Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO XI.   Da Cordova a Siviglia.

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CAPITOLO XI.

 

Da Cordova a Siviglia.

 

In questi pensieri la marchesa di Moya si addormentò. Non aveva ancora guadagnato un posto tra i santi; ma bene aveva meritate le sue sette ore di sonno. E dormendo, sognò che aveva finalmente trovata la bella Cordovana; bella, davvero, e fin troppo; ma indegna, per tanti altri rispetti, dell’amore di don Cristoval. Assai più fatica doveva durare a cercarla, dopo essersi svegliata. Nel sogno, la mente accomoda ogni evento al proprio desiderio; nella vita è tutt’altro. Beatrice di Bovadilla era potente; mettere in moto cento cavalieri animosi, e mandarli alla più arrisicata, alla più pazza impresa del mondo, sarebbe stato il negozio di un’ora. Ma ci sono le piccole cose, le umili imprese; e queste sono assai più difficili delle grandi. Molti giorni passarono, prima ch’ella riescisse a sapere qualche cosa degli Enriquez; e quel che ne seppe era poco meno di nulla. Non per difetto d’ingegno dei suoi esploratori, intendiamoci; che anzi, tutto quanto era possibile sapere, avevano saputo e riferito. La famiglia degli Enriquez de Arana non si ritrovava più a Cordova; da oltre un anno era partita, e, per quanto si diceva da’ suoi conoscenti, aveva messo dimora a Siviglia. Addio, dunque, al disegno di vedere quell’altra Beatrice! Ma un buon punto, ad ogni modo, era vinto; si sapeva dov’era, e si poteva anche fondare un ragionamento su quella partenza. Il vecchio hidalgo non era ricco; anzi era povero in canna. Come mai aveva potuto tramutarsi coi figliuoli a Siviglia? Chi gli aveva forniti i mezzi di quello sgombero, di quel trasferimento? La marchesa di Moya ritornava naturalmente al suo primo sospetto; agli occhi della figlia d’Eva si offriva da capo l’immagine del serpente. Il tentatore era : bisognava scovarlo.

Per andarne in traccia, la marchesa di Moya avrebbe fatto anche il viaggio di Siviglia. Ma la dama di palazzo non poteva muoversi a sua posta, come ogni altra dama del mondo. Ciò che donna vuole Iddio vuole, è presto detto; ma a lei bisognava fare i conti con la volontà dei sovrani. Ora, per sua disdetta, mentre ella ne pensava una, i sovrani ne pensavano un’altra; si partiva da Cordova, e per andare al campo di Baza.

La guerra coi Mori seguiva infatti il suo corso. Vi ho già detto che in quell’anno i reali di Castiglia avevano messo in campo cinquantamila fanti e dodicimila cavalli. Nel tempo stesso avevano alzata una insormontabile barriera tra i due re di Granata, conchiudendo col giovane Boabdil un trattato, per cui promettevano protezione a quel vile, e questi si obbligava a non soccorrere il suo rivale e parente El Zagal. Anzi, in un articolo tenuto segreto per non irritare il popolo di Granata, era stato convenuto che quando l’esercito Castigliano avesse assoggettate tutte le città possedute dallo zio, Boabdil avrebbe ricevuto in Granata un presidio spagnuolo, ricevendone compenso con larghi possedimenti, da ritenere in qualità di vassallo. Boabdil aveva a tutto consentito, per timore che lo zio vincitore non venisse a cacciarlo di Granata.

Di questo trattato aveva avuto sentore El Zagal; ed anche aveva indovinato come i reali di Castiglia ad altro non mirassero che ad aver libere le mani contro di lui. Aspettando i primi colpi sulla città di Baza, aveva spedito colà un valoroso luogotenente, il Caid Yahie, con diecimila uomini. La città di Baza era situata sul pendio d’una collina, cinta di fortissime mura, con un fiumicello ai piedi, ben provveduta d’armi e di vettovaglie. Ma il nemico era forte, perseverante, animoso; la fortuna non arrise agli sforzi del difensore. Ridotto agli estremi, chiese soccorso al suo re; questi non potè far altro che lasciarlo libero di cedere la città, a quei patti che avesse potuto ottenere migliori. Negoziata la capitolazione (e per questo la corte era andata al campo di Baza), si ottenne che gli abitanti sarebbero accettati per sudditi dai sovrani di Castiglia, conservando i beni, la libertà, il culto loro, e promettendo fedeltà. Le larghe concessioni fatte dai vincitori, mentre non s’aspettava che schiavitù e miseria, non solamente rallegrarono gli abitanti di Baza, ma indussero anche altre città moresche a sottomettersi.

