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LE DUE BEATRICI CAPITOLO VI. D’un viaggio di scoperta che fece, senza escire dal vecchio mondo, la marchesa di Moya. |
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CAPITOLO VI.
che fece, senza escire dal vecchio mondo,
Donna Isabella di Castiglia aveva detto benissimo, la sua Corte era come le tende d’Israele; o per guerre, o per feste, o per quartieri d’inverno, non istava mai ferma. Quella volta le ragioni del muoversi erano tutte diplomatiche; anzi diciamo che c’era una sola ragione, quella dell’andare incontro, in luogo più tranquillo, ad una ambasceria di Arrigo VII, re d’Inghilterra. Non si appartiene al nostro racconto di descrivere tutta questa diplomazia cerimoniosa, e nemmeno di riferire il trattato d’alleanza che ne seguì, tra l’Inghilterra e la Spagna. Diciamo soltanto che il tempo speso in quei ricevimenti e negoziati, se fu un guadagno per la corona di Castiglia, fu tutto perduto per la bella, generosa ed impaziente marchesa di Moya.
Donna Beatrice non poteva dunque saper nulla, di ciò che le premeva maggiormente. Le notizie di don Francisco avevano destata la sua gelosia; e la gelosia metteva in moto tutti gli spasimi della sua curiosità, che noi non oseremo chiamar femminile, ben sapendo che tutti, uomini e donne, quando l’amore ci ha presi, siamo gelosi, e curiosi e scontrosi ad un modo. Immaginate dunque come fosse irritata la marchesa di Moya, per quel contrattempo che la obbligava agli ozi cortigiani di Medina del Campo. Aggiungete che don Cristoval Colon non aveva seguita la Corte. Don Giovanni Cabrera, gran ciambellano di palazzo, aveva detto a don Cristoval: “Non si starà molto a Medina del Campo; è desiderio delle Loro Altezze di farvi risparmiare una gita inutile; aspettate il loro ritorno a Cordova, dove si recheranno dopo il breve soggiorno di Medina.”
Breve soggiorno, sì; ma furono tuttavia parecchie settimane, e parvero lunghissime all’impazienza di donna Beatrice. Ma non diciamo soltanto all’impazienza; soggiungiamo al dolore, all’angoscia della bellissima dama. Infatti, ella si struggeva di non saper nulla di Cordova, oltre a quello che don Francisco le aveva detto, per metterle una spina nel cuore; ma una cosa sapeva di don Cristoval, ch’egli non seguiva la Corte a Medina del Campo, e che avrebbe passato per l’appunto a Cordova tutto il tempo in cui restava lontano dalla Corte. La colpa non era di lui; era della volontà reale. Ma il destino era ben crudele per lei, muovendo la volontà reale a suo danno.
Dicono che qualche volta, in amore, sia bene esser soli, separati dalla persona amata; perchè si ha tempo e modo di studiar meglio sè stessi, l’indole e la profondità dei proprii sentimenti, come di meditare sull’indole e sulla profondità dei sentimenti della persona amata e lontana, di cui si rammentano gli atti, le parole, i pensieri, le opere e le ommissioni. E sarà vero; ma a me non sembra, se penso alla povera marchesa di Moya, il cui spirito sottile, ripiegandosi in sè medesimo, si contorceva, si arruffava, s’ingarbugliava (scusate il paragone, ma è femminile in sommo grado) come una matassa di refe. Si pensa troppo, si studia, s’indaga troppo, quando si è soli; e lo spirito volge naturalmente al peggio.
