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LE DUE BEATRICI CAPITOLO X. Come ragionasse una figlia d’Eva, fiutando alla bella prima il serpente. |
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CAPITOLO X.
Come ragionasse una figlia d’Eva, fiutando
Compassionevole? dirà il lettore. Non tanto. Sappiamo infatti che la bella marchesa non difettava d’orgoglio; che era impetuosa ne’ moti dell’animo; che aveva l’indole imperiosa e che l’educazione aveva piuttosto aggravata che corretta la fierezza del suo carattere. “Soy Bovadilla” diceva ella qualche volta; e pareva gloriarsene. Ora, tutto ciò s’accorda male con l’epiteto di compassionevole; un epiteto che ne richiama subito qualchedun altro: quello di tenera, per esempio. Ora, possiamo noi immaginarci tenera la marchesa di Moya? E se anche potrà esser tale in qualche ora della sua vita, possiamo star certi che un impeto di sdegno non venga lì per lì a guastare ogni cosa?
Non sofistichiamo, per carità. Prima di tutto, la marchesa di Moya è donna, e della donna avrà il buono, come il cattivo. Noi prenderemo di lei tutto ciò che porteranno gli eventi. Vi capacita?
Beatrice di Bovadilla aveva ascoltato il racconto di don Cristoval. Voi che la conoscete un pochino, oramai, potete credere che avesse anche molto sofferto. Ma non aveva dato a diveder nulla, e don Cristoval aveva potuto giungere fino in fondo, senza pensare di essere ascoltato altrimenti che con una benevola curiosità. Egli aveva finito, aveva dato un sospiro, che poteva parere di rimpianto, ma anche di liberazione, e si era rivolto alla sua nobile uditrice con l’aria di un uomo che conchiude: ora sapete ogni cosa: siete contenta?
Ma ella non era contenta, e nemmeno soddisfatta. Rimase alquanto in silenzio, meditando; poi chiese: – E non l’avete più veduta?
– Mai più; – rispose don Cristoval.
– Come? E non avete domandato di lei? non avete cercato di sapere dove fosse? che cosa facesse
– No, signora.
– Per voi, dunque, è buio fitto? Quella donna può esser andata a marito, e voi non darvene pensiero? –
Don Cristoval non rispose; nè fece alcun gesto che indicasse un pensiero, svegliato nell’animo suo dalla supposizione della marchesa di Moya.
– È strano; – ripigliò essa. – È strano. Perchè, se non forse un dolore, un dubbio almeno doveva entrarvi nel cuore. Ed anche un pochino di stizza, m’immagino. Per solito, in amore, quando siamo noi che ci secchiamo, non guardiamo tanto nel sottile, e godiamo d’un silenzio che abbiamo desiderato noi primi. Ma quando si è traditi, quando si è abbandonati.... Perchè voi siete stato abbandonato, ne convenite?
– Non posso dire altrimenti.
– Or bene, quando si è abbandonati, non si lascia così presto il giuoco. Si vuol conoscere il come, si vuol sapere il perchè sia finito, e non per colpa nostra, tutto ciò che pareva non dovesse aver fine. –
E si fermò, aspettando la risposta di don Cristoval. Egli sentì la necessità di dire qualche cosa; e si provò, per quanto poco desiderio ne avesse, a rispondere.
– Voi metterete in conto, signora marchesa, un sentimento particolare dell’animo....
– La superbia? – interruppe Beatrice di Bovadilla, i cui occhi sfavillanti parvero dire: la conosco.
– No; – rispose don Cristoval; – dite il giusto orgoglio, l’onesta alterezza, che è dote d’ogni anima non volgare. In ogni occasione della vita si fa quel che si deve; in certe occasioni si fa qualche cosa di più, per essere certi di non essere stati da meno. Poi, si richiude il cuore, non volendo tornare incresciosi a nessuno, nè dare spettacolo di viltà. Io ho fatto così.
