Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO VII.   La figlia dell’Hidalgo.

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CAPITOLO VII.

 

La figlia dell’Hidalgo.

 

Era il 20 gennaio del 1486, quando Cristoforo Colombo giungeva da Palos nella nobilissima città di Cordova. Lo aveva mandato il buon padre Juan Perez di Marcena, priore del convento della Rabida, con una sua lettera per il padre Fernando di Talavera, priore del convento del Prado a Valladolid, ma allora innalzato all’alto uffizio di confessore della regina Isabella di Castiglia; uffizio che doveva presto ottenergli il vescovato di Avila, e poco dopo l’arcivescovato di Toledo. Sappiamo già che il padre Juan Perez era stato confessore di donna Isabella, prima del Talavera; e sappiamo ancora che il buon frate, non avendo potuto reggere alla vita rumorosa della Corte, si era umilmente scusato alla regina, ottenendo, in premio del tempo speso presso di lei, non un vescovato, ma il ritorno alla pace del suo monastero. Or dunque, un confessore smesso raccomandava l’amico suo al confessore in carica. Juan Perez era un uomo dotto, ma anche e sopra tutto un uomo semplice; credeva che una sua commendatizia al collega potesse bastare a far del collega un altro protettore per il marinaio genovese, che portava un mondo nel suo cervello, e quel mondo offriva in presente alla corona di Castiglia. Povero priore della Rabida! egli ben conosceva il senso riposto delle sacre Carte, e su per giù, come i tempi suoi permettevano, anche la vita e i miracoli delle generazioni morte. Ma di carte profane, e di chi le faceva per allora nei consigli della corona, e tutt’insieme della vita e miracoli della generazione vivente, diciamolo schietto, ne conosceva pochino.

Anche il marinaio genovese fidava molto nella commendatizia del padre Juan Perez. Non già ch’egli difettasse d’esperienza e facesse molto assegnamento sul buon volere degli uomini. Aveva esperienza del vecchio mondo; ne aveva tanta, che forse per questa si volgeva a ricercarne un nuovo, sicuramente migliore. Ma egli possedeva ancora la virtù e il difetto di tutti gli schiavi ed apostoli di una idea: la fede. E questa ha la vita tenace, come la gramigna dei campi. Strappate la gramigna; essa rinasce dall’ultimo filo di radici che avete dimenticato nel terreno. Buttate il cespo serpeggiante, che avete schiantato poc’anzi, e quel può rimetter le barbe da ogni nodo de’ suoi steli, che abbia toccato una zolla. Non si dolga la bella immortale di questo paragone, in apparenza volgare. La gramigna è anch’essa un’erba del buon Dio; e se il buon Dio ha voluto che ella fosse così tenace a vivere, così pronta a rifarsi dei danni patiti, possiamo giurare che egli n’abbia avute le sue buone ragioni.

La Corte era da poco tempo a Cordova, quando vi giunse Cristoforo Colombo. E da pochi giorni, c’era uno sciame, un nuvolo, un visibilio di gentiluomini, accorsi da ogni parte della Castiglia, di Leone, d’Aragona e di Biscaglia. Non erano cortigiani, per altro; non ne avevano l’aria, gli abiti.

Un po’ di colori sgargianti fu sempre nel gusto dello spagnuolo; e la varietà e la vivacità dei colori bastavano a rendere molto appariscenti tutti quei cavalieri; ma con la varietà e la vivacità dei colori non andavano alla pari la freschezza dei panni e la novità delle fogge. Non erano cortigiani, a farvela breve; non erano damerini di città; erano gentiluomini di borghi e castella, cavalcatori di montagna, cacciatori valenti nel cospetto di Dio e delle Sierras; i quali, ad una chiamata della regina Isabella e del re Ferdinando, accorrevano a Cordova, per tramutarsi in soldati e dare all’esercito castigliano una cavalleria da tener testa alla famosa e terribile cavalleria dei Mori. Era contro i Mori preparata la guerra; riunite appena le due corone di Castiglia e d’Aragona, fu un debito d’onore per il nuovo regno di cacciare dall’ultimo lembo della Spagna i seguaci di Maometto, Arabi, Egiziani e Berberi, che da sette secoli ci avevano posto radici.

Cordova, la nobilissima Patricia dell’epoca imperiale Romana, mollemente adagiata sulla riva destra del Guadalquivir, sull’ultimo pendìo meridionale d’una diramazione della Sierra Morena, Cordova, magnifica per edifizi quando i re Mori vi facevano dimora, e famosa per una università fiorente, a cui avevano dato lustro un Averroè, traduttore e commentatore di Aristotile, e un rabbino Maimonide, non aveva più nel XV secolo i trecentomila abitanti che la facevano superba, non pure tra le città dell’Andalusia, ma tra quante ne annoverava la penisola iberica. Per altro, se era scaduta alquanto dalla sua grandezza moresca, poteva già vantarsi di un nuovo lustro cristiano: quaranta conventi e sedici chiese. Giardini e vigneti, boschi d’olivi, di aranci e di cedri, le facevano verde corona, come nei tempi migliori; le sue mandrie davano sempre i più agili, robusti ed eleganti cavalli di tutta la Spagna. E per allora, a buon conto, le sue vie strette e tortuose erano gremite di popolo, come se i trecentomila d’una volta fossero balzati fuor dalle tombe. Ve l’ho detto: accorrevano tutti i guerrieri di Spagna; Ferdinando e Isabella si preparavano ad entrare in campagna contro i re di Granata.