Il Cid Yahie, accolto con singolare amorevolezza da Ferdinando e da Isabella, giurò che non avrebbe mai più tratto la spada contro i reali di Castiglia. E più fece ancora, promettendo di ridurre El Zagal a consegnare Guadix e Almerìa. Non fu vana promessa la sua. Rappresentato al suo re il misero stato del reame, e mostratogli quanto fosse meglio fidarsi alla generosità del nemico, che aspettare invano i favori della fortuna, soggiunse:

– Ti rammenti, mio buon signore, del funesto oroscopo che presiedette alla nascita di Boabdil tuo nipote? Si credettero adempiute le predizioni, quando egli cadde prigioniero a Lucena; ma ora è manifesto che in quella passeggera calamità non fu tutto sfogato il rigore della sorte. Per me, non vedo in tutto ciò che il volere di Allà; esso, per abbatterci, unì sotto una mano sola i due potenti regni di Aragona e di Castiglia; esso vuol posare sulla fronte di Ferdinando la splendida corona di Granata.

Alahuma Subahana hu!rispose il vecchio El Zagal, sospirando. – Ben vedo, cugino mio, che Allà decretò la perdita di Granata. Patteggiamo dunque coll’orgoglioso nemico, poichè Allà lo favorisce, e spezza il ferro nella mano de’ suoi più valorosi servitori. –

Non si trattava più che di regolare i patti con Ferdinando. I due principi Mori andarono al campo suo, presso Almerìa, dove Ferdinando li accolse con dimostrazioni di amicizia, e il trattato fu conchiuso tra le feste e le carezze. Gli abitanti di Almerìa e di Cuadix furono, come quei di Baza, ammessi per sudditi, essendo stabilito che non pagherebbero tasse maggiori che non ne pagassero prima ai re di Granata. El Zagal ricevette in dono vasti dominii, come vassallo della corona di Castiglia; e subito le soldatesche cristiane presero possesso delle due città.

Quelle fortune giungevano in buon punto alle armi di Castiglia. Proprio allora si erano presentati al campo cristiano due monaci del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Li mandava ambasciatori il sultano d’Egitto, minacciando di distruggere la tomba di Cristo e di trucidare quanti cristiani si trovassero in Oriente, se i reali di Castiglia non desistessero dalla guerra contro Granata. Vinto El Zagal, già vicino a richiedere Boabdil della esecuzione del trattato conchiuso con lui, Ferdinando poteva rispondere altiero. Innanzi che i monaci fossero ritornati alle sponde di Palestina, il regno moresco di Granata doveva essere finito per sempre.

La regina Isabella non aveva da dare nessuna fiera risposta, poichè aveva parlato il suo regale consorte. Volle invece che fosse assegnata una rendita perpetua di mille ducati d’oro, per il mantenimento dei monaci del Santo Sepolcro. E alla tomba di Cristo mandò in presente lo stesso velo che di sua mano aveva ricamato, e che noi conosciamo, per averla veduta qualche volta al lavoro, mentre parlava con la sua Bovadilla. Anche questo era un modo di rispondere alle minacce del Sultano d’Egitto.

In quella occasione doveva infiammarsi lo spirito di Cristoforo Colombo, per la liberazione del sepolcro di Cristo. Vano disegno, il suo! Al re Ferdinando, bastava fare di tutta la Spagna un solo reame; e le rendite che lo scopritore di un nuovo Mondo voleva assegnare alla magnanima impresa, dovevano essere negate dall’avarizia e dalla ingratitudine del re, non pure al grande ammiraglio del mare Oceano, ma ancora ai suoi legittimi eredi.

Frattanto, il vecchio El Zagal era partito da Baza; e quivi e nella vicina città di Guadix era penetrato l’esercito Castigliano; anch’esso meravigliato, non meno della popolazione Moresca, d’un così rapido corso di eventi. Stupiti erano del pari gli abitanti delle campagne e delle città circonvicine; non intendendo come due terre così forti si fossero arrese con tanta prontezza. E lo sgomento facendosi strada ed anche l’esempio di quelle dedizioni, altre città mandavano a gara i loro messaggeri, per portare al campo d’Almerìa larghe proteste di sottomissione e giuramenti di fedeltà ai reali di Castiglia.

