IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
LE DUE BEATRICI CAPITOLO IX. Dove s’illustra il proverbio: donna e luna, oggi bianca e doman bruna. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
CAPITOLO IX.
Dove s’illustra il proverbio: donna e luna,
Il Talavera ebbe tosto l’incarico a cui avevano accennato i sovrani. La gran giornata era dunque imminente. Cristoforo Colombo ne ebbe una commozione profonda, la commozione del guerriero, che sente prossima l’ora di cogliere il frutto di tante fatiche, virilmente durate. Ma dopo quel moto generoso del sangue, che era venuto a ravvivare tutte le sue grandi speranze, il sognatore di un nuovo mondo ebbe anche le sue ore di tristezza. E se avesse trovati nella dotta assemblea duri i cuori e chiusi gl’intelletti? La cosa gli sarebbe parsa impossibile, da prima; ed egli sentiva di aver risposte trionfali per ogni obiezione. Come aveva convinto il gran Cardinale, non avrebbe convinti gli altri teologi? Quanto ai cosmografi, era sicuro del fatto suo. Eppure, degli uni e degli altri, incominciava a fidarsi un po’ meno; l’impossibile incominciava a parergli possibile; nel corso di due giorni era giunto a non fidarsi più affatto; il possibile gli diventava probabile.
Si ha da credere ai presentimenti? C’è veramente qualche cosa che possa avvertirci, quando la fortuna ci si volge contraria? Il marinaio genovese sognò che la sua impresa era fallita, nel giudizio della dotta assemblea, e che i sovrani di Castiglia ricusavano il loro patrocinio. Deriso, avvilito, senza speranza di rialzarsi dal suo avvilimento, rivolgeva lo sguardo a Beatrice, e il viso di Beatrice si torceva da lui; la bella Cordovana, con aria di superbo disdegno, respingeva l’amato.
Notate che lontano da lei il poveretto soffriva, come debbono soffrire tutti gl’innamorati, in quella medesima condizione. Le scriveva ogni giorno, esprimendo in lunghe lettere le sue speranze, i suoi scoramenti, le visite fatte, le parole raccolte, i dubbi, i pronostici fantasticati; e quelle lettere, ad ogni occasione propizia, andavano da Salamanca a Cordova. Le poste non erano allora molto regolari; ma non erano neanche infrequenti. Messaggeri reali portavano le lettere della Corte; quelle dei signori, dei dotti, e in genere di tutti i privati, erano portate dai corrieri delle Università, simili ai cavallanti e ai procaccia d’Italia. Per la stessa occasione rispondeva Beatrice Enriquez; da principio con una certa frequenza, quantunque con brevità, naturale in una donna, che viveva ritirata, e di poche notizie aveva da infiorare le sue lettere; via via più raramente, e con qualche rimprovero a lui, che si turbava per ogni piccola cosa, e non sapeva far altro che gemere.
“Dov’è andata la vostra sicurezza?” gli scriveva. “Perchè temete tanto, dopo le accoglienze che vi hanno fatte i sovrani? Voi siete troppo debole, amico mio, e piegate come le foglie ad ogni vento. Badate a voi: se vi fate piccolo, i vostri nemici ne prenderanno ardimento ad opprimervi.” Ed egli sentiva la giustezza dell’argomentazione. Ma questa maniera di esortazioni non doveva aspettarsi da lei, dalla sua Beatrice, a cui non domandava ammonizioni, ma parole di conforto. È bello, è dolce, essere consolati nell’afflizione dalla creatura che si ama. Ed è così necessario a chi combatte le fiere battaglie della vita, avere un cuore in cui riposarsi nell’ora della tregua, a cui confidare tutte le proprie tristezze, ed anche, se occorra, il segreto della propria debolezza. L’essenziale è di mostrare impavida la faccia al nemico; ma con una persona amata è pur mestieri di poterci abbandonare ad uno sfogo di sincerità, esser uomini, insomma, nient’altro che uomini, e soggetti a tutte le miserie dello spirito. Perchè non saremmo noi, agli occhi di quell’unica e confidente creatura, quello che siamo di sovente agli occhi della nostra coscienza?
