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LE DUE BEATRICI CAPITOLO XVI. In cui l’Arcivescovo di Granata piglia risolutamente il suo posto tra i profeti. |
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CAPITOLO XVI.
In cui l’Arcivescovo di Granata piglia risolutamente
Don Cristoval Colon era alloggiato in Granata nella stessa casa assegnata al gran razionale di Castiglia. Così aveva disposto la regina Isabella, pensando con delicatezza femminile che al Genovese sarebbe stato gratissimo di ritrovarsi ospite del suo amico e protettore costante, e che gli sarebbe parso così di non essersi mai mosso dalla Corte, che aveva abbandonata in un momento di sdegno, o di scoramento, o di tutt’e due i sentimenti ad un tempo.
Ma questa era stata l’unica attenzione della regina, dopo che il fuggitivo era ritornato sotto le grandi ali della misericordia Castigliana. Era giunto in dicembre alla Vega di Granata; aveva assistito ai negoziati della resa; aveva veduto il 3 di gennaio uscire Boabdil dalla sua città ed entrarci i reali di Castiglia; c’era entrato anche lui, con Alonzo di Quintanilla; ci viveva da un mese, e nessun messaggero della Corte andava a dirgli: – Donna Isabella chiede di voi.
Non isperava già più, quando, sul finir di gennaio, Alonzo di Quintanilla, ritornando dal consiglio reale, gli disse:
– Finalmente! siamo a cavallo.
– A cavallo! – esclamò don Cristoval, che era lontano ventimila miglia dal punto che voleva toccare l’amico. – In che modo?
– Il cuore non vi dice nulla? – ripigliò don Alonzo. – La regina mi ha parlato di voi.
– Parlato! – disse don Cristoval, tentennando la testa. – La regina è troppo buona. Avrebbe potuto anche tacere; e sarebbe poi stato lo stesso.
– Ah, uomo di poca fede! voi dubitate? Eccovi le parole della regina: Direte a don Cristoval che venga domani all’Alhambra, all’ora di nona. Se io non ci sarò, ci sarà l’arcivescovo di Granata, a riceverlo. –
Don Cristoval fece un gesto significante, accompagnato da un’ironica interiezione a labbra chiuse.
– Vedete? – diss’egli poscia. – L’arcivescovo di Granata! Sempre lui!
– È vero che lo mettono in tutte le salse, oramai; – replicò il Quintanilla, ridendo. – Ma che ci volete fare? Il Talavera è nel suo quarto d’ora.
– Non dubitate dunque; saprà bene approfittarne per nuocermi; – disse di rimando il Genovese.
– Per un momento l’ho pensato ancor io; – rispose il Quintanilla. – Ma poi ho dovuto ricredermi. La regina mi ha soggiunto: Abbiamo persuaso Sua Eccellenza, e non c’è da temere che veda di mal occhio le proposte del vostro amico don Cristoval, come prima faceva, per soverchio di zelo. Le ragioni dei marinai di Palos c’entrano, io credo, per la parte loro, in questa conversione del mio confessore. Dite dunque a don Cristoval che stia di buon animo; per questa volta appagheremo il suo desiderio, ed il mio. – Capite, amico? “Ed il mio.” Sono le precise parole della regina.
– Che Iddio guardi e renda felice! – soggiunse don Cristoval. – Andremo dunque domani dalla regina, oppure dall’arcivescovo. Anzi, diciamo a dirittura dall’arcivescovo. Ho in testa che cascherò nelle sue sante mani. –
Don Cristoval non s’ingannava. Cascò nelle sante mani dell’arcivescovo.
– Eccoci qua, – disse il Talavera, facendo bocca da ridere, – eccoci qua, per contentare l’uomo che ha fretta. Le Loro Altezze hanno decretato che voi mandiate ad effetto la vostra audacissima impresa, e commettono a me il grato uffizio di darvene notizia. Vi parrà strano che sia io il portatore della novella; – soggiunse l’arcivescovo di Granata, vedendo che don Cristoval non si disponeva a parlare. – In verità, pare strano anche a me. Ma io ho dette le mie ragioni a tempo e luogo opportuno. Scientificamente, non credevo alla probabilità del vostro disegno, che mi pareva, e, con vostra licenza, seguita a parermi assurdo.
– Credo quia absurdum; – notò don Cristoval.