Tutto quel gaio tumulto che allargava il cuore d’ogni buon Castigliano, empiendolo di orgoglio e di speranza, doveva stringere il cuore del marinaio genovese; il quale non durò fatica ad immaginare che tanti apparecchi di guerra sarebbero stati d’inciampo ai suoi vasti disegni. Come poteva egli sperare che i reali di Castiglia volgessero la mente a viaggi e scoperte lontane, mentre provvedevano a far gente, per condurla in campo a poche miglia discosto? I grandi capitani e imperatori, capaci di mandare alla pari le faccende più disparate, e di pensare alle piccole cose come alle grandi, erano ancora di da venire. Ma egli aveva il suo buon talismano con : la lettera per il priore del Prado. Il confessore della regina di Castiglia era un gran personaggio, e potentissimo sullo spirito di donna Isabella. Quien sabe? dovette dire anch’egli, come il popolo di cui era diventato cittadino. E rinfrancatosi un poco, lo stesso giorno del suo arrivo andò al palazzo reale, per chiedere di don Fernando Talavera.

Sua Paternità lo accolse con la facile bonarietà che era portata dal suo titolo. Seppe che il visitatore gli era mandato da don Juan Perez di Marcena; chiese notizie della salute del buon amico, perfino di quella dei suoi frati, che certamente non s’aspettavano tanta degnazione da parte sua, e aperse finalmente la lettera; la lesse, la rilesse, e incominciò a batter le labbra.

Il raccomandato di Juan Perez, che spiava tutti i gesti, tutti gli atti del viso di don Fernando, incominciò dal canto suo a tremare. E peggio fu quando il padre Talavera, cessando di batter le labbra, le aperse, per dirgli queste brutte parole:

Cattivo momento! cattivo momento, figliuol mio! Questa sarebbe piuttosto roba per il re di Portogallo. –

Il raccomandato di Juan Perez avrebbe potuto rispondergli: “Ci sono stato, dal re di Portogallo, e per quattordici anni non ho avuto che erba trastulla.” Ma quello non sarebbe stato un buon principio, ed egli si astenne dal risponder parola.

– Nondimeno, – proseguì il Talavera, deponendo la lettera sul leggio e incrociando beatamente le mani sul petto, o giù di , – vedremo di contentare il nostro degno amico di Marcena, e parleremo a Sua Altezza. Voi, figliuol mio, ripassate.

– E.... – disse Cristoforo Colombo, – quando pare a Vostra Paternità ch’io possa?...

– Tra qualche giorno.... tra una settimana.... che so io? anche tra due. Capirete anche voi che bisogna trovare il momento opportuno.

Capisco; – rispose l’altro, umiliato. – Ripasserò. Bacio intanto la mano di Vostra Paternità. –

Don Fernando di Talavera concesse la mano, che aspettava ancora l’anello pastorale, trinciò una benedizione e diede commiato al visitatore, che gli aveva portata quella molestia inattesa.

Facciamo grazia ai lettori delle considerazioni che aggiunse il priore degnissimo, poichè essi oramai conoscono il personaggio. E lasciamo ancora che si figurino come egli si adoperasse alla Corte, per corrispondere alla raccomandazione del suo amico ed antecessore Juan Perez di Marcena. Volentieri non avrebbe fatto nulla; sicuramente non avrebbe fatto nulla, se non avesse avuta la noia di dover ricevere ad ogni tanto il raccomandato e di dovergli dire: ripassate domani. Il raccomandato ripassava, timido come un postulante, ma inesorabile come il destino. Chi aspetta una grazia, suol essere insistente; si vorrebbe dir di no all’importuno, e si finisce col dirgli di sì; finalmente, dopo tre o quattro di quei sì, la persona seccata si dispone a far qualche cosa, o per un resto di bontà, o per desiderio di levarsi un gran peso di dosso, dicendo con tranquilla coscienza al supplicante: “ho parlato, che Iddio vi benedica, ho sudato un paio di camicie per voi, e non son venuto a capo di nulla.”

E da uomo coscienzioso, il padre Talavera aveva parlato alla regina Isabella di quel molesto personaggio che il priore della Rabida gli aveva mandato tra’ piedi. Con sua grande maraviglia, la regina lo stette a sentire attentamente; volle vedere la lettera di don Juan Perez; s’intenerì al ricordo del suo vecchio confessore. I galantuomini, tant’è, lasciano traccia dovunque passano; odor di buone opere, direbbero i testi sacri. E il raccomandato del sant’uomo della Rabida divenne sacro per la gentile Isabella. Essa non poteva per il momento far nulla, oppressa com’era da tante cure più urgenti. Ma volle vederlo, sentire dei suoi disegni; e lo ascoltò con molta benevolenza.

