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CAPITOLO IV.
riconoscesse un fior di cavaliere.
Le oscure parole di don Cristoval furono un colpo improvviso al cuore della marchesa di Moya. La bella e tenera Bovadilla aggrottò le nerissime sopracciglia, e guardò fissamente il suo cavaliere, con aria di stupore e di sospetto ad un tempo.
– Che è ciò che voi dite, don Cristoval? – domandò ella, dopo un istante di pausa.
– Che Sua Altezza il re Giovanni II mi ha scritto una lettera molto amorevole; – rispose don Cristoval. – Era per verità il meno che potesse fare, dopo il mal tratto che m’aveva usato, e per cui dovetti partirmene sdegnato da Lisbona.
– Il pentimento, se mai, è venuto un po’ tardi; – osservò la marchesa. – Non lo avete pensato?
– Sì, l’ho pensato; ma ho pensato ancora che egli mi offriva di ritornare alla sua corte, dove mi prometteva oneste accoglienze.... e più facile orecchio ai miei disegni di scoperta. Notate, signora, – soggiunse don Cristoval, – che tutto ciò mi viene da lui, dopo le derisioni di Salamanca e le freddezze della corte di Castiglia.
– È vero; – mormorò Beatrice di Bovadilla; – ma voi?...
– Io stavo per rispondere.... ve lo confesso, stavo per rispondere semplicemente: verrò.
– Ma ora?
– Ma ora, – replicò don Cristoval, – ma ora voi avete parlato, signora, e gli risponderò domattina: rimango dove sono.
– Ah bene! così va fatto; – esclamò la marchesa, i cui occhi mandarono un lampo di allegrezza.
– E uguali parole risponderò al re d’Inghilterra; – riprese a dire don Cristoval.
Beatrice di Bovadilla fece un nuovo atto di stupore.
– Un altro invito! – diss’ella.
– Sì, mia signora. Il mio buon fratello Baldomero, ritornato nel dicembre dello scorso anno dal capo delle Tempeste, ch’egli ha girato arditamente insieme col portoghese Diaz, è passato da poco in Inghilterra per caldeggiare il mio disegno presso quella corte. Arrigo VII gli ha risposto: dite al vostro fratello che venga da noi; vedremo di appagare i suoi voti, illustrando col suo nobile ardimento la nostra corona.
– Anche per l’Inghilterra, volevate abbandonarci, don Cristoval!
– Signora, perdonate, e mi perdoni in voi tutta Castiglia. Ho fatto voto della mia vita alla grande intrapresa; non vedo, non posso vedere davanti a me che l’adempimento di quel voto.
– È giusto! – replicò la marchesa di Moya, reclinando la fronte.
– Ma vi ripeto, – seguitò don Cristoval, – oggi, senza venir meno a quel voto solenne, posso rispondere ad Arrigo VII come risponderò a Giovanni Il. Aspetterò; mi affido a voi.
– Grazie! – rispose ella con effusione di cuore. – Io mi mostrerò degna della vostra fede. Voi mi stimerete, don Cristoval.
– Che dite mai, signora? Non ho già da incominciare quest’oggi a stimare donna Beatrice di Bovadilla.
– Chi sa? – diss’ella. – Potrebb’essere così, come io temo.
– Perchè.... Siate sincero, italiano, e guardatemi negli occhi, tanto che io veda bene addentro nei vostri. Così! Ed ora, confessatevi a me, di ciò che avete pensato della povera Bovadilla.... nella notte di Malaga.
– Che cosa ho pensato?... Nulla avevo da pensare, nulla.
– Veramente?
– Nulla, vi giuro. E che dovevo io pensare di voi?
– Di me, sì, e di un’altra persona.... di don Alvaro di Portogallo. –
Così dicendo, Beatrice di Bovadilla si era fatta rossa e tremava; nondimeno, facendosi forza, guardava in volto il suo interlocutore.
Toccava a lui di apparire smarrito; ma non per timore o vergogna di confessare la verità, quella verità che donna Beatrice voleva piena ed intiera da lui.
– Non so; – diss’egli; – non ho pensato nulla.
– Ricordatevi meglio, don Cristoval. Non avete voi detto, alla presenza delle Loro Altezze e di tutto il loro seguito, che avevate veduto pochi momenti prima don Alvaro di Portogallo, che vi era passato vicino, mentre stavate all’aperto? Notate che così dicendo avete reso un gran servizio ad una donna, salvandone con la vostra testimonianza il buon nome.
