Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO XV.   Don Cristoval dispera di andare a Cipango e il re Boabdil di rivedere Granata.

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CAPITOLO XV.

 

Don Cristoval dispera di andare a Cipango

e il re Boabdil di rivedere Granata.

 

Abbiamo lasciato don Cristoval Colon profondamente sconfortato per le parole della regina Isabella, che rimandavano le sue speranze a quel famoso termine proverbiale, delle calende greche. Ben peggio doveva accadergli il giorno seguente, quando tornò all’Alcazar per visitare la marchesa di Moya, la sua protettrice, che gli aveva raccomandato di non perdersi d’animo, di non disperare, finchè ella fosse al fianco della regina. A lei voleva confidare i suoi timori, a lei chiedere una buona parola, che gli ravvivasse la fede del cuore. Ma la sua bella protettrice non era più all’Alcazar; non era neanche a Siviglia. Dove era andata? Nei suoi dominii, dicevano, con licenza della regina Isabella, che muoveva quella sera stessa da Siviglia, per seguire il marito alla Vega di Granata.

Tutti in moto, adunque; e il marinaio genovese, non essendo stato congedato dalla Corte, avrebbe dovuto seguire al campo i reali di Castiglia. Ma egli era costernato, annientato; la partenza della marchesa di Moya, una partenza che pareva una fuga, gli diceva chiaramente che le sue speranze nella corona di Castiglia erano dileguate, poichè egli non aveva più santi sante a intercedere per lui.

Alonzo di Quintanilla e Luigi Santangel non erano meno addolorati di don Cristoval. per , prima di mettersi in viaggio, fu tenuto un po’ di consiglio tra amici. E non furono dimenticati i due più potenti: il Medina Celi e il Medina Sidonia.

Costoro erano annoverati tra i più ricchi signori del reame; non erano tenuti per sudditi, alla pari con gli altri, ma per due piccoli sovrani; possedendo vastissimi dominii, come due principi, e mettendo in campo gran numero di soldati, che conducevano essi in persona, o facevano condurre da capitani, che essi liberamente sceglievano. Uno di essi, il Medina Sidonia, all’assedio di Malaga, oltre all’aver fornito un buon nerbo di cavalieri, aveva mandato ai sovrani un presente di ventimila dobloni d’oro, ragguagliati nella moneta d’oggidì a forse mezzo milione di lire. Inoltre, aveva armato cento navi, essendo anche signore di porti e di spiagge marine.

A lui primamente fu chiesto di sovvenire in quelle distrette il marinaio , che egli vedeva tanto volentieri, onorandolo della sua protezione. Ma il Sidonia non volle mettersi ad una impresa che i sovrani rimandavano ad altro tempo, forse col segreto proposito di non favorirla mai più. Meglio disposto sarebbe stato il Medina Celi; ma ci pensò due volte, poi disse: – È impresa di re, non di vassalli. – Ed egli pure ricusò le tre caravelle che a don Cristoval sarebbero bastate per il suo viaggio di scoperta.

– Non ci pensiamo neanche; – diss’egli, concludendo; – e non isperiamo che altri si lasci persuadere. Si può credere che mala gente consigli male i nostri sovrani; ma si deve aspettare che migliori consigli trionfino. Volete che parli io alle Loro Altezze? Lo farò di gran cuore, da quell’amico che sono; altro non domandate all’amico. –

Come avrebbe potuto il duca di Medina Celi ottenere dalla Corte ciò che tanti intercessori nobilmente cospiranti ad un fine non avevano ottenuto in due anni di assiduo lavoro? Accettare i buoni uffizi del duca presso la Corte, non sarebbe poi stato un dimostrare alla marchesa di Moya che egli, il protetto, cercava altri patrocinatori, e in essi fidava, per vincere una battaglia che da lei.... dalla sua protettrice costante, era stata perduta? La stessa sparizione di donna Beatrice non significava che la gran dama aveva cessato di sperare? E non era scortesia verso di lei mettere in altri la propria speranza, mentre ella portava così nobilmente la pena della sua grande bontà? Che non fosse andata nelle sue terre, egli aveva a tutta prima sospettato. Dove fosse andata, gli disse quel giorno stesso una vecchia ancella, venuta a bella posta in traccia di lui.

Don Cristoval, – gli diceva la donna, – pregate per la mia buona signora. Essa è molto infelice, e non può nulla per voi. Sospettata, offesa, disperata di esservi utile, ha lasciato il suo servizio alla Corte, per ritirarsi tra le monache Cisterciensi di Siviglia. Ella non ne uscirà più che per comando dei sovrani; ma nessuno le darà quel comando, possiamo prevederlo, poichè ella ha dichiarato di non voler più servire in una Corte, dove la sua voce non è ascoltata, com’ella aveva ragione di credere. –

Don Cristoval rimase stordito, all’annunzio di quella risoluzione.