Eppure, qualche volta, ella cercava di ragionare. Ma i ragionamenti uscivano sempre contradittorii, come avvien sempre quando mancano i fondamenti sicuri al giudizio umano, e la mente deve trascorrere il campo delle cose probabili. Poteva un uomo come don Cristoval ingannare una donna, dotato com’era di tanto candore, e di tanta rettitudine, di tanta nobiltà di sentire? No, non poteva; anche l’altezza dell’intelletto doveva entrare per la sua parte nel conto. Un mezzo ingegno può associarsi con la doppiezza; un grande ingegno non mai. Ma che diceva ella d’ingannare? Non era là il nodo della questione. S’inganna, quando si fa una cosa, dopo averne fatta o promessa un’altra. Che cosa aveva promesso don Cristoval? Non gli era forse lecito di avere amata un’altra donna, prima di conoscere lei, marchesa di Moya? non gli era lecito di amare tuttavia quell’altra, non avendo detto alla marchesa. nessuna parola che impegnasse il suo cuore? Ella si era forse un po’ troppo concessa: egli no; non aveva veduto in lei che una protettrice, non aveva considerato che quella. Ma poi, tutti ragionamenti inutili. Non poteva don Francisco Bovadilla avere inventato di sana pianta quell’amorazzo di Cordova? Si può essere commendatori di Calatrava, e veder di mal occhio un uomo, e cercare di nuocergli nell’animo di coloro che mostrano di volergli bene. Sicuro, don Francisco poteva aver mentito; e prima di giudicare don Cristoval, prima di crederlo uguale a migliaia e migliaia d’altri uomini sciocchi, bisognava sapere, saper tutto, andare a fondo di tutto. E la marchesa di Moya, relegata a Medina del Campo, non poteva andare a fondo di nulla.
Condizione tristissima, e veramente intollerabile! Come Dio volle, quella condizione ebbe un termine. La Corte si muoveva da Medina del Campo; la Corte si riduceva al soggiorno di Cordova. Bella città della ridente Andalusia! Stupenda dimora, nel maggio, nel mese dei fiori e degli amori, se in quelle mura non fosse vissuta un’altra Beatrice! Ed era bellissima, quell’altra Beatrice! Tale l’aveva detta con crudele compiacenza don Francisco Bovadilla, soggiungendo che tra le due Beatrici non si sarebbe saputo a chi dare la palma.
– Ecco! – diceva tra sè la marchesa di Moya, vedendo all’orizzonte le torri gotiche e le cupole moresche della vecchia città. – Abita là dentro, la bella Cordovana! In che via? Ed egli, dov’è? Presso a lei, certamente. È giusto, se l’ama!... –
E giunse a Cordova, e al primo giorno dell’arrivo vide don Cristoval, venuto al palazzo reale per ossequiare i sovrani. Il Genovese era triste all’aspetto; non era dunque felice. E rivedendo lei, e salutandola, gli occhi del Genovese avevano dato bagliori di allegrezza; le guancie pallide gli si erano tinte del colore della porpora. Vedendo lei, rinasceva dunque alla speranza, alla fede? Ma queste due virtù teologali non vanno bene senza una terza virtù. E la marchesa di Moya avrebbe voluto aver certezza della terza. Quanto alle altre due, sentiva in sè la potenza di dargliele.
Non chiese nulla a lui. La bella Castigliana era tenera di cuore, ma era anche piena di alterezza. E aveva il suo disegno formato; e appena giunta si era affrettata a colorirlo.
Il lettore, che è savio, e conosce che in simili casi i disegni son pochi, ha già indovinato quello della marchesa di Moya. Ella e don Cristoval vivevano nella medesima città; non doveva dunque tornar difficile di sapere dove abitasse don Cristoval. Era l’uso, allora, e lo rendeva necessario il vagar continuo della Corte d’una in altra città, che i gentiluomini del seguito reale fossero provveduti d’alloggio a spese della città in cui prendeva dimora temporanea la Corte. E proprio a Cordova, in quell’anno 1489, i sovrani di Castiglia avevano dato per la prima volta a Cristoforo Colombo il diritto dell’alloggio, come a tutti gli altri gentiluomini del loro seguito. Per sapere dove il signor Alcalde di Cordova avesse allogato don Cristoval, bastava dunque vedere un elenco, che doveva trovarsi presso il mastro di palazzo. Conosciuto il ricapito, non restava che di penetrare in quella casa; e questo era l’uffizio di una persona fidata, che alla marchesa di Moya non poteva mancare. Ne conosciamo infatti già una.
Don Cristoval abitava, come seppe subito la marchesa, nella Calle del Rey Moro; ma di rado ci passava la notte. In quella casa dormiva a custodia un vecchio marinaio, antico compagno di don Cristoval nei suoi viaggi sul mare; e la custodia era giustificata dal fatto che in quella casa don Cristoval teneva tutte le sue carte nautiche. Era uno studio, a farla breve, anzichè un alloggio. Ma dove passava egli le sue notti? Qui non bastava pigliar lingua; bisognava pedinarlo senz’altro. E fu pedinato, e la marchesa di Moya non istette molto a sapere che don Cristoval si recava spesso nella contrada dell’Alfarace, vicino alla porta del Mediodìa.
