IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
CAPITOLO XII
Le due Beatrici.
Quella sala di ricevimento non brillava per grande sfarzo di arredi. Già, non prometteva sfarzo la vista dell’anticamera, con le pareti ignude, senza fascia di cordovano, o d’arazzi, come si costumava fino d’allora nelle case signorili, e senza le cassepanche intagliate per la gente di servizio. Che necessità di cassepanche, per altro? Il servizio degli Enriquez si restringeva a quella vecchia fante, che era venuta ad aprir l’uscio.
Sicuramente, non poteva dirsi ignuda del tutto la sala di ricevimento. C’erano sedie di noce, coi sedili foderati di cuoio; c’erano stipi e forzieri; persino una gran tavola, su cui, entro un piccolo tabernacolo, si vedeva una statuina di santo. E davanti a quel simulacro era una boccia di vetro colorato, donde faceva bella mostra un mazzo di fiori freschi; l’unica nota allegra del luogo, che pareva tanto più severo per antica nobiltà, quanto era più modesto nella parsimonia degli arredi. Infatti, da una delle pareti pendeva un drappellone d’oro e d’argento, che recava nel mezzo, tra riportato e ricamato, uno stemma; l’arme degli Enriquez, certamente. Ma Beatrice di Bovadilla notò che l’opera non era antica, come avrebbe dovuto, per dar carattere d’autenticità, e guadagnarsi la stima dei riguardanti. Più antico, e di molto, era un vecchio quadro affumicato, che voleva raffigurare una Madonna, e parere anche di san Luca. Il terzo evangelista, si sa, fu pittore, e tutte le Madonne nere, irriconoscibili, si attribuiscono a lui.
Dall’altra parete, di rincontro a quella dello stemma, pendeva un trofeo d’armi: elmo, scudo, una lancia e due spade. Tutte quelle ferramenta volevano dire che gli antenati della famiglia erano stati guerrieri. Ma fin d’allora quei trofei nelle case erano il più delle volte innocenti vanterie, da cui nessuno si lasciava ingannare.
In un colpo d’occhio la marchesa di Moya aveva osservato ogni cosa. E finita la breve ispezione, pensò alla ragione per cui ella si ritrovava colà. Per vedere quella donna, veramente. Ma non era una ragione da mettere avanti; ci voleva un pretesto, per colorire la visita. Infatti, non sarebbe bastato mica di dire: son venuta fin qua per vedervi, per isquadrarvi bene dal capo alle piante, per farmi un’idea del buon gusto, o cattivo, di don Cristoval Colon, un Italiano matto che ha trascurate le belle donne della sua patria, per venire ad innamorarsi di voi. Ci voleva un pretesto, una bella bugia, tanto da entrare in materia, giustificando dal bel principio la sua presenza in quella casa. Ma quale sarebbe stato il pretesto, quale la bugia della marchesa di Moya? Lì per lì non lo sapeva neanche lei. Ci aveva pensato, ma senza trovar nulla che facesse al bisogno. Poco male, del resto; ella non si turbava affatto del non sapere a tutta prima che dire. Pensava piuttosto a vedere la padrona di casa; meditava, con un sentimento misto di curiosità e d’angoscia, il colpo che avrebbe ricevuto, vedendola.
Un uscio improvvisamente si aperse. La marchesa si voltò subito da quella parte, e si preparò con la fronte alta, le ciglia socchiuse e le labbra increspate ad un mezzo sorriso. Di avere a sorridere poi, non era tanto sicura; meglio valeva prepararsi quel mezzo sorriso alle labbra.
L’uscio si aperse, ho detto, e una donna apparve nel vano. Era alta e snella, ma non lasciava veder la figura, poichè proprio in quel punto che schiudeva l’uscio si era rivolta indietro, come per dir qualche cosa alla fante. Per contro metteva in mostra una treccia di capegli biondi, che le scendeva sulle spalle.
– Gran che! – mormorò la marchesa di Moya, – non giungono nemmeno al giro della vita. Se io lasciassi ricadere la mia treccia nera, povera a te, Beatrice Enriquez! –
E ricompose le labbra al mezzo sorriso che sapete. Quell’altra si era voltata verso di lei, per passare la soglia. Era bella, e ad un uomo poteva parer anche bellissima; non così alla marchesa di Moya, che intravvide un’anima non buona, nei lineamenti corretti, ma duri, nelle labbra sottili, nella fronte stretta, nel mento più acuto che ovale, nelle nari finissime, ma forse più dilatate che non comportasse quel volto allungato.