– E don Giovanni Cabrera? – diss’egli.

– Il signor marchese ha chinato la testa ai voleri di sua moglie. In confidenza, don Cristoval, qualche cosa di grave dev’essere accaduto tra lui e la marchesa.

– Per me, non è vero? per me? – disse don Cristoval.

La vecchia ancella chinò il capo, senza rispondere.

– Voi vedrete la mia buona protettrice; – riprese egli allora. – Ditele che mi avete veduto triste, assai triste, e più per quanto le accade, che non per la rovina di tutti i miei sogni. Ditele ancora che io parto; ma non per seguire la Corte. Ne ho abbastanza ancor io, di menzogne e di tradimenti. Un giorno ci vedremo, o su questa terra, o in un luogo migliore; e quel giorno io le significherò tutta la mia gratitudine.

Dove andate voi, don Cristoval?

– Ad un monastero, al pari di lei. L’idea mi viene in questo punto, Mercedes. Andrò al convento della Rabida, per prendere il mio Diego.

– E poi?

– E poi a Cordova, per prendere il piccolo Fernando. Da Cordova passerò in Aragona, valicherò i Pirenei, e mi ridurrò alla Corte di Francia. Accoglierà le mie proposte, quel re? Una sua lettera me ne dava speranza. Fallirà anche questa? Passerò in Inghilterra, dove ha trovato oneste accoglienze mio fratello Baldomero. Sapete tutto, Mercedes; potete riferirlo alla vostra signora.

– Che il cielo vi assista, don Cristoval; – disse la vecchia Mercedes. – Ah, veramente, la mia signora non saprà darsi pace di questa risoluzione. –

Don Cristoval fece come aveva detto alla buona Mercedes. Non seguì la Corte a Granata; andò difilato a Palos, dove era giunto lacero e scalzo parecchi anni addietro, e donde era partito per Cordova con tante speranze, ahimè miseramente svanite. E ci ritornava ancora, non lacero, scalzo, ma con la morte nell’anima.

Lasciamolo andare, immaginando le affettuose accoglienze e i rammarichi del buon Giovanni Perez di Marcena, priore di Santa Maria della Rabida. E corriamo invece alla Vega di Granata, dove, con quarantamila fanti e diecimila cavalli, i reali di Castiglia erano andati a campo, due leghe presso le mura di Granata, nel luogo detto las fuentes de Guetar. Era un bel modo di presentarsi al re Boabdil, per chiedergli di eseguire i patti sottoscritti e giurati. Alla vista del poderoso esercito castigliano fu grande lo sgomento dei cittadini di Granata, e nel popolo si andava dicendo: – ecco, sono per avverarsi le profezie di Mocer, il sant’uomo che ha annunziata imminente, per le discordie dei principi, la rovina dell’Islam sulla terra di Spagna. –

Intanto il re Boabdil chiamava i suoi ministri a consiglio. L’agib, o primo ministro, che era il vecchio Abul Casen Abdelmelic, rappresentato al vero lo stato della città, così malinconicamente conchiuse:

– Molta gente abbiamo! ma che sperare da questa indocile folla? In pace gridano tutti, e minacciano. Viene il pericolo? si nascondono tutti. –

Non era così sfiduciato il comandante dei cavalieri, Muza Ben Abil Gazan.

Perchè avvilire i nostri guerrieri? – gridò. – Fanti e guerrieri sono agguerriti e indurati alla fatica. E della folla che tu dici, o Abul Casem, ventimila sono i giovani capaci di prender le armi, ardenti di combattere per la gloria di Allah. –

Le parole di Muza Ben Abil Gazan, rinfrancarono lo spirito del re Boabdil, quanto le parole dell’agib Abul Casem lo avevano abbattuto.

– Voi soli, diss’egli, – siete il sostegno dello Stato; voi soli, se Allah vi guardi, potete lavare nel sangue nemico le ingiurie comuni, restituire all’Islam il suo antico splendore. Fate ciò che meglio stimerete per l’onore e la salvezza del regno. –

Tosto si spartirono gli uffizi e le fatiche, volendo ognuno la sua parte di pericolo. Muza avrebbe guidate le sortite, e sotto lui, come luogotenenti, due valorosi cavalieri, Nahim Reduan e Muhamad Ben Zaid. La difesa delle mura fu commessa al vecchio Abdel Kerim Zegrì; ogni cadì doveva vegliare alla difesa di un forte, di una torre, d’un quartiere della città. Le provvigioni non erano abbondanti; ma per qualche settimana potevano bastare. Intanto, ogni giorno, sotto gli ordini di Muhamad Ben Zaid, tremila cavalieri sarebbero usciti a foraggiare; ogni sera sarebbero tornati, scortando le salmerie discese dai monti; e cinquecento cavalieri scelti, custodendone la marcia, avrebbero avvertito di ogni pericolo.