Cristoforo Colombo era eloquente, come tutti gli uomini profondamente persuasi di una verità, in cui abbiano posto tutto l’animo loro. Isabella ammirò e si commosse; promise che avrebbe pensato a lui; frattanto gli domandava se contasse di metter dimora a Cordova, e in qual parte della città fosse sceso ad alloggio. Saputolo, gli diede commiato.

– Non vi dimenticherò; – gli disse. – Sarete chiamato, appena le cure della guerra che incomincia mi lascino il tempo di pensare all’impresa che ci proponete. Vedremo allora se questa sia possibile, e in qual modo possa la nostra corona concorrervi. –

L’augusta signora ordinava frattanto che al raccomandato del suo vecchio confessore fosse data una provvigione di denaro, per il suo soggiorno in Cordova, fino a tanto non si potesse dargli udienza formale e trattare con lui del grande disegno che offriva.

Da quel giorno il marinaio genovese non dovette più battere all’uscio di don Fernando Talavera. Bensì dovette recarsi da don Alonzo di Quintanilla, razionale della Corte di Castiglia. I lettori sanno già che cosa fosse il razionale della Corte; un ministro del tesoro e delle finanze, tutt’insieme. Per mano sua, difatti, passavano tutte le entrate; per mano sua tutte le spese del regno.

Un uomo mandato da Sua Altezza non poteva essere trattenuto ai gradi inferiori della gerarchia. Fu avviato a don Alonzo di Quintanilla, e da lui ricevuto. Si dava il caso che il razionale di Castiglia fosse un gentiluomo nell’anima, e non solamente nelle forme esteriori. Alonzo di Quintanilla vide Cristoforo Colombo, lo ascoltò, e gli entrò nel cuore un grande affetto per lui.

Notate che da principio egli non era molto bene disposto in suo favore. Immaginava di avere a fare con un avventuriere, come ce n’erano tanti, che con audacia maravigliosa si presentavano a Corte, ottenendo a forza di chiacchiere la protezione dei sovrani. Ma quello non era il caso del marinaio genovese. Già la raccomandazione di Juan Perez di Marcena parlava in suo favore. In suo favore parlava il suo bel viso aperto e sincero; parlava la semplicità dei modi, e la modestia del discorso, che solamente era posta da banda, ma per lasciar luogo ad una nobile animazione, quando egli parlava del suo grande disegno, e ne esponeva le ragioni scientifiche.

Mancavano alcune formalità perchè subito potesse essere pagato al forestiero l’assegno della munificenza regale. Cristoforo Colombo dovette ritornare un’altra volta dal razionale di Castiglia. E furono altri discorsi tra i due, che finirono di conquistare il buon Alonzo di Quintanilla.

– Non v’incomodate di portare questo gruzzolo con voi; – disse don Alonzo, dopo aver contata la somma. – Sebbene un proverbio dica che il denaro non pesa mai nelle tasche, io penso che sia meglio farvelo mandare a casa da qualcheduno de’ miei ufficiali. Dove abitate?

Prego Vostra Mercede, – disse Cristoforo Colombo, – di non incomodar nessuno per me. Abito in calle de los Infantes. Ma sono così poveramente alloggiato, che mi vergognerei di ricevere l’ultimo dei vostri uscieri.

Diavolo! – esclamò don Alonzo, ridendo. – Non sarà mica una spelonca.

Immaginate qualche cosa di simile; – rispose quell’altro.

Bene! – ripigliò don Alonzo. – Cioè, male assai! Un uomo del vostro merito e del vostro carattere dovrebbessere alloggiato da gentiluomo. Verrò io stesso a vedere; non mi dite di no; voglio essere vostro amico; e l’amicizia ha i suoi diritti, che diamine! –

Una buona accoglienza aiuta a vivere un giorno. Cristoforo Colombo ritornò al suo modesto alloggio assai più lieto del solito. Per verità, ci voleva poco ad esserlo più del solito, poichè egli non lo era mai stato molto poco, dacchè aveva posto piede nella nobilissima città di Cordova e veduto batter le labbra a don Fernando di Talavera. Quel giorno, rientrato nel suo quartierino della calle de los Infantes, che non era una spelonca, ma certamente un modestissimo alloggio, reso un po’ squallido dalla scarsità degli arredi e dalla vetustà non più rinfrescata del nero edifizio, Cristoforo Colombo pensò di non essere neanche uscito dal palazzo reale. Rideva all’unico spiraglio della sua stanzetta il luminoso cortile, quantunque pieno di povera gente e di bambini cenciosi; ridevano le crepe dell’intonaco sulle mura che sorgevano tutt’intorno, bucherellate di finestrini dalle imposte sgangherate e sconnesse; ridevano dai terrazzini le ciarpe esposte al sole, sopra i pensili orticini, cura quotidiana di tante povere fanciulle, alla cui bellezza mal conosciuta facevano gaia cornice i violacciocchi e i garofani, pendenti in larghe rappe da pentole rotte e da maioliche sbreccate.

