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LE DUE BEATRICI CAPITOLO XIV. Di che tremasse il marchese di Moya e della risposta che ebbe una sua domanda in proposito. |
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CAPITOLO XIV.
Di che tremasse il marchese di Moya e della risposta
che ebbe una sua domanda in proposito.
Il fatto era insolito, e Beatrice di Bovadilla capì subito che c’era nell’aria qualche cosa di grave. Che cosa fosse, ella non indovinava ancora; anzi, rinunziava all’idea d’indovinarlo. Da quella savia ed accorta dama ch’ella era, e per farla finita con le inutili incertezze, immaginò tutto il peggio che potesse succedere. E disse allora a don Giovanni Cabrera, suo signore e padrone:
– Son qua per ascoltarvi, don Juan. Entrate, prima di tutto, e sediamo. –
Il vecchio gentiluomo fece un inchino, e si tirò da un lato, per lasciarla passare. La marchesa entrò nel suo appartamento, e andò a sedersi sopra un angareb. Debbo io dire ai lettori che cosa sia, o meglio, che cosa fosse l’angareb? La parola è araba, e significa quello che oggi si direbbe un sofà, un canapè, un lettuccio, od altro di somigliante. L’arnese era moresco; e dai Mori, che avevano occupata per sette secoli tanta parte della Spagna, era passato ai Cristiani.
Don Giovanni Cabrera, marchese di Moya, era grave all’aspetto, ma non accigliato; o piuttosto diciamo che accigliato lo era sempre, per la consueta espressione del viso, ma che non lo era in quel giorno niente più dei giorni passati.
La marchesa di Moya era entrata, come ho detto, e si era seduta, come persona stanca d’una giornata di grande fatica.
– A voi, don Juan; – diss’ella, accompagnandosi con un gesto cortese, mentre guardava con gli occhi socchiusi il marito; – sedete, e parlate. –
Don Juan non approfittò dell’invito. Avvicinatosi all’angareb su cui era seduta la marchesa, posò la palma d’una mano sulla spalliera, e il dosso dell’altra appoggiò sul fianco. L’atteggiamento era cavalleresco in sommo grado. Il marchese di Moya stette così per pochi istanti in silenzio, poi disse:
– Da un pezzo non m’avviene di farvi una certa domanda, donna Beatrice; e voi avete potuto credere che io abbia perdute le mie vecchie consuetudini. Ma io sono sempre quello di prima. Ditemi dunque, Beatrice; debbo io tremare? –
La domanda del marchese di Moya non parve strana a Donna Beatrice. Ma essa parrà strana al lettori; ed io, a rischio di fare una troppo lunga interruzione nel dialogo, debbo pure spiegarla. Ecco dunque in proposito tutto quello che io so.
Don Juan Cabrera, marchese di Moya, era un vecchio cavaliere, ciambellano e gentiluomo di camera del re Ferdinando; ma prima di avere un così alto e delicato ufficio a Corte, era stato un valoroso guerriero. Bei giorni, da lungo tempo passati per lui! Vecchio oramai come Matusalem, aveva i capegli bianchi come la neve, e bianchi del pari i mustacchi; ma con quel bianco vivissimo contrastava ancora arditamente il bronzeo colore della faccia, mentre con quel bronzeo colore contrastava altrettanto il grigio delle pupille. Il vecchio soldato impenitente si riconosceva ancora nella rigidezza della persona diritta, ma non impresciuttita. Era un bell’avanzo dei principii del secolo, o giù di lì; una di quelle forti figure che sembrano a tutta prima balzate fuori da un quadro, e che meriterebbero di ritornarci, per durare centinaia d’anni alla ammirazione dei posteri.
Come mai un tal vecchio, un tale avanzo di remote stagioni, era il marito di quella giovane donna, uscita a mala pena dalla sua primavera? Avevano, se mi consentite la frase, premiato col fiore della bellezza il guerriero valoroso e leale. C’è tra il vecchio soldato e la giovane donna un vincolo arcano, che non si spiega, ma che troppi esempi dimostrano. L’uomo vissuto tra i pericoli della guerra e nelle fatiche dei campi, non ha pensato prima a chiedere la sua parte di cielo; la intravvede poi, la desidera, insieme con la pace che ha meritata; e quando la ottiene, è più felice di un re sul suo trono. Aggiungete che tra l’uomo maturo e la giovane donna c’è ancora un buon momento, in cui una età non si ritrova troppo lontana dall’altra, e tutt’e due dànno l’immagine del passato e del futuro nel loro punto di vicinanza, che il passato non è ancor tanto passato, nè il futuro è ancor tanto futuro, che non possano contemplarsi l’un l’altro e confondersi nella breve sosta del presente. Per la donna è un resto di primavera, dopo il maggio piovoso; per l’uomo è l’estate di San Martino: uno stesso grado di calore può dare ad entrambi l’illusione di una medesima giornata di luglio. Aggiungete ancora che i leali servizi presentano bene quell’avanzo di remote stagioni; che la gloria, qualche volta, gli compone una maravigliosa aureola intorno alla fronte, e quell’aureola luminosa, sia pure per un giorno, gli tien luogo di gioventù.