– Ah, sicuro! sant’Agostino vi fa buon giuoco, figliuol mio; – ripigliò il Talavera, ridendo a denti stretti. – Ma badate; sant’Agostino, il mio venerato collega d’Ippona, parlava dei santi misteri della nostra religione. Qui si tratta di cose profane, in cui possono essere divisi i giudizi. Scinditur incertum studia in contraria vulgus. E questo lo ha detto Virgilio, un poeta profano. Ma veniamo al sodo. Quei di Palos mostrano di avere gran fede nelle vostre idee. Sono essi che debbono viaggiare, non io. Viaggino dunque, e non se ne parli più. Ora che io vi ho detto su questo proposito tutto l’animo mio, restiamo amici, don Cristoval. –
Così dicendo gli stese la mano, risplendente per il suo anello pastorale. Don Cristoval prese rispettosamente quella mano; ma si astenne dal bacio, con grande maraviglia dell’arcivescovo, che credeva aver dato prova di molta degnazione.
– Il re Ferdinando, – ripigliò l’arcivescovo, – ha nominato una giunta, per trattare con voi. La presiedo io, indegnamente. Essa è convocata per quest’ora; venite dunque nella sala del consiglio, e si metterà in carta ogni cosa. –
Don Cristoval seguitò Sua Eccellenza. I commissari della giunta furono presto radunati, poichè erano tutti a palazzo. Sedevano tra questi don Ferdinando di Zofra, ministro del re, il conte di Tendilla, governatore della città di Granata, e due altri gentiluomini della Corte. Non c’erano dottori di Salamanca, e questo poteva parere di buon augurio. Ma c’era a presiedere il Talavera, che faceva disgraziatamente per tutti. Con un altro presidente, don Cristoval Colon sarebbe stato certamente più maneggevole. Col Talavera, di cui poco si fidava, tenne fermo nella sua dignità; volle trattare da potentato a potentato. Di umiliazioni gliene avevano inflitte già troppe. Ed egli, che non aveva veduta ritornare a Corte la marchesa di Moya, non presagiva nulla di bene. – A casa mia, – pensava in, cuor suo, – questo si chiama dar l’erba trastulla. –
Fatte le cerimonie d’uso, il presidente della giunta venne alla parte essenziale.
– Diteci dunque le vostre condizioni, don Cristoval. Che forza dovrà avere la spedizione?
– Tre navi, prima di tutto.
– Tre navi! Non vi paiono troppe?
– Non son troppe; domando il numero strettamente necessario. Bisogna prevedere anche i casi disgraziati. Se una nave non potesse tenere il mare, o le accadesse di peggio, dovremmo proseguire il viaggio con una? e con qual dignità per la corona di Castiglia? Andiamo a lidi barbari, dove bisogna dare un’idea conveniente della potenza spagnuola.
– È giusto, è giusto; – s’affrettò a dire il Talavera, temendo che in nome della potenza spagnola don Cristoval non trascorresse a domandare quattro navi, scambio di tre. – Salvo il buon volere del re e della regina, diciamo dunque tre navi. E di uomini, quanti?
– D’uomini d’albero, il numero necessario. Di soldati, quanti più ne potranno capire le navi. Diciamo dunque trecento; – rispose don Cristoval, facendo suo il modo di dire dell’arcivescovo di Granata.
– Ammettiamo, con la stessa restrizione di prima; – rispose il Talavera. – E per voi? che cosa dimandate per voi, don Cristoval Colon?
– Quei titoli, prerogative e diritti che si concedono a tutti gli scopritori di nuove terre.
– E sarebbero?
– Mi ascolti Vostra Eccellenza: il catalogo è lungo; ma si tratta di cose, che una chiama l’altra, di necessità. Prima di tutto, io avrò titolo e dignità di almirante del mare Oceano, con tutte le ragioni, prerogative e preminenze che hanno gli altri almiranti di Castiglia, nei loro dipartimenti marittimi.
– E poi?
– In tutte le isole, o nella terraferma che io scoprirò, mi si riconosca anticipatamente il titolo di vicerè e governatore, con la rispettiva autorità, e giurisdizione.
– Non vi par troppo? – disse il Talavera.
– Non mai più del beneficio che io avrò portato alla corona di Castiglia, scoprendo quelle terre e quelle isole, e assicurandone al tesoro delle Loro Altezze ogni rendita.
– Perdonate, don Cristoval. Ma voi vi fate molto sicuro di scoprire quelle terreferme e quelle isole.
– Senza scoperta non c’è titolo, nè giurisdizione per me; ne conviene Vostra Eccellenza?
– Avete ragione. Ma torno a dirvi, non vi par troppo? Vicerè!... governatore!... e già essendo almirante!...
– Come gli almiranti di Castiglia e di Leone, se mai; – replicò don Cristoval. – Non hanno essi, ovunque vadano, la stessa giurisdizione, la stessa autorità?