Più grave sgomento dovevano cagionare quelle nuove in Granata. Si parlava di tradimento; e allo stesso Boabdil metteva conto da principio che quelle voci corressero, per infamare lo zio. Ma ben presto la biscia mordeva il ciarlatano; le mormorazioni della plebe Moresca, dopo avere addentato lo zio, si rivolsero contro il nipote fannullone e codardo, che non aveva saputo muoversi in tempo per la difesa del regno. Boabdil fu chiamato cattivo Musulmano, traditore della patria, nemico dell’Islam. Ben presto, dalle imprecazioni si trascorse al furore, e la plebe inferocita si rovesciò sull’Alhambra, dimora del re Boabdil. Sceicchi, viziri, alfachì, tutti insomma i maggiori uffiziali della città, si gittarono contro a quei forsennati, tentando di calmarne lo sdegno; ma altro non fecero che guadagnare un po’ di tempo, quanto bastò a Boabdil per chiudersi nel palazzo, mandando per aiuto ai suoi alleati delle frontiere. Molti di questi accorsero, e per allora fu scongiurato il pericolo. Ma in quella che Boabdil incominciava a riaversi, giungevano a lui messaggi del re Ferdinando, chiedendogli di adempiere il patto segreto del recente trattato. El Zagal era vinto; peggio che vinto, aveva rinunziato ad ogni proposito di resistenza; Boabdil doveva dunque ceder Granata alle armi di Castiglia.

Vide allora il disgraziato che abisso si fosse egli con le proprie mani scavato. Ma di obbedire non ebbe voglia, come non aveva coraggio di difendersi. Rispose vilmente al re Ferdinando, che ad onta del suo buon volere non gli era possibile di mantenere il patto. I maggiori tra gli abitanti di Granata ricusavano di cedere la città; il popolo trascorreva a tumulto; volesse il re Ferdinando contentarsi delle fatte conquiste. Sperava egli che il Castigliano si acquietasse a quella magra risposta? Sicuramente no; ma egli mirava a guadagnar tempo. Per lui, che doveva cedere, ogni giorno d’indugio era tanto di guadagnato.

Un raggio di speranza gli venne ancora da quei di Guadix, che si erano ribellati al comando di uscire dalla città, per metter dimora nei sobborghi. Ma fu ribellione d’un giorno; il forte presidio spagnuolo non durò fatica a sedarla. Altre rivolte nascevano qua e , specie nei dominii ceduti in feudo ad El Zagal; e questi vi corse pericolo di vita, tanto che riparò al campo Castigliano. Ferdinando gli offerse buon nerbo di soldati, per sottomettere i ribelli; ma il vecchio Moro, che forse nell’interno dell’animo non sapeva adattarsi alla condizione privata dove aveva portato corona, rinunziò al feudo di cui gli era tanto difficile il possesso, e domandò per grazia al re Ferdinando che lo lasciasse tragittare in Africa. Avutane licenza, vendette al re una parte delle sue possessioni; un’altra ne lasciò al cugino Jahie, col consenso del re; poscia montò in nave e si condusse ad Orano, per metter dimora a Tlemcen, dove oscuramente si spense.

Rimasto senza competitori, il codardo Boabdil risorse alle facili speranze. Poteva riunire sotto il proprio comando gli spiriti fin allora divisi; ne aveva abbastanza, non solamente per difendere Granata, ma ancora per ricuperare le città perdute. Convocati gli ulemi, infiammando il loro zelo per la patria e la religione, diè loro l’incarico di predicare la concordia fra i loro credenti, e di bandire la guerra santa: un appello disperato, a cui nessun Musulmano poteva sottrarsi. L’esito non venne meno all’aspettazione di Boabdil. Gli abitanti di Granata parvero deporre per un istante le ire fraterne; tutti gli abitanti delle Alpuxarres, non ancora domati dalle armi di Castiglia, si buttarono in aperta campagna; e fino alla spiaggia del mare corsero gli spiriti audaci del fanatismo Maomettano. Boabdil era finalmente a capo di un esercito, numeroso se non disciplinato; e tanto se ne fidò, da uscir dalle mura di Granata; per dar mano alla ribellione delle campagne. Assediò e distrusse Albendin, ma tentò invano di occupar Salobrena.