Gli uomini, per verità, non badano a tante minutezze; vedono la bellezza, o piuttosto la sentono nel suo complesso. Le donne, al contrario, osservano partitamente ogni cosa, e il giudizio loro riesce più facilmente severo, anche quando altre ragioni non entrano a peggiorarlo. Immaginate dunque se la marchesa di Moya, in quella sua rapida guardata ad occhi socchiusi, non osservò per bene tutte le parti di quella decantata bellezza. Ella vide anche dell’altro; vide per esempio, che la testa di Beatrice Enriquez era troppo fine per l’ampiezza degli omeri, ed anche troppo lunga la vita. Quel complesso di donna arieggiava la serpe. Occhio al veleno, poichè la serpe poteva anche essere una vipera.
Beatrice Enriquez diede anche lei la sua occhiata scrutatrice, l’occhiata che involge una persona tutta intiera. Ella era donna, e doveva guardare così. Ma subito si avanzò col sorriso sulle labbra e con la persona piegata in atto di ossequiosa sollecitudine.
– La marchesa di Moya? – diss’ella.
– Per l’appunto; – rispose quell’altra.
– Donna Beatrice di Bovadilla! la prima dama di Castiglia, dopo la regina! – continuò la figliuola dell’hidalgo. – È un grande onore per questa casa, la vostra visita, e mi rende tutta vergognosa, nel pensiero che questa casa non è degna di voi.
– Che dite mai, donna Beatrice Enriquez? che dite mai? Ci siete voi, per abbellirla, per farne una piccola reggia. –
E si guardavano intanto, si guardavano attentamente; Beatrice Enriquez con gli occhi spalancati, non potendo anche riaversi dallo stupore; Beatrice di Bovadilla con gli occhi sempre socchiusi, e con quel mezzo sorriso, che increspava gli angoli della bocca, dando al suo viso una lieve espressione d’amarezza.
Beatrice Enriquez rispose al complimento con un altro inchino, mentre col gesto indicava una scranna, invitando la visitatrice a sedersi.
La marchesa di Moya accettò l’invito e sedette. Non c’era da fare altrimenti, per verità, neanche in casa di una rivale.
– Siate la ben venuta nella mia reggia; – disse allora Beatrice Enriquez, volgendo in celia il complimento. – E vogliate dire alla mia giusta curiosità qual cagione mi ha procacciato l’onore di una vostra visita. –
Quello era il momento solenne, per la marchesa di Moya; il momento di trovare un pretesto, o di buttar là una bella bugia.
– Ve la dirò subito; un’altra curiosità; quella di conoscervi, donna Beatrice Enriquez; – rispose la marchesa di Moya. – Sicuramente, e non vi maravigliate di ciò. Amo dirvi le cose come stanno. Siete ugualmente sincera, voi? Quanto a me sono fatta di sincerità. Don Francisco di Bovadilla, mio buon fratello, mi notava un giorno, e con una certa ammirazione: tu non hai mentito mai in tua vita; eri già da bambina quello che sei di presente pronta a dir tutto, fosse pure per nuocerti. Ed è vero; non so mentire; se anche dovesse giovarmi, non potrei mai adattarmi a nascondere il mio pensiero, in nessuna occasione. –
Prima che la marchesa di Moya finisse di parlare, Beatrice Enriquez si era accostata un pochettino di più, guardando attentamente la sua interlocutrice. E guardandola così da vicino, riconobbe ancora che la sua interlocutrice era assai bella. Quella dama avrebbe potuto anche dirle delle cose spiacevoli; tutto poteva darsi. Ma, per intanto, non gliene aveva detto ancora che di molto gentili. Ed era Beatrice di Bovadilla, una delle più nobili dame di Castiglia; altra ragione maravigliosa per riconoscere in lei tutte le bellezze e tutte le grazie di cui può essere ornata una donna.
– La sincerità è una bella virtù; – rispondeva ella frattanto; – e delle più meritevoli, perchè essa è una delle più difficili, in questo povero mondo. Ma se voi siete sincera in tutto, anche nelle cortesie che mi avete dette poc’anzi, ecco una virtù che mi renderà molto vergognosa. Come posso io udire, senza farmi rossa, che vi abbia condotto qua il desiderio di conoscermi? Infine, che cosa sono io, poveretta?