Laggiù, dunque, laggiù abitava la bella Cordovana. Ah, come volentieri la marchesa di Moya sarebbe calata laggiù, per vedere nel bianco degli occhi quell’altra Beatrice! Ma questo, che era stato il suo primo pensiero, non era certamente il migliore. Con quale apparenza di ragione sarebbe ella penetrata in quella casa? E dove sarebbe girata l’avventura, se non allo scandalo, quando si fosse risaputa la cosa?
La bella e gelosa Castigliana non aveva ancora trovato il bandolo di quella matassa, quando le venne il destro di trovarsi vicina a don Cristoval. Lo vedeva quasi ogni giorno a palazzo; ma le occasioni di avvicinarsi a lui le erano sempre mancate. Quella volta, per altro, si era nel patìo, vasto cortile alberato del palazzo, in buon numero di dame e di cavalieri; discorrendo a crocchi, passeggiando a coppie, mutando spesso compagnia, come avviene facilmente all’aperto; e l’incontrarsi da sola a solo con lui non era stato che un piccolo sforzo di buona volontà.
– Ebbene, don Cristoval Colon, – disse la dama, attirandolo a sè col più amabile dei suoi sorrisi, – non siamo dunque più amici?
– Signora, – rispose egli, con aria di stupore, – perchè mi dite voi ciò?
– Perchè? è facile indovinarlo. Non vi accostate mai a dirmi cortesia. Si direbbe che vi faccio paura.
– Eh, per questo, signora, potreste aver dato molto vicino al segno. Un grande rispetto è già una mezza paura. Ma anche tenendomi lontano da voi per rispetto, sento crescere in me la riconoscenza per tutto ciò che voi fate.
– Io? – esclamò la marchesa. – E che cosa faccio io, di grazia, che dobbiate provare tanta riconoscenza.... da lontano?
– Il benefizio ama nascondersi; – rispose don Cristoval. – Ma io sento di esservi debitore della benevolenza che mi dimostra Sua Altezza la regina Isabella. Poc’anzi ancora, mentre mi ero avvicinato a farle riverenza, mi disse, con la sua voce più carezzevole: Non dubitate, don Cristoval; non ci dimentichiamo di voi. –
Beatrice di Bovadilla stette muta un istante, come perplessa; indi, scuotendo la bruna testa, rispose:
– Mi avete dato l’esempio di non saper mentire, anche tacendo il vostro pensiero. Io non so mentire, e non so neanche tacere. Debbo dirvi perciò che le cortesie della regina sono spontanee, non consigliate, non ispirate da alcuno. Almeno, – soggiunse ella, per amore scrupoloso di verità, – non ci ha avuto parte quella che voi amate chiamare la vostra protettrice, e che finora, con sua vergogna ve lo confessa, non ha spesa una buona parola per voi. –
Era difficile indovinare il perchè di quella confessione, fatta con tanta risolutezza, e perfino con una cert’aria d’intima soddisfazione. Don Cristoval non cercò nemmeno d’indovinarlo.
– Sarà come voi dite, signora; – rispose egli. – Segno che non avrete potuto, essendovi mancato il tempo e l’occasione. Ma se non avete parlato ora, avevate parlato prima; e il buon seme gittato da voi è germogliato nel cuore di donna Isabella.
– Ammettiamo; – replicò la marchesa, ma col desiderio evidente di mutar discorso. – E voi, frattanto, che fate?
– Studio, signora; mi preparo alla grande fortuna, che indugia tanto a venire.
– E fate benissimo. Mi hanno detto che avete piena di carte, di sfere e d’arnesi nautici, la vostra casa del Rey Moro.
– È il mio lavoro assiduo, signora, e la mia consolazione.
– Già! – mormorò Beatrice di Bovadilla. – È sempre una consolazione, il lavoro. Ma non ne avete voi altra?...
– Signora....
– Signora.... signora! – ripetè la marchesa, con un breve accento sarcastico, da cui traspariva un principio di collera. – Non sapete rispondermi altro, don Cristoval? Tutti le abbiamo, le nostre piccole consolazioni intorno a noi, oltre quelle che abbiamo entro di noi.... quando le abbiamo! Il vostro piccolo Fernando, per esempio.... Come sta? –
Era il caso di fare un gesto di stupore, e di domandare alla bella interlocutrice come fosse giunta a conoscere quel segreto domestico. Don Cristoval non domandò nulla, pensando giustamente che non s’interrogano senza pericolo le persone che hanno il diritto di non rispondere. Ora, questo diritto, che è di natura regale, lo hanno in particolar modo le dame.