Per la prima volta, contemplando quella scena di pittoresca confusione e di gaia miseria, il marinaio genovese ne ammirò l’animata varietà. Vide perfino (e non poteva non vederla, così poco era distante da lui) una fanciulla che si era fatta al davanzale, per innaffiare i suoi fiori.

Poverina! – pensò. – Anch’ella ha il suo sorriso di felicità. Iddio è stato misericordioso alla sua creatura, concedendole il conforto di un’aiuola fiorita. –

E guardava, così pensando, guardava la fanciulla, che poco distante da lui seguitava a innaffiare i suoi garofani, e pareva non avvedersi di essere osservata. Era una fanciulla, di sicuro, quantunque non apparisse di tenera età. Non portava monile al collo, pendenti agli orecchi; non le luccicava al dito l’anello del matrimonio. Ed era bellissima d’aspetto; doveva esserlo di tutta la persona, che per allora rimaneva nascosta dalla fila dei vasi fioriti. Ma questi, almeno, non la nascondevano tutta. Come mai tanta bellezza rimaneva celata, ignorata, in una vecchia casa di Cordova? Ah, triste cosa, la povertà, che riesce perfino ad offuscare il raggio della bellezza! In mezzo a quei fiori, bella e fragrante com’essi, la vezzosa creatura sfioriva.

Questi erano pensieri naturalissimi in lui, e in quell’ora fiorivano spontanei nell’animo suo generoso, fecondato da un raggio di allegrezza e reso inchinevole a bontà per tutte le cose circostanti, che solo allora incominciava a vedere. altro pensò, nel breve spazio di tempo che rimase guardando dal suo finestrino; più, per quel giorno, i suoi occhi si trattennero su quella figura di donna. Anch’essa vide il forestiero, e forse non era la prima volta che egli le appariva dinanzi. Quante altre, così vicina com’era, non doveva averlo osservato, curvo e pensoso su certe sue pergamene, tutte segnate di linee a guisa di raggi, e sopra una sfera continuamente posata sulla tavola, nel vano della finestra!

Lo vide, adunque, ma non si fermò troppo a guardarlo. Doveva essere una savia fanciulla, piuttosto grave, magari un tantino orgogliosa; ma l’orgoglio in questi casi non guasta. Un’orgogliosa che sta in contegno val meglio di certe farfalline lusinghiere, che occhieggiano mezzo mondo, e ammiccano e sorridono a quanti le guardano. Fors’anche era una furbacchiona, di quelle che sanno l’arte, e vi osservano senza averne l’aria, con la coda dell’occhio. O forse quello che aveva veduto, involgendolo in una di quelle brevi occhiate indagatrici che sanno dare le donne, non era un personaggio che le importasse di guardare due volte. Troppo modesto, infatti, troppo studioso, troppo occupato; cose che dispiacciono alle donne in genere, e alle belle ragazze in numero e caso.

Pochi giorni dopo la visita di Cristotoro Colombo al Quintanilla, questi si recava a fargli visita nella sua famosa spelonca. Per rintracciarlo in quella infinità di quartierini, di usci e di scale, don Alonzo fu costretto a pigliar lingua da tutte le donne del cortile. Veniva accompagnato da due famigli; era dunque un pezzo grosso. Quando egli ebbe ritrovato l’uscio dell’amico, si fecero cantare i famigli; e si riseppe tosto chi fosse. Il razionale di Castiglia, niente di meno! Mezz’ora dopo, tutto il vicinato conosceva la grande notizia. Don Alonzo di Quintanilla, quello che maneggiava le entrate del reame, si era degnato di venire da quel solitario del terzo piano, che tutti avevano veduto, dentro, quando passava per andare o tornare, ma di cui nessuno aveva sentito curiosità di conoscere nulla, oltre il nome oscuro ed ignoto. Vedete che cantonate si pigliano, qualche volta! Si figuravano tutti che abitasse lassù un povero diavolo, ed era invece un uomo di vaglia, amico del razionale di Castiglia, un personaggio ricevuto alla Corte. Ah, non invano dice il proverbio che le apparenze ingannano!

La maraviglia del cortile crebbe due tanti, appena si vide don Alonzo scendere le scale ed uscire dal portone, accompagnato da quell’oscuro personaggio, sotto il cui braccio aveva ficcato amichevolmente il suo. Erano dunque pane e cacio, quei due! Chi l’avrebbe mai immaginato mezz’ora prima? E che idea era quella del personaggio oscuro, di andare ad abitare in una così misera casa? Certamente, era una casa antica; tanti anni prima era stata dimora di grandi. Ma erano storie di vent’anni addietro; oramai era un albergo di poveraglia, di quella che paga la pigione quando può e quando le pare.