– Prendiamo nota; – disse il Talavera, facendo un gesto di rassegnazione forzata. – C’è altro?
– Oh, parecchie cose ancora; – ripigliò don Cristoval. – In tutte le dette isole e nella terraferma ch’io scoprirò, nominerò io di mia piena autorità, rimuoverò io, quando lo creda opportuno, gli ufficiali della amministrazione e della giustizia. –
– Anche i governatori delle provincie e delle città, se città debbono essere? – domandò il Talavera.
– Intendo il pensiero di Vostra Eccellenza. I governatori, per la maggiore autorità che ad essi compete, dovrebbero essere nominati dal re. Lo ammetto ancor io. Ma ognuno di essi sia scelto fra tre persone che io proporrò. E la ragione è chiara. L’autorità suprema è nel re; le ragioni della maggiore o minore fiducia nelle persone da scegliere, non possono apparir chiare che al vicerè, sulla faccia del luogo. In questo modo, salva l’autorità del sovrano, si mantiene la unità del comando. –
L’arcivescovo di Granata brontolò una interiezione che poteva passare per un assenso, come per un diniego. Don Cristoval prosegui:
– C’è la ragione commerciale, dopo la ragione politica. Quando io avrò scoperte le regioni che chiamerei Indie occidentali, è naturale che si stabiliscano relazioni di traffico tra esse e la Spagna. È dunque necessario che siano giudici qua, per giudicare su tutte le questioni e controversie che si riferiranno a quel traffico. Quei giudici, salvo la nomina definitiva del re, vorrei metterli io. –
Il Talavera scattò su dalla seggiola.
– Questo poi.... – gridò egli – don Cristoval, non pensate voi ora che usurpate la prerogativa regia?
– Non creda, Vostra Eccellenza, non creda; – rispose calmo don Cristoval. Non intendo di nominar io gli ufficiali di giustizia sul territorio di Castiglia. Parlo di giudici speciali, di tribunali speciali per le questioni e controversie che potranno derivare dal traffico spagnuolo con le Indie occidentali.
– Che Indie! che occidentali! – gridò il Talavera. – Regnerete voi, laggiù, o il re di Castiglia?
– Il re di Castiglia, senza dubbio.
– E allora, che cosa volete? Sostituirvi forse a chi ha la tutela delle persone e degli interessi di tutti i sudditi suoi? E i sudditi suoi di laggiù non saranno pari ai sudditi suoi di Castiglia?
– Giustissimo! – rispose don Cristoval. – Ma aspetti Vostra Eccellenza il resto del mio discorso.
– Capisco! c’è dell’altro ancora!
– E molto. Ma si trattava d’interessi materiali, ed ho voluto lasciarli per gli ultimi.
– Sentiamo dunque; – conchiuse il Talavera, appoggiando i gomiti sui bracciuoli della scranna, e recandosi i pugni alle guance, coi pollici agli angoli delle labbra, in atto di aspettazione feroce.
– Ecco qua; – riprese don Cristoval. – Oltre agli stipendi e diritti che son proprii dei miei sopraddetti uffizi di almirante, vicerè, governatore, domando il decimo di tutto quanto si troverà, si comprerà, si baratterà, si guadagnerà, o si troverà, dentro i confini del mio almirantazgo, detratte le spese, s’intende. È naturale che il traffico porti controversie d’ogni genere. Si tratta di ragioni che dovranno essere guarentite, e ragioni particolari, di cui i giudici ordinarii poco o nulla potrebbero intendere. In ogni questione i diritti miei sarebbero in causa. Ecco perchè domando di metter giudici speciali, o almeno di proporli io alla nomina regia. Vi torna?
– Non tornerà, io credo, alle Loro Altezze.
– Si prenda nota, ad ogni modo, e le Loro Altezze giudicheranno; – rispose don Cristoval, inchinandosi. – E si aggiunga per ultima clausola: tutte le dignità, prerogative, e privilegi da me richiesti, saranno ereditarii nella mia famiglia, secondo il diritto di anzianità.
– Anche questo! – gridò il Talavera, sbuffando e volgendo un’occhiata in giro, come per vedere il suo medesimo aspetto rabbioso in quattro visi di stupefatti colleghi.
– Di che si maraviglia Vostra Eccellenza? – disse don Cristoval. – Sono condizioni già state fatte dai re di Castiglia. Ricordo di aver letto che nell’anno 1405 don Enrico III, avendo nominato suo zio don Alfonso alla carica d’almirante di Castiglia, vi unì gli stessi privilegi; certamente i più onorevoli e i più lucrativi che mai alcun re avesse largiti ad un vassallo, ma pur sempre gli stessi. E don Alfonso, ch’io sappia, non aveva donato un nuovo mondo alla corona di Castiglia.