Fece adunque il suo gesto di stupore e nient’altro; e mentre i suoi occhi s’incontravano in quelli della marchesa, che mandarono un lampo di minaccia, brevemente rispose:
Ma c’era tanta tristezza nello sguardo e nell’accento di don Cristoval, che Beatrice di Bovadilla, non troppo facile a rabbonirsi quando era in collera, ne fu intenerita.
– Non vorrei avervi fatto pena; – diss’ella, seguitando tuttavia a guardarlo fissamente.
– No, signora; – replicò don Cristoval. – Essa non potrebbe, se mai, esser più grave di quella che io provo, pensando a quel povero innocente.
– Povero! perchè lo chiamate povero? È vostro, e porterà il vostro nome, io suppongo. Il figlio di un uomo che le sue opere hanno reso grande, non potrà mai stimarsi infelice. –
Don Cristoval chinò la fronte, senza risponder parola. Come si può rispondere alla lode, quando essa vi è rovesciata sul capo, a guisa d’una paiolata di ranno? E quella, poi, quella di donna Beatrice era versata senza risparmio, con una misericordia che sapeva maledettamente di stizza. Povera marchesa di Moya! dobbiamo compatirla, perchè ella soffriva la parte sua.
– È bello? – ripigliò essa. – Come sarei felice di conoscerlo! Mi darete voi questa gioia, don Cristoval?
– Signora, – rispose egli, – sarebbe troppo onore per una casa tanto umile; perdonate....
– Voglio vederlo; – gridò la marchesa, passando rapidamente dalla preghiera al comando. – Amo i bambini, io. Voglio vederlo. Dove abita? Non già nella via del Rey Moro! –
E lo guardava, così parlando, lo guardava con un’aria che pareva dirgli: bada, Genovese, non mi ingannare, so tutto.
Ma il Genovese non aveva nessuna intenzione di nascondere il vero.
– No, – rispose egli, – nei pressi della porta del Mediodìa.
– Posso venirci? mi permettete? – ripigliò la marchesa.
– Poichè lo desiderate.... poichè lo volete.... quando vi parrà.
– Subito.
– E subito sia. Ma come potrete lasciar la regina?
– Ci ho a pensar io, don Cristoval. Andate pure ad aspettarmi. –
Don Cristoval fece un inchino, e l’atto di prender commiato.
– Ma non alla porta del Mediodìa; – soggiunse la marchesa di Moya. – Aspettatemi sulla strada, qui presso. –
Don Cristoval obbedì. Era debito di cavaliere obbedire ad una dama. Con quella fiera Bovadilla non c’era poi da far altro. Ma egli era triste, uscendo dal palazzo reale di Cordova, assai triste di quella avventura inaspettata, che lo costringeva a palesare ciò che con tanta cura s’era industriato a nascondere. Il marinaio Genovese intendeva benissimo che qualcheduno, nemico suo, aveva istruita di tutto la marchesa di Moya; e sicuramente per nuocergli, sapendo ch’ella si era atteggiata a sua protettrice. Ma chi poteva essere costui, e come era venuto in chiaro d’un fatto che era l’unico rimorso, se non l’unico dolore, della sua esistenza?
Egli pensava ancora, quando la marchesa di Moya, col suo gran velo sulla fronte, scese in istrada a raggiungerlo.
– Non vi credevo ancor qua; – diss’ella, avvicinandosi.
– Perchè? mi avevate comandato di aspettare; ho aspettato.
– E ve ne lodo, e ve ne ringrazio. Temevo che foste corso ad avvisar la famiglia.... del grande onore che dicevate poc’anzi.
– È un grand’onore, davvero, – rispose don Cristoval, volendo prendere sul serio il discorso della marchesa, che era pure tanto sarcastico, sotto l’apparenza della celia amichevole. – Ma io ho pensato che il miglior modo di onorare i nostri benevoli fosse quello di mostrarci a loro nella sincerità della nostra pochezza.