I reali di Castiglia pregiavano altamente i servizi del vecchio Cabrera. Beatrice di Bovadilla, giovanissima, quasi bambina, era stata la fida compagna d’Isabella nei tristi giorni della sua gioventù, sfiorente tra i regali pretendenti che si offrivano a lei e i capricci del fratello Enrico che a tutti la ricusava. Fuggita dalla fraterna tutela, poi riconciliata col re Enrico per i buoni uffici del Cabrera, Isabella aveva potuto dar la sua mano a Ferdinando d’Aragona. Morto poco dopo il fratello, era stata chiamata a regnare, insieme col suo Ferdinando. E frattanto una viva tenerezza era sorta nel cuore del maturo soldato, per quella leggiadra creatura che viveva al fianco della regina. Vi ho già detto che il vecchio guerriero ha diritto, come tutti i nati d’Adamo, alla sua parte di cielo. E i Regali di Castiglia, avvedutisi di quella tenerezza del valoroso e leal servitore, avevano promesso a lui di concedergli la sua parte di cielo, se quella bellissima parte non avesse disdegnato di prestarsi a così nobile uffizio.
Ed essa non lo aveva disdegnato. La cosa era andata press’a poco così.
– Donna Beatrice, – aveva detto un giorno il Cabrera alla bellissima Bovadilla, – sapete voi qual sia l’intenzione dei nostri sovrani? Un’intenzione, io vo’ dire, che risguarda voi e me; voi, bel fiore di giardino, e me, povero cardo selvatico.
– Ne so qualche cosa; – aveva risposto Bovadilla, con un risolino malizioso di fanciulla; – e voi che cosa ne pensate, don Juan?
– Che io sarei felice.... d’esservi padre. –
Il risolino della fanciulla si era tramutato in una bella risata argentina.
– Ed io d’esservi figlia, don Juan; – aveva ella risposto.
– Ma non siamo nulla di ciò, pur troppo!
– Non lo siamo, che peccato!
– Che si fa, allora?
– Che si fa? io lo domando a voi. –
Il maturo soldato era rimasto alquanto sovra pensiero. Poi, alzata la fronte e guardata lungamente quella bella bambina nel bianco degli occhi, le aveva fatta a mezza voce questa domanda, che in bocca d’altri sarebbe stata impertinente, e in bocca sua non era che rispettosa:
– Amate voi già qualcheduno? –
La bella bambina lo aveva guardato a sua volta, e subito aveva risposto:
– No. –
Don Juan si era sentito come liberato da un gran peso che gli gravasse sul cuore.
– Amereste me? – soggiunse, abbassando ancora la voce.
– Se lo meriterete, perchè no?
– Badate, bambina! – disse allora don Juan, sforzandosi di sorridere. – Io non avrei tempo a sostenere la prova. Quando lo avessi finalmente meritato, sarei troppo più vecchio d’adesso. –
La fanciulla era rimasta silenziosa, a fronte china, ma tratto tratto gittando dalle ciglia socchiuse una occhiata maliziosa al vecchio soldato.
– Vedete? – diss’egli, ripigliando il discorso. – La cosa incomincia a farsi più grave che non vi paresse da prima.
– Non vedo tutta questa gravità; – rispondeva Beatrice.
– No, bambina? Eppure, questo avevate l’aria di vedere, col vostro silenzio.
– Il mio silenzio, cavaliere, non significa che una cosa sola: che ero e sono sempre impacciata a rispondervi. Sono una fanciulla, finalmente; una bambina, come voi dite. Voi siete un uomo di grande esperienza; un guerriero carico di gloria....
– E d’anni, – mormorò don Juan, crollando malinconicamente la testa.
– E d’anni, sia pure. Gli anni vi dànno un grande vantaggio su me. Mi pare anche un po’ strano, sapete, e fors’anche impertinente, di parlarvi con tanta confidenza, come ho fatto finora. Perdonatemi, ve ne prego. E pensate che io parlerei così a mio padre, se il buon vecchio fosse ancora vivo e sano tra noi. –
Così dicendo, la fanciulla, la bambina, asciugava una lagrima.
