Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO VIII.   Amori e Sogni.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

CAPITOLO VIII.

 

Amori e Sogni.

 

Il marinaio genovese, obbedendo al desiderio di donna Beatrice Enriquez, incominciò a raccontare. Era la prima volta, dal suo arrivo in Ispagna, che si mostrava tanta curiosità dei fatti suoi, e tanta attenzione benevola nell’udirne il racconto. Al buon priore della Rabida poche parole erano bastate intorno ai casi passati; quanto ai disegni del futuro, aveva ascoltato, sì, e con grande interesse, ma ragionandoci su, e facendo molte obiezioni. Quella donna, invece, non aveva obiezioni da fare; ascoltava, pendeva dalle labbra del vicino, come Didone dalle labbra di Enea. Al pari dell’eroe troiano, il marinaio genovese aveva molto sofferto; ed era bello al pari di lui, quantunque non fosse nato da Venere. Ma si può credere, per questo rispetto, che la signora Susanna Fontanarossa, anche lei, fosse una bella donnina, da non far sfigurare entro le mura di Genova il bel sangue della collina di Quezzi.

Durava il racconto da un’ora, inframmezzato dalle osservazioni della bionda Beatrice; e il marinaio genovese non era anche alla metà della sua odissea, quando si udì un passo lento e cadenzato su per le scale.

– Mio padre; – diss’ella. – Come sarà felice di trovarvi qui! –

E si alzò, per andare ad aprir l’uscio. Pochi istanti dopo, ansimando e tossendo, il padre di donna Beatrice entrava nell’anticamera, o nella sala di ricevimento, come vi piacerà di chiamarla.

Don Inigo Enriquez de Arana era un vecchio magro e piccino. Forse in gioventù era stato aitante della persona; ma oramai andava curvo, con la testa mezzo nascosta fra le spalle, non riuscendo a dar la misura giusta di un hombre, ad offrire l’aspetto di un hidalgo. I lineamenti del volto non erano stati brutti, nel buon tempo antico; ma la loro nobiltà bisognava indovinarla, sotto il giallo d’una pelle incartapecorita, e mezzo nascosta da una barbetta brizzolata ed ispida, mal tagliata a fil di guancia dalle forbici di casa. Gli occhi aveva piccoli, ma ancor pieni di fuoco; il naso lungo e reso più prominente da una ditata di rosso; probabilmente la ditata di Bacco.

A vederlo così per istrada, e in una giornata di lunedì, senza conoscerne i natali, si sarebbe creduto di vedere un , che religiosamente celebrasse la seconda festa della sua settimana. Nondimeno, era il padre di quella bella creatura, ed era il padrone di casa; Cristoforo Colombo si alzò, facendo un inchino.

Gli occhi di don Inigo brillarono quando egli seppe che quello era il vicino di casa, l’amico intimo di don Alonzo di Quintanilla. Lo pregò di ripigliare il suo posto, gli strinse ripetutamente la mano, lo ringraziò della sua venuta; ma in mezzo a tutti quei convenevoli si vedeva l’impazienza di entrare in argomento. Non potendo più stare alle mosse, don Inigo si volse alla figliuola, e le chiese:

– Hai già accennato a questo cavaliere il grande servizio di cui volevo pregarlo?

– Sì, gliene ho detto qualche cosa; – rispose Beatrice. – Ma forse, il ragionarne, subito, subito.... Ci sarà tempo, mi pare.

– No, no, vi prego, donna Beatrice; – interruppe il cortese vicino. – Quando si può fare una cosa utile agli amici, non bisogna mai rimandarla al domani. Un proverbio della mia patria dice: Chi ha tempo non aspetti tempo.

– Ed è un proverbio santissimo; – entrò a dire don Inigo. – Tanto più che io son vecchio, ragazzi, e non ne avrò mica troppo per aspettare. Con tua buona pace, mia cara figliuola, noi parleremo di ciò che tanto mi preme. Ecco dunque---- –