Il grand’uomo sentiva avvicinarsi l’ora della prova solenne, e si sentiva in pari tempo mancar la terra sotto i piedi. Con timida dignità esplorava gli uomini, a cui erano commessi i suoi destini; ma non aveva ragione di rinascere alla speranza. Il Talavera si mostrava contegnoso e freddo, quasi ostile, come un uomo che fa già molto, occupandosi di qualcheduno, per obbedienza al desiderio di persone maggiori. Dei dottori di Salamanca, taluni avevano rizzato muso, ed erano i più ignoranti; altri apparivano più umani, quasi benevoli, ma erano anche molto circospetti. E ne scriveva tutto spaventato a Cordova; e la bella Cordovana gli rispondeva, quasi seccata di tanta debolezza d’animo: “Che cosa vi hanno a dire, prima di sentire le vostre ragioni? Che cos’è questo continuo tremare? Non v’ingannate voi, forse, giudicando degli uomini? Siate più calmo; osservate, e fatemi sapere tutto ciò che vi accade.”
Venne il gran giorno della prova. E quel che accadde nel consiglio di Salamanca è già noto al lettore. Non fu mai più grande rovina, per seppellire i grandi disegni di un pensatore, le alte divinazioni di un potentissimo ingegno. Poveri sogni andati in dileguo! Ed anche il grand’uomo, coi suoi vasti disegni, si vedeva abbattuto; per l’universale, che giudica col criterio dell’esito, Cristoforo Colombo; il marinaio genovese, il navigatore ardito, il cosmografo valente, era un miserabile avventuriere. Aveva mirato troppo alto: si era proposto di trovar nuove terre, ed era affogato prima di uscire dal porto. Le sue maravigliose promesse, i suoi sogni orgogliosi, avevano occupata per parecchi giorni un’assemblea, composta dei più dotti uomini del reame. Ad essi doveva dar egli la prova delle sue asserzioni; e la prova gli era solennemente fallita. Che sentenziare di lui, dopo il giudizio del consiglio di Salamanca? I più severi lo dicevano un impostore; i più benevoli, un pazzo.
Un uomo solo era là a sostenerlo, in quella triste occasione, don Alonzo di Quintanilla. Ma quali parole di utile conforto poteva dare la voce di un amico, a quella grande sventura? Il povero Colombo, in mezzo alla rovina dei suoi vasti disegni, aveva pur trovato il modo di ricordarsi della donna amata, chiedendo a lei l’unica parola che potesse aiutarlo a sopportare quel colpo terribile. Nessuna risposta era venuta da Cordova. E i giorni passavano, e il povero giudicato di Salamanca era per diventar pazzo davvero. Don Alonzo di Quintanilla capì che cosa aspettasse l’amico; già molto conosceva degli amori di lui con la bella Cordovana; volle averne l’intiero.
– Amico, – gli disse, poichè ebbe saputo ogni cosa, – ho amato ancor io, negli anni verdi. Credete alla mia esperienza. Quando una donna ci è avara del suo pensiero, è segno che non ha molto a dirci; quando tace, è segno che non ha da dirci nulla. –
Ma quelli erano aforismi; non erano consolazioni; non potevano bastare all’afflitto.
Avesse almeno potuto ritornare a Cordova! E non si poteva muovere di là. Era caduto; ma il consiglio di Salamanca non aveva ancora pronunziata una sentenza definitiva, inappellabile. L’adunanza in cui Cristoforo Colombo aveva dovuto bere il calice di tutte le amarezze, era finita senza conchiudere; nè lì per lì si era provveduto per una nuova convocazione. Il partire in quella circostanza da Salamanca poteva metter conto ai nemici del Genovese, non a lui; si sarebbe dato per vinto, partendo; la sentenza sarebbe stata pronunziata, e severa, come contro un contumace; e gli sarebbe venuta meno ogni speranza di conservare la benevolenza della regina Isabella. Bisognava dunque restare, non darla vinta al nemico. Consigliava così il Quintanilla; anzi, diciamo meglio, così voleva, facendogli violenza col sacro diritto che dà l’amicizia; in ugual modo parlavano i due Medina, Celi e Sidonia; e di non disperare, di tener fermo, consigliava anche il Deza, uno dei giudici, l’unico che avesse a spada tratta difese le idee del navigator genovese.
Cristoforo Colombo rimase, e del suo rimanere scrisse le ragioni alla donna amata. Si doleva ancora, si doleva sempre dei silenzi di lei, non pensando più agli aforismi dell’amico Quintanilla, che, se non erano consolazioni, potevano tuttavia essere accolti come precetti e consigliargli la dignità nel dolore. Ma dal dire al fare ci corre; ed anche dal giudicare sul caso altrui al trovarcisi dentro. Comunque fosse di ciò, i lagni del disgraziato sortirono un effetto sollecito; Beatrice rispose, a volta di corriere, come persona che volesse ad ogni costo levarsi un peso dal cuore.