Don Giovanni Cabrera rimase un altro poco in silenzio, avendo l’aria di guardarla, ma nel fatto meditando profondamente sul caso in cui lo aveva posto una sua debolezza di cuore, una sciocchezza, una fanciullaggine d’uomo maturo.
– Donna Beatrice, – diss’egli, dopo aver meditato, – qualunque cosa pensiate di me, qualunque cosa siate per risolvere intorno al mio destino, che è veramente nelle vostre mani, eccovi lo stato mio in poche parole. Il re Ferdinando, che Dio guardi, vorrebbe che io prendessi per la mia vecchiaia la vostra gioventù. La regina Isabella, tanto buona per me, acconsentirebbe alla mia felicità, se la cosa non fosse per dispiacere a voi. Se voi mi permetteste di darvi il mio nome, donna Beatrice, sarei senza fallo il più felice dei cavalieri di Castiglia.... e diciamo pure del mondo. Ho tre volte i vostri anni, pur troppo. Ma se questo non vi facesse paura, io andrei difilato a ringraziare sant’Jago di Compostella, come della maggior grazia che uomo nato potesse sperare da un così alto protettore. E sarei come un padre, per voi, come un padre vigilante ed amoroso.
– Ah sì, bella cosa! – esclamò Beatrice di Bovadilla. – Parlatemi così, parlatemi sempre così! Voglio che siate mio padre. –
La conversazione di donna Beatrice e di don Giovanni Cabrera non si era prolungata per quel giorno più oltre. Ma a finir di persuadere la giovane Bovadilla si fece avanti la regina Isabella. Anche a lei, veramente, pareva che Beatrice fosse troppo giovane; anche a lei pareva una bambina, con quei suoi neri capegli disciolti, pioventi giù per le spalle, e una ciocca di piccole rose, piantata alla birichina su quei neri capelli. Ma quella bambina aveva già così profondo, così pieno di pensieri lo sguardo! A qualcheduno, un giorno o l’altro, sarebbe bisognato concederla. I parenti di lei erano morti; restava il fratello don Francisco; ma questi, entrato da poco nell’ordine militare e religioso di Calatrava, non era più un compagno per quella giovinezza; non sarebbe mai stato un aiuto. Queste cose pensava la regina; e pensava ancora che tra tutti i mali il matrimonio col Cabrera sarebbe stato sempre il minore, non allontanando Beatrice dalla Corte, dove la sua gaia presenza era necessaria oramai.
– Orsù, parliamoci schiettamente; – le aveva detto la regina. – Lo sposeresti?
– Se Vostra Altezza me lo comanda!
– Io, _ veramente.... Neanche una regina, Bovadilla mia, può comandare in queste cose. Vedo piuttosto che il sì ed il no ti sono indifferenti del pari.
– Eh, non del tutto; – rispose l’ingenua fanciulla. – Don Juan mi ha detto di voler essere mio padre.
– Davvero? E credi che vorrà contentarsene? Ma se anche il valoroso Cabrera si adattasse a non esser altro per te, pensi tu che ciò basterebbe?
– E perchè non basterebbe? Non ho più padre, infine.
– Ed abbiti quello, allora; – concluse la regina Isabella. – Credo infatti che tu ne abbia mestieri, bambina. –
Così erano andate le cose, e in breve termine erano state fatte le nozze. Quella unione aveva mandato in visibilio don Giovanni Cabrera; e, fatto strano, era parsa una bella cosa a Beatrice di Bovadilla. Ma queste cose son belle di passata, nelle leggende, nei romanzi, dove il fatto non dura niente più del tempo che ci si mette a leggere una pagina di volume. Non sono più così belle, quando la pagina si ripete monotona per tutto il libro della vita.
Quel matrimonio fra due età così disparate non fu argomento di maraviglia a nessuno. Gli esempi di tali unioni erano frequenti in un tempo che i cavalieri passavano nelle cure e nei travagli della milizia il meglio della loro esistenza, e il fiore della gioventù e della bellezza era veramente il premio dei cuori induriti sotto il giaco di maglia, e delle fronti incanutite sotto l’elmetto d’acciaio. La donna, in quel tempo, era forse più pregiata che non sia di presente; non foss’altro perchè in certe condizioni di grazia e di leggiadria signorile ella era molto più rara. Ma erano anche più rari i potenti; e piacere ad un potente, marchese o duca cristiano, valì, od emiro moresco, era per una donna il colmo della fortuna. Come una bella schiava, piaciuta ad un Abderaman, ad un Alkacem, o ad altro fra i tanti re di Granata, di cui cantavano le romanze popolari, Beatrice di Bovadilla si era facilmente adattata alla sua nuova condizione, senza ardori, come senza ripugnanze. La consuetudine voleva così, ed alla consuetudine si obbedisce tutti egualmente. E poi, quel matrimonio la tratteneva alla Corte; per quel matrimonio ella aveva assicurato, anzi accresciuto di grado, il suo posto accanto alla regina Isabella, alla sua protettrice ed amica. Il grado portava uffizio, e l’uffizio occupazione continua. Agli spiriti molto occupati non è mestieri di passione. Rispetto, tenerezza, sentimenti filiali, avevano fatto di donna Beatrice la più amabile delle spose.