– Una bella figlia d’Andalusia; – rispose la marchesa di Moya. – E per giunta una nobile donna.
– Ohimè! lo sono così poco! – replicò Beatrice Enriquez, traendo un profondo sospiro dal petto. – La casa dei nostri maggiori era grande e ricca; mio padre, da bambino, conobbe ancora le bellezze di una vasta fortuna. Ma quello non era che il tramonto di un bel sole, e sopraggiunse tosto la notte. La sventura si era aggravata sui nostri vecchi, ed essi non han fatto nulla per iscongiurarla.
– Vi hanno lasciato un bel nome onorato; – – disse la marchesa di Moya. – È già molto, un bel nome; e intorno alle grandi rovine c’è sempre speranza di ricostruire un decoroso edifizio. Avete anche un fratello?
– Sì, mia signora; ma non è con noi; si è dato alla vita del mare.
– Nobile cosa, il mare! – esclamò Beatrice di Bovadilla, infiammandosi. – Molti pericoli circondano il navigante, sull’infido elemento; ma quanta gloria lo attende! E da quali maestri apprende l’arte il vostro fratello?
– Dai Pinzon, marinai della spiaggia di Palos. Sono arditissimi piloti, la cui fama corre per tutta Castiglia.
— Lo so, – disse la marchesa, – ne ho udito parlar molto ancor io. Speriamo che il vostro giovane fratello s’illustri nella nuova via che si è scelta; io gli auguro intanto di scoprir nuove isole, di là dallo stretto, come hanno fatto i Portoghesi, e come, vivaddio, dovremmo saper fare anche noi. –
La faccia di Beatrice Enriquez si era fatta scura, a quell’accenno di scoperte sull’Atlantico. La marchesa di Moya, guardandola co’ suoi occhi socchiusi, non perdeva nulla di quei piccoli moti del viso.
– Animo dunque, donna Beatrice; – proseguì ella, sforzandosi di sorridere. – La casa degli Enriquez rifiorirà come merita. Frattanto, lasciatevi dire dalla mia solita sincerità, che avete fatto male, non presentandovi a Corte.
– A Corte! io? – esclamò Beatrice Enriquez.
– Voi, sì, e il vostro buon padre. Siete nobili di Cordova, mi pare.
– No signora, di Granata, ma passati a vivere a Cordova, dove siamo rimasti fino a due anni fa.
– Cordova o Granata, non importa; – replicò Beatrice di Bovadilla. – Sempre vecchia schiatta, durata vigorosa e tenace, ad onta del dominio dei Mori su queste belle contrade. Che fa la ricchezza, quando c’è l’antichità del lignaggio? I reali di Castiglia erano a Cordova; avreste dovuto chiedere udienza. Son venuti a Siviglia; era un’altra ragione per farvi vedere, come tanti e tanti altri. Le Loro Altezze non si tramutano così spesso d’una in altra città del reame, se non per conoscere tutti i loro sudditi, e primi tra questi gli hidalgos, lustro e sostegno della loro corona. Voi, particolarmente, ci siete mancata; voi, Beatrice Enriquez, tanto decantata come un fior di bellezza. –
Qui veramente era il caso di arrossire. Inoltre, la bionda Beatrice non intendeva il perchè di tanta insistenza su quell’argomento della bellezza. E tra donne, poi!
– Signora marchesa, voi fate troppo onore alla mia gioventù; – diss’ella, chinando modestamente la fronte. – Ma voi giudicando di me con tanta benevolenza, mostrate anche di conoscerci più che noi non potessimo sperare di essere conosciuti da chicchessia. Forse siam debitori di tanto a qualcuno.... che ci è benevolo al pari di voi. Posso dunque parlarvi liberamente. Voi non ignorate che il mio povero padre, abbattuto dai dispiaceri, non è più l’uomo d’un tempo.
– Lo immaginavo, senza saperlo con certezza. Le disgrazie abbattono sempre i più saldi caratteri. Ma anche abbattuti, non bisogna lasciarsi avvilire. E così, bella ritrosa, non potendo vedervi all’Alcazar, ho dovuto venir io nella calle de l’Arroyo a scovarvi. Vedete che cos’è una donna curiosa!