Per un pezzo le savie precauzioni si adempirono strettamente. I foraggi entrarono in città, mentre Muza con vigorose sortite sviava l’attenzione e le forze dell’esercito Castigliano. Tanto i cittadini fidavano nel valore e nella fortuna di Muza, che nei primi mesi dell’assedio le porte di Granata rimasero sempre spalancate. Il re Ferdinando mise un termine a quelle smargiassate, vietando ai suoi soldati di cedere alle provocazioni del nemico, e circondando il suo campo di fosso e di muro, alla guisa degli antichi Romani. Vennero i Granatini all’assalto del vallo; furono respinti con gravissime perdite, che tolsero animo e forze a ritentare la prova. Da quel giorno, non più sortite; e le porte di Granata si cominciarono a chiudere.

Ciò non bastava ancora al re Ferdinando. Bisognava recidere ogni comunicazione della città con la montagna, donde le scendevano di continuo le provvigioni. Un nerbo di soldatesche andò negli Alpuxarres, devastando per molte leghe all’intorno, ardendo villaggi, menando prigionieri gli abitanti. Il re stesso, a capo di molta gente, rovinò un’altra contrada, favorevole ai Granatini: poi fece custodire gelosamente tutti i passi che riuscivano alla città assediata. I miseri abitanti compresero allora di non poter più sperare soccorsi di fuori; non andò guari che la carestia si fece sentire in città, e con essa le mormorazioni del popolo.

Nel campo Castigliano accadeva un’altra novità, che doveva tornar ostica agli assediati. Una dama della regina Isabella aveva incautamente appiccato il fuoco alla tenda; le fiamme, dilatandosi, ne avevano arse parecchie all’intorno. Il giorno seguente la regina ordinava che il padiglione reale fosse costruito di fabbrica. L’esempio fu presto imitato. L’assedio doveva esser lungo; c’era dunque tempo a edificare una piccola città, la quale avrebbe significato ai Mori che i Cristiani non si sarebbero più rimossi di .

Così nasceva Santa , essendo questo il nome che al campo Castigliano, diventato città, impose la regina Isabella. Volevano chiamarla dal suo nome, i soldati; ma la regina non lo aveva consentito.

– Sia Santa il nome di questa città militare; – diss’ella a Consalvo di Cordova, quegli che pochi anni dopo doveva meritare l’appellativo di Gran Capitano; – e persuada il re di Granata che oramai la fede di Cristo dovrà regnar sola in Ispagna, come regna già davanti all’ultimo baluardo che inalberi il vessillo di un falso Profeta. –

In mezzo a quei lavori alacremente condotti, giungeva al campo un nuovo messaggero, chiedendo di essere ammesso al cospetto della regina. Era venuto solo, sopra una modesta cavalcatura; vestiva di pannolano ruvido, alla guisa dei marinai; marinaio lo diceva la sua faccia abbronzata dal sole e indurita dai colpi dell’acqua salata; marinaio lo dicevano le mani incallite, che portavano nelle giunture squamose i segni nerastri della “tenace pece”. In verità, l’aspetto del personaggio non giustificava punto l’audacia della domanda. Ma egli voleva parlare alla regina di Castiglia; non ad altri poteva dire la sua ambasciata, non ad altri consegnare una lettera, che portava con . Il suo nome era Sebastiano Rodriguez; era nato a Lepi, veniva da Palos, era pilota sopra una nave di Martino Alonzo Pinzon; altro non aveva da dire ai curiosi.

Avvertita della presenza dell’umile messaggero, la regina Isabella comandò che fosse introdotto nel padiglione. Il pilota s’inchinò, e senza far vane parole, consegnò la lettera di cui era portatore.