“Non v’illudete” diceva la lettera. “Gli uomini più dotti, o tenuti per tali in tutto il reame, hanno mostrato di non credere alle vostre idee. Siano esse giuste, o false, poco importa; rimane il fatto che il vostro disegno è dichiarato chimerico e la vostra proposta inaccettabile. La sentenza è data; volete ancora che ve la mettano in carta, munita di sigillo e autenticata da tutte le autorità di Castiglia? Rassegnatevi; il destino ha voluto così; non andate contro al destino. Quanto a me, che cosa vi dirò? Non ispero, non desidero, non so, non voglio pensare più nulla.”
Un’altra lettera, in risposta a nuovi lamenti, diceva:
“Che avete? e che è ciò, che vi fa andare in collera con me? Voi siete il meno infelice di noi due; anzi veramente felice, che potete credere di aver fatto un sogno. Io no, non lo posso credere, finora; ma il giorno verrà, e lo affretto con le mie preghiere alla Vergine Santissima. Sopporto intanto la pena del mio errore, e non mi lagno di nessuno. Voi imitatemi, e siate più forte. Tutto dev’essere finito tra noi. Mio padre è sdegnato. Aveste almeno potuto ottenergli ciò ch’egli sperava, e che voi gli facevate tanto sicuro! Ma no; occupato nei vostri sogni, non avete fatto nulla per lui; non avete neanche saputo, a quel che pare, di una risposta del Consiglio reale, che doveva venirgli contraria. Ora egli si rivolgerà per appoggio altrove.”
Il linguaggio era duro, e non ammetteva più replica. Quali ragioni potevano averlo inspirato? La rovina di un grande disegno, la caduta di tutte le sue speranze di gloria e di potenza, bastavano forse a giustificare il tradimento della ambiziosa Cordovana? Ed era lei, che parlava così? era la donna che voleva essere per lui l’ispirazione e la forza? E perchè, poi, l’ingiusto accenno al mal esito della domanda di don Inigo ai sovrani di Castiglia? Non era stata lei la prima a non credere che quella domanda potesse sortirne uno migliore? E non aveva tante volte consigliato al cortese vicino di non darsi troppo pensiero di quella ubbìa del vecchio hidalgo? Perchè dunque rinfacciare a lui, al cortese vicino, come una colpa sua, un giudizio negativo che ella stessa aveva preveduto?
Don Alonzo di Quintanilla, diventato il confidente di tutte le amarezze del suo giovane amico, lesse quella lettera cattiva, come aveva lette le altre. E si fermò particolarmente sull’ultima frase, che somigliava tanto alla rettorica frecciata del Parto.
– Altrove! – esclamò. – Si rivolgeranno altrove! E a chi di grazia? Questo signor chi, dovrà passare ad ogni modo dalle mie parti. Ma già, – soggiunse egli, restituendo il foglio all’amico, – questa è una scappata di gente in collera. Che ci volete fare? Lasciar correre e non pensarci più; tentare almeno, fare il possibile, per non pensarci più. Quanto all’impossibile, – conchiuse egli, vedendo la faccia scura dell’amico, – non oso neanche domandarvelo. Ah, per sant’Iago! dopo il consiglio dei dotti che non hanno oncia di cervello in testa, ci voleva proprio la follìa delle donne che non hanno un briciolo di tenerezza nel cuore. –
Il consiglio dei dotti, frattanto, doveva adunarsi ancora. Così prometteva il Talavera. Ma egli, per il primo, non ne aveva nessuna voglia, e tirava le cose in lungo. Prima che diventassero serpi, la Corte decise di lasciare il soggiorno di Salamanca. Ora con la Corte doveva partire anche il presidente del consiglio dei dotti, che era, come sapete, il confessore della regina Isabella. Si andava in guerra da capo, e per quella volta contro Malaga. La bella Salamanca fu abbandonata alla sua rumorosa tribù di studenti; l’eleganza e il fasto della Corte partivano dalle sue mura. Andando dal vecchio regno cristiano di Leon al territorio moresco del regno di Granata, si doveva passare nel cuore dell’Andalusia; e Cordova era proprio nel centro.