E preso in questa forma l’aire, don Inigo Enriquez de Arana incominciò la sua filastrocca, attentamente ascoltato dal cortese vicino. Mostrò invece di non dargli orecchio la sua bella figliuola, che fin dalle prime parole si era alzata, per andare in una camera attigua. Ella ritornò ancora, qualche momento dopo; e fatta una breve fermata al suo deschetto, un’altra volta si mosse, come una brava massaia che attende senza perder tempo a tutte le faccende della casa. Andava e veniva silenziosa e leggera, mostrandosi ogni volta al visitatore in tutta la bellezza della sua svelta persona, in tutta la grazia delle sue giovanili movenze. C’era forse un pochettino di civetteria, in quel suo apparire e sparire, in quel suo atteggiarsi continuo davanti al forestiero. Ma qual è, santi Numi, la donna che, sapendosi bella e fatta a quel dio, non ama mostrarsi un po’ di profilo, o in tre quarti o di fronte, all’ammirazione delle genti? La casa era povera, vi ho detto; la giovane Beatrice era l’unica ricchezza di quella casa, e sicuramente valeva tutte le magnificenze d’un palazzo, tutti gli splendori di una corte regale. Dobbiamo noi biasimarla, se ella cercava di far risplendere la sua casa, e di farne dimenticare la troppo modesta apparenza? Comandiamo piuttosto alle lucciole di non rischiarare coi loro palpiti luminosi i cupi meandri d’un bosco, in una notte di giugno. Non si può? E bene sia; lasciamo anche atteggiarsi, lasciamo anche risplendere le grazie di Beatrice Enriquez; non dimenticando neppure che ella portava un sorriso di bellezza, una fragranza di gioventù, in quella conversazione di diritti, di confische, di rivendicazioni, e d’altre miserie giuridiche.

Il vecchio si era amaramente doluto della sua sorte, che lo costringeva a vivere in un tugurio, lui, don Inigo Enriquez de Arana, discendente di tanti gentiluomini. Ma egli non aveva colpa nella decadenza della sua stirpe; la colpa era tutta della violenza moresca, che aveva tolto alla casa Enriquez il meglio delle sue entrate. Gli si poteva rispondere che quelle entrate egli, personalmente, non le aveva avute mai, essendo già state perdute dai suoi antenati. Ma queste cose non si dicono sul viso alle persone che si lagnano, e il cortese vicino si guardò bene dal metter fuori le sue osservazioni. Del resto, il nobile Inigo non aveva tutti i torti, se non era venuto a capo di restaurare le fortune della sua casa. Da giovane aveva fatto il soldato; povero mestiere, quando la sorte non assiste, facendovi salire ai primi gradi, e mettendovi sotto le mani una ricca provincia. Ma forse, dal mestiere delle armi, e dalla poca fortuna che ci aveva avuta, gli era derivato il costume di alzare il gomito, per modo di consolazione; e quella ditata di rosso sulla punta del naso veniva forse di .

– Voi siete un grande amico del Quintanilla; – diss’egli, dopo aver narrata e commentata la propria odissèa. – Vogliate dirgli, vi prego, che un hidalgo de la Castilla vieja ha bisogno del suo patrocinio. Chi sa? Forse egli vorrà ricordarsi che una Quintanilla è entrata un secolo fa negli Enriquez, e che la parentela, sia pure lontana, porta qualche obbligo per lui. Ma già, – soggiunse il vecchio, sospirando, – altri tempi! Acqua passata non macina.

Don Alonzo è buono; – rispose il vicino. – Egli, in una questione come questa, potrà forse far poco. Ma quello che sarà in poter suo, ve lo affermo, egli lo farà di buon grado.

– E voglio crederlo; – rispose il vecchio hidalgo. – Debbo crederlo per voi, che così bene lo conoscete. Ora la nostra sorte è nelle vostre mani.

Veramente... – balbettò il vicino, schermendosi. – Essa è in mani molto più alte e più potenti delle mie. Ma se io potrò essere un istrumento della eterna giustizia, non mi dorrò certamente che essa lo abbia scelto in così umile stato. Ho promesso di servirvi, don Inigo; manterrò la mia promessa, occupandomi dei fatti vostri, come e più ch’io non mi sia mai occupato dei miei. Va bene così? –

Un sorriso di donna Beatrice fu la prima risposta.

– La mia cara figliuola me lo aveva pur detto; – rispose a sua volta il vecchio hidalgo; – rivolgiti a quel nostro vicino; è amico del razionale di Castiglia; è ricevuto a Corte; ed ha un’aria tanto gentile! –

Qui la figliuola dell’hidalgo reputò necessario di arrossire un pochino. Il rosso le tornava a viso; e poi bisogna anche dire che si arrossisce facilmente quando si è donne, e qualcuno riferisce, davanti ad un bel cavaliere, quel che si è detto a sua lode.

Fatti pochi altri discorsi, il cortese vicino si accomiatò dagli Enriquez, promettendo di ritornare, appena avesse la risposta dall’amico Quintanilla. Ma sul pianerottolo, la bionda Beatrice colse il destro di dirgli:

– E se non aveste modo di parlar subito al Quintanilla? Voi dovete trovare il momento opportuno, per ragionare con lui di una faccenda così grave. Ma ogni momento è buono per farvi rivedere quassù, se l’esserci venuto una volta... non vi è parso già troppo.