Anche il marchese di Moya intendeva qual fortuna fosse stata la sua, qual tesoro gli avesse largito la sorte; e il vecchio cavaliere non si faceva punto noioso. Qui, poi, a spiegare il fatto, non è neanche mestieri di ricondurci con lo spirito ai tempi. L’uomo maturo e in alto stato ha sempre un gran cortèo di pensieri e di cure, a cui la bellezza è straniera. Non c’è che la gioventù, dicono, per cui tutte le ventiquattro ore del giorno possano e debbano essere occupate dall’amore. Frastornato da tutte le cure dell’uffizio, con l’occhio alle cento minuzie della vita di Corte, con l’animo a tutte le vanità, a tutte le ambizioni, a tutti gli sdegni e magari a tutti i rancori che i casi d’una lunga esistenza riescono ad accumulare nel cuore di un uomo, il marchese di Moya, gentiluomo di camera del re Ferdinando, aveva poco tempo da concedere alle intimità della famiglia; ed era veramente quello che aveva promesso di essere, più padre che marito, per donna Beatrice.
Ma anche vivendo così per la donna che porta il nostro nome, vien sempre il giorno e l’ora in cui si pensa che ella ci appartiene poco, e si teme ch’ella possa non appartenerci affatto. In uno di quei giorni, in una di quelle ore, don Giovanni Cabrera aveva detto malinconicamente a sua moglie:
– Beatrice, io mi sento invecchiato. Guardo voi, penso alla mia canizie, e tremo.
– Di che? – aveva chiesto la marchesa, fissando i suoi occhi limpidi e sicuri negli occhi del marito.
– Di nulla.... e di tutto. –
La marchesa aveva dato in uno scoppio di risa.
– Non tremate, don Juan; – rispose poscia – se ci fosse da tremare.... ve lo direi. Sapete come sono sincera. Non tremate. –
E aveva assunto una tale aria di comica gravità, che il marchese di Moya si era messo a ridere la parte sua.
Frattanto i mesi e gli anni passavano. E qualche volta, a lunghi intervalli, il dubbio ricorreva alla mente del marchese di Moya. Allora egli faceva la sua vecchia domanda, e ne aveva la consueta risposta. Si era ai principii dell’invenzione della stampa; e domanda e risposta si sarebbero potute stampare, per comodità d’ambedue.
– Debbo tremare, donna Beatrice?
Ella, infatti, sentiva di potergli rispondere così, ad onta de’ suoi molti, de’ suoi troppi adoratori. Bella, sposata ad un vecchio cavaliere, Beatrice di Bovadilla era circondata di tentazioni, peggio di un romito della Tebaide. Non dico peggio di Penelope, perchè la bella regina d’Itaca ha scroccata, se mi permettete il termine, la sua riputazione. Che razza di corteggiamento era egli mai quello dei Proci, ospiti senza invito, i quali non facevano che banchettare in casa di Ulisse, lasciando la poco insidiata sposa al suo bravo telaio, senza neanche avvedersi se ella facesse o disfacesse il suo mezzo braccio di tela? Parlatemi invece dei poveri romiti della Tebaide, soli soletti nella troppo calda cella, con tutti i demoni notturni, mattutini, meridiani, e di tutte le ore del giorno, alle costole. Quelle erano tentazioni. Dio santo! Così viveva la povera Bovadilla nella corte di Ferdinando e di Isabella. Ma nella stessa quantità delle tentazioni era anche la sua custodia; davano tutte le medesime occhiate, parlavano tutte lo stesso linguaggio. Quei pazzi cavalieri s’argomentavano di far miracoli; e tutti facendo lo stesso miracolo, non riuscivano che a darle una gran voglia di ridere. Tanto è vero che la monotonia delle sensazioni non eccita sempre lo sbadiglio! Ma dopo aver riso molto, la marchesa di Moya cominciò a seccarsi parecchio; e dopo essersi seccata, andò in collera. Ahimè, brutto segno per tutti i don Juan Cabrera del mondo civile! Perchè una donna vada in collera vedendosi troppo corteggiata, bisogna credere che le dia noia la cosa più graziosa e piacevole, che dev’esser quella di star sull’altare e di ricevere il fumo degli incensi. E quando mai una donna si annoia della sua parte di dea, se non nel punto fatale che ella si sente davvero una povera creatura, soggetta a tutte le miserie della umanità, e sopratutto innamorata a buono?