– Orbene, non ho io detto il vero? Avevo veduto per l’appunto don Alvaro, quando si avvicinava al padiglione reale.
– Ma un’ora prima del triste punto in cui cadde ferito; – ribattè la marchesa.
– Signora, non mi pare. Ero tanto assorto nelle mie meditazioni! Io penso sempre, e il tempo passa. Ahimè, come passa! Son pur passati quattordici anni in vane speranze!
– Voi siete un cavaliere, don Cristoval, e non volete farmi arrossire. Ma dite, potrei io non arrossire, sapendo di dovere la tranquillità dell’animo mio ad una vostra pietosa menzogna? Vedete; quello che io non osavo chiedervi subito, vi chiedo ora, a mani giunte, come una povera supplicante. Siate sincero e non temete di dispiacermi. Ciò che direte non muterà nulla nei miei sentimenti per voi, e nella promessa che vi ho fatta. Suvvia, buon amico, che cosa avete pensato allora? che cosa pensate oggi di me?
– Che siete una nobile donna, e non solamente per ragione di nascita; – rispose don Cristoval; – e, se non vi parrà superbo, aggiungerò: l’unica donna capace d’intendermi.
– Sì, – replicò la marchesa, con un accento da cui traspariva un pochettino d’impazienza; – ma don Alvaro di Portogallo era da un pezzo nel padiglione reale.
– Orbene, che volete voi dire con ciò?
– Domandarvi ancora ciò che non avete voluto ancora rispondermi. Che cosa pensate che egli fosse venuto a fare?
– È facile immaginarlo, signora. Don Alvaro Gelves di Portogallo è uno dei primi cavalieri di Castiglia, uno dei più valenti ufficiali dell’esercito; aveva un uffizio da compiere presso Sua Altezza il re Ferdinando; era venuto a riferirgliene, e a prendere i suoi comandi. Non ha trovato il re, nè la regina; ha veduta voi, nobile signora; da cortese gentiluomo qual è, non ha creduto di potersene andare senza farvi riverenza e intrattenersi a colloquio.
– A colloquio d’amore, don Cristoval; non lo avete pensato?
– Non l’ho pensato. Ed ecco un verbo pensare, che andiamo ripetendo in tutti i tempi della coniugazione.
– Vedo che ricordate la vostra scuola di grammatica; – disse donna Beatrice, sorridendo. – Dunque, non lo avete pensato? e non ci credete ora, che io ve lo dico?
– Perdonate signora, neanche ora ci credo.
– Perchè don Alvaro è un gentiluomo castigliano; e i gentiluomini castigliani non tengono ad una nobile signora certi discorsi, che ella non possa gradire.
– Voi siete, don Cristoval, il fiore dei cavalieri del mondo. Ma non son tutti come voi, purtroppo; non sono tutti come li decanta la fama; – rispose sospirando la marchesa di Moya. – Del resto, voi riconoscete che certi discorsi io non dovessi gradirli?
– Mi pare che non sia neanche da dubitarne.
– Se questo credete, io debbo esservi riconoscente; – riprese la marchesa. – È stato proprio così: non gradivo il discorso; pure, mi è stato fatto. Volete voi accogliere, a questo proposito, la mia confessione sincera? –
Don Cristoval rimase sconcertato, a quella strana proposta della dama di palazzo. Egli aveva capito che per ottenere il patrocinio della potente signora gli fosse mestieri di guadagnarlo con una schietta e minuta esposizione delle sue fortunose vicende. Aveva capito ancora che una gran dama, gentile dell’animo e buona nel profondo del cuore, vedendolo così mal trattato dalla sorte e dagli uomini, si fosse rivoltata contro i giudizi degli uomini e contro i capricci della sorte, e, memore di un benefizio ricevuto (caso rarissimo, sì, ma non impossibile) si prendesse cura tanto amorevole di lui. Ma non intendeva altrimenti come e perchè quella nobile signora volesse metter lui, povero straniero, con cui parlava per la prima volta in quel giorno, a parte de’ suoi segreti più intimi.
– Sarò breve, non temete, troppo più breve di voi; – ripigliò la marchesa. – La mia confessione si potrebbe compendiare in queste poche parole: egli mi parlò d’amore, ed io l’ho ascoltato.
– Per guarirlo della sua follìa; – riprese don Cristoval, vedendo di non poter cansare l’argomento su cui ella aveva voluto ad ogni modo fermarsi. – Una donna è giustamente altiera, sente nobilmente di sè, ma può anche essere compassionevole, senza perder punto della sua dignità. E allora questa donna dice ad un uomo....