– Che dite mai, donna Beatrice? – esclamò il cortese vicino.

– Ebbene, – diss’ella, – se io m’inganno, vedremo alla prova. –

Così parlando, a mezza voce, perchè in verità non c’era bisogno di gridare, la bella figlia dell’hidalgo si pose un dito sulle labbra vermiglie, come se volesse dirgli: non vosentire più altro.

Il cortese vicino salutò, e discese le scale; ma non così prontamente, che non avesse anche tempo a fermarsi sul pianerottolo inferiore, per mandare un altro saluto alla vicina bella, che stava alla ringhiera, guardandolo, e facendogli un grazioso cenno d’addio.

Il giorno seguente, Cristoforo Colombo perorò la causa di don Inigo Enriquez presso l’amico Quintanilla. Ci spese, come potete immaginarvi, tutto l’ardore che aveva promesso. Il razionale di Castiglia lo stette a sentire, sorridendo di tanto in tanto, e tentennando la testa, poi disse:

Caro mio! se darete retta a tutti questi sollecitatori e postulanti, ne avrete il cervello intronato e non saprete più a che ora sia il mezzodì.

– Una non fa uso, – rispose quell’altro. – E se il povero don Inigo ha ragione....

– Ha ragione! ha ragione! lo dite voi, caro amico. Ma bisogna sentirle tutte, prima di dare un giudizio. Non dico già che non l’abbia, la sua parte di ragione; – soggiunse il buon Quintanilla, rispondendo istintivamente ad un piccolo rimprovero della sua retta coscienza. – Ma sono in molti, sono in troppi, ad averne una parte. Vediamo prima di tutto come stanno le cose. I re Mori, di Granata e di Valenza, ci costano già un occhio del capo, con questa guerra che abbiamo intrapresa contro di loro. Ma ci vogliono costare anche l’altro, se finiranno di perderla. Infatti, ecco qua. Vivevano insieme, qui, sotto il dominio dei Califfi, in parte ci vivono ancora, maomettani, cristiani ed ebrei. Avevano ed hanno ancora un governo regolare, antico di settecento anni, o giù di , sotto il quale hanno provveduto ai casi loro, e sofferto e prosperato, come si soffre e si prospera in tutti i reami del mondo, sotto qualsiasi legge, sotto qualsiasi religione. Ora io domando: i cristiani, e gli ebrei, nemici tutti ad un modo della religione maomettana, perchè ci sono durati, secoli e secoli, sotto il dominio della gente infedele? Se ci sono durati, è segno che questo dominio lo hanno riconosciuto; è segno che questo dominio non era quello del diavolo, materialmente parlando; tanto vero, che hanno potuto trafficare, possedere, comperare e vendere a Granata, come avrebbero potuto vendere, comperare, possedere e trafficare a Burgos, a Valladolid, a Saragozza, all’ombra della croce santissima. Ne convenite?

– Ne convengo. Proseguite.

– Essi, adunque, hanno riconosciuto il dominio moresco e ne hanno approfittato, fondando sulla stabilità di quello le loro stesse fortune. Durante quel dominio, è accaduto a taluni di esser taglieggiati, confiscati, o in qualsiasi altro modo danneggiati; sempre per ragioni interne, nelle quali non aveva niente a vedere la corona di Castiglia. Essi non protestarono allora...

– Non lo potevano; – interruppe Cristoforo Colombo.

– Lo capisco ancor io, non lo potevano; – rispose il Quintanilla. – E vi aggiungo che avrebbero continuato a non poterlo, se il dominio moresco fosse durato su tutto il territorio della conquista. I reali di Castiglia si risolvono di muover guerra ai Mori; non già per occuparsi delle piccole questioni dei privati, ma per restituire alla Spagna, alla fede di Cristo, alla gloria della Chiesa, le terre che i Goti non avevano sapute difendere, sette secoli fa, contro l’invasione degli Arabi. Ed ecco, sulle prime liste di terreno che riconquista la Spagna, tutti hanno a lagnarsi del governo arbitrario dei Mori. Come possono provarci di aver posseduto quel pezzo di terra? come possono provarci di esserne stati spogliati a torto? Dove sono i chirografi? dove gli atti di possesso? dove i documenti della confisca? Si trattasse almeno di cose avvenute ieri, o ier l’altro! Ma no, è roba vecchia, come la barba d’Aronne. Amico Cristoval, credete a me; se si dovesse far ragione a tutti coloro che giurano di averla, non basterebbero i tesori di Castiglia, di Leon, d’Aragona e di Navarra per giunta.

