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CAPITOLO XIII.
Ritornata all’Alcazar, la marchesa di Moya chiamò, come si suol dire, i pensieri a capitolo. Poteva farlo liberamente, sentendosi più tranquilla allora, che non lo fosse quando era uscita dal palazzo per andare in Calle de l’Arroyo. Oramai ella sapeva l’essenziale; anzi parecchie cose essenziali. Beatrice Enriquez era bella, sicuramente, ma meno bella di quello che la marchesa di Moya immaginava e temeva. Ogni pericolo veduto di fronte, e saputo guardare, perde sempre i due terzi della sua gravità; figuriamoci poi la bellezza di un’altra donna, in cui è così facile di trovare tanti e tanti difetti. Questo è per una donna il primo punto; ed era per la marchesa di Moya il primissimo. Poi ella aveva acquistata la certezza che don Cristoval non si era più avvicinato alla bella Cordovana, e neanche lo aveva tentato, ritrovandosi a Siviglia, dove essa abitava. Certo, egli era sempre più triste che alla marchesa di Moya non piacesse di vederlo. Ma infine, bisognava esser giusti; egli non poteva essere allegro, pensando a quella donna che aveva abbandonato con tanta freddezza, non pure lui, ma l’innocente che era nato da lei. Per intanto don Cristoval era un uomo leale; non mentiva; era degno di stima. Ed anche era molto infelice per la inerzia a cui si vedeva condannato, di cui ridevano i suoi nemici, e più di tutti la donna che avrebbe dovuto soffrirne. Ah sì! rideva, la bella Cordovana? Ebbene, l’avrebbe fatta rider lei, e rider verde.
Sapete pure che il riso può essere di molti colori. C’è il riso vermiglio, il riso della gioia aperta e piena, che schiude la bocca e mette in mostra anche il fondo della gola. C’è il riso azzurro, il riso del volto che si compone amabilmente all’estasi, e delle pupille che si volgono alla contemplazione dei lontani ideali. C’è il riso pavonazzo dello sdegno, e il nero della rabbia, intorno ai quali non c’è da dir altro. C’è il riso giallo dell’invidia, che si divora in silenzio; c’è il riso verde della bile concentrata, che pure non sa contenersi, e vorrebbe schizzare da tutti i pori, e frattanto vi tinge maledettamente la pelle. Beatrice Enriquez doveva rider verde; a ciò la condannava in cuor suo quell’altra Beatrice, per sua vendetta allegra.
Ah, se la marchesa di Moya avesse potuto incominciare quella vendetta dicendo a don Cristoval: sapete? ho trovato il serpente del vostro paradiso perduto! Ma sarebbe anche stato necessario di soggiungere: è mio fratello, don Francisco, il commendatore di Calatrava. No, non era prudente di dire queste cose a don Cristoval. Sapere un segreto è sempre bene; saperlo custodire è anche meglio: e ce ne son sempre di tali che non vanno confidati a nessuno, neanche al migliore degli amici. Del resto, era bene aspettare; ci sarebbe stato sempre tempo a parlarne. Frattanto, una cosa era urgente: aiutare don Cristoval, proteggerlo più efficacemente ch’ella non avesse fatto fino a quel giorno, con lo spirito sempre occupato dalla immagine della ignota rivale. Questa, oramai, l’aveva veduta, e conosciuta poco temibile. Un giorno, anche don Cristoval l’avrebbe conosciuta meglio a sua volta; avrebbe imparato a distinguere tra Beatrice e Beatrice. Per allora, non più parola della bella Cordovana; bisognava pensare a tutt’altro, per giovare all’amico dell’anima. Le donne, che siano benedette, hanno l’apostolato nel sangue; sembrano fatti per loro i sacrifizi e i martirii.
Le feste di Siviglia erano finite. Don Alonzo, principe ereditario del Portogallo, si portava via la sua giovane sposa, e buona notte a chi restava, assistendo all’ultima fiaccolata per le vie di Siviglia. Due giorni dopo, per intercessione della marchesa di Moya, don Cristoval Colon otteneva un’udienza dalla regina. Donna Isabella di Castiglia prendeva qualche conforto del vedersi separata dalla sua cara figliuola, intrattenendosi col navigatore genovese sugli arditi disegni di lui, da tanto tempo vagheggiati, e sempre lasciati per altre cure in disparte. Egli s’infiammava, al solito, e nella descrizione ideale delle nuove terre che avrebbe donate alla corona di Castiglia, diventava eloquente.