– Permettete, cavaliere; – entrò a dire il conte di Tendilla, che fino a quel punto era stato silenzioso, con gli occhi chiusi, secondo la consuetudine meditabonda (quando non è dormigliosa) dei giudici in tribunale. – Questo nuovo Mondo non è ancora scoperto. Le vostre proposte sono certamente molto prudenti, poichè, qualunque cosa avvenga, voi siete al sicuro. Si scopre il nuovo mondo che ci annunziate? e voi vi godete gli onori di un gran comando, senza essere parente del re. Non si scopre? e voi niente avete perduto.
– V’intendo, signor conte, v’intendo; – rispose il marinaio genovese. – Io nulla avrò perduto.... tranne l’onore e la vita! due cose che non contano!
– Anche il re Ferdinando, – osservò il conte di Tendilla, – mette a repentaglio con voi la vita di trecento suoi sudditi e l’onore della corona, in una impresa come questa, che può finire nei gorghi dell’Oceano.
– È giusto; – ripigliò il Genovese. – Pareggiamo i conti. Ho chiesto il decimo dei profitti, e mantengo la mia domanda. Ma offro di entrare partenevole per un ottavo della spesa, a patto che dei profitti mi si guarentisca l’ottavo.
– Segretario, prendete nota; – disse il Talavera. – E voi, don Cristoval Colon, non avete altro da chiedere?
– Non ho altro; – rispose don Cristoval. – Vostra Eccellenza mi dà commiato, non è vero?
– Per andare dalle Loro Altezze, ad referendum; – replicò il Talavera. – Iddio vi guardi, messere. –
Don Cristoval fece un inchino all’arcivescovo, ai suoi quattro commissarii, al cancelliere, e si ritirò dall’udienza.
Il lettore ha già capito che i negoziatori erano tutti contrarii; e indovina certamente che, appena levata la seduta, corsero tutti attorno per i crocchi della Corte, muovendo aspri lagni per le esorbitanti pretese di don Cristoval Colon. Fecero anzi qualche cosa di più; incominciarono a levargli il titolo onorifico, che gli aveva concesso la bontà della regina Isabella, dandogliene in cambio parecchi di loro arbitrio; quelli, ad esempio, di avventuriere, di orgoglioso, d’impudente. Mettersi al paro con gli almiranti di Castiglia: lui! ed ancora con gli almiranti di sangue regio! Qui, veramente, l’impudenza rasentava la pazzia. Che cosa aveva fatto, quel navigatore straniero, per domandare una simile autorità? Il trafficante di lane, sicuramente; e fors’anche, cammin facendo, il corsaro. Si parlava di battaglie navali, tra Genovesi e Veneziani. Una gran cosa! le solite guerre fraterne dei popoli italiani! La Spagna, a buon conto, non ci aveva a veder nulla, e non ne aveva profittato. E la Spagna avrebbe dati, e forse anche sacrificati i suoi navigli, i suoi denari, i suoi uomini, all’orgoglio di quell’impudente millantatore? Un nuovo Mondo! si faceva presto a dirlo. E poi, il grande navigatore sarebbe ritornato indietro, fatte appena cento miglia, anzi cinquanta, di là dalle isole Canarie. Ma che importava la vergogna del mal esito a quel pezzente rimpannucciato? Negli apparecchi della sua spedizione egli avrebbe trovato il modo di tenersi una buona porzione di dobloni per sè. Qualche pretesto al ritorno lo avrebbe raccapezzato per via; ed anche qualche altro, per seguitare a spillar quattrini dalla credulità degli amici protettori, dalla bontà inesauribile della regina Isabella.
Questi discorsi della giunta, ripetuti dai cortigiani, giunsero all’orecchio del re. Ferdinando non amava don Cristoval; lo aveva sempre tollerato. Ultimamente, si era lasciato smuovere dalle sollecitazioni di don Giovanni di Marcena, per non mostrarsi riluttante ai desiderii della regina. Voleva apparire cavalleresco, ma si accusava in cuor suo di debolezza. Quando seppe dal Talavera, dal conte di Tendilla e dal suo ministro Fernando di Zofra, tutte le strane pretese del marinaio genovese, andò su tutte le furie. Nè la regina Isabella, sentendo quel coro di biasimi, seppe dare il torto al suo regale consorte. Anche a lei pareva che il Genovese domandasse troppe cose, e fra le troppe anche talune che offendevano la prerogativa regia, altre che mostravano diffidenza scortese verso i sovrani, altre che passavano i confini di ogni onesta ambizione. Tra queste, il titolo d’almirante del mare Oceano! Don Cristoval domandava una grande autorità; peggio ancora, domandava che a lui si sacrificasse l’autorità di altri almiranti. Il mare Oceano incominciava subito fuori dello stretto di Gibilterra, bagnava le coste occidentali della penisola Iberica; assegnarne il comando a don Cristoval sarebbe stato un disconoscere i diritti di qualche buono e leal servitore già in carica.