Intendo; – disse l’amico. –, Ma quel povero hidalgo....

– Quel povero hidalgo non ha godute egli, un giorno della sua vita, le terre che possedevano i suoi maggiori nella Vega di Granata. È vecchio, mi avete anche detto? Or dunque, che cosa gl’importa dei beni di questo mondo, se non ha più da goderne?

– E difatti, – soggiunse il difensore di don Inigo, – egli non rivendicherebbe quelle terre per . Ha dei figliuoli.

– Quanti?

– Due; un maschio e una femmina.

– Ah, c’è anche una femmina? – esclamò don Alonzo. – Ed è bella?

– Sì, bella; ma che importa ciò, alla questione?

– Moltissimo a questa, e a tutte le questioni del mondo; – rispose don Alonzo, ridendo. – Quella ragazza ha già la sua dote con ; e nessun re Moro gliela può togliere, nessun re Cristiano gliela può dare più ricca. Io indovino già, dall’ardore che mettete a trattar la causa degli Enriquez, che voi sposerete la bella figliuola dell’hidalgo.

– Io? che idea?

– Eh, scusate; è un’idea come un’altra, e forse più naturale d’ogni altra. Ed ora, non arrossite, vi prego. Capisco bene che siete ancora un ragazzo.

– Sì, coi capelli brizzolati!

Nevi d’estate, mio caro. Se n’hanno già degli altri esempi. A buon conto, vorrei averli io, i vostri capelli brizzolati, con la gioventù che vi splende sul viso e vi luccica dagli occhi. –

L’amico dai capelli brizzolati, non rispose parola. Ma un sospiro tanto fatto, che gli uscì dal profondo del petto, rispondeva per lui.

– Non fate caso di questi scherzi; – ripigliò il Quintanilla, temendo di avergli fatto dispiacere. –Ho sostenuta la parte del diavolo, come s’usa anche a Roma, quando si fanno i santi. Vi ho detto su per giù quello che potranno rispondere gli avvocati della Corona, quando il vostro hidalgo avrà chiesto di essere reintegrato nel possesso delle sue terre, o delle terre della sua illustre famiglia. A proposito di santi, sapete che gli converrà di averne parecchi, a proteggerlo? Ma infine, che cosa volete voi? Esser utile al vostro vicino di casa, fin dove è in poter vostro di esserlo. Orbene, ditegli di stendere un memoriale in piena regola, e di mandarlo con una supplica alle Loro Altezze. Io farò in modo che supplica e memoriale giungano a destinazione, non si smarriscano per via; ed anche, se così volete, raccomanderò il vostro hidalgo a tutte le potestà terrestri che dovranno giudicare le sue ragioni. Sarò un santo solo, pur troppo; ma non posso scempiarmi, non posso moltiplicarmi: e dopo tutto, meglio uno che nessuno. Siete contento?

– Ma.... – disse quell’altro. – Dopo il vostro pronostico.... mi par già di sentire il vento contrario.

– Oh, santa Fede! – gridò il Quintanilla, con aria di comica impazienza. – Volete che vada anche da Eolo e gli raccomandi di gonfiar le vele a questa barca sdruscita? Per ben altri viaggi, e con ben altro naviglio, avremo mestieri del Dio dei venti; non vi pare? Dunque, siamo intesi; – conchiuse don Alonzo, battendo amorevolmente sulla spalla del suo giovane amico. – Comunque sia il vento, raccomanderò il vostro amico al consiglio reale. Ma debbo dirvi, per isgravio di coscienza, che spero poco nell’esito.

Ahimè! – disse quell’altro. – Anche la figliuola di don Inigo ci spera poco, anzi nulla.

– Oh, bene! – esclamò don Alonzo. – Ecco una ragazza che capisce. Ed è bella, mi dite? Se è buona come è bella ed intelligente, sposatela.

– Io?