Con che impazienza Cristoforo Colombo seguisse la Corte in quell’altro suo cambiamento di sede, è facile immaginarlo. Appena fu giunto a Cordova, volò al suo quartierino modesto nella Calle de los Infantes. Deposti a malapena i suoi fardelli, ridiscese, entrò nel cortile, salì certe scale a lui ben note, e bussò all’uscio degli Enriquez. L’uscio si aperse, ed altri visi gli apparvero nel vano.
– Don Inigo Enriquez? – domandò egli allora.
– Non abita qui, – gli fu risposto.
– Come? da quando ha lasciata questa casa? dove si è tramutato?
– Non sappiamo. Noi abitiamo qui da un mese, e la casa era vuota. –
Era dunque una fuga, una sparizione; e per lui, per sottrarsi a lui, per non averlo a vedere mai più! Il colpo fu tremendo; uno di quei colpi, per altro, ai quali un uomo è più forte, che non ai colpi di spilla. Cristoforo Colombo chiuse il suo dolore in sè stesso, e non domandò più altro, non cercò nemmeno per le vie di Cordova le tracce della famiglia fuggitiva.
Alonzo di Quintanilla doveva sapere anche questo; e l’amico non aveva intenzione di nascondergli nulla.
– Meglio così! – disse il vecchio razionale di Castiglia. – Ne uscite, come suol dirsi, per il rotto della cuffia; ma ne uscite, ed è quello che importa. Vogliono separare la causa loro dalla vostra? Tal sia di loro. Animo, dunque, e venite al campo di Malaga. Qui sotto c’è la mano di un vostro nemico. Una donna, per ambiziosa che sia, e intesa fin che si vuole al tornaconto, non può avere da sola di queste ispirazioni diaboliche.
– Che cosa intendereste di dire?
– Caro mio, mi pare di aver detto abbastanza, per esser capito. Andiamo a Malaga; ne riparleremo laggiù. –
Il Genovese non disse nè di sì nè di no. Al campo di Malaga, del resto, non si andava che fra due o tre giorni.
La mattina seguente, quando meno se l’aspettava, s’imbattè nel giovane fratello di Beatrice Enriquez. L’incontro era avvenuto ad un canto di strada, e il giovane aveva cercato di cansarlo. Ma l’altro aveva buona la vista; lo trattenne col gesto e poi con la voce.
– Ah! don Pedro! finalmente! – gli gridò. – Venite qua, e lasciatevi dire quattro parole.
– Messere.... ho molto fretta; – rispondeva il giovane grandemente turbato; come quegli che non sapeva infingersi.
– La fretta non v’impedirà di scambiare quattro parole con me. Se volete, e al passo che vi piacerà, vi accompagnerò fino a casa.... o fin dove vi piacerà. –
La giunta del discorso rispondeva ad un gesto di diniego del giovane.
– Eccomi qua, – disse Pedro Enriquez, rassegnato per forza; – che cosa avete da dirmi, messere?
– Tutto ieri ho cercato di vostro padre; – rispose Cristoforo Colombo. – Avete lasciata la vostra antica abitazione. Dove siete andati??
– Sentite; – replicò il giovane Enriquez, facendosi coraggio; – se volete sapere dove abitiamo, non vi potrò rispondere.
– Perchè?
– Perchè mio padre non vuole che si sappia.
– Pedro!... è una crudeltà la vostra. Sareste capace di non dirmelo, se io ve ne pregassi.... se io ve ne scongiurassi?
– Mi fareste disobbedire ad un comando di mio padre? – domandò il giovane Enriquez. – Voi amate e venerate il vostro, non è vero? io amo e venero il mio. –
C’era tanta risolutezza nell’accento del giovane; che Cristoforo Colombo non si sentì il coraggio di insistere. Profondamente rattristato, guardò in viso il fratello di Beatrice, e disse:
– Che cosa ho io mai fatto agli Enriquez, che non vogliono più vedere in me un amico?
– Amico! pur troppo lo siete stato; – rispose il giovane, con piglio severo.
– Ma sono un uomo d’onore; – replicò l’altro, non meno severo di lui. – Ne dubitate voi, don Pedro Enriquez?
– Non ne dubiterò; ma intanto....
– Ma intanto, e poichè voi mostrate di voler ragionare come un uomo fatto, ragioniamo. Vi par egli che io non abbia il diritto di vedere mia moglie?
– Vostra moglie! Non lo è.