Il re Ferdinando, frattanto, aveva la risposta di Boabdil per una dichiarazione di guerra. Con trentamila uomini scendeva nella Vega di Granata, donde mosse a liberare Salobrena. Gli era fedele alleato il Caid Yahie, suo nuovo feudatario; e il figliuolo di lui, Almayar, a capo di un’armata navale, veleggiava sopra la città marittima di Adra, ribellatasi nel nome di Boabdil. Adra fu presa, e la rivolta spenta nel sangue. Boabdil, fedele al suo costume, schivò la necessità del combattere, correndo a rifugio nelle mura di Granata.

Si trattava d’andarlo a snidare. Ma altre cure chiamavano Ferdinando e Isabella nella città di Siviglia. Con feste magnifiche si celebravano colà gli sponsali della figliuola di Isabella col principe don Alonzo, erede presuntivo del trono di Portogallo. Ciò accadeva nel febbraio del 1490. Nel mese di aprile, con feste maggiori, danze, tornei, fiaccolate, si celebravano le nozze.

In quella occasione sperò Alonzo di Ojeda di muovere il cuore della marchesa di Moya. Sentite come. Uno di quei giorni la regina Isabella, in compagnia delle sue dame e di molti cavalieri della sua Corte, era salita a veder la città dall’alto della Giralda. Chiamavasi la Giralda un’altissima torre della cattedrale di Siviglia. Si era giunti all’ultimo ripiano, e si era fatto alto, per vedere il magnifico spettacolo dal vano di un ampio finestrone, mentre i famigli portavano in giro confetti, frutta e vini indolciti, secondo l’uso del tempo.

Affacciandosi da quel finestrone e guardando in giù, un cortigiano, il vecchio duca di Medina Celi, aveva esclamato: – Signore Iddio, come tutto è piccolo, veduto da questa altezza! I viandanti, laggiù nella piazza, non paiono neanche grossi come una melarancia. –

Anche l’Ojeda si era affacciato a guardare. Il giovane cavaliere era molto ben veduto dal Medina Celi, sotto i cui auspicii si era educato al mestiere delle armi.

– Con vostra licenza, signor duca, – diss’egli, – bisognerebbe farne il paragone.

– In che modo? – chiese il Medina Celi.

Mettendo una melarancia all’altezza dell’occhio, e guardando con l’altro i viandanti della piazza; – rispose Alonzo di Ojeda. – Signora marchesa, – soggiunse, volgendosi con molta galanteria a Beatrice di Bovadilla, – vorreste voi darmi una melarancia, la più piccola del vassoio, perchè io faccia l’esperimento? –

Beatrice di Bovadilla non intese per che cosa volesse fare il d’Ojeda. Prese una melarancia dal vassoio, e la porse al piccolo cavaliere.

– In vostro onore; – diss’egli.

E subito scavalcato il davanzale del finestrone, mise il piede sopra un grosso trave che sporgeva per circa venti piedi in fuori. A quel trave si usava appendere il gonfalone della cattedrale, nelle circostanze solenni.

Così rapidamente era egli balzato lassù, che nessuno aveva avuto il tempo di trattenerlo. E nessuno osò gridare, vedendolo così librato sul vuoto; ma a tutti tremavano maledettamente le gambe. Con passo spedito e sicuro, come se passeggiasse sul saldo terreno, Alonzo di Ojeda si era inoltrato sul trave; giunto all’estremità, aveva levata in alto una gamba, mentre, con la sua melarancia all’occhio, faceva il paragone che aveva annunziato alla marchesa di Moya. Quindi, data una rapida volta sul tallone, così tranquillo e sicuro come era andato verso la piazza, ritornò verso la torre, mentre tutti, sgomentati, trattenevano il fiato. Giunto al davanzale, come se la prodezza che aveva fatto non bastasse ancora, il piccolo cavaliere poggiò un piede al muro, e con quanta forza aveva scagliò la melarancia nella piazza; balenando un pochino, ma non perdendo tuttavia l’equilibrio.

Fortunato chi la raccoglierà! – diss’egli, sospirando.

E rimesso il piede sul davanzale, andò a finire il suo sospiro e la sua galanteria davanti alla marchesa di Moya.