Scriveva don Juan Perez di Marcena, il buon padre guardiano del convento di Santa Maria della Rabida. Rappresentava egli alla regina Isabella come Cristoforo Colombo, caduto oramai d’ogni speranza, fosse corso per pochi giorni a rifugio presso di lui, e come avesse fatto il proposito di abbandonare la Spagna. Udito il racconto di tutti i vani tentativi del marinaio genovese, egli, il Marcena, non aveva trovato parole che potessero trattenerlo; ma si era invece affrettato a chiamare parecchi amici a consiglio; tra questi il fisico Garcia Fernandez, buon intendente di cosmografia, e Martino Alonzo Pinzon, capitano di navi, marinaio di grande autorità, non solamente nel porto di Palos, ma lungo tutta la costa di Spagna. Questi uomini, dotti di geografia, rotti alla vita del mare, sperimentati nelle lunghe navigazioni, osservatori diligenti della terra e del cielo, maravigliavano del severo giudizio che avevano dato delle proposte di Cristoforo Colombo i dottori di Salamanca; si dolevano meno che in materia di cose nautiche non fosse stato chiesto il parere di chi sul mare aveva tante volte messa a cimento la vita. Per essi l’impresa proposta dal Genovese era possibile, e di certissimo effetto; in questa sentenza conducendoli le loro cognizioni astronomiche e cosmografiche, gli indizi irrecusabili raccolti da quell’uomo ragguardevole, e finalmente la cognizione che essi avevano dei venti e delle correnti, nella parte corsa e ricorsa dell’Oceano, dallo stretto di Gibilterra alle Azorre. Riferiti i giudizi, Juan Perez soggiungeva di suo: “Pensi l’Altezza Vostra come sarebbe grave danno per la corona di Castiglia, se ad altre genti Cristoforo Colombo dovesse portare i benefizi di una intrapresa, per cui basterebbero tre navigli, montati da cento uomini animosi, che il porto di Palos non dubiterebbe di fornire. Infine, ai Mori di Granata si è opposta una città, col nome glorioso di Santa Fede; ma il servizio della Santa Fede domanda che per vostro patrocinio nuovi popoli, i quali la ignorano ancora, siano chiamati come fratelli, sotto il glorioso vessillo di Cristo.”

La lettera del padre Juan di Marcena, del suo antico confessore, commosse profondamente la regina Isabella.

Aspettatemi al campo; – diss’ella al pilota. – Ritornate domani; vi darò la mia risposta, che porterete al sant’uomo. –

E tenne parola. Il giorno seguente, Sebastiano Rodriguez riceveva la lettera dalle mani della regina, che v’aggiunse particolari saluti a voce, e raccomandazioni al Marcena, perchè volesse trattenere don Cristoval nel suo convento, ed egli usar diligenza nel condursi a Santa . Ella infatti aveva scritto al suo vecchio confessore: “Desidero vivamente di vedervi, di ragionare con voi delle cose che mi avete scritte intorno ai disegni di don Cristoval Colon, nostro buon amico e leal servitore. Venite dunque, senza frapporre indugio, e vedremo, con l’aiuto di Dio, di far qualche cosa per la grande impresa da voi raccomandata.”

La lettera giunse a Santa Maria della Rabida in sul cadere d’una bella giornata d’autunno. La speranza rinacque nei cuori, e fu gran festa in quel convento di poveri Francescani, festa a cui parteciparono, subitamente chiamati, il fisico Garcia Fernandez e Martino Alonzo Pinzon. Non bisognava perder tempo; lo dicevano tutti; il padre Marcena decise di partir subito, appena avesse trovata una mula, per mettersi in viaggio.

La modesta ma soda cavalcatura fu prontamente cercata. La ritrovò lo stesso don Cristoval, andato a scovarla in un vicino casale, da certo Juan Rodriguez Cabezudo, che fu lieto di offrirla al buon padre guardiano. Quella notte, con un bel lume di luna, commettendosi alla custodia di Dio, il padre Marcena partì dalla Rabida, distribuendo benedizioni ai suoi frati e agli amici che gli auguravano il buon viaggio. E s’avviava tutto solo, il buon vecchio frate; tutto solo e confidente, come avrebbe fatto il poverello d’Assisi, glorioso fondatore del suo ordine; tutto solo, per un paese riconquistato di fresco sui Mori, pieno ancora di pericoli e di agguati. Ma egli andavapor la , a Santa ”; niente pauroso adunque, e col cuore sicuro come la sua cavalcatura, che aveva preso il portante. Fermandosi poco per istrada, appena quel tanto che gli bastasse per prendere un po’ di cibo e qualche ora di riposo, il guardiano della Rabida giunse in capo a tre giorni nella Vega di Granata.

Accolto a gran festa dalla regina Isabella, il vecchio frate ripetè più lungamente a voce quanto aveva brevemente accennato nella sua lettera. Isabella, nel fondo dell’anima, era sempre stata persuasa; ma i giudizi contrarii dei dotti, la freddezza del marito per un disegno di esito incerto, mentre tante altre cure più vicine ed urgenti stringevano i consigli della Corona, l’avevano condotta insensibilmente ad operare, se non a pensare, come il suo nuovo confessore, il vescovo d’Avila, fiero nemico di don Cristoval e costante avversatore dei suoi, arditi disegni.

