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CAPITOLO XVII.
Alonzo di Quintanilla era partito da Granata sull’ora di vespro. A noi è dato di seguirlo, e di vedere che prendeva la via di Siviglia. Andava di buon trotto, il degno gentiluomo, e nessuno, al vederlo così franco in sella, così voglioso di correre, gli avrebbe dati i sessant’anni che portava sulla groppa. Ed era lui, che stimolava i suoi famigli a guadagnar cammino, come se avesse i birri alle calcagna.
– Da bravi, ragazzi! – diceva. – Vorrei smontare prima di notte alla posada di Pedro Montero.
– È lontana, signore; – rispondeva il capo della scorta; – molto lontana.
– Pure, bisognerà arrivarci; – replicava don Alonzo. – Non si cena e non si dorme che là. –
Il padrone comandava, e non c’era da ribatter parola. Animati dall’esempio del vecchio, i giovani spronavano le cavalcature, e di tanto in tanto pigliavano qualche tempo di galoppo.
Erano da tre ore in cammino, e un’osteria sulla strada invitava alla fermata. Don Alonzo non permise alla sua gente che il bicchier della staffa.
– Avete fretta, signor cavaliere? – diceva l’ostessa, mescendo a braccio teso il suo vino agli uomini della scorta. – Volete forse raggiungere quell’altro gentiluomo che è andato avanti, senza neanche fermarsi ad assaggiare questo Malaga, che ridarebbe la vita ai morti?
– Di che altro gentiluomo mi parlate voi ora? – disse don Alonzo di Quintanilla.
– Un vecchio signore, dai grandi mustacchi bianchi. L’ho già veduto passare una volta, mi pare, nel seguito del re Ferdinando, che Dio guardi.
– Ah, sì! – rispose il Quintanilla, dissimulando a fatica la sua maraviglia. – Proprio quello dobbiamo raggiungere. –
E dentro di sè soggiungeva
– Guarda, guarda, che combinazione! Perchè inseguo io don Giovanni Cabrera? –
Infatti, non c’era da sbagliare. Di vecchi gentiluomini, nel seguito del re Ferdinando, ce n’erano parecchi; ma uno solo portava i grandi mustacchi bianchi che avevano colpita l’ostessa.
Don Alonzo di Quintanilla mise mano alla borsa, per pagare il beveraggio. Frattanto domandava alla posadera:
– Ci è avanti di molto, questo vecchio signore che dite?
– Eh, almeno di un’ora.
– Sia lodato il cielo! – ripigliò il Quintanilla. – Lo potrò raggiungere ancora, quel caro don Juan. Due buone galoppate, e il colpo è fatto.
– Ma se ha galoppato anche lui, signor cavaliere, – disse la locandiera, – non vi sarà tanto facile. Mi è parso che avesse molta fretta anche lui. Vi ho detto che non ha voluto neanche assaggiare il mio vino.
– Ed è stato ingiusto, signora; rispose don Alonzo, – e merita di non berne più del somigliante.... neanche a Torregrossa.
– Ne troverà a Siviglia; – disse la locandiera; – a Siviglia c’è di tutto il ben di Dio.
– Non i vostri occhi, per esempio, padrona; – replicò don Alonzo, facendosi galante senza rischio. – Egli va dunque difilato a Siviglia? Mi aveva pure promesso di aspettarmi alla posala di Pedro Montero.
– Se vada difilato non so; – riprese la donna. – Ho sentito dire da uno dei suoi cavalieri che non c’era tempo da perdere, perchè si doveva andare fino a Siviglia. –
Don Alonzo sapeva oramai tutto quello che gli premeva di sapere.
– A Siviglia, come me – pensò egli allora. – Certamente va a cercare sua moglie. Ma non è ugualmente certo che ci vada per il solo desiderio di rappattumarsi con lei. Quantunque, tutto può darsi. Legno stagionato arde meglio d’ogni altro. –
I conti di don Alonzo furono presto fatti. Qualunque fosse il disegno di Giovanni Cabrera, bisognava battere la sua medesima strada. Cansarlo non si poteva, se non fermandosi a mezza via; e questo non faceva comodo al Quintanilla. Seguitarlo bisognava, anche col rischio di raggiungerlo. Ma poi, che rischio era mai quello? Una bugia da dirgli, era facile trovarla. L’essenziale era di sapere che cosa andasse a fare il vecchio ciambellano a Siviglia; non foss’altro, per non imbattersi in lui, alla porta di un certo convento.
– Grazie! – diss’egli all’ostessa. – E voi, ragazzi, in cammino, alla svelta. Dobbiamo giungere ancora alla posada di Pedro Montero. –
Quando il cavaliere ha bevuto, il cavallo può correre; è assioma di cavalleria. I famigli del razionale di Castiglia ripresero il trotto, il galoppo, ed ogni altra andatura che piacesse al loro padrone. Ma per quanto corressero, non sentirono mai scalpito di cavalli in lontananza, che additasse la vicinanza di un’altra cavalcata.