– Andiamo dunque a vederla; – replicò la marchesa; – e senza speranza di trovare ciò che potrebbe nobilitarla; le vostre carte nautiche, per esempio, le vostre sfere, il vostro astrolabio: tutta roba che è nella Calle del Rey Moro. Vedete, don Cristoval, come sono ben informata? Meglio del re Ferdinando, che è tutto dire. –
E rideva, così dicendo, la bella Beatrice di Bovadilla; rideva nervosamente, mentre con passo spedito si avviava al fianco di lui, per attraversare la plaza Mayor.
In fondo alla piazza s’incontrarono con un cavaliere, che fece un profondo inchino alla marchesa, dopo averle lanciato un malinconico sguardo. Era il capitano delle guardie, don Alonzo di Ojeda.
– Sempre lui! – mormorò la marchesa, poichè furono passati. – E sempre matto! Ditemi una cosa, don Cristoval. Avete mai capito voi che gusto ci sia ad ostinarsi nel corteggiare una donna, quando si veda di non essere graditi da lei, e si riconosca di non aver nulla a sperare?
– Nulla a sperare! – ripetè don Cristoval. – Voi fate presto a dirlo, signora. E non sapete che la speranza è l’ultima a morire, nel cuore dell’uomo?
– Sarà così; – disse la marchesa, che aveva parlato soltanto per dare al compagno una giusta misura de’ suoi sentimenti verso il cavaliere di Ojeda. – Ma è pazzo da legare, quell’uomo, che continua a sperare; e a darmi noia con la sua eterna persecuzione. Del resto ho piacere che m’abbia veduta, quest’oggi. Ne avrei altrettanto, se provasse a seguitarci.
– Vi prego, nobile signora, non giuocate con queste cose; – disse di rimando il compagno. – Per quanto sia da poco il cavaliere che avete scelto per uscir da palazzo, e la vostra fama sia superiore ad ogni calunnia, non si sa mai dove possano giungere le ciarle di uno sfaccendato. Anche un gentiluomo può in certi casi diventar cattivo, come il peggiore dei maldicenti. Anche il vin generoso, dicono, è capace d’inacetire. E finalmente, non giungendo ad intaccare la vostra fama, una calunnia potrebbe nuocere al vostro buon servitore, mutandogli in nemici tutti coloro che vi amano.
– Saranno i nemici miei, ve lo giuro, se non amano voi; – replicò la marchesa.
Don Cristoval avrebbe dovuto rispondere con un ringraziamento tanto caldo, quanto era stata calda l’affermazione. Ma non ne fece nulla, e lasciò timidamente cadere il discorso. Era difficile governarsi, con quella gran dama, così ardente negl’impeti della bontà, come in quelli dello sdegno.
Attraversavano frattanto un quartiere popolare, le cui vie strette e tortuose, come del resto erano quasi tutte le vie della patria di Lucano e di Averroè, si vedevano gremite di gente che andava e veniva, cansandosi, urtandosi, secondo la possibilità e l’umore, gesticolando, ridendo e vociando senza posa. Erano bizzarre le fogge, come di popolo misto, di cristiani, di moreschi e di ebrei; ma più bizzarro il vestir delle donne. Portavano talune in capo un feltro bianco, a guisa di dulipante; indossavano una veste di ciambellotto, giungente al collo del piede, col busto mezzo aperto, allacciato da cordoncini di seta, e le maniche larghe e corte; alla vita un grembiale tessuto a colori svariati, e intorno al collo filze di perline d’ambra o di vetro colorato. Altre avevano i capegli lunghi, che sbucavano da un berrettino tondo di velluto, con una medaglietta alla banda; la persona coperta d’un abito assai largo, a guisa d’una cotta da prete, senza busto nè maniche, tanto corta da lasciar vedere certi stivaloni di cordovano, risalenti fino al ginocchio, dov’erano verticalmente tagliati da frappe, che lasciavano scorger di sotto il panno delle calze. Era quella una foggia di Barberia; ma non più strana di quest’altra, che ostentava una libertà, non più consentita in processo di tempo dalla legge Maomettana. La fanciulla (perchè era una foggia comune alle fanciulle del popolo) portava in testa un cerchio di legno, o di metallo, ingrossato torno torno di bambagia, che teneva fermato un pannolino, i cui lembi ricadevano sulle spalle, e sopra una mantellina corta, tutta aperta davanti, che lasciava scoperto il petto fino al giro della vita, dove risalivano i calzoni bianchi e stretti alla coscia. In quel libero arnese la fanciulla moresca andava attorno per le vie, con la sua brava rocca in cintura, filando a tutto spiano, e lasciando svolazzare di qua e di là, come due ali, i lembi della sua mantellina.