La bella marchesa di Moya metteva a quando a quando nel discorso la sua parolina; anzi, diciamo pure che ne metteva parecchie. Oramai, conosceva tutti gli argomenti anche lei; avrebbe potuto disputare in un altro consiglio di Salamanca, e farci miglior figura di tanti e tanti dottori.
– Ma sai, Bovadilla? – le disse la regina, quando furono sole. – Tu hai più cosmografia nella testa, che non ce n’abbia il padre Diego di Deza.
– Più di quello, sia detto con licenza di Vostra Altezza, no; – rispose umilmente Bovadilla; – ma più di don Fernando di Talavera, sia detto senza modestia, sì. –
Isabella di Castiglia sorrise, a quell’audace scappata, che contrastava tanto con l’umiltà dell’esordio. Senza dubbio, Bovadilla era molto addentro nelle grazie della regina, per poter impunemente dare addosso al confessore della regina.
– Ah sì! da capo col Talavera; – esclamò Isabella, dopo che ebbe sorriso. – Ma che cosa hai tu, Bovadilla, contro il vescovo d’Avila?
– Niente, contro il vescovo; molto, moltissimo, contro il nemico di don Cristoval Colon.
– Nemico! Non ti pare un po’ troppo?
– Mi scusi Vostra Altezza, ma io non trovo altro vocabolo. Il Talavera non fa che seminare ostacoli ai disegni di quel valentuomo. Ed io, che mi son messa in testa di lavorare per la gloria di Vostra Altezza, non capisco i dubbi del Talavera. Parli del cielo e non avrò nulla da dire; quanto alla terra, ne lasci parlare da chi la conosce un po’ meglio di lui.
– Ma egli, Bovadilla mia dolce, non combatte già le opinioni di don Cristoval sulla forma della terra. Accenna le obiezioni dei dottori, e non si dissimula, nè vuol dissimulare a noi, che quelle obiezioni hanno molto peso.
– V’aggiunge tutto il suo, a quanto pare; – ribattè la implacabile Bovadilla. – Ma infine, checchè ne pensino i dottori, che cosa domanda don Cristoval? di poter mettere a rischio la vita, per l’onore e la grandezza di un regno.
– E di questo pensiero dobbiamo essergli grati; – rispose Isabella, – ma non possiamo neanche dimenticare che insieme con la sua metterebbe a rischio la vita degli altri.
– Con la sua; Vostra Altezza lo riconosce.
– Sì, Bovadilla. Ma tu converrai con me, che un uomo può esser matto, e volerla sacrificare ad ogni costo, mentre i savi hanno l’obbligo di provvedere alla salvezza di tutti. Bada bene, io non credo che il navigatore genovese sia matto, Dio guardi! Ma penso che se qualcheduno si dà pensiero della vita degli altri, non abbia poi tutti i torti. Quanto a me, sono convinta dalle ragioni di don Cristoval. Anch’io ho studiata la mia parte di cosmografia, in queste dispute eterne; – soggiunse la regina, ridendo. – Ma il re Ferdinando ed io abbiamo tante altre cure gravissime! Questo è pure il pensiero del vescovo d’Avila, che tu, Bovadilla, hai il torto di non intendere. Abbiamo, come si dice volgarmente, troppa carne al fuoco. Ti par poco, questa guerra coi Mori, che vuol essere condotta col massimo vigore?
– Maledetti Mori! – gridò Beatrice di Bovadilla. – Non si finisce più!
– Speriamo che il colpo decisivo si possa dare in quest’anno. Sai che si parte di questi giorni?
– Ancora!
– Ancora, e quante volte sarà necessario.
– Per dove?
– Per la Vega di Granata. Vedi? è il cominciamento della fine.
– Lo volesse il cielo! Ma se non si finisse ancora?