La nobile comitiva fece plauso alla valentia dell’Ojeda, che crebbe di parecchi cubiti, se non nella statura sua, nella estimazione di tutti gli astanti. Naturalmente, i modi di far plauso furono diversi: gli uomini levarono a cielo il coraggio; le dame si dolsero della temerità. Ma anche questo è un modo di lodare, e giunge sempre gradito, forse più gradito d’ogni altro, a chi ne è fatto argomento. Il grido di paura d’una bella donna vi dice così bene che avete fatta una cosa straordinaria!

Isabella di Castiglia avrebbe voluto biasimare senz’altro; ma la umanissima tra le regine non si sentì forse il coraggio di guastare con una nota stridente quel coro di ammirazione all’Ojeda.

Cavaliere, – si contentò di dirgli, – se avessimo potuto immaginare che cosa vi disponevate a fare, ve lo avremmo severamente proibito. Ora, tutto è bene quel che riesce bene, non è vero? E però ci rallegriamo con voi. –

Beatrice di Bovadilla non aveva le ragioni della sua augusta signora, per essere tanto umana verso il cavaliere di Ojeda. Quell’atto di temerità, veramente, era dedicato a lei; e le parole del cavaliere non lasciavano nessun dubbio in proposito. Ma Beatrice di Bovadilla non amava le smargiassate, neanche quando erano consigliate dalla galanteria. Poteva mostrarsi sdegnata del fatto che l’Ojeda avesse domandato a lei la melarancia, che aveva fornito il pretesto all’aerea passeggiata di lui. Si contentò di star zitta, accogliendo senza batter palpebra, e senza muover labbro, il sospiro del piccolo cavaliere.

La cosa dispiacque all’Ojeda, che s’aspettava, per il suo sospiro, un sorriso. E mentre la comitiva, seguendo un atto della regina, si disponeva a discendere, egli trovò il modo di essere accanto a donna Beatrice, per dirle:

– E da voi, marchesa, non avrò avuto una sola parola?

– Per che cosa? – rispose ella, guardandolo nel bianco degli occhi. – Per ciò che avete fatto poc’anzi?

Era per voi; – mormorò il piccolo cavaliere. – Son giorni di torneo, questi; e tutto si fa per piacere alle dame.

– Tutto.... è un po’ troppo; – replicò Beatrice di Bovadilla. – Ci sono anche le cose che alle dame non piaceranno mai. Questa, per esempio, di cui sembrate gloriarvi un pochino. Sapete che sono sincera, don Alonzo d’Ojeda? Voglio dirvi tutto quello che penso delle vostre passeggiate sui travi. Una donna che facesse molta stima di voi.... anzi, diciamo pure ogni cosa; una donna che vi amasse, tremerebbe per la propria felicità, vedendo di essere amata da un uomo che per un nulla mette a repentaglio la vita. Una donna che non vi amasse, penserebbe che voi mettete troppo basso il vostro onore, contendendo di destrezza coi mattaccini di strada. Alonzo di Ojeda, – proseguì la marchesa, vedendo rimaner molto male il suo interlocutore, – siate forte e valoroso; ciò tornerà ad onor vostro e a gloria del sangue Castigliano; ma non arrisicate mai la vita in cose da nulla, se non volete che si dica che essa vale altrettanto. –

C’era poco da rispondere, a quel ragionamento della marchesa di Moya. Il cavaliere d’Ojeda non tentò neanche di ribatterlo.

– È giusto, – diss’egli, chinando la fronte. – Se potessi sperare che facendo cose veramente grandi mi fosse premio la vostra approvazione!...

– La mia alla pari con quella di tutti, cavaliere d’Ojeda; – replicò la marchesa di Moya. – Non mi mettete fuori di fila, che non saprei restarci senza arrossire. –

Era un commiato in piena forma. Alonzo d’Ojeda capì l’antifona, e si ritrasse, tutto confuso; ma inchinandosi profondamente, come per cederle il passo.