L’arcivescovo di Granata si stropicciava allegramente le mani; ma aveva l’aria di riscaldarsele, per il freddo, che si faceva sentire.
– Eh, lo avevo detto, io! – mormorava. – Lo avevo detto io! Da un pezzo ho indovinato che quell’uomo non aveva in testa che fumo ed orgoglio. Vanitas, vanitatum, et omnia vanitas. –
Donna Isabella fingeva di non udire gli epifonemi del suo confessore. Qualche cosa le parlava ancora, nel fondo dell’anima, a favore di don Cristoval. Infine, si poteva accusarlo di esorbitanza nelle sue domande; ma di quella esorbitanza si poteva anche convincerlo. E poi, chi le assicurava che i commissarii, già poco benevoli a lui, non lo avessero costretto, con le loro opposizioni, a dar fuori?
– Permettete, sire, – diss’ella al marito, – amerei d’interrogar io don Cristoval Colon. –
Ferdinando stette un poco sopra di sè, guardando la regina; ma poi si strinse nelle spalle, e rispose:
– Signora, voi siete sempre la padrona, qui, come dovunque, e non è cosa che io possa rifiutarvi. Vedete dunque voi di mettere in ragione quel pazzo ambizioso. –
All’arcivescovo di Granata piaceva poco quell’indirizzo che prendevano le cose. Ma ad un desiderio così risolutamente espresso dalla regina, nessuno, foss’anche il suo confessore, poteva mettere ostacolo.
Isabella chiamò a sè don Cristoval Colon. E don Cristoval non fu lento ad accorrere.
– Dunque, – diss’ella, – non ne faremo nulla, del vostro grande disegno?
– Posso io chiedere a Vostra Altezza il perchè? – disse a sua volta don Cristoval.
– Perchè? me lo domandate voi, cavaliere? Perchè le vostre proposte non sono accettabili.
– Veramente? e in quali punti, se ancora mi è lecito di chiederlo?
– In parecchi, in molti; – rispose la regina. – Prima di tutto, quella vostra pretesa di nominare i giudici....
– Cederò; – disse don Cristoval. – Li nomini la regina.
– E la regina vi ringrazia; – riprese Isabella. – Ma non son io particolarmente che nomino i giudici. La prima firma è quella del re. Non cederete voi al re?
– Mi perdoni la Vostra Altezza. Ai commissarii ho dette le ragioni per cui proponevo di nominare io i giudici. Son giudici speciali, per questioni di traffico, dove i miei diritti possono essere impegnati, anzi saranno sempre, senza fallo, impegnati. E poi, mi ascolti, più che l’orecchio, il cuore della regina. Pazzo, avventuriere, accattone, sono i titoli che da sei anni mi dànno a gara tanti illustri personaggi della corte di Castiglia. Tutti quei signori debbono ricredersi sul conto mio. O mi metterò col debito onore all’impresa, o non mi proverò neanche a tentarla. Il chiedere che il mio onore non patisca ingiuria, nè diminuzione, non è superbia in me; è dovere verso l’Altezza Vostra, che con tanta benevolenza ha preso a proteggermi.
– E sia; – disse Isabella. – Intendo tutto ciò. Ma un altro punto è più grave. Parliamo di quello. Su quello dovreste cedere.
– Non so qual sia. Si degni Vostra Altezza di dirmelo.
– È il titolo istesso che voi domandate, di almirante.... del mare Oceano. È vasto l’Oceano; e gli altri almiranti, che son tutti dei primi gentiluomini di Castiglia, non hanno per ciascuno che dipartimenti molto ristretti. Inoltre, il vasto dipartimento che voi domandate, incomincia subito di là dallo stretto. Voi ci volete obbligare a togliere un comando a qualcun altro, per darlo a voi.
– Non è che questo? Si può intendere che restino salvi i diritti di tutti gli altri almiranti. Io non chiedo che l’alto mare, e le terre che avrò scoperte di là.
– Che potrebbero esser molte; – notò la regina.