Anche il razionale di Castiglia riconobbe che l’amico suo non era degnamente alloggiato. Ma egli pensò che l’abito non fa il monaco, e che una misera casa può valere quanto un palazzo, e magari più di un palazzo, quando uno ci ritrovi dentro la pace. Don Alonzo di Quintanilla in punto di vanità umane era un mezzo filosofo; cosa non istrana a trovarsi in mezzo a coloro che con le vanità hanno avuto occasione di vivere più spesso che con altre umane miserie. Per solito, poi, si fa un mestiere e se ne ama un altro, o nessuno. Don Alonzo era obbligato a passare i due terzi della giornata fra i numeri; il resto del suo tempo gli piaceva di consacrarlo allo studio. Perciò doveva andargli a’ versi quell’uomo dotto, che aveva una qualità tanto rara fra i dotti: il fervore, la passione, l’entusiasmo per ciò che era argomento de’ suoi studi. Ascoltando lui, viaggiatore e cosmografo, pareva di viaggiare, di correre i mari, di prender terra a lidi maravigliosi. Egli godeva adunque della compagnia di quel dotto, sognatore di un mondo sconosciuto; e quando la sua giornata di lavoro era finita a palazzo, si avviava soletto alla calle de los Infantes, per andare in cerca dell’amico e condurlo a passeggio nei luoghi più solitarii, dove si potesse discorrere tranquillamente, della forma del globo, dei venti e delle maree, delle isole e dei continenti, degli usi e dei costumi di tanti popoli lontanissimi, che viaggiatori fortunati avevano intravveduti da una parte, quasi da un lembo della loro gran patria, e che egli, Cristoforo Colombo, voleva andare a vedere, a riconoscere, a far cristiani e civili dall’altro. Così avvenne che il povero marinaio genovese, infiammato del suo grande disegno, diventasse la provvidenza di don Alonzo di Quintanilla, a cui rallegrava i brevi ozi con la calda parola; e così avvenne che il gran razionale di Castiglia diventasse un gran guaio per Cristoforo Colombo, che fu gabellato per un pezzo grosso anche lui da tutta la poveraglia del quartiere. Molti gli domandavano l’elemosina; qualcuno più vergognoso gli domandava un ufficio a Corte; tutti poi gli davano un titolo che dalla Corte egli non aveva ancora ricevuto.

Anche la bella vicina incominciò a guardarlo più attentamente e più a lungo, essendo più spesso al suo davanzale. Volgendo gli occhi verso la finestra di lei, che egli vedeva di sbieco, poichè il quartierino della fanciulla faceva angolo nel cortile col suo, il marinaio genovese notò che la bella vicina aveva gli occhi fissi su lui; che le doleva di essere stata colta sull’atto, e che perciò, mentre torceva prontamente il viso, si faceva rossa come le fragole. Ma questa vergogna non durò molto in lei. Poco dopo, ella si volgeva ancora a guardare; e quella volta non arrossiva più, osservava con occhio fermo e curioso, che non si vergognava della sua curiosità, che voleva anzi ostentarla. Anche di queste guardate usano talvolta le donne; e quelle che ne usano più spesso sono le più alte nella famosa gerarchia sociale. Il marinaio genovese conosceva già abbastanza la penisola iberica; e poteva pensare che una Mendoza, una Medina Sidonia, una Casafuerte, una Villavicosa, una Bovadilla, od altra delle primarie dame di Spagna, volendolo veder bene in volto, non lo avrebbe guardato altrimenti. Erano occhiate tranquille, nella loro curiosità, quasi severe, come di bambina attonita, che ha veduto un grand’uomo, o una bestia rara, e vuol considerarne tutte le parti, per ricordarsi di tutte; occhiate che scrutavano, occhiate che penetravano, occhiate che erano capaci, venendo da così bella persona, di levare i pezzi a dirittura. Ma egli non fece caso di tutta quella artiglieria. La donna che lo osservava in quel modo, era la fanciulla dei fiori; una conoscenza, oramai, quasi una persona amica. L’avrebbe perfino salutata, se, timido ed orgoglioso com’era, non fosse stato persuaso che nessuna ragione o pretesto all’uomo il diritto di salutare una donna sconosciuta, fuorchè in un giro di scale, o in una strada deserta.

Ora, quel ch’egli non ardiva di fare per la bella vicina, fece un’altra volta la bella vicina per lui: lo salutò graziosamente; ed egli rese con altrettanta grazia il saluto. Per due o tre giorni fu sempre così; un inchino, un sorriso, e ognuno badava alle cose sue. Ma il primo passo, l’essenziale, il difficile, era fatto. Al quarto giorno la bella vicina, dopo il saluto, arrossendo un pochino, gli disse:

Messere, ho una grazia da chiedervi.

– Sono alla vostra obbedienza, signora; – rispose egli, turbato da quella novità.

Desidero parlarvi; – rispose la fanciulla. – Potete farci la cortesia di venire da noi per pochi momenti?