Beatrice di Bovadilla respirò, vedendosi finalmente liberata da quella oppressura. Ella sentiva infatti che Alonzo d’Ojeda, se pure avesse continuato a sospirare da lungi, non l’avrebbe più altrimenti molestata con le sue galanterie. Perchè veramente ella era seccata. A lei, donna sensitiva nel profondo del cuore, ma altrettanto severa nel contegno, a lei toccavano per pretendenti tutti i pazzi da catena. Due ne conosciamo anche noi: don Alvaro di Portogallo, e don Alonzo di Ojeda; ma erano certamente di più, e don Cristoval Colon, facendone una lista, non li aveva tutti nominati. Frattanto, gli uomini d’alto valore stavano più riguardosi ch’ella non avrebbe voluto. Badate, per altro; quando diciamo uomini di valore, al plurale, bisognerà intendere un uomo solo, poichè la marchesa di Moya non era donna da fare a spicchi il suo cuore, come le melarance. E l’uomo di alto valore che ella aveva osservato tra molti, o tra pochi, stava più riguardoso di tutti. Quello, sì, la voleva mettere a gran rischio, la sua nobile vita! Alonzo d’Ojeda, giovane, robusto, snello, spensierato, anche un tantino smargiasso, la risicava in un giuoco d’equilibrio, come un saltatore di corda. Ben altro aveva fatto quell’uomo, che la marchesa di Moya aveva osservato e prescelto. Quell’uomo sapeva mettere un forte animo a servizio di una gran cosa; non voleva andare dove sarebbe andato ogni mattaccino, ma dove nessun altro avrebbe osato di andare, dove i più dotti personaggi del reame negavano risolutamente che si potesse andare, con la speranza di ritornare indietro; per vincere o per morire, sarebbe andato sempre all’ignoto, al terribile ignoto, da cui la natura aborre, assai più che dal vuoto. E quell’uomo unico, osservato e prescelto da lei nel profondo dell’anima, quell’uomo che ella avrebbe amato con tanta devozione, del cui amore si sarebbe gloriata come del massimo trionfo, quell’uomo apparteneva ad un’altra.

Ad un’altra! Brutta combinazione di suoni: ad un’altra! E non c’era da dubitarne. Quell’uomo lo aveva ben lasciato intendere con la sua tristezza invincibile. Don Cristoval aveva sempre quell’altra nel cuore; essa, Beatrice di Bovadilla, nobile e bella tra tutte le dame di Castiglia, si sentiva così forte da sradicarnela. E già un altro timore l’assaliva: che don Cristoval fosse per ravvicinarsi a quell’altra. Non erano infatti a Siviglia, dove viveva da oltre due anni la famiglia degli Enriquez?

E la marchesa di Moya aveva tanto desiderato di andarci, in quella bella Siviglia, giustamente chiamata la gemma d’Andalusia! Quien no ha visto Sevilla, no ha visto maravilla. Ma ella desiderava di andarci per un’altra maraviglia, per vedere se quella rivale fosse poi così bella, da far perdere la pace del cuore ad un uomo come don Cristoval. E c’era finalmente, a Siviglia; il caso, o il destino l’aveva servita a puntino. Ma il caso è fortunato; il destino è sempre triste. E se fosse stato il destino, che conduceva la Corte a Siviglia?...

Don Cristoval Colon seguiva la Corte; egli era , e più libero della marchesa di Moya, non obbligato come lei a prender la sua parte in tutti i ricevimenti dell’Alcazar, in tutte le feste dell’Alameda e della plaza de San Francisco; poteva andare dove più gli piaceva, don Cristoval, cercare quell’altra, incontrarsi con lei, ripigliare l’antica e non dimenticata catena.

Pure, la marchesa di Moya vedeva spesso il Genovese. Avrebbe potuto domandargliene. Egli era sempre cortese, rispettoso, ossequioso con lei; mostrava mai di fuggirla, come in altri tempi faceva. Ma a lei l’orgoglio femminile non permetteva di chiedere certe cose; a lui non permetteva di dirle la modestia, fors’anche il cavalleresco ritegno.