– Sì, voi. Che volete? che la sposi io? Voi siete vedovo, ed io celibe; i conti, per verità, si pareggiano. Ma io son vecchio oramai, e voi siete nel fiore dell’età; i conti non tornano più. Triste cosa! – soggiunse il Quintanilla, sospirando. – Ho lasciata passar l’occasione. Ma credete voi che sia una bella cosa essere un vecchio scapolo? Il matrimonio ha le sue noie, lo so; ma esso, per questo rispetto, è come la vita. Diecimila giorni cattivi, mille mediocri, cento buoni, uno eccellente; e quell’uno li compra tutti, buoni, mediocri e cattivi. Solo per quel giorno, se non si fosse ancor nati, verrebbe voglia di vivere. –

Don Alonzo di Quintanilla era di buon umore, quel giorno. Ci dovevano esser denari, e di molti, nelle casse dello Stato. Oppure, egli doveva aver trovato qualche nuovo balzello, per farne. Son tutti così, i ministri di finanza; e quando hanno quattrini, o il modo di levarcene di tasca, si stropicciano le mani della contentezza.

Quel giorno, appena gli venne fatto di liberarsi dalla compagnia dell’amico, il marinaio genovese portò agli Enriquez la notizia di tutto ciò che aveva fatto per essi. Il vecchio hidalgo non era in casa; lo ricevette la bella figliuola di lui, facendogli un cortese rimprovero del non esser giunto prima.

– Vi avevo pur detto che per la gran questione della Vega di Granata non era necessario di riscaldarvi troppo! Basta; avete voluto occuparvene subito, ed io ve ne ringrazierò, per mio padre. Ma non per me, badate, non per me. –

Il marinaio genovese sorrise, a quel piccolo capriccio della bella cordovana, e seguitò a raccontare la sua conversazione col Quintanilla; attenuando, si capisce, le scettiche celie del razionale di Castiglia, e insistendo sulla utilità del memoriale, che doveva essere presentato ai sovrani.

– Sì, sì; – rispondeva Beatrice. – Ne parlerete a mio padre, ed egli stenderà il memoriale; o lo farà stendere, perchè, a dirvi la verità, egli non è forte di lettere, e molto meno di leggi. Quanto a me, ve lo ripeto, non fondo nessuna speranza su questa faccenda. Parlatemi di voi, cavaliere. Mi avete troncata la storia della vostra vita in un punto importante.... per voi: il vostro matrimonio. Era bella, la vostra donna Filippa? –

Si parla mal volentieri di una donna, davanti ad un’altra. Ma bisognava raccontare, e Cristoforo Colombo, più brevemente che potè, raccontò del suo matrimonio di Lisbona, fino alla morte di donna Filippa. Molto più volentieri, molto più a lungo, parlò dei suoi disegni di scoperta, del quando e del come gli era venuto il pensiero alla mente, delle autorità, delle testimonianze, dei dotti e dei viaggiatori, delle ragioni cosmologiche e degli indizi naturali su cui fondava la sua ipotesi maravigliosa.

solamente in quella seconda visita, ma in altre che seguirono, tutte volute dalla curiosa Beatrice, il marinaio genovese ebbe ad esporre lungamente i suoi vasti disegni. Beatrice voleva sapere anche in qual modo, e fino a qual punto, i sovrani di Castiglia avessero mostrato di partecipare alla fede di lui Non le bastavano i cenni sommarii; voleva perfino le parole testuali di Ferdinando e d’Isabella. Per allora, veramente, i negoziati non procedevano troppo spediti. Il re Ferdinando, presa la città forte di Loxa, era andato all’assedio di Moclin, dove era andata anche la regina Isabella a raggiungerlo. Moclin era caduta come Loxa, e subito dopo i due augusti consorti avevano dovuto correre in Gallizia, per sedare la ribellione del conte di Lemos. Ma il navigatore genovese aveva la protezione del Quintanilla; era ben veduto dal nunzio pontificio, monsignor Antonio Geraldini, e dal fratel suo Alessandro, precettore dell’Infanta. Inoltre, pochi giorni prima, era stato ricevuto dal “terzo re di Spagna”; nientemeno che da don Pedro Gonzales de Mendoza, arcivescovo di Toledo e gran cardinale di Spagna. Non era ancor tutto, ma già era molto. Il Mendoza, a tutta prima, aveva sospettato di eresia; ma poi si era ricreduto, sentendosi citare i Profeti, ed aveva anche, bontà sua, ammirato quel laico, che aveva tanto familiari le Sacre Scritture, da disputarne coi dottori, coi principi stessi della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Dipendeva dal giudizio del gran Cardinale che le proposte di Cristoforo Colombo fossero prese in considerazione, e il giudizio del gran Cardinale era stato favorevole. Appena i sovrani fossero ritornati dalla Gallizia pacificata, avrebbero sicuramente fatto buon viso ai disegni del navigatore italiano.