– E buona, non è vero? – disse Beatrice Enriquez, fissandola negli occhi.
– Oh, per questo, non dubitate; son buona, e me ne vanto. Qualche volta mi guasta un pochettino l’orgoglio, vecchio peccato di famiglia. Ma è poi davvero un peccato? Oserei dire di no, perchè di questo medesimo orgoglio io ne metto altrettanto a vincermi; e allora mi faccio umile.... come una povera monaca di san Francesco. E dell’ordine di san Francesco non ho soltanto l’umiltà, ma ancora la costanza e la pertinacia. Quando mi metto un’idea in testa, e quell’idea mi par buona, non l’abbandono più, mi lascio condurre da quella, vado innanzi, fino agli estremi, qualunque cosa possa accadere a me, qualunque cosa possa parere alla gente. –
Così dicendo, la marchesa di Moya, non aveva più gli occhi socchiusi, ma bene aperti, e fiammeggianti come smeraldi alla luce del sole.
Beatrice Enriquez notò quella trasformazione d’aspetto, ed intese che la ragione della visita non si sarebbe fatta aspettare più molto.
– Signora marchesa, – notò ella, turbata, – voi avete qualche cosa da dirmi?
– Sì; – rispose quell’altra.
– Parlate dunque; che cosa.... vi ha egli detto di me?
– Egli!... Voi dunque sapete?...
– Bene; rispose Beatrice di Bovadilla. – Mi piace che indoviniate, perchè ciò renderà più facile il nostro colloquio. Quantunque, – soggiunse ella, ritornando un po’ indietro, sospettosa, – io non so come voi possiate argomentare.... che egli mi abbia parlato di voi.
– Non lo so neppur io; – disse Beatrice Enriquez, più confusa che mai. – Credevo anzi che egli non lo avrebbe mai fatto.... Ma se egli ha creduto di doverne parlare con voi, signora marchesa di Moya.... la mia sorte è nelle vostre mani.
– O piuttosto la sua nelle vostre; – ribattè la marchesa, con accento d’amarezza ineffabile.
– Che dite? – gridò Beatrice Enriquez, con aria di stupore.
– Che voi dovete.... perdonargli, se pure gli fate colpa di qualche cosa.
– Perdonargli! io? e qual colpa? Mi avrebbe egli forse ingannata? Sarebbe egli forse sul punto d’ingannarmi? E in tal caso, signora marchesa di Moya, vi prestereste voi a tenergli mano? a giustificarlo con me?
– Adagio, mia bella! – rispose Beatrice di Bovadilla. – E prima di tutto, rispondete ad una domanda mia. Di chi intendete parlare? –
Le due donne si erano alzate, guardandosi scambievolmente nel bianco degli occhi. Beatrice Enriquez incominciava a capire di aver voluto indovinare troppo presto, e si pentiva di aver buttati là i primi accenni, e avrebbe voluto cancellarne perfin la memoria. Beatrice di Bovadilla intendeva a sua volta che quella donna non aveva accennato a don Cristoval. Di chi dunque aveva inteso parlare? di chi pensava, e con qual fondamento, che potesse parlargli lei, marchesa di Moya, scomodandosi tanto? Di un altro, sicuramente; ma chi era quell’altro? Chiunque fosse, tanto meglio! le bisbigliava una voce interiore. Ma ella discacciò subito il pensiero recondito, che le parlava in tal guisa. Aveva giurato a sè stessa di esser buona, di essere generosa, anche a suo danno. Ma come ripigliare il discorso, come andare alla meta che si era prefissa, dopo quell’evidente errore, cagionato da una precipitazione di giudizio in ambedue?
Anche Beatrice Enriquez almanaccava in cuor suo. E riandava le ultime parole della marchesa di Moya. “Di chi intendete parlare?” le aveva detto costei. Ma dunque, neanche la marchesa intendeva parlare.... di quell’altro?
Così pensando, si rinfrancò. Si era un po’ lasciata andar fuori; si poteva sospettare che qualche cosa ci fosse, che ella avesse ragione di nascondere; ma che cosa fosse, non si era lasciato sfuggire di bocca. Ella poteva dunque tenersi in guardia, aspettando che l’altra continuasse, e provocando la continuazione con un gesto che aveva l’aria di dire: – parlate voi, signora marchesa, e vedrò di capirvi. –
Beatrice di Bovadilla pensò che a lei veramente toccasse di ripigliare il discorso.