– Subito, e per tutto il tempo che vi piacerà. –

Così aveva detto egli di rimando, e tosto si era ritirato dalla finestra, per scendere nel cortile. Ma pensava, scendendo le scale, alla stranezza dell’avventura. In che mai poteva aver bisogno di lui quella ragazza sconosciuta? Povera appariva agli abiti, ma povera con dignità; non era da credere che per e per la sua famiglia volesse domandargli soccorso; egli aveva l’aria di uomo facoltoso, da render servizio di denaro alle famiglie scadute e alle fanciulle senza dote. No, di tali richieste non era certamente a sospettare. Ma che altro poteva volere la sconosciuta da lui? Il marinaio genovese lo domandava a stesso; e, come sempre avviene quando si domanda qualche cosa a questo ignorantissimo interlocutore che è dentro di noi, non sapeva darsi risposta.

Egli pensava ancora, domandava ancora a stesso il perchè, quando, fatti alla svelta i quattro rami di scale che mettevano al quartierino della sconosciuta vicina, vide la fanciulla che si era avanzata sul pianerottolo, per aspettarlo, ed insegnargli, come si suol dire, la strada.

Era bellissima. La graziosa persona splendeva, raggiava nella mezza oscurità di quel pozzo di scale, facendo dimenticare ogni cosa, l’umidiccio viscoso degli scalini, il verdastro dei muri circostanti, e perfino quell’odore di lezzo che è proprio di tante povere case. Con quella bellezza lassù, ad aspettare il nuovo venuto, si poteva credere di salir le scale di una reggia, anzi meglio, le scale del paradiso. Vi ho detto che la sconosciuta aveva i capegli biondi? Se ve l’ho detto, correggerò, compirò la pittura, soggiungendo che erano d’un colore più biondo del solito. D’un biondo acceso, dunque? No, d’un biondo particolare, che ha un po’ dell’oro e un po’ del fuoco vivo; di quel biondo per cui la lingua spagnuola deve avere foggiato un suo particolare vocabolo, il rubio. Naturalmente quel rubio incorniciava, incastonava una figura delicatissima, dalla carnagione bianca, dai lineamenti fini, che davano un profilo eloquente, e, se vogliamo, anche un tantino superbo. Aiutava a quella espressione di alterezza il naso aquilino, sporgente, ma sottile, che è carattere singolare delle schiatte dominatrici. Ricordando l’arte greca, e il suo modo di esprimere la bellezza, un classicista troverà qualche cosa a ridire in un naso che non scenda diritto, perpendicolare, dalla stessa linea della fronte. Ma con sua buona pace, e dell’arte greca, quella linea che cala diritta dal sommo della fronte alla punta del naso, sarà forse indizio di bontà, non mai d’intelligenza. Ora, la bontà, senza l’intelligenza, è una bontà piuttosto sciocca, ne convenite? Per contro, io concederò che l’intelligenza possa andare senza la bontà; nel qual caso è una intelligenza antipatica. Ma a questo io non ci posso far nulla. Se avessi dovuto crear io la donna....

Dov’eravamo rimasti? Sopra un pianerottolo, mi pare. Entriamo in casa; sarà meglio. Seguitando la sconosciuta, il marinaio genovese era entrato nell’anticamera; un’anticamera che serviva anche come sala di ricevimento. Vi ho detto che quella era una casa di poveri. Ma c’erano delle vecchie masserizie che la pretendevano a nobiltà, indicando uguali pretese nei loro padroni. Pendevano dalle cornici della vôlta dei limbelli di cordovano, dalle dorature sbiadite, dalla superficie gualcita, che ricordavano ancora la vecchia arte moresca. Uno specchio dalla cornice d’ebano, intagliata, e intarsiata d’avorio, metteva in bella evidenza una lastra sfiorita, che doveva essere una luce di Venezia. Certi quadri che pendevano dalle pareti, e in cui si potevano con uno sforzo di volontà indovinare delle madonne e dei santi, indicavano in certe sfaldature dell’intonaco le vecchie pratiche dell’arte bisantina. Ma non ci fermiamo a queste carabattole. La bella fanciulla che ci ha già fatto dimenticare tante cose nel pozzo delle scale, dovrebbe farcene dimenticare tante altre nell’interno della sua povera casa. Questa aveva delle pretensioni che non erano punto giustificate dalla vetustà e dal pessimo stato degli arredi; quella poteva averne di maggiori, pienamente giustificate dalla sua bellezza e dalla sua gioventù.

Mi avvedo che, nella fretta del penetrare in casa, non vi ho detto nulla di un bellissimo ovale che era offerto dal viso della fanciulla, di due labbra vermiglie, forse fin troppo vermiglie, e di due orecchi dai contorni finissimi. Ma queste son cose minori che vanno lasciate alla immaginazione del lettore, insieme con la snellezza della persona alta e diritta, con la mano lunga, le dita affusolate, ed altri particolari di ogni descrizione. Una cosa si poteva notare, perchè saltava agli occhi, vedendo la sconosciuta. La sua bellezza non rispondeva punto all’idea che siamo avvezzi a formarci del sangue iberico; richiamava piuttosto al pensiero la schiatta gotica, venuta assai prima dell’araba a far ceppo in Ispagna.