Per quella volta, la difesa di don Cristoval fu udita anche dal re Ferdinando. L’avvocato era rispettoso nella forma dell’orazione, ma calmo. L’uomo che crede nella bontà delle sue ragioni, e per non ha nulla a sperare, come nulla a temere, parla libero e forte. Ma non era quello il linguaggio che il re Ferdinando era avvezzo a sentire. Nondimeno, o fosse appunto per ciò, stette a udire con attenzione curiosa; poi, via via, si sentì scosso nel profondo da quella sincerità di discorso; e come il vecchio Francescano ebbe finito, così gli disse, congratulandosi con lui:

– Voi avete la fede, padre mio; e don Cristoval Colon non isperi mai di esser meglio difeso da chi si sia; nemmeno se fosse qui la marchesa di Moya.

– Non la vedo, infatti, e mi duole; – rispose il Marcena; – perchè quella è una fedel serva delle Vostre Altezze, e niente che risguardi l’onore e la gloria della vostra corona le può essere straniero.

– Ben, dite, don Juan di Marcena; – riprese la regina, sospirando. – Ma intanto Bovadilla ha avuto cuore di abbandonarci. Ha fatto male, assai male. Si può essere fermi, nelle opinioni e nelle amicizie, ma non ostinati, com’ella si è mostrata con noi, che tanto l’amavamo. –

Don Juan de Marcena non reputò conveniente di ribattere. Si può parlare ai re con onesta franchezza, ma non bisogna fidarsi poi troppo a questa pericolosa libertà, che è sempre di concessione, e non mai di diritto. La confidenza che dànno qualche volta i monarchi, ce la possiamo godere; ma non dobbiamo abusarne, e piuttosto dobbiamo restare di qua, che correre il rischio di andare di ; se no, poveri a noi, anche quella poca ci levano.

Del resto, Ferdinando d’Aragona sentiva per la prima volta sostenere le proposte di Cristoforo Colombo con uno zelo, con una eloquenza, e con ragioni che non si poteva desiderare di più. Tra le ragioni appariva fortissima quella che per trattare di cose nautiche si sarebbe dovuto interrogare qualche uomo di mare, e che i marinai di Palos, nella persona del più ardito e più autorevole capitano di navi, credevano possibile e di esito certo l’impresa. Ma che proprio avessero ragione a Palos, e torto a Salamanca? e che in materia di navigazione dovessero saperne più i piloti che i baccellieri? Qualche volta si presentano di questi dubbi alla mente dei governi; e non è affar da poco il risolverli.

Isabella di Castiglia, non andando mai molto addentro nella questione, aveva pur sempre vagheggiata l’idea di favorire il marinaio genovese. Perciò, vedendo scosso dalle argomentazioni del monaco il suo regale consorte, si fece più ardita a con chiudere:

Padre, vogliate scrivere a don Cristoval, che ritorni subito a noi. Immagino che non sarà provveduto abbastanza per fare il viaggio e presentarsi in arnese onorevole al campo. Eccovi a quest’uopo un ordine per il nostro tesoriere di Castiglia. –

E afferrata una penna, scrisse di suo pugno un biglietto a don Alonzo di Quintanilla, perchè avesse a sborsare immediatamente la somma di ventimila maravedis. Un altro ordine al gran maestro della casa reale ingiungeva che si mandasse alla Rabida un valletto, con un cavallo da sella per don Cristoval, ridiventato, come prima, “nostro buon amico e leal servitore.”

Juan Perez di Marcena non istette più a lungo in udienza. Corse col biglietto della regina dal tesoriere di Castiglia, che fu molto lieto di snocciolare la somma. I ventimila maravedis furono spediti quel giorno medesimo al fisico Garcia Fernandez, che doveva consegnarli a don Cristoval, soggiungendogli la raccomandazione di mettersi tosto in cammino.

E giunse don Cristoval, degnamente in arnese, ma più assai riconfortato nell’animo, per trattare finalmente del sospirato viaggio. Per quanto fu lunga la strada, il marinaio genovese non vide che Antilla e Cipango. Sognava ad occhi aperti; e quando si parò nuovamente davanti ai suoi occhi la Vega di Granata, credette per un istante di vedere in lontananza la capitale del Cataio, dove un bisnepote di Kublai Kan fosse preparato a fargli maravigliosa accoglienza.

Bel sogno, che doveva anche una volta svanire! La Corte, non già del Cataio, ma di Castiglia, proprio in quei giorni aveva ben altro da fare che avvedersi dell’arrivo di don Cristoval. Messaggeri a cavallo andavano e venivano continuamente, dal campo Castigliano alle porte di Granata, e dalle porte al campo. Che cos’era avvenuto?