– Beatrice Enriquez; – diss’ella, dopo un istante di pausa, – noi ci siamo intese, a quel che pare. E ci credevamo tutt’e due tanto vicine.... non è egli vero? Rifacciamoci da capo, via, come se niente fosse avvenuto. Son io che vengo a voi, ed è giusto che io non prolunghi questa incertezza, che darebbe poi nel ridicolo. E qui non è da ridere, Beatrice Enriquez; è anzi molto grave ciò che io son venuta a dirvi quest’oggi. Ascoltatemi; ma badate, dovete ascoltarmi bene, con tutta l’attenzione di cui siete capace. –
La figlia dell’hidalgo rispose con un cenno del capo, e si assise, restando in ascolto; non pure per contentare il desiderio della marchesa di Moya, ma ancora per appagare la sua grande curiosità.
Beatrice di Bovadilla incominciò:
– Nella mia condizione, accade che io veda molta gente. Tra tanti cavalieri che son ricevuti alla Corte, io ne ho conosciuto uno.... statemi bene, a sentire, Beatrice Enriquez.... uno che merita la stima universale. Non vi dirò come, ma molto naturalmente io son venuta a sapere che quell’uomo aveva una gran pena di cuore. Egli amava.... ed ama tuttavia.... indovinate chi? voi, Beatrice Enriquez, voi sola ed unica. La sua tristezza mi ha fatto compassione; una compassione così viva, così profonda, che io, non conosciuta da voi, ho veduto un uffizio di alta pietà nel venire a voi, per pregarvi in suo nome. È un uomo di grande animo e di gran cuore, ed è soltanto a dolere, conoscendolo, che al valore non sia pari la fortuna. Beatrice Enriquez, voi sapete di chi voglio parlare.
– No; – rispose la figlia dell’hidalgo.
– Il cuore non vi dice dunque nulla? – esclamò la marchesa di Moya. – Ha quell’uomo posto il suo in così vana speranza? Ed io, vedete, io credevo altrimenti. E lo dissi a lui, consolandolo: non dubitate, cavaliere; quella donna vi ama, non può non amarvi; una nube maligna è passata tra lei e voi; bisognerà dissipar quella nube. Fors’anche quella donna è in tal condizione da non potervi mandare una buona parola; custodita, spiata dai suoi, che l’hanno condotta a precipizio lontana da Cordova, non ha modo di farvi sapere l’animo suo, immutato ed immutabile; aspetta forse da voi la liberazione. Beatrice Enriquez, sapete voi ora di chi voglio parlare?
– Sì; – rispose Beatrice Enriquez.
– E che cosa pensate?
– Che ho errato.
– Potrà essere; di ciò siete giudice voi. Ma perdonerete a lui un eccesso di amore? ritornerete a lui, quella di prima?
– No.
– No, avete detto?
– E chiaramente, mi sembra; no, vi ripeto ancora, no; – rispose Beatrice Enriquez, con accento sdegnoso.
– E perchè?
– Perchè non amo quell’uomo. –
La marchesa di Moya stette un istante sovra pensiero, guardando la sua interlocutrice, ed ascoltando frattanto le voci confuse del proprio cuore, che parevano dirle: meglio così. Ma ciò non era degno di lei; la marchesa di Moya soffocò quelle voci con uno sforzo supremo della sua volontà.
– Beatrice Enriquez, – diss’ella, – voi disprezzate un uomo, del cui amore ogni più nobile donna si terrebbe onorata.
– Anche voi, signora?
– Anch’io, e prima d’ogni altra; – replicò la marchesa, scattando.
E non perchè avesse posto mente all’offesa. Ci sono di tali momenti nella vita di una donna, che ella mette tutta la sua superbia nel cuore. E il cuore trasforma quella superbia, facendone i grandi pensieri e le audaci parole.
– Sì, prima d’ogni altra; replicò la marchesa di Moya, sentendosi in quel punto più Bovadilla che mai. – Don Cristoval Colon, che voi credete di offendere in tal guisa col vostro rifiuto, è un prode cavaliere e un alto intelletto; avrà un giorno più gloria che non n’abbiano raccolta in dieci secoli molte illustri famiglie.