Donna Beatrice ascoltava; lo avrebbe ascoltato dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina. Ma non dubitate, spesso la notte li coglieva nel vano di quella finestra, dove, al lume della luna, o al mite chiaror delle stelle, stavano ragionando delle isole Atlantiche, del Cataio, di Cipango, e delle miniere di Ofir. Il memoriale sui possedimenti della Vega di Granata, era stato spedito ai sovrani; lo stavano rigirando di mano in mano gli ufficiali della Camera Regia; lo avrebbero finalmente esaminato e giudicato gli avvocati della Corona. E quando il marinaio genovese si doleva di tutti quei passaggi necessarii per tante trafile gerarchiche, di tutti quegli indugi che il buon diritto soffriva, la bionda Beatrice gli dava sulla voce, dicendogli:

– Non vi occupate della Vega di Granata. Mio padre grida di essere stato rovinato. È vero che non si ritrova in buone acque; ma la rovina è toccata ai suoi vecchi, non a lui. Mettiamo che si riesca a salvare qualche cosa dal grande naufragio della nostra casa; ci vorranno ad ogni modo molti anni. Non c’è che un tribunale, che faccia le cose alla spiccia: quello del mondo di , che i nostri santi protettori ci scampino dal suo giusto rigore! Ma dai tribunali del mondo di qua, io non aspetto molto, lo sapete. Io aspetto tutto.... indovinate da chi? –

La luna splendeva al davanzale della finestra. Beatrice si era ritirata un pochino, sentendo forse di arrossire. I fiori dell’ortino pensile tramandavano odore; la notte era quieta, e la pace profonda; ma un gran turbamento era entrato nel cuore del marinaio genovese.

– Da chi? – diss’egli confuso. – Non saprei.

– Ma non intendete dunque nulla, voi? – bisbigliò la bionda fanciulla, chinando la fronte. – Come potete avere amato mai, una volta, una volta almeno, nella vita? –

Per quella volta tanto, era difficile non intendere. Anch’egli chinò la fronte, e sommessamente rispose

Donna Beatrice, perdonate. Non so come dirvi quello che penso. Non vi prendete voi giuoco di me? Non devo esser timido, ora, più che io non lo sia stato mai? Vostro ospite, ricevuto nella vostra casa come un amico, che può essere utile.... che desidera tanto di esserlo....

Lasciate questi discorsi; – interruppe Beatrice. – Sapete pure che non mi piacciono. Non aspetto nulla dal mondo; tutto da voi, dalla vostra fortuna, dalla vostra gloria. Vi maraviglia che io vi parli così? che io sia la prima, io donna, a parlarvi così? Certo, anzi che parlare, avrei amato ascoltare. Ma voi non parlate. Son tutti così, nella vostra Italia, gli uomini? timidi, paurosi, come voi, accanto ad una donna.... quando l’amano, o incominciano ad avvedersi di.... Ma parlate una volta! Non mi lasciate dir tutto!

– Sì, avete ragione; – rispose egli, commosso. – Ma se voi pure vi siete avveduta che io.... Ma non osavo; ma non dovevo osare, nella condizione in cui sono.

– Alla buon’ora! – replicò la bionda Beatrice. – Dite poco, ma si capisce qualche cosa. Sentite, bel vicino: io sono di una terra dove si dice quel che si pensa. Mi piacete? sì. Non mi piacete? è un no tanto fatto. S’intende che parlo a voi come a nessun altro avrei parlato mai. –

E fece una pausa, forse aspettando che egli con qualche frase più tenera la invitasse a proseguire. Il bel vicino non disse parola; ma si accostò un tantino di più al deschetto da lavoro. Anche quello era un modo di dirle: continuate. La bella fanciulla continuò:

– Vi ho veduto, vi ho conosciuto, ho indovinato il vostro segreto. Siete un hombre, mi capite? un hombre ahidalgado; sarete un giorno qualche cosa, più che non crediate voi stesso, più che non vi figuriate nei vostri sogni, se mai sognate i sogni della grandezza. Orbene, ho sognato ancor io, ho sognato di essere la vostra ispirazione, la vostra forza nel mondo. La donna non può nulla, per ; ma l’uomo può poco senza di lei. Voi dovete poter tutto, vincere, trionfare, esser grande con una donna che vi ami.

– Con voi! – mormorò egli, soggiogato.