La marchesa di Moya e don Cristoval erano avvezzi alle fogge di Cordova, come a quelle di tante altre città della Spagna meridionale, che parecchi secoli di conquista Araba avevano screziata di tanti usi diversi e che il restaurato dominio cristiano lasciava ancora, ma non per molto, in quella diversità di costumi, rispondenti alla mescolanza o alla convivenza pacifica dei tre popoli. Perciò non badarono più che tanto a quella stranezza di fogge; passavano svelti, come permetteva il viavai della folla, andando verso il Guadalquivir, o piuttosto (poichè non volevano giungere al fiume) verso la porta del Mediodìa.
Come furono là, piegarono a destra, nella contrada dall’Alfarace, e don Cristoval si fermò davanti a una casa di severa apparenza monastica, che ne dissimulava abbastanza bene la popolana modestia. Mancavano alla facciata i soliti ornamenti dei palazzi e delle case di un’epoca più recente; mancavano perfino le finestre, di cui tenevano luogo alcuni terrazzini coperti, chiusi da fitte grate, secondo l’uso dei popoli orientali. L’Arabo e il Turco, si sa, non amano far bella la casa per la gente di fuori; vogliono, se mai, che tutto, bellezza e comodità, serva a chi deve abitarci.
Beatrice di Bovadilla si era fermata, vedendo fermarsi il compagno. Questi si avvicinò all’uscio ferrato, ne alzò il pesante martello e diede tre colpi. Una gelosia del terrazzino, che sovrastava alla porta, si alzò; una figura di donna apparve di sotto allo sportello, e subito disparve, avendo riconosciuto il padrone. Pochi istanti dopo, si apriva il portone; la impaziente marchesa di Moya entrò, seguita da don Cristoval.
Una donna si tirò da banda, per lasciarli passare. Gli occhi della marchesa corsero subito a quella donna, la squadrarono dal capo alle piante. Non era che una povera fantesca; e gli occhi della marchesa si rasserenarono tosto. Ma per poco, avendo veduto accorrere dal cortile un bambino, dalle guance rosate e dai capelli biondi, che con le manine grassocce levate in alto e con un piccolo grido di allegrezza muoveva incontro a don Cristoval. Era il piccolo Fernando, sicuramente; era il figliuolo della Cordovana, dell’altra Beatrice.
Due opposti sentimenti si contendevano l’animo della marchesa di Moya: uno che l’attirava verso quel bambino, l’altro che la respingeva da lui. E stette, balenando, a guardare don Cristoval, che affettuoso ma triste s’era inchinato a baciare il figliuolo e lo additava poi alla sua nobile compagna. L’atto era d’invito, e a lei parve anche supplichevole. Si chinò anch’essa, stese le mani al piccino, le ritrasse subitamente, come pentita; e poi, vergognata di un moto irragionevole del suo cuore, le stese ancora, afferrò il piccolo innocente, lo levò di peso, e con impeto materno se lo recò tra le braccia.
Il bambinello lasciò fare. Guardò la sconosciuta signora co’ suoi occhioni azzurri, in cui si dipingevano la maraviglia e il sospetto; quindi, soverchiando la curiosità infantile, si provò a stendere verso di lei una delle sue manine rosate, e la ficcò nelle morbide ciocche di capegli, che luccicavano sulla fronte della marchesa di Moya, sbucando di sotto al piccolo velo di seta nera, con le trine d’oro, che ella portava accomodato sul capo.
La fantesca o nutrice che fosse, si avanzò per trattenere quella manina irreverente.
– Ahi, querido de mi alma!, – gli disse, – non si fa così.
– Lasciatelo fare! – gridò la marchesa. – Amo i bambini, io. Carino, – soggiunse, – metti qua la tua piccola mano; essa è quella di un angelo. –
Il fanciullo non se lo fece dire due volte; immaginava che gli fosse permessa una gran cosa e approfittava della licenza ottenuta, accarezzando i capegli neri della marchesa di Moya, ed anche un pochino brancicando co’ suoi ditini le trine d’oro del velo.
– Sei la mamma, tu? – le chiese, dopo due baci che la bella signora gli aveva scoccati a tutta forza sulle guance.