Come la marchesa di Moya si fosse innamorata, abbiamo veduto a suo luogo. Si era innamorata, lei, perseguitata da tanti adoratori, si era innamorata dell’unico uomo che non le aveva mai detto una dolce parola. Son cose che raramente accadono; ma qualche volta accadono, e proprio alle donne più rare. La regina Isabella non riceveva nessuno in udienza, che ella non avesse al fianco la sua fida Bovadilla. Un uomo troppo diverso da tutti gli altri era stato ricevuto dalla regina; aveva idee nuove, vagheggiava disegni maravigliosi, e ne parlava col candore di una fede sublime. Era bello, di una nobile bellezza; diventava gloriosamente bello, quando ragionava dei suoi alti disegni. Si diceva intorno a lui che le sue idee, quando fossero state accettate, lo avrebbero condotto a finir male. Ebbene, egli non domandava altro che di andare all’ignoto, alla morte. Son cose che di per sè piacciono alle donne, creature sensibili, capaci d’entusiasmo, predisposte ad intendere il sacrificio. E quell’uomo così nobile, così diverso dagli altri uomini, non aveva detto a lei nulla che somigliasse alle parole di tutti i suoi adoratori. E quell’uomo, in una notte memoranda, aveva avuta la sorte di salvarle la vita; più ancora che la vita, le aveva salvato l’onore; e l’onore e la vita con una semplicità singolare, con una modestia maravigliosa. Ogni altro cavaliere, sicuramente, avrebbe fatto altrettanto; ma non a quel modo; e avrebbe pur trovato il momento di far valere i suoi leali servizi. Quell’uomo, invece, non aveva chiesto nulla, aveva perfino sfuggite le occasioni, pur tanto facili, di avvicinarsi a lei. Da quel giorno l’uomo maraviglioso era entrato nella sua vita; tutti i più piccoli atti di quell’uomo erano stati osservati diligentemente da lei; e tanto più volentieri osservati, in quanto che non c’era niente di male; e nessun sospetto poteva entrare nell’animo della bella osservatrice. Quell’uomo, infatti, non si avvedeva di nulla.
Più tardi.... ah, più tardi, era avvenuto quel che sapete. La marchesa di Moya aveva incominciato col pensiero di essere utile a quell’uomo, che tutti a gara osteggiavano. La pietà, si dice, è sorella dell’amore; ma è una nostra illusione il credere che sia la primogenita. È l’amore, il primogenito; l’amore, sentimento spontaneo, inavvertito da prima, e di cui ci avvediamo quando è già cresciuto tanto di forza, da impadronirsi di noi, da soffocarci, come Ercole in culla soffocava con le sue piccole mani i serpenti. Beatrice di Bovadilla non sapeva ancora di amare, quando si ritrovò presa nelle reti della sua generosa pietà, del suo nobile ardore per i maravigliosi disegni del marinaio genovese. Si avvide di amarlo, quando incominciò a sentire i morsi della gelosia, di quest’altra sorella dell’amore. Brutto male, la gelosia! Pure, senza quel male, amor vero non c’è. Dolce gelosia, che fai tanto soffrire la povera carne umana, mordi a tua posta, fa sanguinar bene i nostri cuori. Per te conosciamo di essere, per te sentiamo di vivere.
Bovadilla viveva. Quella bambina ingenua che invocava un padre, quella sposa serena che si era data come una schiava al marito, quella dama superba che rideva così saporitamente di tanti innamorati pazzi, era finalmente gelosa, soffriva, amava, adempieva il suo uffizio di donna nel gran dramma della vita.
E proprio allora veniva don Juan Cabrera a fermarla, per chiederle:
Egli non lo chiedeva come le altre volte, con un po’ di timore, sì, ma ancora con un mezzo sorriso sul labbro. Lo chiedeva a denti stretti, mentre un fosco lume gli splendeva torbidamente dagli occhi.
– Che cosa mi domandate? – mormorò la marchesa, turbata.
– Ah! – gridò egli. – È dunque vero? –
Beatrice di Bovadilla aveva avuto tempo a considerare tutta la gravità del momento in cui era, e del colloquio che ne sarebbe venuto.