– Per sant’Iago! – esclamò don Alonzo, dopo due ore di corsa; – vuol far le poste doppie, il mio amico Cabrera. –
Era già notte alta, quando la cavalcata vide da lontano il fanale della posada di Pedro Montero. E di don Juan Cabrera neppur l’ombra.
Giunti alla posada smontarono, per rifocillarsi e far riposare i cavalli. Accorse l’oste, accorsero i mozzi di stalla; il primo per dare il benvenuto ai viaggiatori ed offrire il meglio della locanda; gli altri per condurre le cavalcature al coperto.
Qualche nitrito che veniva dalla mangiatoia, sebbene diretto come saluto fraterno ai cavalli ultimi arrivati, significò ai loro padroni che essi erano stati preceduti da un’altra comitiva.
– Signor cavaliere, – disse frattanto l’oste a don Alonzo di Quintanilla, – desiderate da cena? L’olla podrida è in punto.
– Ma non per noi, m’immagino; – rispose il Quintanilla.
– S’è fatta veramente per altri forestieri; – ripigliò il posadero. – Ma ce n’è sempre per tutti.
– Beati gli ultimi, se i primi han discrezione; – conchiuse il Quintanilla. – Andiamo dunque a tavola. –
Ed entrò nello stanzone della posada, abbastanza indicato dalla luce fumosa che veniva dall’ingresso.
Un vecchio cavaliere, dai grandi mustacchi bianchi, sedeva in capo alla gran tavola, nel mezzo dello stanzone.
– Guarda chi vedo! – esclamò don Alonzo, facendosi avanti, e inarcando le ciglia in atto di stupore. – Don Juan!
– Don Alonzo, voi qui? – disse il Cabrera. – Che buon vento vi porta?
– Vento di mezzogiorno, come vedete. Vado verso tramontana.... fino a Siviglia.
– Ah, davvero? E per che fare, se è lecito domandarlo?
– Domandate pure; quantunque, sapendo il mio mestiere, non sarebbe necessario. Vado a rivedere i conti dei miei scribi.... e farisei.
– Voi nuotate sempre nell’oro, don Alonzo.
– Ma sì! ma sì! e faccio come la mula di Bobo Menguado, che portava il vino e beveva l’acqua. E voi, don Juan, fin dove correte? a Burgos? a Valladolid? a Saragozza?
– No, non tanto lontano. Servizio del re, fino a Salamanca.
– Non vi fermate a Siviglia? Sarei tanto felice di offrirvi un’occasione di penitenza con me.
– Ah, sì, bravo; penitenza. Coi razionali non digiuna che il popolo.... dopo che ha pagate le tasse. –
Ridevano, i due vecchi gentiluomini, mentre attaccavano il gran piatto dell’olla podrida, imbandita allora dal posadero con le sue proprie mani. Ma uno di essi andava dicendo tra sè
– Salamanca! Salamanca! Non la bevo io, questa invenzione. Tu vai soltanto a Siviglia, mio caro; e non hai trovato un buon pretesto, per dirlo, come l’avevo pronto io per l’occasione. –
L’altro non diceva nulla a sè stesso. Gli bastava di aver trovata al suo viaggio una meta, che gli permettesse di toccare Siviglia. Oramai, non c’era verso di uscirne altrimenti; i due viaggiatori dovevano fare la strada insieme. E da buoni amici, rassegnati alla comunanza dei loro destini, passarono insieme quel resto di serata, si ritirarono nelle loro camere alla stessa ora, promettendosi di partire insieme sull’alba. Infine, poichè ognuno di loro custodiva il proprio segreto, non era un gran male che viaggiassero di conserva. Quattro chiacchiere allegramente barattate, erano la man di Dio per abbreviare la noia di un lungo viaggio. Il qual viaggio noi non istaremo a descrivere, come non ci fermeremo a raccontare tutti i loro discorsi; discorsi faceti, come son sempre quelli di un’età che sente di non aver tempo da perdere.
Alle porte di Siviglia, con molte strette di mano, sorrisi e proteste di amicizia, si lasciarono assai volentieri ambedue: il Quintanilla per andare dai suoi scribi e farisei, com’egli diceva; il Cabrera per far riposare i cavalli. Non aveva tempo per accettare l’invito dell’amico; avrebbe mangiato un boccone in fretta; poi si sarebbe rimesso in viaggio.
– Sì, sì, – disse il Quintanilla in cuor suo, – or ora te lo dò io il viaggio. –
Appena il Cabrera si fu allontanato per la sua strada, don Alonzo fece smontare uno de’ suoi uomini, e gli bisbigliò qualche cosa all’orecchio. Il famiglio accennò di aver capito a puntino, e scantonò prontamente da un vicolo.