– E l’abbia, o signora, per consolarne... gli amici suoi; – rispose freddamente Beatrice Enriquez. – Ma l’amicizia ha il torto di non veder sempre chiaro abbastanza. Bisognerebbe chiedere agli imparziali che cosa pensino essi del vostro giudizio; bisognerebbe chiederne ai dotti. A quelli di Salamanca, per esempio.
– Sì, andremo dai ciechi, per chieder loro come sia fatta la luce! – gridò la marchesa di Moya.
– Lo dite voi, mia nobile signora. Ma ditemi ancora, – ribattè con calma feroce quell’altra, – sono anche ciechi i nostri sovrani, che hanno creduto al giudizio dei dotti, e per il marinaio Genovese non hanno fatto nulla di nulla? Due anni, e più di due anni, sono passati oramai, dacchè egli fu giudicato un sognatore; hanno mostrato i nostri sovrani di voler fare altro giudizio di lui?
– Dimenticate che egli vive presso la Corte.
– Sì, d’elemosina, stando a quel che si dice. –
Un’occhiata compassionevole e un sorriso disdegnoso furono la prima risposta della marchesa di Moya alla figliuola dell’hidalgo.
– E questa donna ha amato un giorno quell’uomo? – chiese ella a sè stessa. – Ed è caduta un giorno nelle sue braccia? Dio mio! quanta viltà si può accogliere nella creatura umana! –
Poi, rivolgendosi a Beatrice Enriquez, molto tranquillamente rispose:
– Ogni nobil casa di Castiglia si terrebbe onorata di poter aprire il suo scrigno a don Cristoval Colon. Ma egli non vive di elemosina, e voi siete stata informata assai male. È invece da sapere che il regio tesoro offre a lui, per ordine della regina, quanto basti per vivere decorosamente alla Corte, ove egli non è il solo gentiluomo a cui la corona mostri in tal guisa di riconoscere i suoi leali servizi. Potete voi argomentare da ciò che la regina non abbia in pregio il... marinaio Genovese?
– La regina è buona cristiana, – rispose l’altra, inflessibile, – e non disprezza nessuno. Ma egli avrebbe dovuto capire, dopo Salamanca, che il suo disegno era fallito; avrebbe dovuto capire, almeno un anno più tardi, che il suo posto non era più alla Corte di Castiglia, dov’egli non può essere che tollerato e giudicato severamente da tutti. Scusate, mia nobile signora, – soggiunse Beatrice Enriquez, con un’aria d’ironico pentimento, – volevo dire.... dai più.
– Come ragionate! È prova del suo alto intelletto il rimanere, anche in quella condizione che voi volete ad ogni costo vedere, senza aver posto piede alla Corte; – replicò la marchesa di Moya. – Egli è così fermo nel suo proposito, il suo disegno è così grande, da non patire insulto di volgari motteggi. La guerra, continuata con tanta perseveranza contro i Mori, ha finora impedito ai sovrani di prendere in considerazione le proposte di don Cristoval Colon. E non c’è Salamanca che tenga. A buon conto, i dottori di Salamanca non hanno data nessuna sentenza. Gli uomini più insigni di quello studio son tutti per lui; la regina Isabella e il re Ferdinando sanno distinguere tra i veri dotti e i burbanzosi ignoranti. Il giorno di don Cristoval Colon verrà certamente, e più presto che voi non crediate. Sicuro di quel giorno, che lo pagherà di tante amarezze, volete voi che il marinaio Genovese abbandoni la Corte? Volete che chi ha un nuovo mondo nell’anima, un nuovo mondo da scoprire e da dare alla fede di Cristo, si disanimi per le piccole contrarietà dell’invidia e del mal talento... dei più? Ben è triste, e mi duole, che tra quei più vogliate esser voi, Beatrice Enriquez, che aveste amore per lui, e dovreste aver fede e speranza con lui.
– Speri dunque, ma non da me; – rispose Beatrice Enriquez, uggita oramai da quel lungo colloquio.
Beatrice di Bovadilla capì di esser molesta. Ma ella aveva incominciato; voleva finire.
– È dura, la vostra parola; – replicò. – Ed ero venuta con tante speranze ancor io! Ella è schiava, pensavo tra me, schiava dell’altrui volontà. Andrò io a cercarla, a sostenerla, a liberarla.