Sappiamo già che il guasto dato dai Castigliani a tutti i dintorni della Vega, specie ai villaggi della montagna donde calavano provviste agli assediati, aveva cagionato gran penuria di viveri nella città di Granata. Le mormorazioni del popolo, che incominciava a sentire gli stimoli della fame, costrinsero il re Boabdil a radunare i savi a consiglio. Fu sentenza comune che le cose fossero oramai disperate; necessario venire a patti, cercando di ottenere onorevoli condizioni per la resa della città. Solo il prode Muza Ben Abil Gazan stava contro il partito, non parendogli esauriti ancora tutti i mezzi di resistenza; finiti i quali, del resto, rimanevano ancora le armi della disperazione. Ma prevalsero i più; e il vecchio Abul Casem fu inviato al campo di Castiglia. Condotto alla presenza del re Ferdinando, domandò a quali condizioni si potesse trattare di por fine alla guerra.

– Si arrenda Granata, – rispose il re Ferdinando, – si arrenda Granata di buon animo, e vedrò di risparmiarle la distruzione e il saccheggio. Con la mia benevolenza dimostrerò agli abitanti di quest’ultimo baluardo dell’Islam quanto io ne stimi il coraggio. Del resto, eccovi il mio ministro, don Ferdinando di Zafra, ed uno dei miei primi luogotenenti, don Consalvo di Cordova; v’intenderete per ogni cosa con essi. –

Era il 25 novembre 1491. La giornata fu spesa tutta in quei negoziati. Ed ecco i patti che il vincitore imponeva: Granata fosse consegnata nel termine di due mesi ai Castigliani, se in quell’intervallo non fosse soccorsa: il re di Granata, i suoi ufficiali e gli sceicchi del paese giurerebbero obbedienza e fedeltà ai reali di Castiglia, e tutti gli abitanti riconoscerebbero questi per sovrani legittimi. Al re di Granata un largo dominio, che egli stesso sceglierebbe negli Alpuxarres, come vassallo della corona di Castiglia: a tutti i Musulmani libertà, intiero godimento di beni, armi e cavalli: libero esercizio della lor religione, e dei riti loro nelle moschee: conservassero pure usi, lingua e fogge di loro nazione: avessero cadì che li reggessero con le leggi musulmane, sedendo anche al fianco dei governatori cristiani, e assistendoli nei giudizi che risguardassero i loro correligionarii: altre imposizioni pagassero oltre quelle che già pagavano al re loro: anzi, per tre anni alla fila, fossero esenti d’ogni tributo. Tanto concedeva il re di Castiglia, in omaggio al valore della difesa. Ma (c’era un ma, come sempre), per guarentigia del trattato, gli assediati fornirebbero entro dodici giorni cinquecento ostaggi, scelti fra i giovani dei migliori casati di Granata.

Abul Casem ritornò con questi patti in città. Nel consiglio di Boabdil s’aspettava forse di meglio? E con qual fondamento? Il fatto sta che parvero inaccettabili; e molti degli astanti piansero lagrime di amarezza e di sdegno.

– Che piangere! – gridò il prode Muza. – Sangue vuol essere, non pianto. Moriamo tutti, difendendo la patria. La morte è il minore dei mali che ci aspettano. Credete voi che il nemico manterrebbe i suoi patti? Le umiliazioni e gli oltraggi, il saccheggio delle case vostre, l’onta alle mogli, alle figliuole, la profanazione dei templi, l’ingiustizia, l’intolleranza, i roghi della loro Inquisizione; questo vi serbano i Castigliani. E questo voi vedrete, paurosi, non io, che non sopravviverò a tanta vergogna. Aspetterete due mesi... a piangere ancora, ad invocare un soccorso che non verrà!... E avete il soccorso nelle vostre braccia, non ancora svigorite del tutto! Animo, via, per Allà! difendiamo le nostre case, il nostro onore, la nostra fede, uscendo tutti a battaglia. La terra, madre comune, ci accoglierà, se cadremo; il cielo è buon padiglione a cui manchi una tomba. –

Queste ed altre cose disse il prode uomo, sperando di toccare il cuore dei suoi ascoltatori. Ma tacquero tutti, immersi in un cupo abbattimento. Allora il fiero Muza Ben Abil Gazan diede una torva occhiata di sprezzo all’ingiro, uscì dal Consiglio, corse alla sua casa, prese armi e cavallo, e si partì di Granata; più si seppe di lui.

Nel consiglio reale, frattanto, si seguitava a piangere. Boabdil cercava di consolare stesso e i suoi consiglieri delle rampogne di Muza, gridando che non il coraggio ai difensori, ma i mezzi di difesa mancavano. altro vedeva egli che si potesse tentare utilmente, essendo così chiari i destini.

Il re Boabdil perdeva più di tutti, nel giuoco. Si rassegnava egli; perchè non si sarebbero rassegnati i suoi sudditi?

E fuori dell’Alhambra la voce della rassegnazione di Boabdil si era sparsa tra il popolo. Si gridava al tradimento; non si voleva saperne di resa. E resistere non si sapeva; molto meno uscire a battaglia.