– Accetto l’augurio; – diss’egli. – E saranno molte, certamente. Ma se le avrò scoperte io, la conseguenza non potrà essere che una. Ogni ammiraglio di Castiglia ha il suo dipartimento; e di questo non ha trovato egli nè la costa nè il tratto di mare; laddove io avrò osato navigar primo il tratto di mare avrò scoperta io la costa del mio dipartimento, sia pur vasto quanto Spagna, Lusitania, Inghilterra e Francia insieme riunite. La mia regina vorrà, io spero, riconoscere la bontà di questo ragionamento.
– Don Cristoval Colon, – rispose la regina, sorridendo graziosamente, – quando voi parlate.... non so come ciò sia, avete sempre ragione. Almeno, – soggiunse ella, – voi l’avete sempre con me. Se l’aveste con gli uomini, come l’avete con me, che son donna, non ci sarebbe più nulla a ridire. Ma siete savio ed accorto; dovete anche pensare che non tutti si lasciano persuadere così facilmente; dovreste, a dirla in breve, aver ragione con gli altri, che sono ispirati e guidati da ragioni diverse. Ora, lo intenderete anche voi, questo non è possibile. E guai a chi ha, o crede di avere, troppa ragione. In tutti gli uffizi, in tutti i gradi, bisogna fare i conti con l’opinione altrui.
– L’Altezza Vostra, – disse don Cristoval, – fa più parole che io non ne meriti. Che dovrei io fare, per obbedirla?
– Non per obbedirmi, ma per appagare un mio desiderio, rinunziare a quel titolo.
– Di almirante?
– Non di almirante, ma di almirante del mare Oceano.
– Signora, non posso.
– Non potete!... non potete!... È ostinazione, la vostra.
– Giuro alla regina di Castiglia che non è ostinazione; – rispose il marinaio genovese con accento solenne. – È dovere. Quel titolo non l’ho inventato io.
– Infatti, – replicò la regina, – esso non mi giunge nuovo.
– Mi è caro che l’Altezza Vostra lo abbia già udito; – disse don Cristoval. – Posso io rinunziarci, ora? Persona che mi ha efficacemente protetto, che ha creduto ne’ miei disegni, quando erano osteggiati da tutti, che ha partecipato alla mia fede, quando io ero chiamato pazzo, avventuriere, pezzente orgoglioso dagli altri, mi ha detto almirante del mare Oceano. E il mio proposito è oramai immutabile. O sarò almirante del mare Oceano, o non sarò nulla di nulla.
– Sentimento cavalleresco! – esclamò la regina.
– Cavalleresco! perchè? Vostra Altezza crede....
– Che la persona accennata da voi sia la marchesa di Moya! – rispose la regina Isabella. – Negatelo, se potete.
– Non lo negherò; – diss’egli. – Mi gioverò del nome di donna Beatrice per insistere, rispettosamente, presso l’Altezza Vostra. Se la marchesa di Moya, che ha fatto tanto per me, mi ha decorato di quel titolo, permetterà Vostra Altezza che io me ne spogli?
– Voi non pensate, don Cristoval, che l’autorità di conferir titoli e gradi non compete alla marchesa di Moya.
– Lo penso, signora; ma penso ancora, con tutto l’ossequio che devo all’Altezza Vostra, che non mi è lecito di non accettare un titolo così poco rispondente all’importanza dell’uffizio che l’Altezza Vostra mi assegnerebbe, e per cui la mia buona protettrice è stata la prima a pregare la regina di Castiglia, ottenendomi la sua sovrana benevolenza. Quel titolo, signora, voi potete negarmelo; io m’inchinerò al vostro volere, e abbandonerò dolente, ma a fronte alta, la Corte di Castiglia. –
A quelle parole, proferite da don Cristoval con rispettosa fermezza, Isabella non diede subito risposta. Ella rimase un istante sovra pensiero, meditando le conseguenze di ciò che avrebbe potuto rispondergli.
– È la vostra ultima parola? – diss’ella finalmente, cercando di dare, se fosse possibile, un’altra piega al discorso.
– Con dolore, – rispose il marinaio genovese, – ma è l’ultima.
– Vedo, – ripigliò la regina, – che il vostro spirito è afflitto. Le difficoltà che i vostri disegni hanno incontrato, qualche ingiustizia sofferta, ma non imputabile a noi, vani discorsi, storti giudizi di uomini leggeri, vi hanno inasprito forse più del ragionevole. Avete veduto nemici da per tutto; vi è parso di dover dare una battaglia; l’avete vinta, e non vi basta; volete anche stravincerla.
– Signora....