– Se voi vi date tanto pensiero di ciò, – riprese ella con calma solenne, – debbo rispondervi sinceramente, sì. –
Il marchese di Moya si lasciò cadere su d’un seggiolone, abbastanza lontano da lei, e vi rimase a lungo, in atto di persona meditabonda. Ma non pensava a nulla; sentiva un gran vuoto nell’anima. Dopo una lunga pausa, come ritornando in sè stesso, così parlò brevemente, con piglio imperioso
– Ditemi tutto!
– Non ho niente da dirvi; – rispose Beatrice.
– Come? che significa ciò?
– Significa quel che vi ho detto: che non ho niente da dirvi, di ciò che pensate. Ah, don Juan! – esclamò Beatrice, con accento disdegnoso. – Per chi mi prendete voi ora? –
Il vecchio cavaliere fu scosso da quell’accento nel profondo dell’anima.
– Infine.... – diss’egli, confuso. – Non mi avete detto voi, poco fa?... non avete confessato che io.... avevo ragione di tremare?... Vediamo di ragionare; – soggiunse, notando l’aria freddamente superba della marchesa. – Vi ho fatto una domanda, alla quale voi usavate risponder sempre ad un modo, e senza pensarci più che tanto.
– E non ho potuto rispondervi a quel modo, perchè vi ho promesso sincerità, perchè voi siete degno di trovarmi sincera.
– Ma allora.... – balbettò don Juan, senza poter compiere la frase.
– Allora, don Juan, non bisognava prendermi quell’aspetto funereo. Sentitemi, io non sono solamente sincera per rispetto a voi; lo sono ancora per rispetto a me stessa. Vi dirò tutto. Ma voi, da cavaliere, ditemi prima un’altra cosa. Chi vi ha avvertito?
– Nessuno.
– Non m’ingannate, don Juan! Coi vostri capelli bianchi, e per la prima volta.... sarebbe troppo brutta cosa, e indegna di voi. Chi vi ha avvertito?
– Non me lo chiedete, ve ne prego.
Il vecchio gentiluomo torse lo sguardo, ma senza rispondere.
– Per un fratello, è crudeltà che s’aggiunge alla vigliaccheria. Egli non ha dunque pensato che voi potevate uccidermi? –
Il vecchio gentiluomo diede un sobbalzo sulla seggiola. protestando istintivamente col gesto contro la orribile supposizione della marchesa di Moya.
– Donna Beatrice, – diss’egli poscia, cercando di dominare la sua commozione, – molte altre cose io potrei fare, non questa. –
Ma ella non era così facile a calmarsi, com’era facile a scuotersi.
– È un vostro modo di sentire, – rispose, – ed egli non doveva farci assegnamento; non doveva neanche immaginarselo. Calunniandomi a voi come ha fatto, se diceva cosa che non sapeva, accusandomi a voi, se credeva di saperla, don Francisco ha mostrato di essere un uomo malvagio. Finirà male, glielo pronostico io, nata pur troppo dal suo medesimo sangue.
– Ma infine, – disse don Juan, che voleva uscire da quel viluppo di parole altisonanti, in cui la marchesa di Moya pareva compiacersi, – voi ammettete....
– Che don Francisco è l’amante di una donna, la quale appartenne a don Cristoval Colon; – interruppe la marchesa. – Eccovi quello che ammetto.
– Che cosa dite voi ora? Non calunniate voi don Francisco?... un cavaliere di Calatrava?
– Ed anche commendatore; e se fosse gran maestro, non muterei nelle mie parole una sillaba. Pure, vedete, di una cosa io non sono certissima. Don Francisco può esser l’amante di quella donna, o non esserlo; ma se ancora non lo è, mira a diventarlo. Quella donna si è voltata contro don Cristoval. Perchè? Sarà questo il suo segreto. Ma è noto che il vostro commendatore di Calatrava soffia ferocemente negli odii di quella donna. È una ambiziosa volgare, quella Beatrice Enriquez. Avrebbe amato don Cristoval felice e potente; non sa adattarsi ad un povero sognatore fallito.
– E qui, come c’entra vostro fratello? – domandò il vecchio gentiluomo.
– C’entra così. Se don Cristoval seguita ad avere la fortuna contraria, come la ebbe al consiglio di Salamanca, nessun timore che quella nobile cenciosa si cangi per lui. E se ella non si cangia, se sta ferma nella sua severità verso l’uomo che l’ha amata.... e che forse l’ama ancora, don Francisco trionfa, don Francisco può sperare di ottener le grazie di quella sciocca bellezza. Ebbene, no! don Francisco non trionferà, ve lo prometto io. Don Cristoval Colon, l’uomo che essi chiamano il sognatore, il pazzo, l’avventuriere, farà, a loro malgrado, la sua strada.