– Male! male! – mormorò essa. – Avete fatto male, amico mio. Prima di chiudere una casa, bisogna vedere se non ci si lascia nessuno, che potrebbe farci il diavolo a quattro. Prima di chiudere il cuore, bisogna vedere se non ci si lascia appiattato un nemico, sentimento od immagine, che può viverci dentro, crescerci, alimentarsi del nostro sangue, e avvelenarcelo per tutta la vita. –
Don Cristoval chinò la fronte e non rispose parola. Beatrice di Bovadilla lo guardava con la coda dell’occhio. Vedendolo così abbattuto, si accostò lentamente e gli disse:
– Guardatemi, don Cristoval, non abbiate timore di me. Sono una donna ancor io.... come la figliuola dell’hidalgo; – soggiunse ella, con accento di sottile ironia. – Guardatemi in viso, e rispondetemi. Voi amate ancora quella donna? –
Don Cristoval, per obbedienza, aveva dovuto alzar gli occhi. E già apriva le labbra per rispondere; e stendeva frattanto la mano, per accompagnar la risposta d’un gesto supplichevole. Ma Beatrice di Bovadilla non gli diè tempo di proferir parola. Tutto il suo coraggio l’aveva abbandonata in un punto; e, col coraggio dell’animo, anche la imperiosità dell’aspetto.
– No, non mi dite nulla; – gridò, gittando le mani avanti, in atto di terrore. – No, non lo voglio sapere! –
E diede in un pianto dirotto, così parlando, e cercò istintivamente il sedile, da cui si era alzata poc’anzi.
Don Cristoval vide l’atto, e pensò ch’ella fosse per cader tramortita. Si avanzò allora per trattenerla, e l’aiutò a sedersi. La marchesa di Moya si abbandonò sul sedile, e rimase coi gomiti sulle ginocchia, il viso nascosto tra le palme, piangendo a calde lagrime, mentre egli, fieramente turbato, non sapendo che dire, ricadeva al suo posto.
Era un momento difficile. Pure, a quel momento bisognava venirci. Quando non si va per gradi, si va per salti; dove la luce non si diffonde a poco a poco, di barlume in alba, e d’alba in aurora, il sole apparisce di schianto e ferisce la vista. Don Cristoval non aveva fino allora capito niente dell’animo di quella donna; doveva capire ogni cosa ad un tratto. Ma come e perchè non aveva capito prima? Era un semplice, ve l’ho detto. Aveva notata la benevolenza della gran dama per lui, e gli era parsa una cosa naturalissima, pienamente giustificata dal bisogno ch’egli aveva di protezione e di aiuto. I protettori sono curiosi; la curiosità spesso è frutto di una grande benevolenza. Ed egli aveva già sperimentata questa curiosità nel primo, nel più efficace dei suoi protettori, il Quintanilla. Le protettrici sono anche più curiose dei protettori, poichè nel cuor della donna la benevolenza è più tenera. Ma egli era così lontano dal pensare che un altro sentimento potesse dettare quella curiosità alla marchesa di Moya! E intendendo finalmente, rimase sconcertato, come non era stato mai in sua vita. Quella donna, quella gran dama, amar lui! lui, così da poco nel mondo! percosso dalla sventura, avvilito dalla superbia e dalla ignoranza dei più! Egli, per verità, si era misurato qualche volta, paragonandosi alla maggior parte dei suoi simili; ma era stato sempre un esame interiore, il suo, e non risguardava che la novità delle idee, la grandezza delle visioni che gli si affacciavano alla mente, la vastità dei disegni che gli ribollivano nell’anima. Quanto alla sua persona, l’aveva sempre osservata poco, anzi nulla. Da giovane, forse.... Gli occhi delle fanciulle di Liguria, e poi via via di tutte le rive del Mediterraneo, delle coste e delle isole dell’Oceano, gli avevano detto: sei bello. Ma di queste cose non insuperbiva il marinaio. L’uomo che vive nelle consuetudini della battaglia quotidiana, non ha tempo a fermarsi su certe cose. Ama o non ama, ecco tutto; quando ama ed è riamato, prende; e non si trattiene, ammirando il fiore che coglie, a guardare se la mano che coglie, sia veramente degna del fiore.