Se il marinaio genovese avesse potuto pensare dell’altro, mentre era costretto in quella vece a parlare, egli si sarebbe chiesto ancora una volta come mai tanta bellezza fosse potuta rimanere ignorata in quella misera casa. Ma che dirvi di ciò? Iddio, dando all’uomo la ragione, gli ha levato l’istinto. E l’uomo si guida male, nel laberinto della vita, col solo sussidio della ragione. Se insieme con la ragione avesse anche l’istinto, sarebbe senza dubbio un animale perfetto.

Perdonate, messere; – diss’ella; – questa casa è ben povera, per ricevere la vostra visita. –

Ma questo ella disse con accento regale, come se volesse far capire al suo visitatore: io non c’entro per nulla; qui, come in ogni altra parte di questo basso mondo, io non fo che passare.

– Che dite? – rispose egli, obbligato a farle onore. – Voi ci siete, e basterebbe ciò ad onorare, non che una casa modesta, un tugurio. Come si chiama vostra Mercede?

Beatrice.

– Un bel nome! E non è comune. Laggiù, nella terra donde io vengo, è stato il nome di una bella fiorentina, che meritò l’amore di un grande poeta.

– Un grande poeta? Il suo nome?...

Dante Alighieri; colui che fu condotto dal suo alto ingegno nelle profondità dell’inferno a vedere gli spasimi dei dannati, e di , per l’erta del purgatorio, dove le anime aspettano, fino ai gaudii celesti, tra cui gli apparve finalmente la sua divina Beatrice. –

La fanciulla era stata silenziosa in ascolto, fissando i suoi occhi attoniti in quelli del forestiero.

– Siete poeta, voi? – gli domandò, com’egli ebbe finita la frase. – Vi vedo sempre in atto di scrivere, o di meditare su certe pergamene!

– No, non sono poeta; – rispose egli, sorridendo. – Le pergamene, su cui mi vedete meditare, son carte da navigatori. Io studio cosmografia, e cerco le vie dei mari non ancora tentati. Dante ha veduti i regni della morte; io vorrei vedere tutti quelli che ancora ci tien nascosti la vita.

– Che ne sapete voi? Li indovinate, m’immagino, ve li raffigurate con gli occhi della fantasia.

– Un po’ così, lo confesso; ma ancora con l’aiuto del raziocinio.

– Oh, narrate, narrate; – diss’ella. – Intanto, se permettete, io ripiglio, il mio lavoro. Non è veramente un ricamo, di cui si possa far mostra ad un ospite. Io rattoppo dei cenci. Sono l’unica donna di casa; debbo pensare al babbo, e ad un fratello, poichè la nostra buona madre è andata ad aspettarci in un mondo migliore. –

E parlava tranquillamente, senza gaiezza, ma anche senza mestizia, con quel suo accento, con quella sua aria regale. Il marinaio genovese pensò che davvero ella avesse dalla natura il dono di nobilitare tutto quel che faceva.

Pensò questa, ed altre cose ancora. Pensò, per esempio, che era molto strana la sua condizione in quel luogo, davanti a quella fanciulla, di cui conosceva a mala pena il nome di battesimo, e che già, mettendosi a cucire, gli additava una sedia e lo invitava a raccontarle la sua vita, i suoi disegni per il futuro, insomma tutto stesso. O perchè lo aveva ella chiamato? Per chiedergli una grazia, diceva; modo cerimonioso di parlare, per giungere ad un semplice servizio. Le grazie, infatti, le dispensano i sovrani; i servizi non li fanno che gli amici, o quelli che sono e vogliono esser tenuti per tali. E la sconosciuta, frattanto, dimenticava di chiedergli il servizio a cui aveva accennato; gli diceva in quella vece: raccontate, io sono qua ad ascoltarvi.

L’invito, per altro, venendo da così belle labbra, era tale da dover essere accettato, senza farsi pregare, senza neanche pensarci su. E difatti, badate, il pensar ch’egli fece fu breve, quasi istantaneo. Il marinaio genovese ebbe l’idea, ma non ci si trattenne; e subito, ma solamente per debito di cortesia, scambio di raccontare la sua vita, domandò alla sconosciuta:

Signora, voi mi avete chiamato poc’anzi per chiedermi dell’altro. Voi avete detto grazia, ed io ho capito servizio. Vogliate dirmi anzi tutto in che cosa può esservi utile la mia servitù. –

– Ah sì! – rispose ella sorridendo, ma con aria di cascar dalle nuvole. – Avremo tempo, per ciò. È mio padre che vuol domandarvi una grazia.... Perchè è proprio una grazia; – soggiunse; – e potrà costarvi qualche ora di noia. Permettete che, per la prima volta ch’io vi parlo, non v’intrattenga di cose moleste; questioni legali, raccomandazioni da fare, parole da spendere, e che so io! Egli ve ne discorrerà a lungo; avrete la bontà di starlo a sentire, il povero vecchio! Si tratta di certi diritti che vanta la nostra famiglia, per terre possedute dai nostri maggiori nella Vega di Granata, ad essi confiscate dai Mori, ed oggi passate nel dominio della Corona di Castiglia. Erano terre di Castigliani; debbono ritornare ai legittimi possessori, dice mio padre. Ma scusate, non debbo parlarvi di queste cose, che intendo poco e sulle quali non fondo, per me nessuna speranza. Mio padre vi dirà meglio; voi sentirete, e se vi parrà, da buon vicino, di dire una buona parola per lui, ve ne sarò grata io, come di servizio reso a me, particolarmente a me. –

– Sarò lieto se potrò essergli utile; – rispose il buon vicino. – Ne sarò doppiamente lieto, se con ciò.... Ma come ha egli potuto pensare a me, uomo sconosciuto e dappoco?...

