ha steso il cielo come una tenda di pelli sulla faccia della terra, si deve credere che la terra sia piana e non in forma di sfera. Quanto alla necessità degli antipodi, da me dimostrata, rispondevano con un passo di Firmiano Lattanzio: “Vi ha nulla di più ridicolo del credere che vi siano antipodi, i quali hanno i lor piedi opposti ai nostri? genti che camminano coi talloni in aria e la testa per terra? Che siavi una parte del mondo ove tutto è alla rovescia, ove gli alberi crescono coi loro rami dall’alto in basso, e piove, grandina e nevica dal basso in alto?” E passi per Lattanzio, a cui si poteva rispondere senza pericolo. Ma non aveva detto sant’Agostino essere la dottrina degli antipodi incompatibile coi fondamenti storici della nostra fede? Secondo quella dottrina, sarebbe difatti ammessa una gente non discesa da Adamo, unico padre; e ciò in aperto contrasto con le Sacre Scritture.

– E la vostra risposta?

– Nessuna, o signora. Si parlava già di dover sottoporre la mia povera tesi al tribunale della Santa Inquisizione. Io ne fui annientato. Mi salvò don Alessandro Geraldini, uno dei pochi che mi proteggevano, correndo subito dal gran cardinale. Don Pedro di Mendoza interpose la sua autorità presso quei furibondi, saviamente avvertendo che sant’Agostino era stato un miracolo di santità e di dottrina, ma che non aveva fatto mai testo in materia di geografia. Soggiunse ancora che la espressione di David, del cielo disteso a guisa di tenda, altro non era che una poetica immagine, e che in fin dei conti non supponeva necessariamente piana la superficie della terra. Così in parte si acquetarono sul punto dell’eresia. Ma non mancarono le obiezioni dell’ignoranza in materia naturale. Sia pure sferica la terra, mi dicevano gli uni; come potrete valicare impunemente, senza esserne arrostito, gl’insopportabili calori della zona torrida, che è tutta una zona di fiamme? Sia pure sferica la terra, e possa pur la nave discendere lungo il suo fianco, come potrà rimontarlo? qual forza di venti basterebbe a risospingerla in su? Rispondevo che questa difficoltà, ch’essi vedevano per una settima parte della circonferenza terrestre, non si era avveduta per le altre sei già conosciute e percorse; quanto alle fiamme della zona torrida, era facile dimostrar loro com’ella fosse una sciocca invenzione dell’ignoranza popolare. Ma niente valeva. Mi ascoltavano con benevola attenzione, e non parevano incolparmi di eresia, i padri Domenicani del convento; tra essi era il dottissimo don Diego Deza, primo cattedratico di quello studio teologico: il quale, ad un certo punto che più si rideva di me, saltò su ad osservare che la convenienza e la giustizia richiedevano più gravità negli ascoltatori. Ma non cessarono le opposizioni della caparbia ignoranza. E il presidente don Fernando di Talavera sciolse un bel giorno l’assemblea, più si diede premura di convocarla. Eccovi come fu il consiglio di Salamanca, o signora.

– E intanto il re Ferdinando.... – disse la marchesa di Moya.

– Il re Ferdinando muoveva all’assedio di Malaga; – rispose don Cristoval. – La regina andò con lui, e il Talavera seguì la regina. Questo vi è noto. A me, tenuto a bada, poichè il consiglio di Salamanca non aveva proferito un giudizio, fu concesso di seguitare la corte.

– E fu grande fortuna per me; – soggiunse Beatrice di Bovadilla. – Vi son debitrice della vita. Come pagherò io questo debito?

– Se tale vi sembra, – riprese don Cristoval, – non ci vedo che un modo: concedetemi la vostra alta protezione.

– Vi ho già data la mia amicizia. Avete il più, non domandate il meno; – replicò la bella marchesa. – Don Cristoval Colon, nobilissimo tra tutti gli stranieri che mai abbiano toccato il suolo di Castiglia, – soggiunse ella con solennità commovente; – io non so nulla di nulla, e non potrei discutere con nessuno dei vostri contradittori. Ma penso ed intendo qualche cosa ancor io, e le vostre ragioni mi convincono. Sappiate per altro che assai prima delle vostre ragioni mi persuadeva la dignità della vostra vita, la nobiltà della vostra presenza. Siamo donne, che volete? Per noi, le buone ragioni valgono e non valgono; è il cuore che parla in noi, è il cuore che insegna e comanda. Volete credere? Sono due anni, dall’assedio di Malaga in poi, che io vado dicendo ogni giorno a me stessa: quell’uomo ha ragione.

– Ogni giorno! – ripetè don Cristoval.