Un amore più vivo, e non fugace come gli altri della prima giovinezza, era stato quello per donna Filippa Mogniz, da lui conosciuta a Lisbona, e fatta sua moglie. Ma egli aveva allora venticinque anni, l’età in cui l’uomo sa di potere, o molto o poco, tornar gradito ad una donna, e sempre moltissimo quando ella aspetti un marito. L’altro amore, e più forte, era stato quello per donna Beatrice Enriquez, Don Cristoval era allora sui quaranta; una età in cui è naturale che si vada più guardinghi, dubitando di piacere assai meno. Ma egli non aveva avuto il tempo di dubitare; neppur quello di pensarci su. Poi, tra gli ardori della passione, era caduto un ghiaccio improvviso. Perchè? Egli non lo sapeva ancora. Due anni erano passati, ed egli non era anche riuscito a raccapezzarsi. Ma se qualche cosa avesse potuto argomentare, sarebbe stato piuttosto a confusione del suo orgoglio, se mai ne avesse avuto ombra nell’animo.
Ed egli, frattanto, così alieno dalle piccole vanità quanto era compreso delle nobili superbie, si vedeva davanti quella donna piangente, e sentiva l’obbligo di dirle qualche cosa, di trovare una parola di conforto per lei. Che dire ad una donna che piange? Di parole se ne possono trovar molte, quando non si conosce la cagione delle sue lagrime. Ma quando ella piange per noi?... Per la prima volta che egli si sentiva obbligato a parlare, don Cristoval correva il rischio di apparire ridicolo. Una donna che consola un uomo, è cosa di tutti i giorni; ma un uomo che debba consolare una donna, è un caso molto più raro. Guai a non cominciar bene! Don Cristoval doveva parlare ad una donna, il cui pianto era stato molto eloquente, ma che in fondo non gli aveva detto nulla di nulla, e che alla prima frase infelice del suo consolatore avrebbe potuto rivoltarglisi contro, come una leonessa ferita, e atterrarlo d’un colpo.
– Signora.... – balbettò egli, muovendo verso di lei.
Beatrice di Bovadilla non rispose; continuò a singhiozzare.
– Vi supplico, signora, – ripigliò don Cristoval, prendendo animo dalla necessità del momento, – non piangete così. Vedo bene la cagione delle vostre lagrime; e vi ringrazio. Dovrei inginocchiarmi ai vostri piedi, per ringraziarvene. È dunque un po’ di compassione che voi sentite per me?
– No, – rispose Beatrice di Bovadilla, con voce ancor soffocata dal pianto. – Non parlate di compassione, o ch’io dovrò credere che voi vogliate averne di me. Se poi siete sincero.... che cosa dovrò pensare di voi? Così dunque leggete nell’anima mia?
– Lasciatemi dire, signora. Leggo bene, leggo meglio che voi non crediate; – replicò don Cristoval, con accento di profonda tristezza. – Se dovessi leggere ciò che a voi pare, diventerei troppo orgoglioso. Dio mio! ma sapete voi, Beatrice di Bovadilla, che per essere amato da una donna come voi, mi bisognerebbe di essere ben altro da quel poco ch’io sono? A voi pare, lo so, a voi pare di amarmi; e non vi avvedete, nobile amica, quanta parte abbia nel vostro modo di sentire la grande bontà della vostra bell’anima. Lasciatemi dire; – soggiunse. – Non so, non voglio mentire con voi. Mi avete fatto una domanda, e vi voglio rispondere; m’intendete voi signora? Vi voglio rispondere. –
Ella si rasciugò con un moto convulso le lagrime, alzò la fronte, e gli mostrò i suoi begli occhi rosseggianti, guardandolo fissamente nel volto.
– Sia; – diss’ella; – parlate. Debbo avere il coraggio di ascoltarvi; lo voglio.
– Ed io son qua ad obbedirvi. Mi avete domandato poc’anzi: voi amate ancora quella donna? Or bene, io vi rispondo: non lo so.
– Non lo sapete! – ripetè la marchesa, con un accento da cui traspariva una sottile ironia.
– Non lo so, non lo so; – rispose don Cristoval. – Che io non abbracci più il mio vecchio padre; che io non venga più a capo dei miei disegni; che il mio nome rimanga oscuro per sempre, e rientri nel nulla il nuovo mondo ch’io vedo, se io non vi dico la verità. Non lo so. Certamente, ho sofferto. E soffro ancora. Si soffre sempre, di certe ferite, anche quando si sono rimarginate. Io ne porto qualcheduna, ricordo di fieri combattimenti all’arrembata; e, solo a premervi leggermente col dito, mi va lo spasimo al cuore. Son fibre lacerate, che dànno di questi dolori. E lo stesso è delle ferite morali; fors’anche è peggio. Sono stato offeso, mortalmente offeso; lo avete riconosciuto anche voi.