Il vecchio hidalgo era assente le intiere giornate da casa. Antico soldato delle guerre di Castiglia, andava volentieri ad intrattenersi coi suoi compagni d’armi, a dimenticare con essi, ad affogare i dispiaceri della vita. E il marinaio genovese, l’hombre ahidalgado, l’uomo dai nobili tratti, come lo aveva chiamato, e giustamente, la bionda Beatrice, era quasi sempre solo con lei. Don Inigo quando ritornava a casa, e li vedeva ambedue , presso la finestra, lei al suo deschetto da lavoro, lui seduto al fianco di lei, li salutava con una frase molto spiccia nella sua familiarità: buona sera, ragazzi! e passava, per andarsene a letto.

Qualche volta non dava neanche la buona sera. Entrava balenando; gli luccicavano gli occhietti neri; la ditata di Bacco non gli si vedeva soltanto sulla punta del naso; anzi, non era più una ditata, ma un par di ceffoni senz’altro. E passava, borbottando sillabe arcane, che non riuscivano a comporsi in una parola; passava, senza guardarsi dattorno; era bazza se, dopo molto balenare, infilava l’uscio della sua camera.

All’ignobile spettacolo la bionda Beatrice torceva il viso, fatto rosso dalla vergogna; e si stringeva sempre più al suo gentile vicino, come una colombella spaurita al suo nido.

– Come posso io vivere in questa casa? – diceva. – Cristoval, Cristoval, portatemi via, lontano, lontano, con voi, sull’Atlantico! Sapete, – soggiunse una volta, – sapete che è sempre stato il mio sogno? Sicuramente, bel marinaio; ero bambina, e la mia buona mamma, per farmi addormentare, mi cantava spesso la canzone del Dio marino e della principessa addormentata alla spiaggia. Ne ricordo ancora le ultime strofe:

 

Bianchi di spume vanno i cavalli;
L’amante coppia s’inabissò.
A lei di vivide perle e coralli
Serto e collana l’Iddio formò.

– Non è qui tutto. Vedi un tesoro?
L’ha qui perduto d’Africa il re.
Farem tra l’alighe, d’argento e d’oro,
Letto e guanciale, bella, per te.

 

Musica e poesia son due grandi traditore. Per quella volta si accompagnavano alla gioventù, alla bellezza. Il marinaio genovese non promise di condurre la bionda Beatrice lontano lontano sui mari sconosciuti; non lo poteva promettere in coscienza, non essendo ben certo di andarci egli stesso; non lo avrebbe promesso, se anche ne fosse stato certo, pensando a quanti rischi sarebbe andata incontro. Ciò che è l’ignoto per noi, e come ignoto ci attrae, può esser la morte per la persona amata; e il solo pensarci atterrisce. Non promise, adunque; crollò il capo, con la olimpica benignità di chi non vuol contrariare un pensiero altrui, e atteggiò le labbra ad un sorriso amorevole. Si avvicinava intanto l’ora dell’oblio, la grande ora non cercata, non spiata, non preveduta. Quando ella giunse, addio riguardosi pensieri! il cortese vicino, l’ospite, il timido cavaliere non vide più nulla, involto com’era in quell’onda di passione. Beatrice Enriquez era bellissima, ed era innamorata. Si ragiona male, non si ragiona affatto, quando la passione c’investe. Poi, quando egli si fu riavuto tanto da potersi guardare dattorno, non cercò neppure il come e il perchè dell’essersi lasciato travolgere. La creatura innamorata non sa nulla di nulla; ed è sempre poco o molto innamorata, quando si vede e si sente amata. Questo è già stato detto, e maravigliosamente, in un verso famoso, dal gran padre Alighieri; ma niente toglie che si possa ridirlo in umilissima prosa.

Frattanto, il memoriale di don Inigo Enriquez de Arana, dopo esser girato per tante mani, era stato messo a giacere negli scaffali della regia Camera. Si aspettavano i sovrani, per trattare della domanda del vecchio hidalgo, nei consigli della Corona. Ma un principio di fortuna arrideva in pari tempo alla casa degli Enriquez; era l’assegno di una somma di denaro, che poteva parere una promessa di meglio, ed aiutava frattanto ad aspettare. Quando il cortese vicino, per cui intercessione don Alonzo di Quintanilla aveva slacciato i cordoni della borsa, quando il cortese vicino parlò alla bionda Beatrice di quella liberalità della Corte, la orgogliosa figliuola dell’hidalgo non volle neanche starlo a sentire. Che importava a lei di quella elemosina, se già così poco le importava di tutti i possedimenti della Vega di Granata? Il cortese vicino dovette parlarne in quella vece col vecchio.