– Voi, donna Beatrice, darete retta a me; voi non andrete più oltre in queste faccende, che non vi risguardano punto.
– Non mi risguardano! Lo dite voi, don Juan. E voi non siete buon giudice. Di andar oltre, di andar fino in fondo, io ho il diritto e l’obbligo. Voi mi ucciderete, se vi piacerà, nè io mi lagnerò. Son Bovadilla, e non ho mai pregato anima nata. Quando sento di aver ragione, poi, non c’è nessuno che possa tenermi dal dirla, come dal farla valere. Sentite, don Juan. Se io fossi morta, quella tal notte, al campo di Malaga, essendo stata presa in iscambio, voi certamente mi avreste pianta un pochino. Non mi rispondete; io non ne dubito nemmeno. Siete un buon cavaliere. E poi, si piange sempre, in simili casi; tutte le nostre consuetudini, turbate da un momento all’altro, domandano pure una lagrima. Quell’uomo era là; quell’uomo mi ha salvata; gli debbo gratitudine. Ditelo voi, cavaliere; in coscienza, credete voi che io non sia debitrice di qualche cosa a quell’uomo?
– Non al punto di perdere il vostro buon nome, per esempio.
– E chi lo offende, il mio buon nome? – gridò la marchesa, sdegnata.
– La gente che vede; la gente che mormora. Se al mio orecchio è giunta....
– Sì, la calunnia di un Bovadilla, di un fratello! Citate altri nomi, se potete. La cosa non dovrebbe esservi difficile, poichè tanti mi hanno veduta insieme con don Cristoval. Ma alla luce del sole, non mai altrimenti, mi capite? E intendo di essergli umana, pietosa, riconoscente, come porta l’obbligo mio.
– Lo proteggete, o lo amate? È bene intenderci anche su questo.
– Ah! – gridò il marchese di Moya, facendosi pavonazzo dalla rabbia. – La vostra audacia passa ogni confine, signora!
– Audacia! che brutta parola! Non mi volevate sincera? non vi avevo io promesso di esserlo? Perchè dovrei mentire? E veniamo una volta al nodo della questione. Vi ho io mai detto che amerei voi come un amante, don Juan? Ero fanciulla; mi dicevate bambina. Mi avete sorpresa con le vostre proteste di servitù. Ma io vi ho detto padre, ve ne ricordate? E voi mi avete risposto di non voler essere altro per me; marito, sì, ma buono, umano, pietoso come un padre. Sono stata lungo tempo felice della vostra bontà. Potete voi dire che in tutto questo tempo io non sia stata una dama severa abbastanza, e degna del nome che mi avete dato, insieme con la vostra mano onorata?
– Non posso lagnarmi del passato; – rispose don Juan. – Ma ora....
– Ma ora non è allora, don Juan. Amo quell’uomo che è grande, e di cui forse io sola intendo la grandezza. Posso ad ogni modo portare alta la fronte. Non temete di quell’uomo. Se nessuna donna è più pazza di me, nessun uomo è più rispettoso e più riguardoso di lui. Dite intanto al vostro commendatore di Calatrava, che egli ha calunniato invano vostra moglie; soggiungetegli ancora che io gli consiglio di non attraversare più oltre i miei onesti disegni, se gli è cara la sua pace e la sua fama.
– V’ingannate, sul conto suo; – disse il marchese di Moya. – Non è egli il solo che mi abbia parlato.
– Ah, qualcun altro? il vescovo d’Avila, non è vero? Io li indovino tutti, li sento nel buio, in cui si raccolgono per operare il male. Ho da dire altri nomi? – proseguì la marchesa. – Ce ne ho una ventina sulle labbra, a dir poco, tutti nomi di spasimanti feroci. Ah, se io fossi di tutti, che bella cosa! e come tutto andrebbe bene! voi sareste l’uomo più sicuro, più tranquillo, più sereno del mondo. Ah, bella cosa davvero! – gridò Beatrice di Bovadilla, infiammandosi di sdegno. – Uomini sciocchi, che vi mettete su a vicenda, con le vostre gelosie, le vostre invidie, le vostre paure! Niente vi dice che siete vittime gli uni degli altri? E accusate, e calunniate, e lasciate calunniare.... Andate, don Juan, andate via! mi fate orrore.
– Vado; – disse il vecchio gentiluomo, stringendo i pugni e levandoli in alto. – Ma qualcuno, per la croce di Dio.... –
La marchesa di Moya balzò dal suo angareb, correndo a sbarrare il passo al marito.