– Orbene, tutti abbiamo la nostra parte di orgoglio. E ancora intenderete che io avessi un alto dovere, un sacro dovere da compiere. Io sono stato molto colpevole. Non posso pensare al mio fallo, senza sentirmi correre il rossore alla fronte. E forse è questo pensiero che mi fa soffrir tanto, quando mi si affaccia alla mente l’immagine di quella donna. Un gentiluomo, chiamato a giudicare tra me e lei, a pesare i nostri torti scambievoli, direbbe certamente che il mio torto è maggiore. Dentro di me io posso sentire che ciò non è vero, e che ad ogni modo io soffro di più. Ma debbo pensare, da uomo onesto, che al cospetto del mondo la mia colpa è la più grave. E mi guardo con gli occhi del mondo, e mi giudico severamente, e ne soffro tanto più, quanto più vedo la impossibilità di riparare i miei torti. Penso ancora, penso sempre che quel bambino, quel povero Fernando, è senza madre. Anche il maggiore è orfano; ma egli sa e potrà confessare altamente il nome della sua. Fernando non lo potrà mai; il povero innocente porterà la pena delle colpe di suo padre. Verrà pure un giorno che i due fratelli si riuniscano nella mia casa, o che, dopo la morte mia, si ritrovino. L’uno dirà: mia madre fu donna Filippa Mogniz e Perestrello, povera, ma di nobili natali, e moglie a Cristoval Colon, che fu mio padre. La madre tua, fratello Fernando, chi è stata?
– Questo – pensate? – chiese la marchesa di Moya. – Questo, e non altro? Ne siete ben certo, don Cristoval? Rammentate ciò ch’io vi ho detto poc’anzi. Voi avete chiuso il vostro nemico nel cuore.
– E potrà anche questo esser vero; – rispose egli, sospirando. – Io m’intendo poco di queste cose; ho sempre pensato ad altro, io. Son nato in umile condizione; son vissuto in mezzo a troppe vicende; ho dovuto guardar sempre intorno, e non mai dentro di me. Nondimeno, cercando di contentarvi, discendo a cercare nel profondo del mio cuore, e non mi par di trovarci.... quel che voi dite. Vedo bensì gli obblighi morali che pesano sull’anima mia; la coscienza me ne avverte, e la religione conferma le sue voci. Non giudicate voi egualmente?
– No, – rispose risoluta la marchesa di Moya. – Ho meditato lungamente su ciò che vi dà tanta pena, e mi pare che voi v’inganniate. Son donna, e so che pensare di certe debolezze. Voi, per quanto possa parer strana la cosa, siete stato trascinato, non lei. Non abbiate rimorsi. Quanto alle offese che il vostro orgoglio ha patite, potreste consolarvene, ricordando una frase di certa lettera, l’ultima, mi pare, che quella donna vi ha scritta. “Altrove” vi ha detto: “mio padre si rivolgerà per appoggio altrove.” Intendete da questa frase, che non doveva rivolgersi altrove suo padre, il vecchio pezzente; ma lei, particolarmente, unicamente lei
– Signora....
– Ne dubitate?
– Non so che dirvi. Questa è stata anche la supposizione di don Alonzo di Quintanilla.
– E la supposizione fa onore al suo ingegno; – replicò la marchesa di Moya. – Perchè non avete creduto all’amico?
– Era una supposizione, lo ammettete anche voi; – rispose don Cristoval. – Sopra una semplice supposizione non si può fondare un giudizio.
– Quando non si vuole, capisco.
– Ma neanche don Alonzo si trattenne a lungo su questo pensiero. Il tempo è passato, e niente è venuto a confermarlo.
– E niente a dimostrarne la vanità; – ribattè la marchesa. – Resta sempre l’indizio; e un indizio di peso. Non riesco ad intendere come non lo abbiate osservato un po’ meglio. Quell’altrove, amico mio, voleva dir molto. Era un colpo meditato, una offesa, un dispregio. Protettore fallito, volevano dirvi, credete voi d’esser solo ed unico al mondo? ne troveremo degli altri; anzi, guardate, ne abbiamo già uno sotto la mano; non abbiamo avuto a far altro che rivolgerci.... altrove.