Dopo un mese di quel vano fermento, gli ufficiali di Boabdil consigliarono al loro signore il coraggio della sua viltà. Scrivesse egli a Ferdinando, che senza più venisse a prender Granata innanzi il termine prefisso; unico modo di evitare una sommossa di popolo.

E re Ferdinando non si fece pregare. Al messaggiero che gli recava l’invito diede sue lettere per Boabdil, nelle quali assicurava l’ultimo re moro di Granata della sua amicizia, assegnandogli vasti dominii come vassallo, nella terra su cui aveva regnato come sovrano. Ed anche al messaggero fu assegnata la sua parte di dominio. Granata valeva bene un ducato, con una contea per il buon peso.

Il colpo stabilito tra il vincitore e il vinto, fu eseguito alla svelta. Nella notte sopra il quarto giorno del primo rebiè dell’anno 898 dell’Egira (corrispondente al 4 gennaio 1492) l’esercito Castigliano si avanzò in silenzio sotto le mura di Granata. In quella stessa ora, da una porta occidentale, il re Boabdil metteva segretamente in salvo la sua famiglia, mandandola verso gli Alpuxarres, con tutti i tesori che poterono essere caricati. E subito dopo, sul romper dell’alba, un improvviso suono di tamburi e di trombe destò in soprassalto i cittadini di Granata. Dalle porte spalancate entrava l’esercito Castigliano in città.

Boabdil, lasciando in Granata il fedele Jusef Ben Tomixa per consegnare le fortezze al vincitore, andò incontro al re di Castiglia, accompagnato dai suoi visiri e da una scorta di cinquanta cavalieri. Incontrato il vincitore, volle smontare da cavallo, come gli altri del suo seguito; ma Ferdinando non lo permise.

– Sei re ancora, – gli disse, – rimani in arcione, da re. –

Allora Boabdil accostò il cavallo alla destra di Ferdinando, e come gli fu a paro gli prese il braccio che divotamente baciò, alla maniera degli Arabi, dicendogli con voce compunta:

Glorioso e potente monarca, noi siamo i tuoi servi; ti consegniamo questa città e il nostro regno. Così è piaciuto ad Allah; speriamo che userai generosamente della vittoria. –

Ciò detto, si ritrasse umilmente. Si avanzò allora il vecchio agib Abul Casem e presentò al re Ferdinando le chiavi della città, che il Castigliano prese consegnò a Consalvo di Cordova. Poscia, mentre le soldatesche seguitavano la via verso l’ingresso della città, acclamando il re a mano a mano che gli sfilavano davanti, Ferdinando volle ancora al suo fianco lo sciagurato Boabdil; e lo abbracciò, rivolgendogli parole d’amicizia e di conforto. Ma egli non poteva rimanere più oltre; doveva entrare in città, dietro il grosso de’ suoi. Invitò Boabdil a seguirlo; ma questi si scusò, com’era naturale che facesse, e prese commiato dal vincitore. Pochi istanti dopo, messo il cavallo a galoppo, si volse agli Alpuxarres, per raggiungere la sua gente.

Frattanto le soldatesche di Castiglia, accompagnate dai visiri moreschi, prendevano possesso dell’Alhambra, dell’Alcazaba, dell’Albaycin. Lo stendardo di Castiglia sventolò subito al sommo di tutte le torri e di tutti i bastioni. Molti abitanti, delle principali famiglie, si presentavano al conte di Tendilla, nominato da Ferdinando governatore di Granata, pregandolo di riceverli sotto la sua protezione, come sudditi fedeli che volevano essere. Tre giorni dopo, Ferdinando ed Isabella facevano la loro entrata trionfale, scortati da tutti gli uffiziali dell’esercito e dai signori della corte. In quel medesimo giorno il Cid Yahie era dato come governatore alla popolazione moresca della città; al figliuol suo Almayr il comando della costa marittima. Dalla parte dei Cristiani non poteva essere dimenticato don Ferdinando di Talavera, che diamine! Il dottissimo vescovo d’Avila era nominato arcivescovo di Granata.

Fu quella per il Talavera una bella Epifania. Entrato nella vinta città a capo dell’esercito, come per rappresentare la vittoria della Fede, era subito corso nell’Alhambra, magnifica dimora dei re di Granata, per piantarvi la vittoriosa insegna di Cristo.

Il marinaio genovese vedeva e pensava. Anch’egli si era allegrato di una vittoria così piena, per cui finalmente cessava il dominio degli infedeli sulla terra di Spagna; ma egli meditava ancora sulla strana fortuna del Talavera, che cresceva di grado ad ogni vittoria, come se fosse uno di quei gloriosi soldati che in ogni incontro avevano messa a repentaglio la vita. Oramai, non c’era più che da farlo cardinale. Ma, per fortuna della Chiesa Apostolica, non c’erano più Granate da prendere; e l’unica che il Talavera meritasse, debitamente fatta di scope, era ancora di da venire. Sì, pur troppo; e don Cristoval malinconicamente pensava che il suo nemico era diventato più potente che mai. Poteva egli sperare che quel nemico si mutasse una volta per lui? Ci sarebbe voluto un miracolo, per toccargli il cuore; ma i miracoli, non si azzeccano mica per via, come i vescovati: e il marinaio genovese, quantunque religiosissimo uomo, non ne aspettava da quella parte .