– Bisognerebbe continuare; – rispose Isabella. – Abbiamo promesso a Dio di non deporre più le armi che nell’Alhambra dei re di Granata.
– E per far questo è proprio necessario di dimenticare don Cristoval? – disse la marchesa di Moya. – L’onore della corona e la gloria della fede non sono in causa laggiù, sull’Atlantico, come qui, davanti a Granata?
– Hai dunque giurato di farci navigare alla scoperta di un nuovo mondo, Bovadilla?
– Per l’onore di Castiglia; – replicò la marchesa di Moya. – Esso è impegnato oramai. Vostra Altezza ha promesso di avere a cuore i disegni del Genovese, e di far dare dal consiglio di Salamanca una sentenza finale. Non sia mai detto.... Vostra Altezza mi perdoni l’audacia del discorso.... non sia mai detto che parola regale mentisca.
– E non è mia intenzione di farla mentire. Si tratta di aspettare il momento opportuno.
– Il momento è sempre opportuno, quando sono congiunti il potere e il volere.
– Vedo, – disse la regina, – che bisognerà fare a modo tuo.
La marchesa di Moya cadde alle ginocchia della regina, e le baciò devotamente la mano.
– Ringrazio Vostra Altezza! – gridò. – Sarà dunque riconvocato il consiglio dei dottori?
– Oggi stesso, per contentarti, ne darò incarico al vescovo d’Avila. Non sia mai detto, – conchiuse Isabella, sorridendo ancora, – che parola regale mentisca. –
Quel giorno, nella conversazione serale dell’Alcazar, la marchesa di Moya diede al fratel suo don Francisco una guardata, che dovette parergli beffarda. Nello stato d’animo in cui era il commendatore, ci voleva poco per fargli perdere le staffe.
– Donna Beatrice, – le diss’egli severo, – dovrei parlarvi a lungo.
– Con che aria mi annunziate il colloquio! – esclamò la marchesa, con accento di comica gravità. – Non sembrate neanche più mio fratello.
– Eh, veramente, dovrei dimenticarmi di esserlo; – rispose il Bovadilla, accigliato.
Non ci voleva tanto, per far corrugare la fronte alla marchesa di Moya.
– E perchè, di grazia? – domandò ella, rizzando la testa.
– Perchè.... mi si dicono certe cose di voi!
– Di me? a voi, commendatore?
– A me, sì, a me. Che volete? che vadano a dirle a don Giovanni Cabrera?
– A lui, certamente. È l’unico uomo a cui debbo render conta dei fatti miei.
– Vorreste davvero che si cominciasse da lui?
– Invito a ciò formalmente i vostri amici, don Francisco.... e le vostre amiche. –
Il colpo andò diritto al cuore del Bovadilla, che n’ebbe una scossa per tutta la persona.
– Siete audace! – rispose, fingendo di non aver capita l’ultima frase. – Già troppi sanno dove andate.
– Vedete come sono diverse le nostre fortune; – ribattè la marchesa, imperterrita. – Io sola so dove andate voi. Commendator di Calatrava, e i vostri voti? così li osservate? –
Don Francisco le diede una guardata, che voleva passarla fuor fuori. Ma gli occhi, per buona sorte, non sono lame di Toledo.
– Non so che cosa vogliate dire; – rispose egli, sconcertato.
– E non importa che lo sappiate; – replicò la marchesa. – Mi basta che sappiate che io so.... tutto ciò che mi giova di sapere. E voi fate la strada vostra, commendator di Calatrava, che io faccio la mia. –
Mentre questo acre colloquio seguiva tra don Francisco di Bovadilla e la marchesa di Moya, la regina Isabella dava al vescovo d’Avila l’incarico di raccogliere i pareri e i voti dei dottori di Salamanca intorno alle proposte del navigatore genovese. Oramai si era traccheggiato abbastanza, e una risposta bisognava pur darla. Donna Isabella lasciava anche intendere al Talavera che quella risposta le sarebbe piaciuta favorevole ai disegni di don Cristoval.
– Ricordatevi, padre mio, – diceva al suo confessore, – che il cardinale Mendoza, gran primate di Spagna, vede di buon occhio le proposte del Genovese, e così pure l’eminentissimo nunzio del Papa. Per ciò che risguarda i punti di fede, la nostra coscienza è dunque al sicuro. Voi stesso, padre, lo avete detto più volte.