– Voi credete?
– Ne son certa. E per crederlo, non mi sarebbe neanche mestieri di aver conosciuta la frase di una lettera. Il fatto dell’abbandono bastava. C’è un uomo, lì sotto; cercate l’uomo. Ma no! – soggiunse ella prontamente, come pentita; – lasciamo stare questo discorso. Io ho gran paura di aver ceduto ad un sentimento di cattiveria.
– Ne siete incapace; – rispose don Cristoval. La marchesa di Moya si fermò un istante a guardarlo.
– Incapace! – esclamò. – Come lo sapete?
– Vi leggo negli occhi, signora. –
Gli occhi della marchesa, lodati in quel modo, mandarono un lampo di allegrezza.
– Ma allora.... diss’ella con voce tremante di commozione. – Ma allora.... voi amate questa povera Bovadilla? Dite di no, se potete.
– Signora marchesa.... – rispose egli turbato. – Io vi stimo.... e vi venero.
– Che! che! – rispose Beatrice di Bovadilla, scuotendo la bellissima testa. – Non ne sapete niente neppur voi, dei vostri sentimenti. Ma passiamo; e poichè mi credete incapace di una perfidia, lasciatemi dire tutto ciò che io penso di quell’abbandono. L’uomo c’è; io ne son certa. Anche voi dovevate sentirlo. E non lo avete sentito?
– No, veramente.
– E non vi siete insospettito di nessuno che ronzasse intorno a quella casa? non avete veduto mai quello che tutti gli innamorati vedono? il paio di occhi luccicanti nell’ombra? quel paio d’occhi che spiano il vostro arrivo, o la vostra partenza, e vi dicono che è piena d’imboscate la campagna, in cui credevate di regnare da solo?
– Signora, ve lo giuro, io non ho veduto nulla di ciò che voi dite.
– Ma che uomo siete voi, don Cristoval? – proruppe la marchesa di Moya. – In che mondo siete vissuto finora? Potete credere che intorno alla donna amata da voi non ci fossero altri, prima di voi, ad aspettare un suo sguardo pietoso? che intorno ad ogni donna non ce ne siano dieci, venti, cinquanta, più o meno vicini, ma tutti in agguato e in attesa? E poi, come amate voi, che non siete geloso? Povero amore, quello che non soffre di gelosia! Amata ed amante, io non so quel che farei, se un’altra donna mi attraversasse la strada; ma certamente il castigo non si farebbe molto aspettare. Voi non sapete nulla; voi non vedete nulla; voi non sospettate di nulla. Ma già, siete un uomo così strano, voi! C’è da rinunziare all’impresa di studiarvi e d’intendervi. Ma badate, don Cristoval; son io che ve lo dico, io figlia d’Eva; il tentatore c’è stato. Strisciava nell’erba, mentre voi, tranquillo e sicuro, facevate la siesta nel vostro paradiso.... perduto. Bisogna trovarlo, il serpente. Ed io lo troverò, non dubitate, lo troverò.
– Per che farne? – diss’egli, crollando la testa.
– Ah, se non per voi, per me; – rispose Beatrice di Bovadilla. – Sarà il mio segreto, don Cristoval. Molto sapete ora di me, poichè avete vedute le mie lagrime. Se tutto l’altro non vi è chiaro egualmente, in fede mia, non so più che dire. –
E cedendo ad un moto di dispetto, si alzò dal sedile, per andare in volta sotto gli aranci del patio. Voleva proseguire verso il fondo, ove il piccolo Fernando muoveva i primi passi, e rideva ai vezzi della nutrice. Ma giunta a mezza strada, si fermò, per cogliere un fior d’arancio, che pareva offrirsi a lei dalla vetta pendente di un ramo.
Don Cristoval era rimasto un istante perplesso, guardandola. Ma qualche cosa bisognava fare; qualche cosa bisognava pur dire. Prendendo una risoluzione subitanea, seguì la marchesa di Moya, e la raggiunse, mentre stava collocando il fiore nello sparato del busto. Essa lo vide giungere, ma seguitò il suo piccolo lavoro, fingendo di non prestare attenzione a ciò ch’egli facesse o dicesse.