– Per tale io la tengo. Lo sarà quando a lei piaccia..., e a don Inigo Enriquez. –
Il giovane rimase un istante perplesso, guardando negli occhi il suo interlocutore.
– Non lo credete? – riprese questi. – Mettetemi alla prova.
– Messere, – disse il giovane Enriquez, – sarebbe vostro debito sacro il farlo.
– Ed anche il vostro, di accettare l’offerta. Pure, qualche cosa mi dice che non lo farete.
– Non so che cosa voglia fare mio padre; rispose Pedro, dopo un istante di pausa. – So bene che è in collera contro di voi.
– Don Inigo ha ragione, non conoscendomi; – replicò l’altro, abbassando la fronte. – Ma se voi gli riferirete tutto quello che io vi ho detto, egli potrà perdonarmi ancora. Volete voi essere così buono, amico Pedro, da riferirglielo, aggiungendogli che io sono pronto a fare il debito mio, fin da quest’oggi?
– Messere, io lo farò volentieri; – disse il giovane. – Così potesse aver fine ogni questione tra noi!
– Ah, bene! – gridò Cristoforo Colombo, afferrando la mano del giovane Enriquez. – Voi siete un buon ragazzo, e intendete che io sono un uomo leale. Ho errato, Pedro! ho errato, ma le intenzioni mie erano pure; eccomi qua, dolce amico, fratello mio, nelle vostre mani. Che fa Beatrice? Che pensa, la divina mia donna? Ditemi di lei, Pedro. Obbediente a suo padre, ella non mi ha più scritto; ed è giusto; ma ella pensa sempre a me, non è vero? ed aspettava questo giorno, in cui potessi giustificare me e lei davanti al nostro buon padre?
– Messere, – rispose il giovane, turbato, – di questo io non potrei dirvi nulla. Parlo così poco con mia sorella.... dopo ciò che è accaduto!
– Accaduto! – esclamò l’altro, con accento di stupore. – E che cosa? Ah! v’intendo; – soggiunse, mentre una vampa di rossore gli tingeva le guance. – Andate, Pedro, andate, se non volete che io venga con voi. Andrò nella mia cameretta, ad aspettarvi. Ma dite bene, dite chiaramente a lei, a vostro padre, che io sono là, ad aspettare la mia sentenza. I miei torti sarebbero già riparati, se le ultime lettere che ho scritte avessero ricevuto risposta. Andate; io sarò là, nella Calle de los Infantes; non mi muoverò dalla mia cameretta, fino a tanto non giungerete voi, messaggero di pace. –
Il giovane Pedro, commosso, strinse la mano che il marinaio genovese gli offriva; promise col gesto che sarebbe ritornato con la risposta di suo padre, e si allontanò speditamente da lui.
Un raggio di speranza brillò alla mente sconvolta del marinaio genovese. Ed egli si provò a ricomporre dentro di sè una storia fantastica di tutto ciò che era occorso nella casa degli Enriquez. Che il vecchio hidalgo fosse in collera, si capiva anche troppo. Che l’uomo spensierato, poco amante della famiglia, sempre ubbriaco, avesse avuto un barlume di ragione, un lucido intervallo, si poteva immaginare egualmente. Certo, in quel lucido intervallo, don Inigo aveva veduto il disonore della sua casa. Ed era giusto che così fosse, poichè don Inigo non ora obbligato a conoscer l’animo del cortese vicino, e ben poteva crederlo un falso amico, un seduttore della sua figliuola, un traditore della ospitalità. Uomini siffatti rappresentano la regola; e per questa regola le eccezioni son poche. Ma Beatrice lo conosceva; Beatrice avrebbe potuto perorar la sua causa, promettere, giurar per lui, per l’amico, per l’uomo del suo cuore. Perchè non lo aveva fatto? Era pur lei che aveva detto all’amico aspettiamo; vincete la vostra grande giornata di Salamanca, e poi si penserà al nostro matrimonio! Ma forse, quello che a lei era sembrato così certo, così naturale, quando erano vicini, le era sembrato tutt’altro, poichè l’amico si era allontanato da lei.
Ma come si era ingannata, pensando in tal modo? E come aveva potuto credersi abbandonata? come aveva potuto credersi tradita, con tante lettere riboccanti di passione, che egli non rifiniva di scriverle? Pure, bisognava arrendersi all’evidenza; ella aveva creduto così. Gli uomini hanno un bel ragionare in un modo; le donne ragionano sempre in un altro. Ciò che il giovane fratello di Beatrice gli aveva riferito, dimostrava assai chiaramente che in quell’altro modo aveva ragionato la cara ed ingiusta creatura.