– Ah sì, bene! – interruppe la marchesa ridendo, e mettendo in mostra due file di bianchissimi denti. – Sentiamo che cosa dice quella donna a quest’uomo. È sempre degno di studio un uomo, quando vuol pensare e parlare come farebbe una donna.
– Ahimè, signora! – esclamò don Cristoval. – Capisco benissimo che non ne indovinerò una. Io non ho pratica di queste cose, dopo tutto; le voci del cuore possono aver parlato anche a me; ma le voci del mare hanno parlato più alto. Nondimeno, io credo che una donna, messa al punto di significare l’animo suo ad un grazioso importuno, possa trovar meglio della solita frase: bel cavaliere, v’indirizzate male. C’è modo di indorargli la pillola, non credete? Essa può dirgli, ad esempio: siete ricco di tante virtù; abbiate anche quella di essere ragionevole, e rispettate l’onor mio, la mia pace.
– Poche parole, se mai, e presto dette; – replicò la marchesa. – Non è necessario di spenderci un’ora.
– E allora, – rispose don Cristoval, – non parliamo più di pillole da indorare; parliamo di beveroni da far inghiottire. Il buon medico prende un pizzico di polvere, amara al palato, e la scioglie e l’allunga in un bicchier d’acqua. Le parole amare, le parole che danno il commiato ad ogni speranza, son poche; ma possono moltiplicarsi, possono ripetersi, circondarsi di belle cortesie, che le facciano parere meno spiacevoli. Il cavaliere incalza, piange, si dispera; ma infine capisce la ragione e si arrende ai buoni argomenti di una donna gentile, il cui rigore sia temperato da un senso di onesta pietà. Non vi pare? Ci sono bensì delle donne crudeli; – soggiunse egli, sospirando, – le donne che non sentono umanamente, che non amano più, che forse non hanno amato mai; quelle vi mandano con Dio senza troppe parole, e le poche parole sono aspre come il succo dell’aloe. Ma quelle che sono capaci di un nobile amore, perchè l’animo loro è alto e il cuore generoso, quelle non usano mai aspre parole; rimandano, ma senza durezza, e quasi riescono a consolare delle ferite che fanno.
– È andata in parte così, come voi dite; – ripigliò la marchesa; – e un avvocato non mi avrebbe difesa altrimenti. Ma ci fu ancora dell’altro, che mi costrinse ad ascoltare. Sapete già che il conte di Gelves aveva posto gli occhi su me. Per quali pregi miei, veramente non so, perchè in me non conosco nulla che possa giustificare la passione di un uomo; – soggiunse ella con un accento di modestia, ma di quella modestia che non è senza un pochettino di malizia. – Infine, il conte mi perseguitava da un pezzo con l’amor suo. Ce ne sono degli altri, purtroppo, che imitano il conte di Gelves; ma lasciamoli stare. Don Alvaro venne al padiglione reale col pretesto del servizio del re; pretesto naturalissimo, chi pensi che egli poteva ignorare dove il re fosse in quell’ora. Non poteva certamente ignorarlo don Alvaro, che viveva come tutti gli altri la vita del campo, e doveva aver visto il re e la regina, andati sul far della sera a visitar la fronte dell’accampamento. Lo sapeva infatti, dove fossero; e glielo feci confessare. E lo rimproverai del sotterfugio usato, che poteva tornarmi a danno, meritando a lui una nota di slealtà. Piangeva, il bel cavaliere. Le lacrime, si sa, vogliono aggiustare ogni cosa; ma non giovano a me. Conoscevo don Alvaro per un vanaglorioso. Io, poi, non ho mai potuto soffrire gli uomini che piangono, sfogando in tal modo l’amor proprio offeso, che non sa tollerare un rifiuto. Io amerò un giorno.... – soggiunse Beatrice di Bovadilla, – ma l’uomo che amerò sarà tale da render superba la più bella e la più nobile tra le donne. Noi concediamo molto, amando; il nostro buon nome, la nostra pace, tutta la nostra esistenza è come una posta nel giuoco. Sia almeno per alta cagione il gran rischio, ed abbia per giustificazione una profonda, una divina certezza: l’eternità dell’affetto. Che ne pensate, don Cristoval? Ecco una donna, una vera donna, che pensa e parla per darvi cognizione di ciò che sente il suo sesso.
– Credo che ragioniate benissimo; – rispose don Cristoval; – ma credo ancora che ben poche vi somiglino; – aggiunse egli sospirando. – A quante piacerà un affetto eterno? La più parte se ne spaventeranno, come di una insopportabile catena.