Che cosa pensava quell’uomo? qual era lo stato del suo cuore? A lei, dopo che gli aveva confessato il segreto del suo, pareva di potersi abbandonare intieramente a quella passione che così lungamente aveva dissimulata. E le pareva ancora che quell’uomo, dopo avere udita la sua confessione, non dovesse tenersi in tanto riserbo, ma dir liberamente ciò che sentiva, e sopra tutto mutarsi da quello di prima. Infine, è lecito di struggersi per una donna amata ed amante, che avversità di casi trattiene lontana dall’amato; è nobile sentimento quello che consiglia di essere fedeli a lei, di fuggire ogni altra donna, di nutrirsi del proprio dolore. Una donna che non vi ama può ferire il vostro orgoglio, e farvi anche soffrir pene d’inferno; ma quello non è un mal di morte; si può e si deve guarirne, dimenticando quella donna, facendo conto che non sia mai esistita. Beatrice di Bovadilla aveva l’amore violento, e queste cose le parevano naturalissime. Ma quell’uomo non le sentiva egualmente; quell’uomo non si mutava; cortese ma ossequioso con lei, non diceva mai la parola che lo dimostrasse guarito dell’antica passione, e disposto a cercarne il rimedio in una passione più degna.

Siviglia, bella città! La marchesa di Moya aveva tanto desiderato di andarci, e incominciava a dolersi di esserci capitata.

Ma non istate a credere che la nobile signora vivesse soltanto per rammaricarsi. Donna imperiosa, non pensava soltanto; sapeva anche operare. E aveva messi in moto i suoi segugi, per iscovare quell’altra Beatrice, la cui immagine, non conosciuta ancora, turbava così dolorosamente i suoi sonni.

Di trovare in altro modo gli Enriquez, oramai ella non aveva più alcuna speranza. Tutti i nobili di Siviglia e dei paesi circonvicini eran stati a Corte, per fare omaggio ai sovrani. Gli Enriquez de Arana non si erano fatti vedere. Molto probabilmente li aveva trattenuti la loro povertà. Ma era una magra scusa, se mai; perchè in quella occasione anche i poveri in canna si erano presentati. La ricchezza degli arnesi era stimata più del bisogno, anche allora; ma non era poi tutto, e bene lo aveva dimostrato parecchi giorni innanzi un vecchio gentiluomo di campagna, che si era recato in città per ossequiare i reali di Castiglia, presentandosi alla gran porta dell’Alcazar montato sopra un asinello, e fieramente piantato in arcione, come se avesse cavalcato un ginnetto di Cordova. Gli alabardieri che custodivano l’ingresso si erano lasciati trascorrere a qualche motteggio; ma il vecchio gentiluomo era balzato di sella, e con fiero cipiglio, mettendo la mano sull’elsa della spada, aveva detto ai suoi derisori:

– Con questa, trentatrè anni or sono, ho servito nelle schiere di Ferdinando Narvaez; con questa ho intimato la resa al figlio dell’alcalde di Ronda, un bello e prode cavaliere Moresco, di cui cantano ancora le romanze popolari per tutta Andalusia. E questa, signori, mi sta ancor salda nel pugno; chi di voi vuol provare, non ha che a snudare la sua. –

Nessuno aveva fiatato. Il vecchio gentiluomo aveva dato con la palma della mano un fiero colpo sul pomo della sua durlindana; si era calcato sulla fronte il cappello, ed era passato davanti ai motteggiatori, superbo e bello come il Cid Campeador.

Ma questi erano i bei tipi dell’antica nobiltà Castigliana, per cui povertà o ricchezza non contavano affatto, e molto invece l’essere stati ad ogni sbaraglio per il re, per la patria e per la fede di Cristo. Gli Enriquez si vantavano bensì di avere avuto un antenato a certo assedio di Zamora; ma l’assedio e l’antenato si perdevano nella notte dei tempi. Essi, frattanto, si tenevano prudentemente nell’ombra.

La marchesa di Moya disperava già di scovarli quando la fida cameriera venne a lei col sorriso sulle labbra e le disse:

Padrona, abbiamo trovato.

– Che cosa?

Gli Enriquez. Ed abitano qui presso, a cento passi dall’Alcazar, nella strada dell’Arroyo.

– Ah, sia lodato il cielo! – esclamò la marchesa. – Ma saranno proprio essi? gli Enriquez de Arana?

– Sì, mia signora. C’è un vecchio, don Inigo di nome, che è sempre ubbriaco, e dice di avere dei vasti possedimenti nella Vega di Granata.

– È lui, proprio lui; – gridò la marchesa, ridendo.

– Ed ha una figlia, non più giovanissima, che dicono anche molto bella. –

Qui la povera marchesa di Moya non rise più, come aveva fatto alla descrizione di don Inigo.

– Ma ci dovrebbessere anche un figlio; – diss’ella, non amando fermarsi alla figlia.