– Beatrice di Bovadilla, – incominciò egli con voce sommessa, – voi siete una nobile creatura, ed intendete, senza ch’io parli, tutto ciò che è nel mio cuore. Troppo male ho commesso nella mia vita, cedendo agli impulsi della passione.... o ad altro che sia. Di più non posso dire sul doloroso argomento; accogliere altri sentimenti, vagheggiare altri sogni, non devo. –
La marchesa di Moya aveva guardata fino allora la sua ciocca fiorita d’arancio, volendo fermarla meglio nel busto. Ma ella volse in quel punto un’occhiata al suo vicino, un’occhiata mezzo sdegnosa e mezzo curiosa, che doveva passargli l’anima. Intanto, un povero fiore si andava disfacendo tra le sue dita convulse, che seguitavano macchinalmente a fermare quella ciocca nel busto.
Don Cristoval sentì, più che non vedesse, lo sguardo corrucciato della marchesa di Moya.
– Sarei un infame.... – proseguì egli, concitato, ma abbassando ancora la voce, – sarei indegno della vostra benevolenza, della vostra protezione, se parlassi altrimenti. Pensate, nobile signora, come voi siate in alto, nel mondo; e come io, oscuro straniero, ma di non vile animo, debba tenervi in gran conto, geloso del vostro buon nome, costretto da tante ragioni a volere che la mia amicizia e la mia devozione non offuschino l’aureola di virtù che circonda la vostra purissima fronte. Molti vi amano, lo so; e sono tutti coloro che vi ammirano. Non mi fate quel gesto superbo, vi prego. Io ne conosco parecchi, oltre il conte di Gelvez; potrei citarvi un duca di Medina, un Guevara, un Joramillo, un Ojeda. Ma voi passate, fra tante ammirazioni, fra tanti desiderii, gloriosa, noncurante, inaccessibile, come il sole. La virtù di donna Isabella di Castiglia dà certamente alla sua Corte un grande esempio di purezza, ignota a troppe altre Corti d’Europa. Ma ciò non basterebbe, senza l’onesta alterezza che informa ogni atto della bellissima marchesa di Moya. Pure, voi lo vedete, inaccessibile divinità; a voi si rivolgono, a voi sospirano tutti; e rimangono tutti disarmati, tremanti, adoranti, perchè non vedono alcun altro ottenere uno sguardo più lungo, una parola più dolce da voi. Ma badate, nobile signora: se un povero disgraziato, che voi proteggete, osasse sperare di piacervi, e qualcuno si avvedesse, non pure della vostra benevolenza per esso, ma solamente delle orgogliose speranze di lui, l’ombra del sospetto cadrebbe anche sulla più nobile tra le donne, il soffio della calunnia appannerebbe il terso specchio della sua vita. Credetemi, Beatrice di Bovadilla, e datemi merito, almeno, di ciò che io sento per voi. Vedo ed intendo tutto ciò che siete, tutto ciò che perdereste, se io ardissi interpetrare altrimenti quel senso di divina pietà che vi ha fatta mia protettrice. Siatemi buona, e perdonate questo linguaggio, che infine non è quello di un volgare nè tiepido amico. –
Così dicendo, piegò a terra il ginocchio, prese la mano della marchesa di Moya, e la recò, in atto di devozione, alle labbra.
Beatrice di Bovadilla non aperse bocca, tanto era commossa, e dal discorso di don Cristoval, che certamente diceva assai più che non suonassero le parole, e dall’atto subitaneo di lui, che esprimeva tanta umiltà e tanto desiderio di perdono.
Il momento, del resto, non voleva continuazione di dialogo. La bella marchesa lasciò lungamente tra quelle di don Cristoval una mano che ardeva e tremava ad un tempo; e finalmente, con un piglio risoluto che contrastava col fremito della voce commossa, gli parlò in questa guisa:
– Abbiamo ragionato già troppo. Venite; voglio vedere il piccolo Fernando. –
Egli si alzò e la seguì verso il fondo del patìo, dove il bambino si godeva mezzo mondo, ripetendo i suoi quattro o cinque passettini, dal muro alle braccia tese della nutrice. La marchesa di Moya contemplò un istante la scena, poi volle baciare quel caro tombolino che ancora una volta potè allungare le manine, e ficcarle nella trina d’oro che luccicava sulla fronte della nobile signora.