– Non più, don Cristoval. Ricordo che vi ho sempre protetto, e un po’ più efficacemente della marchesa di Moyà; la quale, in fin dei conti, non poteva spendere che parole, per voi. Non voglio mutarmi oggi a vostro riguardo, per il fatto di questa ostinatezza orgogliosa, che vi rende ingiusto verso di me. Non dite nulla; so quello che vorreste dirmi; che la vostra impresa è grande, che della sua grandezza siete tutto compreso, e che vi parrebbe di venir meno all’onore, accettando un grado non adeguato all’impresa. Penso che facciate con ciò un error di giudizio; spero che, pensandoci meglio, vi ricrederete. Aspetterò che ciò sia avvenuto, e prego Iddio che v’ispiri. Andate, don Cristoval; e contate sempre sulla mia amicizia. –
Il commiato era ancora cortese; ma era sempre un commiato. Don Cristoval Colon s’inchinò profondamente, e uscì dall’udienza regale con la morte nell’anima.
Don Alonzo di Quintanilla fu subito informato di ciò che era avvenuto in quel colloquio dell’amico suo con la regina Isabella. Egli volle naturalmente conoscerne tutti i più minuti particolari, pensando con ragione che l’importanza delle cose dette era nel tono con cui erano state dette.
– Ed ora, che farete? – diss’egli. – Aspetterete, m’immagino, che la regina vi richiami. O, ripensandoci meglio, muterete qualche parte delle vostre domande.
– No, amico! – rispose don Cristoval. – Nè la regina mi richiamerà alla sua presenza, nè io muterò sillaba nelle mie domande, nelle mie risoluzioni. Partirò dalla Spagna. Ho giurato a me stesso o con onore, o nulla. Mi consigliereste voi, don Alonzo, voi che mi amate molto, stimandomi un poco, mi consigliereste voi di andare allo sbaraglio, perchè domani uno Zafra, un Tendilla, un Nugnez, un Ovando, un Bovadilla, un Ojeda, un.... chicchessia, dei tanti che han nome e grado presso la Corte di Castiglia, avesse il frutto di ciò che io avrei seminato? A me la fatica e il pericolo; agli altri l’onore? Mi hanno dunque preso per il pilota, e non per altro? Partirò, don Alonzo, non dolendomi d’altro che di aver abbandonato voi, il buon padre Marcena, e donna Beatrice di Bovadilla, mia protettrice magnanima, che per me è caduta in disgrazia.
– Confessate, – disse il Quintanilla, – che il pensiero della marchesa di Moya entra un pochino nell’asprezza delle vostre risoluzioni?
– Un pochino? dite molto, e moltissimo; – rispose don Cristoval. – Debbo io con animo rassegnato accettare i patti della Corte, dond’ella è uscita in disgrazia, per avermi difeso a viso aperto? Queste viltà non si aspettino da me. Sono stato aspro, voi dite? Ebbene, mi ha fatto aspro il modo in cui donna Beatrice di Bovadilla è stata trattata, messa al punto di abbandonare la regina.... che non l’ha richiamata. Ditemi, don Alonzo, sul vostro onore, nel caso mio, che cosa fareste?
– Quello che voi fate, don Cristoval; – disse Alonzo di Quintanilla; – nè più nè meno.
– Ah, vivaddio! questo è rispondere.
– Sì; avete non una ma mille ragioni! – ripigliò, il Quintanilla. – E partirete, se sarà necessario partire. Ma non oggi, nè domani, io spero.
– Perchè rimarrei? Più presto andrò, sarà meglio.
– Capisco, sì, capisco; ma non vi prego per altri; vi prego per me. Debbo assentarmi per pochi giorni da Granata. E non vorrei separarmi così su due piedi da voi. Mi ricuserete questa grazia, di aspettarmi qualche giorno? Non volete veder nessuno? Resterete qui, in casa mia, che è casa vostra, meditando e studiando. E mi darete la gioia, al mio ritorno, di ritrovarvi qui, di passare un giorno, ragionando liberamente, tranquillamente con voi. –
Don Cristoval stette alquanto pensoso; poi rispose all’amico:
– Resterò. Mi duole già tanto di separarmi da voi! e forse per sempre!...
– Ah, bene! – gridò il Quintanilla. – Ecco un sentimento, che credo di aver meritato. Credetelo, don Cristoval Colon, non sono tutti ingiusti verso di voi, nel reame di Castiglia. Andrò dunque, per questi pochi giorni, e con lo spirito tranquillo. Vi ripeto, potete restar chiuso come vorrete, coi vostri pensieri. Ma vi pregherei ancora, se vi fosse possibile, di uscire da questa solitudine, e di andare a vedere l’amico Santangel. Se sapeste come vi ama! e come è addolorato anche lui di tutta questa guerra indegna che vi si muove da ogni parte! Vi giuro che se dipendesse da lui e da me, senza offendere i nostri sovrani, faremmo noi due le spese del vostro viaggio, tanto è l’amore che vi portiamo, tanta la fede che i vostri disegni c’ispirano. –
Don Cristoval Colon, profondamente commosso, gettò le braccia al collo del vecchio razionale di Castiglia.