– Sì, per l’appunto; – rispose la cameriera. – Ma egli non è più coi suoi. Da due anni è andato a Palos, imbarcandosi come marinaio, sopra una nave dei Pinzon.

– Sta bene; – disse Beatrice di Bovadilla. – E come si vive, in quella casa? Se hanno i possedimenti nella Vega di Granata, nuoteranno nell’agiatezza, m’immagino.

Pare che i possedimenti della Vega li abbiano tutti nella testa; – rispose la cameriera. – Ma non vivono neanche troppo male. Nel vicinato si parla di un certo cavaliere sconosciuto, che va qualche volta, ma sempre di sera, a trovare gli Enriquez. –

Gli occhi della marchesa di Moya mandarono un lampo di allegrezza.

– Se lo dicevo! – esclamò. – Il serpente non era lontano: bisognava trovare il serpente. –

Ed era felice della fatta scoperta, vedendoci il principio della sua vendetta. Ma ella aveva un’anima nobile, e non tardò a pentirsi di quella prontezza di giudizio. Il mondo è così facile a credere il male! pensò ella, ravvedendosi. Una semplice apparenza gli basta per conchiudere, e la calunnia fa molto rapidamente il suo corso. Quel cavaliere può essere un parente, un amico onesto e leale.... Sì, ma potrebbessere anche un innamorato, attratto colà dalle più oneste intenzioni. Se fosse così!... Ma andiamo, queste sono ancora le mie ardite congetture, che hanno sempre il torto di rispondere troppo bene ad un mio desiderio. Bovadilla! Bovadilla! – soggiunse mentalmente, chiamandosi con la stessa familiarità che usava con lei la regina. – Non corriamo tanto alla svelta; e sopra tutto non cediamo ai consigli della gelosia. Sono anche inutili, come tu sai. Perchè io ti conosco; tu non vorresti mai andar debitrice a quel cavaliere misterioso dell’amore di don Cristoval. Se il prescelto ha da amarti, lo faccia per te, non per essersi visto abbandonato e tradito da quell’altra. Se non ti amerà, povera a te! ma tu non devi aggiungere alla tua infelicità la grande vergogna di disprezzarti da te. Non è così, Bovadilla? –

E rideva, l’altiera Bovadilla; ma rideva male, quel giorno.

Volle subito uscire dall’Alcazar, per andare nella via dell’Arroyo. Vide la casa dove abitavano gli Enriquez; una casa antica, di aspetto modesto, ma nobile, come tutte le vecchie costruzioni Moresche; col suo cortiletto lastricato di marmo, e una fontana nel mezzo.

Per dare un’occhiata al cortiletto, era entrata sotto l’androne. Colà un improvviso pensiero l’assalse. Congedò la cameriera, e ascese risoluta le scale. Era fatta così; non si poteva mutare.

Giunta al primo pianerottolo, vide un uscio, si fermò a quello, alzò il martello e bussò. Venne una vecchia fante ad aprire.

Abita qui don Inigo Enriquez?

– Sì, mia signora; ma non è in casa.

– Non c’è nessun altri, dei suoi?

C’è la sua figliuola, donna Beatrice.

Bene; – ripigliò la marchesa; – a lei parlerò, se non le dispiacerà di ricevermi.

– Chi siete voi, signora, – disse la fante, – poichè io possa dirlo alla mia padrona?

– Non servirà a nulla, il mio nome, essendole io sconosciuta; – rispose la dama. – Per altro, se è necessario farsi annunziare, diciamo anche il nome. Sono la marchesa di Moya, dama di palazzo della regina di Castiglia. –

La vecchia fante fece un gesto di stupore; e a quel gesto seguì tosto un profondo inchino. L’uscio fu subito spalancato, di socchiuso che era rimasto fin allora; e la marchesa di Moya penetrò nell’anticamera.

Entrate, signora marchesa; – disse la fante; – entrate nella sala di ricevimento. Certo, non sarà degna di voi; ma infine....

– Sì, capisco, capisco; – interruppe Beatrice di Bovadilla. – Andate ad avvertire la vostra padrona; ho gran desiderio di parlare con lei. –

La vecchia lasciò in tronco il suo discorsetto; salutò una seconda volta e partì. Beatrice di Bovadilla rimase sola in quella stanza, che le era stata indicata come sala di ricevimento.

 



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