– Voglio che quest’angioletto venga qualche volta a vedermi; – disse la marchesa di Moya. – Ricordatelo, nutrice. Questo almeno mi sarà permesso; – soggiunse, rivolgendosi a don Cristoval. – E non mi condannerò neanche a non vedere più voi, per conservare l’aureola. Che idea, quell’aureola!... Non mi mancherà più che il piedistallo e la nicchia. Andiamo, via; siete ancora il mio cavaliere, e dovete accompagnarmi a palazzo. –
Don Cristoval la seguì, un pochettino confuso da quella mezza ironia, che non gli lasciava intendere che cosa pensasse di lui la sua nobile compagna, e non gli dava lume di ciò ch’ella potesse aver risoluto dentro di sè per il futuro.
Ma che cosa poteva aver risoluto, la nobile signora? Lì per lì, doveva esser rimasta confusa al pari di lui. E se rideva, non era da credere che fosse molto sicura del fatto suo. Si ride tante volte a fior di labbra, mentre si ha l’inferno nel cuore! Di certo, ella faceva uno sforzo violento per padroneggiarsi. E così, a testa alta, sorridente all’aspetto, la marchesa di Moya uscì sulla via dell’Alfarace, muovendo lentamente verso la piazza Maggiore. Attraversava da capo il popoloso quartiere, guardando di qua e di là, osservando le case e la gente, le fogge e i costumi popolari, nè dimenticando di rivolgere ad ogni tanto la parola al suo cavaliere, ragionando di cose vane, come è l’uso della civil compagnia, quando si ritrova a passeggio, e non ha nulla da dire di importante, o non vuol gittare le cose più gravi in pascolo alla curiosità della gente che passa. Le donne hanno questa rara potenza di concentrazione; fanno di necessità virtù, come suol dirsi, essendo da troppe ragioni costrette a nascondere i moti dell’animo, ed anche, se occorre, a dissimulare le ferite del cuore.
Quel giorno, non era ancor cessato per lei l’obbligo di mostrarsi tranquilla. Doveva assistere alla cena e alla conversazione serale della regina. Ma quando finalmente ella fu sola nei suoi appartamenti, Beatrice di Bovadilla gittò insieme con le sue vesti gallonate la maschera di serenità, a cui con tanto sforzo si era composto il suo volto. E pianse di rabbia, la povera marchesa, che aveva detto il proprio segreto a quell’uomo, e non poteva fargli colpa dell’onesto ritegno con cui egli aveva custodito il suo.
Pianse, vi ho detto; ma non si può piangere continuamente, neanche quando si piange di rabbia. Dopo aver dato sfogo alla rabbia, la bella Beatrice di Bovadilla pensò, e pensò più lungamente che non avesse pianto. Quell’uomo che aveva custodito il segreto del suo cuore, le aveva nondimeno mostrato di saperla intendere, e di esser degno di lei, per il suo alto sentire. Don Cristoval aveva l’animo grande; Beatrice di Bovadilla non doveva esser da meno di lui. Infine, perchè non sarebbe stato possibile un amore alto e solenne, com’egli pareva capace di sentirlo? Gli antichi non avevano già date le ali all’amore, perchè avesse da rader sempre la terra. Si vive così bene, così pienamente, sapendo di essere amati, anche senza i fumi della passione volgare, senza l’agitazione dei sensi e le spine acute del rimorso! Un grande amore, scambievolmente sentito, librato alle maggiori altezze ideali, è veramente cosa di cielo, è il fiore dell’anima, è una fragranza d’eternità. Chi potrebbe condannarlo? chi considerarlo un peccato? Si può egli vietare agli occhi di vedere, al cuore di sentire, all’anima di pensare? Tutto ciò è più forte di noi. Ed è finalmente impossibile che ciò ch’è stato non sia; impossibile annientare il fatto, che gli occhi abbiano veduto, il cuore sentito, l’anima pensato, e tutto il nostro essere aspirato a quell’arcana comunione di spiriti, che è la medesima essenza e il fine supremo della vita. E tutto ciò là in alto, poggiando sulle nuvole d’argento, dove salgono e si cullano così volentieri i sogni del nostro pensiero.