– Amico mio! – diss’egli. – Ricorderò sempre le anime buone che ho trovate su questa nobile terra spagnuola; voi, don Alonzo di Quintanilla, e con voi Luigi di Santangel, e il sant’uomo della Rabida.
– Tre solamente! – esclamò sorridendo il Quintanilla. – Anche a risico di far onta al proverbio che vuol vedere la perfezione nel numero tre, bisognerà aggiungere la quarta persona. Avete dimenticata la marchesa di Moya.
– È una dama; – rispose don Cristoval, arrossendo. – E le dame....
– E le dame, – ripigliò il Quintanilla, – dovrebbero, se mai, esser nominate per le prime. Ma già, – soggiunse egli, abbassando la voce, – il cuore ama tradire i suoi dolci segreti, col tacer della bocca.
– Che cosa intendete di dire? – chiese l’altro, turbato.
– Che voi, caro amico.... Non andate in collera ve ne prego. Son vecchio, ed ho il diritto di dire tutto quello che penso, ad un amico, quasi ad un figlio, come voi siete per me. Voi amate quella donna. Non lo negate. Non vi crederei. Amandola, non fate solamente omaggio alla sua grande bellezza; rendete anche giustizia alla sua grande bontà. –
Il marinaio genovese stette un pezzo senza rispondergli. Si era lasciato cadere su d’una scranna; e là, con la faccia nascosta tra le palme, pensava.
– Ebbene, – ripigliò il Quintanilla, – ditemi che non è vero; ditemi che siete un ingrato, uno sconoscente.... ed un cieco.
– Non lo dirò, – rispose don Cristoval, che oramai non poteva più stare alle mosse. – Pensate tutto ciò che volete di me, e dello stato del mio cuore.... che poi è tutt’uno. Infatti, solo per questo viviamo, solo per questo siamo uomini, e non istrumenti di malvagità sulla terra. Un gran dolore è vissuto qui dentro, e voi ne sapete il perchè; – soggiunse il marinaio genovese. – Poi, a quel grande dolore, è seguito un gran silenzio, un gran vuoto. Se il cuore può essere un tempio, credetelo, amico mio, questo tempio è degno oggi di accogliere l’immagine della migliore tra le donne. Come ciò sia avvenuto, non so. Quando io mi sia ritrovato così diverso da quello di prima, mi è oscuro. Non mi sono interrogato mai. Da un pezzo non ho osato neanche pensarci. E questo io non oserò mai di confessare a quella donna. Lo credete, non è vero? Voi mi conoscete, oramai. Piuttosto che dire a quella donna la minima parte di ciò che sento nel cuore, sarei capace di fuggire per sempre, di andare incontro alla certezza della morte. Ma questo amore porta i suoi obblighi, ai quali non fallirò. Devo a quell’immagine sacra di non far cosa, di non accettarne alcuna, che non sia degna di lei. E non sarebbe degno di lei ciò che i reali di Castiglia vorrebbero oggi da me. –
Quel medesimo giorno, Alonzo di Quintanilla partì da Granata. Andava per sue faccende domestiche? Andava per ragioni di servizio? Queste cose un uomo di garbo non chiede mai all’amico, quando l’amico non reputa necessario di dirgliele. Il razionale di Castiglia montò a cavallo, seguito dalla sua solita scorta, e non volle neanche essere accompagnato alle porte della città.
Frattanto, in Granata, era noto oramai che Cristoforo Colombo aveva perduto il favore della Corte. Troppo aveva voluto, l’orgoglioso avventuriere; troppo aveva tirata la corda, e la corda si era spezzata. Ben gli stava. E così lo avessero conosciuto prima, i reali di Castiglia, come lo conoscevano don Francisco di Bovadilla, commendatore di Calatrava. e don Fernando di Talavera, arcivescovo di Granata.
Quest’ultimo seguitava a stropicciarsi le mani; e non per il freddo. Non era alla presenza della regina, e poteva stropicciarsele dalla gioia.
– Lo avevo detto, io! – esclamava il sapientissimo uomo. – Lo avevo detto io, che quello là era un millantatore, un avventuriere, un imbroglione! E ne saremo liberati, oramai! –
Don Fernando di Talavera, arcivescovo di Granata, presidente della giunta dottorale di Salamanca, e l’autorità ecclesiastica, sconoscente, non vi ha collocato nel novero dei profeti! Dei profeti minori, almeno!