– Non avete da liberar nulla, mia nobile signora. Son io che non voglio saperne di lui. Ho creduto un giorno ancor io, come credete voi, alle sue grandi promesse. Or non credo più; l’incanto è rotto, e mi son liberata da me.
– Dopo averlo amato! – mormorò Beatrice di Bovadilla. – Dopo essere stata sua! e mentre un innocente stende le sue rosee manine, chiamando, invocando sua madre!... –
Beatrice Enriquez balzò in piedi una seconda volta. Il viso si era fatto del color della fiamma, gli occhi mandarono lampi, di sotto alle ciglia aggrottate.
– E quell’uomo, – gridò ella con voce sibilante di sdegno, – quell’uomo è stato così vile... da raccontarvi....
– Non egli; non lo accusate. Un altr’uomo mi ha posta sulla traccia del vostro segreto. Che ci volete fare, Beatrice Enriquez? Era destino che io lo sapessi. –
Fu allora tra le due donne un lungo silenzio. Ma quante cose diceva! quanta ira mal repressa correva nell’aria, empiendo quello spazio vuoto!
– Ebbene, – disse finalmente la Enriquez, – voi sapete la mia vergogna. Maledetto quell’uomo! Povera fanciulla inesperta, ho creduto... ho ceduto. Poi... come sia avvenuto io non so; sentivo una nuova vita agitarsi nel mio seno, e sentivo in pari tempo di odiare quell’uomo. Anche prima di Salamanca, credetelo, anche prima, la sua vista mi ripugnava; e dovevo far forza a me stessa per contenermi, per mentire ciò che più non sentivo, che forse non avevo mai sentito veramente per lui. Quando egli partì per recarsi al consiglio, fui come liberata da una grande oppressione. Ma egli sarebbe ritornato. E questo pensiero mi atterriva. L’esito del consiglio di Salamanca mi diede un coraggio che altrimenti non avrei mai avuto. Ho abbandonato quell’uomo. Sono stata dura con lui? Non so. Quando non si ama, si ha il diritto, si ha l’obbligo di esser sinceri. Io sono stata sincera.
– E crudele.
– Se la sincerità è a questo prezzo, che farci?
– V’intendo, – disse la marchesa. – Non lo avete dunque ingannato. Non vi capisco; ma posso dirvi alfine e liberamente: meglio cosi! Voi dunque perseverate... in quest’odio?
– Più che mai.
– Se egli chiedesse di farvi sua... per rimediare al male che ha fatto? per darvi il suo nome onorato?
– Non vorrei.
– Se fosse alla vigilia di ottenere dai sovrani il grado d’almirante di Castiglia e le navi per muovere alle sue grandi scoperte?
– Non vorrei.
– Se tutte queste cose egli avesse già ottenute, mentre io vi parlo? –
Beatrice Enriquez guardò fissamente la marchesa di Moya, come se volesse leggerle nel fondo dell’anima. Poi sorrise, e rispose:
– Non vorrei.
– Tre volte lo avete già detto, Beatrice Enriquez; – gridò la marchesa di Moya. – Anche tre volte l’apostolo Pietro rinnegò il suo divino maestro. Eppure fu perdonato dell’amore di lui. Aspettate il perdono dell’amore anche voi.
– Se, per non meritare questo perdono di lui, debbo rinnegarlo una quarta volta, ecco qua, mia nobile signora, non vorrei; ed anche la quinta, se non vi basta la quarta.
– No, grazie! – interruppe la marchesa di Moya. – Voi siete capace, mia bella, di farmene un intiero rosario per le mie orazioni. Perdonate questo lungo colloquio. Ho compiuto il debito che l’amicizia m’imponeva; ho tentato di giungere al vostro cuore di donna e di madre.... Ma voi odiate, e odiare vi piace. Tal sia di voi, donna Beatrice Enriquez, e il cielo vi guardi. –
E corrugando le sopracciglia, la bella marchesa di Moya, con un altiero cenno del capo, prese commiato dalla figlia e dalla casa dell’hidalgo. Beatrice Enriquez ricambiò il gesto e la guardata superba. E le due donne si separarono, non sperando di rivedersi mai più sulla terra.