– Se lo vuoi, lo sarò; – rispose ella. – Vuoi anche me per mamma?
– Sì, – disse il bambino, – ti voglio, ti voglio. Sei bella. –
Beatrice di Bovadilla baciò ancora il piccolo Fernando; poi, rivolgendosi a don Cristoval, gli disse:
– È strano; somiglia a voi! Per solito, tengono della madre, i maschi. Ma a proposito, – soggiunse, facendo uno sforzo di volontà, – non vedrò io dunque la mamma di questo bambino tanto caro?
– Signora.... – balbettò don Cristoval, chinando la fronte, e non sapendo dir altro.
– Ahimè! – diss’egli. – Su questo punto Beatrice di Bovadilla non potrà volere, come in tutti gli altri.
– Perchè? – domandò la marchesa.
Don Cristoval non rispose parola.
– Dimmi, biondino; – ripigliò la marchesa, volgendosi al fanciullino che teneva ancora in collo. – Perchè non viene la mamma?
– Mamma cattiva; – disse il bambino, facendo greppo con le sue labbra vermiglie; – mamma non viene.
– Non viene! e dov’è? –
La nutrice guardò il padrone, lo vide impacciato, e capì che a lei toccava di rispondere.
– Perdoni vostra Mercede; – diss’ella. – Son io che gli parlo della sua mamma, per fargli capire che non sono io, e per promettergli che la sua mamma verrà. Egli l’aspetta ogni giorno, e perciò ha creduto che fosse vostra Mercede. –
Beatrice di Bovadilla si volse a guardare don Cristoval. Questi era sempre immobile, taciturno, a capo chino, punto disposto ad appagare la curiosità che traspariva dallo sguardo della nobile signora.
– Buona donna, – disse allora la marchesa, rimettendo il bambino alla nutrice, – riprendete questo caro biondino, e portatelo a giuocare laggiù.
La nutrice obbedì. Il piccolo Fernando passò dalle braccia della signora sconosciuta a quelle della nutrice, con la spensieratezza naturale dell’età. E come la nutrice si fu allontanata, la marchesa si accostò a don Cristoval.
– Era indegna di voi, quella donna, che non è rimasta accanto al figliuolo? – diss’ella.
– Indegna? no; – rispose egli brevemente.
– Allora?
– Io forse indegno di lei.
– Voi, don Cristoval Colon, indegno di Beatrice Enriquez? –
Quel nome faceva nodo alla gola della marchesa di Moya. Pure, ella venne a capo di proferirlo.
– Signora, – rispose don Cristoval, con aria rassegnata, – così dev’essere, e non altrimenti. Se la madre di quell’innocente non è qui, bisogna dire che un’alta ragione la tenga lontana.
– C’è una ragione perchè una madre viva lontana dalla sua creatura? – domandò la marchesa. – Parlate.
– Che vi dirò io, signora? Mi pare, infatti, che non ce ne siano.
– Non l’avete già discacciata voi?
– No, – rispose don Cristoval, – non avrei potuto trovare negli atti suoi argomento a far ciò; nè in me il coraggio, se mai. –
La marchesa di Moya rimase un istante silenziosa, guardando il suo compagno, che aveva ancora abbassata la fronte.
– Voi mi spiegherete tutto ciò; – diss’ella finalmente, col suo accento imperioso.
– Poichè non posso farne a meno, – rispose don Cristoval, – dovrò pure raccontarvi ogni cosa. Voi già sapete molte cose di me. Chi vi ha così bene informata? E perchè, poi? Certamente per nuocermi nell’animo vostro, mia nobile protettrice, con la storia di una mia colpa. Infatti, sono stato veramente colpevole; e certo, lo riconosco oggi, il rimorso dei falli nostri non basta a redimerli; è anche necessaria la pena. La mia sarà di raccontarvi tutto, perdendo la vostra stima, che tanto mi è cara, e la vostra protezione, che mi era pur necessaria. Ma sia così, come il cielo ha disposto, per mia confusione. Debbo io incominciar subito?
– Così voglio; – rispose Beatrice di Bovadilla. Raccontate ogni cosa. –
Don Cristoval raccontò. Ma noi non riferiremo le sue parole, ascoltate con tanta attenzione dalla marchesa di Moya. Rifaremo noi, in quella vece, e con parole nostre, il racconto dei fatti, che a lui erano cagione di così vivo rimorso.