– L’ho detto, sì.... – balbettò il vescovo d’Avila, rannicchiando il collo nella pappagorgia. – L’ho detto e non mi disdico. Ma in questi giorni....
– Dite, padre, dite liberamente.
– Non pare a Vostra Altezza che il momento di pensare a queste cose.... non sia ancora venuto
– Perchè? – disse Isabella. – Si può pensare a tutto; qualche volta è anche un obbligo di regno. Mettete ad esempio una ribellione improvvisa, come fu quella del conte di Lemos. Avevamo pure la guerra contro i Mori. Ebbene, noi abbiamo provveduto a sedare la ribellione, senza tralasciare le operazioni della guerra incominciata.
– Intendo; – rispose il vescovo d’Avila. – Ma allora, sia detto con licenza di Vostra Altezza, si trattava della salvezza del reame.
– E qui della sua gloria, non vi pare? A me dorrebbe troppo di lasciar dire che Castiglia, Leon ed Aragona, tre regni raccolti per grazia del cielo in un solo, non avendo più da combattere che un re codardo nascosto dietro le mura di Granata, non trovassero tempo nè modo di provvedere a due cose; le quali, dopo tutto, vanno d’accordo assai più che non sembri. Da una parte abbiamo il compimento di un’opera che fu il sogno di tutti i nostri maggiori, da Pelagio in poi; dall’altra abbiamo il principio di un’opera, che nessuno avrebbe sognata mai, e potrebb’essere per il nostro regno una gloria così grande, come la vittoria finale sugli Arabi, usurpatori del territorio spagnuolo. Due glorie, come vedete; pensare all’una e trascurar l’altra sarebbe come non meritarne nessuna. –
Isabella parlava da regina. Il vescovo d’Avila fece un profondo inchino, salutando la parola regale.
– Vostra Altezza, – notò egli, da buon cortigiano, – dice cose che la storia avrebbe obbligo di registrare.
– No, padre mio, non diamo un tale incomodo alla storia; – rispose la regina, sorridendo. – Registri la storia le nostre opere, non le nostre parole. E perchè non siano parole, ma opere, lavoriamo tutti con ogni diligenza. Mi raccomando a voi, padre, perchè Salamanca ci mandi scritta la sua dotta sentenza.
– Obbedirò; – disse il vescovo d’Avila, prendendo congedo.
La regina Isabella non dubitava punto della buona fede del vescovo d’Avila. Sapeva benissimo ch’egli non parteggiava per Cristoforo Colombo; ma ella pensava che il suo confessore mirasse piuttosto a tenersi imparziale, non curando che la verità, la giustizia, e l’utile del regno di Castiglia. In questo egli sicuramente eccedeva un pochino; ma era colpa di zelo, colpa che facilmente si scusa. Ancora, ella ammetteva che don Fernando di Talavera, qualche pregiudizio, qualche dirizzone in testa lo avesse. Era il difetto dell’uomo dotto, di essere un tantino ostinato. Ma chi è esente da difetti, Dio buono? Quell’ostinato personaggio bisognava saperlo trattare; era nel fondo la miglior pasta d’uomo. Così almeno pensava lei; soltanto Bovadilla, quell’altra grande ostinata, non lo voleva intendere, ed aveva del buon vescovo d’Avila un’opinione che sapeva d’ingiustizia. Ecco infatti: il Talavera aveva capito il pensiero della regina; l’aveva lodato; aveva detto: obbedirò; avrebbe obbedito senz’altro. Perchè dunque non fidarsi di lui?