– Vi ringrazio, mio caro amico! – gridò l’hidalgo, abbracciandolo. – Come vedete anche voi, si comincia a riconoscere la bontà delle mie ragioni. I maravedis son pochi, lo so; ma prendiamoli ad ogni modo, prendiamoli sempre. Dite a don Alonzo di Quintanilla che vedrò volentieri una seconda spedizione. –

Dispiacevano a donna Beatrice queste volgarità di discorso. E non fu contenta, fino a che non si parlò più di denaro. Di ben altro voleva ragionare la donna innamorata, col futuro discopritore di nuovi mondi. E se proprio si aveva a parlar di ricchezze, meglio era fantasticare sulle spezierie di Cipango e sui tesori di Ofir. Su questi in modo particolare; poichè almeno entrava in ballo la regina di Saba, la bella innamorata del re Salomone.

– A proposito di regine, – diss’ella un giorno, – venite qua, bel cavaliere, e discorriamo. Fra poco ritornerà donna Isabella dal campo di Moclin. Voi la vedrete, l’ammalierete coi vostri maravigliosi racconti, come avete ammaliato me; non è così? Bada, Genovesino! ho sognato l’altra notte che la regina si era innamorata di te; e ciò mi ha messo una spina nel cuore. Guai a te, se ti lasci amare dalla regina; ti ucciderei. –

Il Genovesino rideva di quelle pazzie. Frattanto gli amori duravano. Ed egli, onestuomo, avrebbe voluto consacrarli con un vincolo eterno. Ma la figliuola dell’hidalgo non aveva tanta fretta; sebbene, per qualche buona ragione, avrebbe potuto sentirne il desiderio.

Va, ci sarà tempo; – diceva. – Ti conosco. Sono gelosa, ma non temo che tu possa dimenticarti di me. La tua donna, per la vita e per la morte, son io. Va alla Corte, vinci la tua grande giornata. La mia mano, che ti piace, – soggiungeva ella, concedendo quella mano ai baci dell’amato, – sarà il premio della vittoria. –

L’occasione di vincere non poteva venire senza quella di combattere. E l’occasione di combattere giunse finalmente nell’inverno, quando i sovrani, ritornati dalla Gallizia, si recarono a soggiornare nella dotta Salamanca. Isabella non aveva dimenticato Cristoforo Colombo e le raccomandazioni di Juan Perez Marcena. Il navigatore genovese fu chiamato a Salamanca.

Doveva partir subito. Beatrice Enriquez gli infuse il coraggio necessario a quella separazione. Un po’ lunga, veramente; ma si trattava di un grande disegno, da cui dipendeva la gloria di lui e la sorte di ambedue; perchè oramai, Beatrice lo giurava, ella era legata a lui nell’eternità.

E gli prediceva il trionfo. Come non crederlo certo? Il Genovese era chiamato a Corte da un messaggio della regina. Di questo, a dir vero, si mostrava un pochino gelosa; ma era un suo vezzo femminile, forse una celia. L’amore sa trovare tutte le vie per dimostrarsi qual è; forte e profondo, non disdegna neanche le forme puerili, in cui tocca qualche volta il sublime. E l’innamorato giurava volentieri tutto ciò che voleva l’amata; laggiù a Salamanca, e dovunque, in mezzo agli splendori della Corte, nessuna donna avrebbe rubato il suo cuore; Beatrice Enriquez, la bellissima Cordovana, sarebbe rimasta sempre, immagine gelosa ed amante, tra lui ed ogni altra bellezza. “La regina ti darà udienza, e non potrai ricusarti all’onore, lo so; – diceva la donna gelosa. – Ma poco avrai da ragionare con lei; molto invece con gli uomini. Son gli uomini che devi convincere; e sarà bastante ch’ella ti dia modo di far prova della tua eloquenza con quelli.”

Il bel vicino partì. A Salamanca fu onorevolmente ricevuto dai sovrani di Castiglia.

– Abbiamo pensato a voi, lo vedete? – gli disse graziosamente la regina Isabella.

– E don Fernando di Talavera, – soggiunse il re Ferdinando, – ha l’incarico da noi di radunare a consiglio i più dotti uomini dello studio di Salamanca. Voi esporrete i vostri disegni, dandone le ragioni; essi giudicheranno, e, secondo che avranno giudicato, noi provvederemo.

La parola del re Ferdinando era sempre misurata; alla regina, in quella circostanza, dovette parere troppo asciutta.

Speriamo, – rispose ella, – di poter provvedere in modo conforme al vostro desiderio ed al nostro. Non sia mai detto che questa guerra, in cui siamo assistiti dal favore divino, ci distolga da una impresa come la vostra, che deve onorare la corona di Castiglia. –

 



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License