Così fantasticando tra sè, Cristoforo Colombo si era avviato verso la Calle de los Infantes. E là, chiuso nella sua cameretta, seguitò ad almanaccare, aspettando; contò perfino due o tre volte i passi che il giovane Pedro poteva aver fatti. Veramente, egli non sapeva in qual via fossero andati ad abitare gli Enriquez; ma anche ammettendo che fossero al punto estremo della città, Pedro aveva avuto due volte il tempo di andare e ritornare. Ed egli seguitò a contare; contò fino a sera, ma senza che Pedro ritornasse. Come poteva esser ciò? Forse il vecchio hidalgo non era in casa, e i suoi figliuoli avevano dovuto aspettarne il ritorno. Sì, veramente, doveva esser così. Ma nella serata, di sicuro, il giovane Pedro sarebbe venuto a cercarlo.
A una cert’ora, un passo si udì per le scale. Era l’aspettato fratello di Beatrice? No, era don Alonzo di Quintanilla. Il vecchio gentiluomo, non avendo veduto per tutto quel giorno l’amico, era venuto in cerca di lui, facendo, come suoi dirsi, il miracolo di Maometto.
– Non aspettavate me, ve lo leggo negli occhi; – disse don Alonzo, vedendo l’aria sconcertata con cui lo accoglieva il suo ospite.
– Infatti.... perdonate.... aspettavo un altro; – rispose Cristoforo Colombo.
E senza farsi pregare, desideroso anzi di confidarsi a lui, gli raccontò l’accaduto. Don Alonzo stette a sentire, tentennò parecchie volte la testa, poi disse:
– Ah, buon amico! vi pascete sempre d’illusioni, voi!
– D’illusioni? ma come?
– Sicuramente, d’illusioni. O che credete voi? Che abbiano fatta quella specie di fuga in Egitto, per farsi cercare e ritrovare da voi?
– Ma allora?...
– Allora vi prego di credere che gli Enriquez.... gli Enriquez de Arana, non lo dimentichiamo, hanno altro per la testa che imparentarsi con un uomo da nulla. Badate, – soggiunse don Alonzo, sorridendo, – non son io che lo penso; dico quello che possono pensare gli Enriquez di voi. Che cosa siete voi qui? Uno straniero, arrivato con vasti disegni, vissuto con larghe speranze, onorato e lusingato da alte accoglienze, le quali potevano destar desiderii intorno a voi, di babbi insensati e di ragazze ambiziose; finalmente, giudicato a Salamanca, e da un giorno all’altro ricaduto nel nulla. Io non penso così, – ripetè don Alonzo; – dico quello che possono pensare gli Enriquez. Ed eccovi, mio buon amico, mio povero cosmografo, mio disgraziato marinaio, come i babbi mutano di consiglio; e le ragazze, d’amore.
– Capisco pur troppo; – disse il marinaio genovese, sospirando. – Quantunque, dopo ciò che è accaduto.... dopo la conseguenza di un grande errore.... che ha destata la collera del vecchio....
– Ebbene? che significa ciò? la collera non sarebbe venuta, se non fosse stato il giudizio dei dotti di Salamanca. Se gli Enriquez avessero avuto notizie di una vostra vittoria, se almeno avessero potuto conservare la speranza di quella vittoria, credete a me, vi avrebbero trattato diversamente. Il babbo si sarebbe rivolto a voi, chiedendovi molto cortesemente di rimediare al mal fatto. In quella vece, del mal fatto si adira e non accetta rimedio. Che cosa vuol dire questo modo di operare? Vuol dire che il vento è cambiato, e le banderuole si volgono altrove. Altrove, avete capito? Ora date retta a me; non aspettate nessuno, e venite a prendere una boccata d’aria. Penso che ne abbiate bisogno.
– No, grazie, don Alonzo; ho promesso di aspettar qui. Rimarrò.
– Perderete il vostro tempo, caro amico, e vi guasterete il sangue per qualche ora di più; – replicò il Quintanilla. – Ma sia come volete; e a rivederci domani. –
Il razionale di Castiglia aveva ragione; Pedro Enriquez non si fece più vivo, quella sera, e neanche la mattina seguente. Cristoforo Colombo aveva passata una cattiva notte; e si preparava a passare un’altra giornata pessima. Ritornò il Quintanilla, e per quella volta prima di mezzodì.