Sconosciuto, sì, fino a pochi giorni fa; – disse di rimando la fanciulla., – Dappoco, no davvero. Egli sa chi siete, che cosa vi ha condotto a Cordova, e non è un segreto per nessuno che siete ricevuto a Corte. Vedete? Io vi dico sinceramente ogni cosa; dovesse pur guastare nell’animo vostro la stima in cui vorremmo esser tenuti da voi. Ma io, veramente, in questi particolari non c’entro. Mio padre vi ha veduto in intima relazione d’amicizia con un personaggio d’alto affare.... con don Alonzo di Quintanilla, il gran razionale di Castiglia; e capirete.... quando uno ha bisogno di trovar protezione.... sia pure, o si creda nel suo pieno diritto....

Capisco; – interruppe cortesemente il Genovese; – non occorre che mi diciate altro, signora. Io, per verità, non sono l’amico di don Alonzo di Quintanilla; sono soltanto il suo buon servitore, che egli onora del suo patrocinio. Ma anche ad un protettore si può parlare, per far servizio ad altri. Siamo a questo mondo per aiutarci tutti a vicenda. E ditemi, signora, vostro padre si chiama....

Inigo Enriquez de Arana; – rispose la fanciulla, con dignità. – Son figlia d’hidalgo. –

Hidalgo, capite? E la bionda Beatrice diede a quel vocabolo la pienezza di suono con cui gli Spagnuoli proferiscono un altro vocabolo: hombre. Uomo è ben poco, da noi; ed era anche meno presso i nostri padri, i Romani, che si empirono invece la bocca del vir e del civis. Non accenno la cosa per dar torto ai Romani, intendiamoci; voglio soltanto stabilire la differenza tra l’homo latino e l’hombre spagnuolo. Ma se hombre è già molto per la terra Iberica, dove la pianta uomo ha dato meravigliosi esemplari, hidalgo è il sommo della gerarchia antropologica. Hidalgo! come a dire hijo de algo, figlio di qualcheduno; mentre tutti gli altri, i plebei, possono valere per stessi fin che vogliono, ma sono e saranno sempre figli di nessuno.

Il marinaio s’inchinò, a quella frase della sua bella vicina. Era il meno che potesse fare, per una figlia d’hidalgo.

– I mutamenti di fortuna, – diss’egli, dopo fatto l’inchino, – non sono imputabili a noi. L’essenziale, ciò che dimostra il buon sangue, è di resistere degnamente ai colpi della sorte, alle ingiustizie del caso.

– Ben dite; – ripigliò la fanciulla. – Siete nobile voi?

– Son figlio di repubblica; – rispose il Genovese. – Si lavora tutti, a casa mia; si ha tutti un’arte, si è tutti naviganti, secondo il bisogno, e guerrieri. Chi s’innalza con le sue forze ad un certo grado di fortuna, ed ha ingegno e studi per mostrarsene degno, può entrare nei consigli della signoria, può diventare anche Doge. Così siamo nobili noi. Perciò, del mio nome, che è antico in Liguria, sono molti gli artieri, tutti onorati; i marinai non mancano, i còmiti di galere; qualcheduno è diventato ammiraglio.

Auguro a voi di giungere ai primi onori; – disse la fanciulla, che era stata ad ascoltarlo con aria di grande benevolenza. – Quanto a noi, la fortuna ci ha da qualche anno traditi. Mio padre confida ancora di rimettere la casa nel suo pristino stato. Povero vecchio! Bisogna lasciargli questa illusione, che lo aiuta a vivere, a sopportare animosamente la sua sventura.

– Voi dunque, donna Beatrice, non credete che egli possa venirne a capo?

– Che volete? – diss’ella, traendo un sospiro. – Ho la mia superbia ancor io; non mi piace sperare, col risico di sperare invano. Ascolto mio padre; non mi l’animo di contrariarlo. Ora egli mette le sue speranze nel patrocinio del gran razionale di Castiglia. Spero, e questa volta volentieri, perchè non ispero invano, – soggiunse, col più amabile dei suoi sorrisi, – che voi, cortese vicino, vi adoprerete per lui. altro di ciò: se n’è parlato abbastanza. Rammentate quel che s’è detto in principio; dovete raccontarmi di voi. Parlate; sarò tanto felice di udirvi. –

 



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