– Vi proibisco di minacciar chicchessia; – gli gridò, col suo accento imperioso. – Don Juan Cabrera, vecchio cavaliere fino ad oggi onorato, non offendete, non minacciate, non giurate vendetta sugli innocenti. Se no, per la croce di Dio che avete invocata, io ve lo giuro, mi butterò da quella finestra, dopo avervi accusato a tutta la Corte, aspettando di accusarvi al tribunale di Dio, come il più sleale dei cavalieri, come il più vile degli uomini. Andate! –
E traendosi da un lato, stese la mano per additargli la porta.
Il vecchio gentiluomo, irritato, ma più ancora confuso da quel furore crescente, avrebbe voluto fermarsi e rispondere.
– Andate, vi dico, andate, – ripetè la marchesa, – o ch’io mi butto fin d’ora. –
E corse furibonda al verone, per aprirne le imposte. Don Giovanni Cabrera, spaventato dall’atto, e intendendo che l’unico modo di farle smettere il pazzo disegno era di andarsene, fuggì a precipizio dalle stanze della marchesa.
Uscito dal corridoio sul loggiato che guardava sul gran cortile dell’antico palazzo moresco, il vecchio gentiluomo si abbattè in due personaggi che passeggiavano, al lume della luna, sotto le arcate. Li riconobbe facilmente, l’uno alla mantellina scura foderata di violetto e alla croce episcopale che gli pendeva sul petto; l’altro al mantello bianco dalla gran croce gigliata, appesa con un nastro rosso alla parte sinistra del petto. Avrebbe voluto cansarli, e andava diritto verso le scale. Ma essi lo riconobbero, e lo fermarono subito.
– Alto là! – gridò il vescovo d’Avila. – Dove correte così in fretta, come se aveste vent’anni, nostro caro ed amato don Juan? –
Aveva voglia di ridere, il Talavera. Ma non ne aveva altrettanta il marchese di Moya.
– Lasciatemi andare; – diss’egli. – Ho bisogno di prender aria, di respirare, di correre. Se non mi sfogo, schiatto, per la croce di Dio!
– Voi bestemmiate, don Juan!
– Sfido io! avrebbero perduta la pazienza anche i santi.
– Che cosa è avvenuto? – chiese l’altro personaggio, che portava il mantello e la croce di Calatrava. – Avete parlato con donna Beatrice?
– Sì, per l’appunto, ho parlato.
– E avrete fatta sentire la vostra autorità maritale, non è vero? – ripigliò il vescovo d’Avila. – Non avremo più il rammarico di vedere l’avventuriere genovese onorato di una protezione così alta, e di cui non è degno!
– Se ne sia indegno, io non so; – rispose il vecchio gentiluomo, sbuffando. – Questo io so, che non son venuto a capo di nulla.
– Ma come? – esclamò don Francisco. – Anche a voi, si ribella? sicuramente è stregata; io lo dicevo, è stregata.
– Stregata o no, – disse don Giovanni Cabrera, – ella non mi ha promesso niente. Ha ragione lei, in tutto e per tutto; a me non rimane che inchinarmi e tacere. Ah sì, alzatemi le spalle, voi! Vostra sorella ce n’ha avuto da dire anche per voi. E ne ha forse le sue buone ragioni, se è vera una certa storiella di Cordova.
– Invenzioni! calunnie! – gridò il Bovadilla.
– Come quelle per cui mi avete fatto fare tanto chiasso, se mai! – replicò don Giovanni. – E poi, sentite, don Francisco; perchè tanto bisogna discorrere, lasciatemi raccontare una storia. Trent’anni fa, mi sono ritrovato in un brutto frangente, il più brutto della mia vita. Eravamo nelle vicinanze di Jaen, dove io comandavo un posto importante. Si era fatta una tregua col nemico, e la guardia era, non lo nego, un po’ più disattenta del bisogno. Abul Hacen, il figliuolo del re di Granata, rompendo i patti, penetrò improvvisamente sul nostro territorio, menando strage dei poveri abitanti indifesi. Bisognava accorrere, volare al soccorso. Io non avevo uomini sotto la mano; dovevo andarli a raccogliere, attraversando una valle, che già era occupata dal nemico. E andai, ma con lo sgomento nell’anima, non tanto per il rischio d’esser preso come il conte di Castaneda, che avevano portato il giorno innanzi prigioniero a Granata, quanto per il timore di non raggiungere i miei cavalieri e di non poterli condurre in salvo, verso il grosso della nostra gente. Immaginate che notte, quando io dovetti attraversare i fuochi del nemico, sempre sul punto di essere scoperto e fatto a pezzi. Orbene, debbo io dirvelo? Vorrei esser là, ancora una volta, col terrore nell’anima, e la vergogna sospesa sul capo, anzi che trovarmi un’altra volta a tu per tu con la marchesa di Moya. –