– Ogni giorno, sicuramente. Perchè mentirei? E perchè non si potrebbe pensare ogni giorno la medesima cosa? Diciamo pure ogni giorno le nostre preghiere. Io, poi, don Cristoval, son fatta così; – soggiunse la marchesa di Moya, mettendosi una mano sul cuore, – una cosa, entrata che sia qua dentro, non n’esce più. E così pensando da un pezzo, vedo lontane all’orizzonte le isole felici che voi scoprirete; le vedo con gli occhi della mia fede, che è pari alla vostra, grande ammiraglio del mare Oceano.

– Ecco un titolo nuovo! – esclamò don Cristoval.

– Tanto meglio; ve lo conferisco lo, e abbiatelo per augurio; – riprese la marchesa di Moya. – Lo chiederete alle Loro Altezze, quando avranno accolte finalmente le vostre proposte; non è vero? Sarà l’unico compenso che avrò della mia fede in voi. Sarete lo scopritore di un mondo ignoto; sarete il governatore, il vicerè delle terre scoperte; ma io non vedrò in voi che il mio grande ammiraglio del mare Oceano. L’ho sognato, m’intendete voi? l’ho sognato; ed è per l’appunto il mio sogno che mi ha dato il coraggio di venire a voi, quando di questo colloquio, voi avevate il desiderio, io la speranza. –

Don Cristoval si fermò in mezzo al sentiero, guardò in viso la gentil donna, che aveva chinata la fronte, arrossendo, e così le parlò:

Beatrice di Bovadilla, siate benedetta per la vostra fede. Son debitore a voi di un giorno lieto. Non ne conobbi molti, nella mia vita fortunosa; non ne speravo più da gran tempo. Bella fede, che germoglia come un fiore di arcane fragranze, nel cuore di una donna! Così un’altra donna credesse, come voi oggi credete!

– La regina? – gridò Beatrice di Bovadilla. – Non dubitate di lei. Compatitela, piuttosto. Nella sua grandezza, Isabella è meno potente di quello che altri la immagina. Ella ha dovuto custodire gelosamente i suoi diritti di regina di Castiglia; ma appena questi le furono riconosciuti, la donna nobile e buona non ebbe altra cura che di far dimenticare un momento di giusta alterezza al suo regale marito. Se sapeste, don Cristoval! C’è accanto alla regina una persona che pensa a voi, e quando è sola al fianco d’Isabella non fa che ragionarle del mondo ignoto che voi dovrete scoprire.

– Alla regina! – esclamò don Cristoval. – E questa persona?...

– Questa persona ha in cuore la fede che il vostro aspetto ha saputo ispirarle, – rispose la marchesa di Moya. – Vedete? non dovrei dirvelo, perchè ancora mostrate di non credermi intieramente; ma ieri ancora, a questa persona, Isabella diceva: “Bovadilla, e il nostro Cataio? come va che non se ne parla più da due giorni?” E questa persona rispose: “Altezza, da due giorni non c’è modo di restare un’ora con voi; ecco perchè non si parla più del Cataio, del gran Cane, e della maravigliosa isola di Cipango.” Al che la regina rispose: “Bovadilla, hai ragione: ma non è colpa mia se i consigli succedono ai consigli, e le cose della guerra occupano tanto i nostri pensieri. Ma oggi, se Dio vuole, ho un’ora di libertà. Bovadilla, parlami di Cipango e dei tesori di Ofir, che tu conosci tanto bene.” –

Don Cristoval, fu preso al cuore da una gran tenerezza.

– E come fa Bovadilla, – diss’egli, usando volentieri per una volta tanto la forma familiare con cui la regina di Castiglia chiamava la sua dama di palazzo, – e come fa Bovadilla a conoscere tanto bene il Cataio, Cipango e le miniere di Ofir?

Bovadilla, – rispose la marchesa di Moya, chinando modestamente le ciglia, – ha sentito raccontare i viaggi del veneziano Marco Polo. Ancor essa, ricordando quei viaggi, va a cercare il levante.... per la via di ponente. E Dio sa, – soggiunse ella sospirando, – Dio sa quante cose diverse si potranno trovare per via, prima di giungere a quei benedetti confini orientali dell’Asia! Ma faccia egli che possa trovarle, e presto, l’amico di Bovadilla! –

Don Cristoval prese la mano della marchesa di Moya, e v’impresse un bacio, il bacio della riconoscenza vivissima, il bacio della devozione profonda.

Ma non fu un bacio lungo. Alla riconoscenza e alla devozione segnava certi confini il rispetto. Don Cristoval fu pronto a lasciare quella mano, che pure non faceva sentire desiderio di ritirarsi dalle sue labbra.

Signora, – diss’egli, alzando la fronte, – rinasco oggi alla speranza, e per voi. Risponderò subito al re di Portogallo, ricusando le sue recenti profferte. –

 



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