Sì, tutto ciò è bello, è grande, è sublime, ma nei sogni. Nella realtà della vita, il sublime non è che un attimo, quanto basta al fulmine per cadere, al pensiero per sorgere. Sulle ardue cime della contemplazione non si sta, non si vive. Le alte regioni son fredde; la felicità dei purissimi spiriti, se non è fatta di ghiaccio, ne è tutta circondata, e a breve andare se ne compenetra. E allora? Triste esistenza, in quell’altra Siberia! Se quella è felicità, chi mai vorrebbe augurarsela? E chi, credendola tale, potrebbe contentarsene, dopo esserci vissuto un giorno, mentre il cuore palpita, e il sangue vi dice sordamente: io son qua, e il vostro ghiaccio arresta le mie pulsazioni? Oh poeti! oh filosofi!
La marchesa di Moya pensava; e di pensiero in pensiero, come spesso accade, era venuta a quest’altro. Se, dando ragione al suo primo sospetto, don Cristoval amava ancora quella donna?... Orribile idea! Beatrice di Bovadilla avrebbe voluto cacciarla lontano, molto lontano da sè; e quell’idea ritornava insistente a molestarla. Ma infine, si poteva anche considerarla, studiarla attentamente, quell’orribile idea. C’è il coraggio della disperazione, che vi fa affrontare anche l’idea della morte. Sicuramente, nel cuore di don Cristoval, non era più amor vero per la bella Cordovana; ma soltanto amor proprio offeso. Ebbene? che voleva dir ciò? che cosa mutava, nello stato delle cose? L’amor proprio non è che una larva dell’amore; ma esso è anche la parte più gelosa, più delicata di noi. Vorremmo aver vinto, ed abbiamo perduto. Ci si rassegna male, si pensa sempre a quella sconfitta; frattanto si pensa ancora, si pensa sempre ad una gioia perduta; si vorrebbe riconquistarla, anche a rischio di annoiarsene poi. Che orrore! E a lei doveva toccare un caso simile; a lei, Beatrice di Bovadilla, ammirata, desiderata, adorata da cento? Ma che maledizione è mai questa, che ci fa disdegnare chi si volge a noi, e desiderare chi ci volge le spalle?
Eppoi, in questo dolore, in questa amarezza, c’era anche il suo punto sublime. Il risplendere è ufizio naturale di una insigne virtù. Ora, virtù e felicità non hanno mai fatto buona vita insieme. A costo di essere infelice, la marchesa di Moya doveva avere il coraggio della sua nobiltà di sentire; doveva andare in fondo, senza badare alle conseguenze; o piuttosto vederle tutte, le buone e le cattive, ed essere apparecchiata a tutti gli eventi. Doveva cercare quella donna, e trovarla; vedere se ella fosse veramente così bella, da meritare tanto affetto da un uomo, e da un uomo come don Cristoval. Quello era un giuoco pericoloso, altamente pericoloso per una osservatrice che si muovesse soltanto per impulso di virtù. Infatti, se quella donna, veduta e studiata da vicino, meritava l’affetto di don Cristovai, un obbligo morale si offriva subito all’anima di Beatrice di Bovadilla, l’obbligo di ravvicinar quella donna all’amante riamato, di essere l’angelo della riconciliazione tra i due. Ma se ella non meritava quell’affetto... se era tutt’altra da quella che don Cristoval l’aveva creduta... oh allora, tanto meglio! si offriva l’obbligo di smascherarla agli occhi di lui, di trovare fra l’erbe il serpente, e dire a don Cristoval: era quello il nemico; calpestatelo, o lasciatelo stare, a vostra posta; ma quella donna è un’infame, non era, non è degna di voi.
La figlia d’Eva non dimenticava il serpente. Era forse quella immagine, appiattata nei recessi dell’anima sua, che le aveva suggerito il disegno? Questo non saprei dir veramente; mi basta di affermarvi che la marchesa di Moya, entrata una volta in quella risoluzione, era capace di tutto, anche di sacrificare sè stessa alla felicità di don Cristoval. Non era egli il suo protetto? E poi, queste contraddizioni sono proprie della natura umana, quando l’educazione l’ha piegata un tantino. Abbiamo risoluto di esser buoni, e ci facciamo una gloria, un debito d’onore di esser tali; avviati su questa china, anzi no, su questa salita, saremmo capaci di guadagnarci un posto tra i santi.