Bene incontrò il nuovo arcivescovo, nel gran cortile dell’Alhambra, ch’egli era andato ad ammirare, come tutti facevano. E anch’egli s’era inchinato sul passaggio del Talavera, che andava distribuendo i crocioni più larghi del solito.

– Eccovi, figliuol mio, le vittorie di Cristo; – aveva detto l’arcivescovo, trattenendo il passo, per farsi contemplare nella sua nuova dignità. – Non vi pare, don Cristoval, che Castiglia faccia il debito suo di buona cattolica?

– La cosa è manifesta; – rispose don Cristoval; – io potevo dubitarne. Ma pensi Vostra Eccellenza che c’è ancora da liberare il santo sepolcro di Cristo.

– Ah, bene! – esclamò l’arcivescovo. – Avete fretta, voi! –

Don Cristoval si strinse le spalle, come se volesse rispondergli: – Non mi pare che possiate accusarmi di fretta. Sono sette anni, a buon conto, che aspetto il comodo vostro. –

In cuor suo pensava frattanto che avrebbe potuto aspettare dell’altro. Lo avevano richiamato, per non dargli nemmeno cinque minuti d’udienza. L’Antilla e Cipango sfumavano davanti agli occhi della sua mente, come l’isola di San Brandano agli occhi degli abitanti delle Canarie, nelle luminose giornale d’autunno. Avevano altro da fare, i reali di Castiglia, che pensare al suo viaggio di scoperta! La presa di Granata era un gran fatto; ma appunto per ciò crescevano le cure dei sovrani. La conquista portava altri obblighi, e tutti urgentissimi, essendo necessario di dar sesto a quella nuova provincia, e di studiare il modo più acconcio a farci vivere tre popoli in buona armonia, Mori, Cristiani ed Ebrei.

Un altro pensatore malinconico era in quei giorni il re Boabdil. Lo abbiamo lasciato mentre correva a galoppo verso gli Alpuxarres, per raggiungere le sue donne e i suoi tesori sulla via dell’esilio. Giunto sulla collina di Padul, donde ancora si vedevano biancheggiare all’orizzonte le case e scintillare i minareti di Granata, Boabdil gettò un ultimo sguardo alla sua capitale.

Allah hu Akbar! Dio è grande! – esclamò egli, dando in uno scoppio di pianto.

La sultana Zoraya, madre dell’imbelle monarca, si accostò severa al figliuolo e gli disse:

– Sì, piangi, o Boabdil; piangi come una vil femminetta il tuo regno perduto, poichè come uomo non hai saputo difenderlo. –

L’ammonizione era acerba, ma giusta. Boabdil divorò le sue lagrime, e riprese taciturno il cammino verso la montagna. Jusef Ben Tomixa, che era venuto a raggiungerlo, e cavalcava poco lungi da lui, vedendolo tanto infelice, gli si avvicinò per consolarlo.

Pensa, – gli disse, – che le grandi sventure, se sono sopportate con forte animo, dànno fama quanto le più grandi prosperità.

Ohimè! – rispose Boabdil, con voce soffocata dai singhiozzi. – Quali sventure possono paragonarsi alla mia? –

altro più disse, fino alla meta del suo viaggio, che era di dai monti. E il colle donde egli aveva sparse quelle lagrime, mandati quei profondi sospiri alla vista di Granata, ebbe da quel giorno un nome fra i Musulmani: Feg Allah, hu Akbar, e un altro fra i Cristiani che doveva durare più a lungo: Il sospiro del Moro.

Boabdil non doveva più rivedere Granata. Il soggiorno degli Alpuxarres gli era increscioso; vendette al re Ferdinando gli ottenuti dominii, e passò in Africa, per andare a morire, in guerra oscura, sotto le mura di Fez.

Quanto meglio sarebbe stato per la sua fama il morir prima, difendendo Granata! Ma quello era stato per lui un giorno di viltà. E con lui doveva finire, dopo sette secoli di vita, il dominio moresco in Ispagna. Quattrocentanni di discordie, di rivalità e di guerre civili; lo avevano assottigliato, per altro, e ridotto a mal partito, prima che la unione dei due regni cristiani di Castiglia e d’Aragona gli dèsse l’ultimo crollo.

Ma la prepotenza del fato non è buona scusa alla viltà del guerriero.



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