– La curiosità porge la mano all’amicizia, – diss’egli, arrivando. – Niente di nuovo?
– Niente.
– Ve lo avevo pur detto! Venite ora, amico mio; voi sareste capace di lasciarvi morire d’inedia, qua dentro. –
L’amico intese che oramai non c’era più nulla da aspettare. Ad ogni modo, pregò i vicini, se qualcuno venisse a cercarlo, di dire che sarebbe ritornato tra breve.
E l’avviso non fu inutile. Al suo ritorno trovò qualcheduno che l’aspettava: una donna del popolo, una contadina, con un bambino al petto, seduta sul gradino del pianerottolo.
– Siete voi Cristoval Colombo? – chiese ella, vedendolo apparir sulle scale.
– Son io; che volete?
– Ho una lettera per voi. –
E tratto un foglio dalla tasca del suo grembiule di bambagia, lo porse al nuovo venuto.
Egli aperse la lettera, corse con gli occhi al fondo, e riconobbe la firma di don Inigo Enriquez.
“Troppo male ci avete cagionato” diceva la lettera. “Non vedrete più la mia figliuola, che porterà sempre nel cuore il rimorso di avervi creduto. Quanto alla vostra offerta, essa ci offende, come tutto ciò che ci venne da voi. Siamo hidalgos, e voi non siete che un avventuriere.”
Una nube passò davanti agli occhi di Cristoforo Colombo, che non potè legger più oltre, per allora. Tentò di scuotersi, e si volse alla portatrice della lettera.
– Chi vi ha mandata? – le disse. – Donna Beatrice Enriquez?
– No, messere; – rispose ella, mentre si toglieva il bambino dalla poppa, e traeva l’orlo della camicia sul seno. – Mi manda don Inigo, con questo povero innocente che vedete. –
Cristoforo Colombo vide il bambino, a cui da principio non aveva badato, e mise un grido, guardandolo. Poi si volse ancora alla donna e la guardò fissamente negli occhi. Quella mosse lievemente la testa, in atto di dirgli che egli aveva indovinato. Egli allora stese le mani e prese tra le sue braccia il bambino, che baciò sulla fronte e sulle guance. Il piccino, sentendo di non esser più tra le braccia della nutrice, fece greppo coi labbruzzi ancor bianchi di latte, e strillò.
– Non lo baciate così, messere; – disse la donna; – lo spaventate, il poverino. –
Egli allora, con atto frettoloso, rimise tra le braccia della nutrice il bambino, che subito si acquetò.
– Venite, – disse Cristoforo Colombo alla donna, – entrate in casa, e sedete. Ma ditemi, per carità, dov’è donna Beatrice? dove sono andati ad abitare gli Enriquez?
– Questo io non posso dirvi, messere. Ho promesso a don Inigo. L’ho giurato per Nostra Signora del Rosario, che mi faccia perdere il lume degli occhi, se io parlo. Quanto a donna Beatrice, la cercherete inutilmente; è partita da Cordova.
– Partita! e da quando?
– Da questa mattina.
– Per dove?
– Non lo so. E poi, che serve, mio signore? Non posso dirvi altro. Mi hanno detto: va, portagli questo bambino. Egli è il padre; è giusto che pensi lui, che provveda lui alla sua creatura. E son venuta, messere, certa che un padre non mi avrebbe rimandata, non avrebbe abbandonato suo figlio.
– L’ha pure abbandonato sua madre! – esclamò egli, inasprito da tanta crudeltà.
Ma non chiese più altro. Ritenne il piccolo innocente con sè; quanto a Beatrice Enriquez, il nome di lei non uscì più dal suo labbro.
Don Alonzo di Quintanilla, veramente “amico suo e non della ventura” vegliava sul padre e sul figlio. Fu egli che, per togliere il suo protetto dalla vicinanza di una casa che troppe cose gli ricordava, cercò il nuovo quartierino in via dell’Alfarace, presso la porta del Mediodìa. Colà fu allogato il bambino con la nutrice e col vecchio marinaio, fedele compagno del navigatore genovese. Due giorni dopo, egli e Cristoforo Colombo partivano, per seguitare i sovrani al campo sotto Malaga.
Queste cose in succinto, due anni dopo che erano accadute, aveva raccontate don Cristoval Colon ad un’altra Beatrice, alla bella e compassionevole marchesa di Moya.