Frattanto, il vescovo d’Avila andava dicendo tra sè:
– Che nuova idea è mai questa, della regina? Aver la sentenza di Salamanca, e subito, dopo due anni che non se ne parlava più! E proprio ora, che si fanno gli apparecchi per l’assedio di Granata? Buon momento, per farsi venire la febbre delle scoperte! Sicuramente, qualcheduno è venuto a metterla su. Ma chi potrà essere costui? –
Il vescovo d’Avila prese subito lingua, e seppe che don Cristoval era stato ricevuto in udienza particolare dalla regina. Forse il marinaio genovese era stato più eloquente del solito; ed anche più incalzante. Ma certamente era stato molto aiutato. E da chi, se non dalla marchesa di Moya? Da un pezzo Beatrice di Bovadilla non faceva mistero della sua amicizia per don Cristoval. Gli amici e protettori del Genovese erano diventati gli amici della dama di palazzo. Il Quintanilla, prima di tutti; poi Diego di Deza, il gran teologo, a cui egli, il Talavera, non aveva potuto impedire di diventare il precettore di don Giovanni, principe ereditario; poi i due duchi Medina Celi e Sidonia, amantissimi del mare e delle avventure marinaresche; da ultimo don Luigi Santangel, ricevitore delle rendite ecclesiastiche in Aragona, che spesso si ritrovava alla Corte, e per amicizia col Quintanilla era entrato nella combriccola. Così almeno la chiamava il buon vescovo d’Avila. È sempre una combriccola l’unione di parecchie persone che la pensano diversamente da noi.
– Già, capisco, – conchiuse egli, infatti. – deve essere la combriccola dei cosmografi. Ma qui bisognerà pensare al rimedio. Miei bravi signori, vi acconcerò io per le feste. Volete la sentenza di Salamanca? L’avrete. –
Il vescovo d’Avila andò subito a trovare don Francisco di Bovadilla.
– Sapete la gran novità? – gli disse. – La regina vuole che si pensi alle maravigliose proposte del Genovese. Dobbiamo dar subito la sentenza; una sentenza a cui credevo, e con me credevano tutte le persone assennate, che non si dovesse pensare mai più. Il Genovese ritorna a galla; ha riacquistato favore presso la regina; e la cosa, avvenuta così di schianto, mi sa di strano.
– Per me, niente di strano; – rispose don Francisco. – C’è la mano di mia sorella. –
Il vescovo d’Avila credette opportuno di fare un gesto di stupore. Don Fernando di Talavera doveva apparire in buona fede per tutti.
– Credete? – diss’egli, inarcando le ciglia.
– Se lo credo? Ne son certo. È una malìa che hanno gettata sulla mia povera sorella.
– Una malìa. Ma sapete che sarebbe cosa gravissima? e che sarebbe da sottoporre il caso al santissimo Tribunale dell’Inquisizione?
– Non andrò fin là; – rispose il commendatore di Calatrava. – Ma qualche cosa bisognerà fare; ed io ci penserò, non dubitate. Quel suo maledetto Italiano è riuscito a stregar la marchesa; tanto che ella non vede più che lui, non giura che per lui, non si occupa più d’altro che di lui e delle sue famose scoperte.... di là da venire. Oh, le farò venir io!
– Se permettete, – disse il vescovo d’Avila, – correggo la vostra frase. Le faremo andare.... a quel paese. – Ma voi, che cosa contate di fare?
– Ho un’idea; – rispose don Francisco. – Lasciate che io la maturi. Già, a mali estremi, estremi rimedi. L’onore dei Bovadilla è impegnato.... e anche un pochettino quello dei Cabrera. –
Il vescovo d’Avila non volle saperne di più, e se ne andò, stropicciandosi le mani. La mattina dopo, partivano le sue lettere per lo studio di Salamanca. Quello era l’obbligo suo verso la regina; lo aveva scrupolosamente adempiuto, e la coscienza era tranquilla. Quanto al resto, niente paura; i giudizi dovevano essere la più parte contrarii; e messer Cristoforo era servito, come suol dirsi, di coppa e di coltello.
Ciò avvenne difatti. Giunsero i pareri; si tirarono le somme; buona notte ai disegni del navigatore genovese. E si tenesse pure l’opinione favorevole di don Diego di Deza.
La regina Isabella si dolse molto di una sentenza che tornava così contraria al suo intimo desiderio. Il re Ferdinando si provò a consolarla.
– Era una follìa; ve lo avevo sempre detto, io.