Ossequiata dalla vecchia fante fino al primo braccio delle scale, la marchesa di Moya uscì sulla strada. Aveva il cuor gonfio e il passo leggero. Contraddizione, direte; ma ne intenderete anche il perchè.
Alla svolta della calle de l’Arroyo, Beatrice di Bovadilla incontrò la sua vecchia dama di compagnia.
– Mia signora, ho voluto aspettarvi. Ho fatto male?
– No, quantunque... in tanta vicinanza dell’Alcazar, non fosse proprio necessario di vegliare su me.
– Eppure... – disse la vecchia ancella. – Eppure, che cosa?
– Eppure, non credo che sia stata inutile la mia presenza in queste vicinanze; – rispose l’ancella.
– Come? perchè?
– Perchè, stando laggiù in vedetta, davanti alla svolta della Calle de l’Arroyo, ho veduto passare... ho veduto entrare nella stessa casa dove entravate voi, mia buona padrona, un certo gentiluomo....
– Ah! il serpente! – scappò detto alla marchesa di Moya. – Non mi ero dunque ingannata! E del resto, anche quella donna si è tradita abbastanza, in principio.
– Niente, niente, parlavo da me, secondo l’uso dei matti; – rispose la marchesa di Moya, sorridendo. – Prosegui, mia cara Mercedes. Avevi detto di un certo gentiluomo....
– Sì, che veniva a questa volta, guardandosi molto dattorno. Pareva che temesse di essere spiato. Giunto alla svolta, e veduto che nessuno lo seguitava, entrò difilato nella Calle. Io ero abbastanza lontana da lui, davanti alla mostra d’un pannaiolo, in atto di guardare certe stoffe. Quando egli fu passato, ed io ebbi la certezza che non avrebbe più potuto vedermi, lo seguitai. M’era venuto il sospetto che sapesse di voi, e vi seguisse, mia buona signora. E infatti, ebbi ragione di tremare, vedendolo entrare per l’appunto nella medesima casa.
– Ecco un lungo discorso, che non mi dice niente; – notò la marchesa di Moya. – In nome di Dio, chi era questo tuo gentiluomo? Don Giovanni Cabrera, forse?
– No, padrona, non lui. Era... don Francisco.
– Don Francisco? Ce ne son tanti!
– Don Francisco di Bovadilla, commendatore....
– Di Calatrava; – disse donna Beatrice, compiendo la frase. – Ma bene! E non è subito uscito di là?
– No, per quanto io stessi attenta, non l’ho veduto ricomparire in istrada. E pensai allora che voi avreste dovuto incontrarvi con lui.
– Il pericolo ci doveva essere, infatti; – rispose la marchesa di Moya. – Nelle scale di quella casa non ho veduto altri uscire. È una casa di costruzione moresca, e perciò fatta per una sola famiglia. Ah, don Francisco di Bovadilla, e commendatore di Calatrava! siete dunque voi il personaggio misterioso? –
In quel punto la marchesa di Moya ricordò che, durante il suo colloquio con Beatrice Enriquez, ella aveva sentito scricchiolare un uscio, come per mano di persona che volesse aprire ed entrare nella sala di ricevimento. Ma nessuno era entrato, nessuno aveva aperto quell’uscio, e la marchesa non se ne era dato altrimenti pensiero. E per una buona ragione, del resto; chi sa di non far male, non teme.
– Dunque, era il mio signor fratello? – ripigliò Beatrice di Bovadilla. – Ne sei ben certa, Mercedes?
– Come della mia esistenza.
– È strano! – disse tra sè la nobile signora. – Ma sì, che Iddio mi aiuti! non è stato forse lui che m’ha data la notizia degli amori di don Cristoval? E come non me ne sono ricordata subito? come non ho pensato che egli conoscesse la bella Cordovana, se egli ne aveva e poteva darne agli altri così precise notizie? Ah, don Francisco mio dolce! Per un commendatore di Calatrava... è un grave peccato. Ma ora, per l’appunto, io mi riscaldo al giuoco. A quest’ora, là dentro, si ride di me. Parlerà lei, o non parlerà, della visita che ha ricevuta? Se egli era dietro all’uscio, sicuramente ha inteso qualche cosa; ed ella gli ha detto il resto. E poi, con l’uomo ch’ella ama, una donna non tace mai nulla. Orbene, ridano a lor posta; riderà bene chi riderà l’ultimo. –