– E tal sia di loro; – replicò la marchesa. – Io lascio gli Alvari di Portogallo a chi li vuol raccattare; ed anche gli Alonzi di Ojeda.
– C’è anche Alonzo di Ojeda? – chiese don Cristoval, non potendo rattenere un sorriso.
– Anche quello. E fu il conte di Gelves che me lo ricordò in quel colloquio malaugurato. Voi non amate me, mi disse, perchè gradite meglio gli omaggi del cavaliere di Ojeda. Vedete, don Cristoval? Ci sono degli uomini così fatti, che non credono alla virtù d’una donna, e sentono il bisogno di dirglielo. Se non li amate, è segno che il vostro cuore è occupato dal pensiero di un altro.
– E voi, signora, avete risposto?
– Nulla, a parole; ma rispondeva abbastanza il mio gesto. Mi parve di cascar dalle nuvole. Sicuramente, i pensieri di don Alonzo di Ojeda non mi erano ignoti; tante volte lo avevo veduto guardarmi con quei suoi occhi da spiritato. Ma a queste cose una donna è avvezza, tanto avvezza da non annettervi più nessuna importanza. A lei salgono tutti i desiderii, ha detto un poeta arabo, come la fragranza dei fiori. Ed ogni fiore ha la sua particolare fragranza. Ma avete voi notato, don Cristoval, una cosa bizzarra nella fragranza dei fiori? Ci sono le ore che essi ne dànno molta; e delle altre in cui non ne dànno affatto. Sentono forse anch’essi la stanchezza e la noia? Se è così, guai a fidarcisi! Quanto all’Ojeda, io pensavo a lui come a tutti gli altri: e l’accenno di don Alvaro, dopo avermi meravigliata, mi fece andare in collera. Volli che mi spiegasse la ragione della sua impertinenza. M’importava sapere, poichè c’era il sospetto, se ci fosse in corso qualche calunnia sul conto mio. Non c’era; l’Ojeda non si era vantato di nessun favore, di nessuna attenzione, come a tutta prima avevo dubitato; e gli ho subito resa la mia stima. Egli è, con tutta la sua aria spavalda, un onesto cavaliere: un po’ matto, forse, ma d’indole generosa. Infine, non si trattava che di un vano sospetto del conte di Gelves. Ed egli già si mostrava pentito di avergli dato corpo, stava chiedendomi perdono delle inconsiderate parole, quando sopraggiunse l’assassino, ed egli pagò con due ferite ricevute il fio della propria imprudenza. Voi giungevate allora, don Cristoval; vi salutai mio salvatore.... Ma poi, pensando al momento in cui eravate giunto, e immaginando che voi poteste credermi tutt’altra da quella che io sono, vi giuro, avrei amato meglio esser morta sotto i colpi del Moro. –
La voce di donna Beatrice tremava, le guance erano accese, gli occhi sfavillavano di passione.
– Nobile signora, – disse don Cristoval, – io non ho mai dubitato di voi, siatene certa. Guardatemi pure negli occhi; non ho mentito mai. Troppe virtù mi mancano, veramente; non quella di esser sincero. Vi dirò anzi che n’ho avuto danno, qualche volta; ma se a mie spese ho imparato a tacere il mio pensiero, non l’ho mai travestito, non ho detto mai cosa che non sentissi nell’anima.
– Vi credo, – rispose la marchesa di Moya, battendo amorevolmente la mano sul braccio del suo cavaliere, – vi credo, e ne sono felice. Dunque siamo intesi; non dubbi su me, e neanche scoramenti, nè timori per voi. Bovadilla farà ciò che deve; e tanto più potete esserne certo, se penserete che ciò ch’ella deve, le piace. Questa maledetta guerra finirà. Se pure dovesse durare un altro anno, la corona di Castiglia potrà sempre allestire un naviglio che vada per l’onor suo sull’Oceano e faccia sventolare il suo glorioso stendardo sulle terre sconosciute. Vedervi partire per un tale viaggio, in mezzo a tanti pericoli, sarà grande dolore per chi vi ama, don Cristoval Colon! Non lascierete voi una creatura che vi ami?
– Nessuna, o signora; – rispose egli, reprimendo un sospiro.
La marchesa di Moya, gettando la sua domanda con uno sforzo supremo, aveva aggrottate le ciglia, come soleva spesso, quando l’animo suo era turbato da un sospetto, od anche da un semplice dubbio. Ma le spianò, udendo la risposta del suo cavaliere, e un sorriso le fiorì sulle labbra.