– Nobil follìa, se mai; – rispondeva la regina; – sublime follìa. –
Questo, che la regina Isabella diceva, Salamanca era anche disposta a concederlo. Che cosa, infatti, sentenziava la giunta di Salamanca? Che il disegno di Cristoforo Colombo era vano e pericoloso per tutti coloro che partecipassero all’impresa; la quale impresa non aveva altro fondamento che le scarse e deboli ragioni messe innanzi dal suo primo fautore, e che perciò non conveniva alla gravità nè all’altezza di così grandi principi, come il re e la regina di Castiglia. Follìa, dunque; nobile fino a tanto che si volesse, ma pur sempre follìa. Questo era il giudizio dei più; che cosa ci potevano fare i meno? I meno erano veramente i più dotti; ma anche i più giovani, e per conseguenza i più temerarii, come diceva il vescovo d’Avila, ed anche facendo grazia di un più calzante epiteto. Tra quei temerarii era il padre Diego di Deza, che da lunga pezza, e più particolarmente in quegli ultimi giorni, aveva parlato in favore di don Cristoval. Ferdinando ed Isabella, messi lì tra i contrari giudizi del maggior numero e della parte più eletta della giunta, erano stati alquanto perplessi; ma avevano pur dovuto rassegnarsi al parere dei più. Ferdinando più volentieri d’Isabella, ma infine tutt’e due concordi in un solo pensiero. E al vescovo d’Avila avevano dato incarico di rispondere a don Cristoval che le spese ingenti e le cure assidue della guerra non consentivano loro, per il momento, d’impegnarsi in nuove intraprese. Forse col tempo (ma non ne davano certezza) avrebbero trovato maggiore opportunità di esaminare e d’intendere ciò ch’egli offriva alla corona di Castiglia. Era un modo pulito, ma chiaro abbastanza, di mandarlo con Dio.
Ne era dolente Isabella! e la piena del suo dolore per quella necessaria risposta versò nel seno confidente della marchesa di Moya.
– Vedi, Bovadilla, come siamo disgraziate! – le disse. – Io andrò molto triste alla Vega di Granata, pensando al rammarico di don Cristoval, per cui tu ti sei tanto impegnata. Vedi tu almeno di confortarlo con qualche buona parola, che lo assicuri del mio dispiacere, e gli lasci speranza per una più propizia occasione.... che in verità non ardisco neanche di vagheggiare da lontano.
– Don Cristoval non è ora a Siviglia; – rispose la marchesa di Moya. – Egli ha dovuto recarsi a Cordova per certe sue faccende domestiche. Ma egli verrà domani, o doman l’altro. Come accoglierà egli questa dolorosa notizia?
– Bisogna fargli coraggio. Non gli si dice assolutamente di no per il futuro; il nostro rifiuto non deve riguardare che il giorno presente.
– Ma Vostra Altezza può dargli per il futuro una più larga speranza. Una buona parola detta a voce da Vostra Altezza potrebbe far meglio di tutte le mie consolazioni.
– Come dirla, Bovadilla mia, questa buona parola? Il giudizio dei dotti è stato assolutamente contrario.
– Capisco. Ma il padre Deza, che ne sa più di tutti i dotti di Salamanca messi insieme, è più caldo che mai per i disegni di don Cristoval. A chi vuole e a chi non vuole sentirlo, il padre Deza spiattella chiaro e tondo che i suoi colleghi di Salamanca sono tanti ignoranti.
– Ha detto questo?
– Proferisco la sua parola: ignoranti. –
La regina Isabella rimase alquanto sovra pensiero. Nè per allora, la marchesa di Moya osò stringer da capo l’argomento difficile.
Intanto la bella e pietosa Beatrice di Bovadilla stava cercando nella sua testa il modo di parare il colpo che il vescovo d’Avila era riuscito ad assestare. Ella anzi tutto aveva mandato con grande sollecitudine un messaggio a don Cristoval, raccomandandogli di ritornare immediatamente a Siviglia. Il viaggio della Corte per seguire l’esercito alla Vega di Granata era già stato annunziato; da un giorno all’altro si poteva esser costretti a partire; ed ella, al solito, accompagnava la regina. Sarebbe stato un gran guaio ch’ella non avesse potuto vedere don Cristoval prima di partire da Siviglia.
Intanto aveva radunati gli amici, quelli che il Talavera chiamava: la combriccola dei cosmografi; il Quintanilla, il Deza, i due Medina, il Santangel.
– Se io non ho più da vederlo prima di partire, ditegli voi, o quello di voi che rimarrà ultimo a Siviglia, che non disperi ancora. Tenteremo, tenteremo sempre, non ci daremo per vinti. –
Ma proprio allora don Cristoval ritornava a Siviglia. Avvertito dell’accaduto, non balenò davanti al vescovo d’Avila, che con molta unzione di linguaggio ed altrettanta compiacenza di spirito, gli dava il suo proficiscere in nome del consiglio di Salamanca.
– Lo prevedevo; – diss’egli, abbastanza calmo in apparenza. – In due anni di meditazione del dotto consiglio niente era avvenuto, per mia sventura, che potesse mutarne a mio favore il giudizio.
– Abbiate pazienza, don Cristoval; abbiate pazienza, figliuol mio dilettissimo; – rispondeva il vescovo d’Avila. – Iddio ha voluto così. Egli che ha ispirati gli apostoli, non crede venuto il momento; nè quella che voi vorreste percorrere, crede esser la via su cui adoperare il vostro santissimo zelo per il Sepolcro del suo divino Figliuolo. –
Cristoforo Colombo sapeva benissimo che cosa dovesse pensare di tutta quella tenerezza del vescovo d’Avila. Ringraziò freddamente, e si ritirò dalla presenza di lui. Ma subito chiese di essere ricevuto dalla regina Isabella. Nè questa, pregata dalla marchesa di Moya, seppe rifiutargli l’udienza.
Ma dalla bocca di donna Isabella egli non poteva udire che la medesima risposta avuta dianzi dal Talavera. C’era più garbo, più gentilezza di forma, più sincero rammarico nella espressione; ma la sentenza era quella, e non potevano mutarla le troppo lontane speranze poste in un incerto avvenire.
– Dovrò dunque rassegnarmi; – diss’egli, con accento di nobile tristezza. – Dopo tante fatiche, dopo tanti travagli, dopo tanti bei sogni, è cosa veramente dolorosa, dover rinunziare ad una impresa da cui mi ripromettevo tanto onore per tutti, e più per Castiglia, come per la fede di Cristo. Ma Iddio opera in ogni cosa con infinita sapienza, e le sue vie sono imperscrutabili. Questo io posso dire a Vostra Altezza per mia giustificazione, che credo sempre nella bontà del mio disegno, e che solamente alla corona di Castiglia volevo darne la gloria. Dal Portogallo ebbi lettera, in cui quel re, invitandomi a ritornare nella sua Corte, si degna di chiamarmi: “nostro particolare amico.” Ebbi lettere, che mi portò mio fratello Baldomero, dal re d’Inghilterra. Ne ebbi, or fanno pochi giorni ancora, dal re di Francia, e posso mostrarle a Vostra Altezza, insieme con la risposta che io diedi. Per servire Castiglia io non ho voluto impacciarmi con Francia, nè con Inghilterra, nè con Portogallo. Ora la mia intrapresa è nelle mani di Dio; sia fatta ogni cosa secondo il suo santo volere. –
Nè altro aggiunse don Cristoval. Una commozione improvvisa era venuta a soffocargli la voce, e due grosse lacrime gli rigavano le guance.
Fu un momento difficile per tutti. Piangeva la regina Isabella; piangeva anche la marchesa di Moya. Ma questa non era solamente fatta per piangere; anzi diciamo che il piangere era un caso insolito in lei. La bella marchesa avrebbe voluto operare, muovere subito alla riscossa. Già sapeva da qual parte avrebbe dovuto incominciare.
– Riconosco la mano di don Francisco; – diceva ella tra sè. – Calatrava! Calatrava! Badate a voi! C’è don Pedro Giron, gran maestro dell’ordine, che potrebbe ridurvi alla ragione. –
Ma la povera marchesa di Moya non ebbe tempo di colorire il suo nuovo disegno. Quel giorno istesso, mentre ella si ritirava nelle sue stanze, la trattenne contro l’usato don Giovanni Cabrera, marchese di Moya, suo signore e padrone.