– Se questa creatura ci fosse – riprese ella, con la sua graziosa malizia femminile, – tanto peggio per lei. Mettiamo anzi che ci sia; se è una donna di gran cuore, ella deve saper soffrire. La gloria delle persone che amiamo è troppa parte di loro; non dobbiamo volerla sacrificata al nostro orgoglio, alla nostra felicità. –
Le parole della bella marchesa di Moya fecero un senso profondo nell’animo di don Cristoval. E più delle parole sue, fece senso l’accento con cui erano proferite. Aggiungete che lungo le fasi di quel colloquio nella macchia del Retrete, la marchesa si era mostrata spesso inquieta, nervosa, quasi irritata contro sè medesima, come persona scontenta di ciò che una forza interiore la costringa a dire o a tacere. Ma egli pensò, avvedendosi della cosa, che Beatrice di Bovadilla fosse diventata ad un tratto così, per la stessa indole della conversazione: una conversazione abbastanza difficile, poichè ella doveva aggirarsi intorno ad un punto delicatissimo, com’era quello del buon nome di lei, e della sua dignità. Trovare la ragione di un fatto senza doverla chiedere, è sempre un grande vantaggio, poichè mette lo spirito in pace. E il cavaliere, tranquillato su quel proposito, fece un inchino, come di ringraziamento alla dama, lasciando cadere l’allusione ad una donna ipotetica, di cui egli aveva già dovuto negar l’esistenza.
Erano tuttavia nella macchia, e l’ora del tramonto rosseggiava dalle radure dei rami.
– Mia nobile signora, – disse don Cristoval, – non sarà forse più tardi per voi?
– È vero; – rispose la marchesa, guardando dall’orizzonte, verso cui si stendeva la mano del suo cavaliere. – Quanto tempo abbiamo ragionato! Parecchie ore, mi sembra. Ne duole a voi?
– No davvero.
– E neanche a me. Questo è un giorno guadagnato; mettiamolo da parte; ce ne ricorderemo.
– Quanto siete buona, signora! – esclamò don Cristoval. – E vi credono superba!
– Una Bovadilla, infatti! – riprese la marchesa, ridendo. – E non bisogna neanche fidarsene quando è buona, o lo sembra. Qualche volta mi colgo ancor io all’impensata, e mi ritrovo molto orgogliosa, fiera, perfino cattiva. In quei momenti, vedete, il mondo mi pare troppo angusto al mio diabolico orgoglio.
– E allora, non vi basterà davvero la compagnia di un così misero cavaliere.
– Non dite questo, per sant’Iago, patrono della mia casa, – gridò la marchesa di Moya. – Con voi, don Cristoval Colon? Con voi, qui, là, dappertutto. Volete voi prendermi per marinaio? Sarei capace di venire al Cataio con voi. Ma ora, soggiunse ella, con un accento mutato, – abbassiamo le ali della fantasia, e riprendiamo i sentieri battuti. –
Ritornavano, così dicendo, dalla macchia delle querci verso il giardino. Ad una svolta della strada udirono un rumore tra gli alberi, come di persone che si ritraessero cautamente sul loro passaggio.
– Non è niente; – disse la marchesa, che aveva notato un gesto sospettoso del suo compagno. – È qualche povero leprotto che sguiscia tra i rami. Come sono felici, gli animali della boscaglia! Stanno, vanno, vengono, a loro talento.
– Eppure, – disse don Cristoval, – sono tante le insidie, per quei felici che dite! Insidie degli uomini cattivi e delle fiere crudeli!
– Volete dire che tutto è guerra nel mondo? Sia pure; – rispose la bella marchesa. – Ma noi combatteremo da forti, l’uno al fianco dell’altro, come due buoni fratelli. Per intanto, son dama; cavaliere, offritemi il braccio. –
Don Cristoval tese il braccio, e Beatrice di Bovadilla vi appoggiò la mano con una dignità che non era senza grazia. A que’ tempi non era l’uso di piegare il braccio ad arco, perchè una dama vi introducesse ed appoggiasse il suo; si stendeva in quella vece il braccio in avanti, e la dama vi posava la mano, come sull’appoggiatoio di una ringhiera.
Questo sarebbe oggi l’atto di un servo alla padrona, quando ella scende di carrozza. Ma allora, per l’appunto, i cavalieri erano servitori, ed erano capaci di gloriarsene. Dond’ebbe ragione di dire il poeta:
O gran bontà dei cavalieri antiqui!