Don Alonzo di Quintanilla proseguì la sua strada fino all’Alcazar. Giunto colà, e mandati i famigli alla scuderia, salì a vedere i suoi scribi e farisei. Ma non aveva da osservare gran che; diede una guardata ai libri mastri, fece due o tre giri per le sale, poi andò a riposarsi su d’una comoda scranna, davanti ad una modesta colazione. Aspettava il suo messaggero, e, cosa strana, non appariva punto impaziente del ritardo che il messaggero faceva. Più questi indugiava, e più don Alonzo si mostrava contento. Così passarono tre ore, prima che il famiglio ritornasse alla presenza del razionale di Castiglia.
– Ebbene, Gutierrez? – domandò il Quintanilla, appena lo vide apparire sulla soglia.
– Signore, – rispose il famiglio, – ho fatto ogni cosa secondo i vostri comandamenti.
– L’hai seguitato?
– Da per tutto. Egli andava proprio là, dove mi avevate indicato.
– Al convento di Santa Chiara, non è vero?
– Sì, mio signore. Ci andò a piedi, dopo essere smontato coi suoi uomini alla posada della Corona.
– E quanto c’è stato, al convento?
– E poi?
– Solo?
– Solo, solissimo. Era di cattivo umore, da quanto ho potuto capire. Ritornò alla locanda, ci stette mezz’ora, forse il tempo di mangiare un boccone, e di far sellare i cavalli. Poi, con la sua gente, si è avviato verso la porta della città, riprendendo la via di Granata.
– C’eri, a vederlo uscire di città?
– Sì, mio signore; un po’ in disparte, per non essere riconosciuto dai soldati. Ma quando la sua comitiva fu passata tutta, mi feci avanti e la seguitai fino al ponte. Di là ho potuto vedere il signor marchese di Moya, che andava di buon trotto, fino a tanto non fu sparito alla svolta della strada maestra.
– Sta bene; – disse il vecchio gentiluomo, mettendo mano alla borsa e cavandone una moneta d’oro. – Eccoti qua; vai a rifocillarti, Gutierrez, ed anche a berne un bicchiere coi tuoi compagni. Ma badate di non perdere il tempo all’osteria. Fra due ore si riparte anche noi. –
Gutierrez fece un inchinò e si ritirò. Don Alonzo uscì a sua volta dall’Alcazar, avviandosi al monastero di Santa Chiara. Giunto in porteria, suonò la campana. Poco dopo, strascinando le pianelle e borbottando tra i denti qualche cosa che non pareva un’avemmaria, si affacciò da un finestrino la suora portinaia.
– Chi cercate, signor cavaliere?
– Donna Beatrice di Bovadilla.
– Già.... dovevo immaginarmelo; – disse la serva monacale, con accento di persona seccata. – Vengono tutti a cercare della marchesa.
– Vi dà noia? – chiese don Alonzo, che aveva capito tutto il discorso della donna, sebbene proferito sotto voce.
– No, cavaliere.... – rispose ella. – È il debito mio.... Ma siccome la signora marchesa dev’essere stanca, e non potrà ricever visite....
– Se vi pregassi, buona sorella, di dirle il mio nome?... –
La gentilezza della frase e il tuono con cui fu pronunziata, toccarono il cuore della conversa, un cuore che non era forse ancora indurito come quello del Faraone.
– Non nego, – diss’ella, – che sarà utile ad ogni modo di saperlo. La signora marchesa non vorrà mica discendere alla grata per un visitatore sconosciuto.
– Voi ragionate benissimo; – replicò il vecchio gentiluomo. – Fatemi dunque la cortesia di dirle che è qui e chiede l’onore di parlarle il conte Alonzo di Quintanilla, gran razionale di Castiglia. –
La portinaia non fece nessun gesto di stupore, udendo i titoli ond’era decorato il personaggio. Aveva annunziato dei marchesi; non poteva maravigliarsi per l’arrivo dei conti. Ma rispose con un cenno abbastanza grazioso del capo, e si allontanò dal finestrino, per andare ad avvertir la marchesa.
Don Alonzo si avvicinò alla grata, dove sperava di veder comparire donna Beatrice. Due minuti erano a mala pena passati, che la marchesa di Moya si presentò a lui; non già dalla grata, ma da un uscio, che si era allora dischiuso, nel fondo del parlatorio.
– Quintanilla! – esclamò la marchesa. – Siete dunque voi? chi vi manda? Entrate, vi prego. –
Don Alonzo obbedì prontamente all’invito, seguendo la marchesa di Moya in uno stanzino attiguo.
– E voi, sorella, potete andare; – disse la marchesa, rivolgendosi alla conversa. – Fino a tanto che questo buon amico mio rimarrà qui, rimandate chiunque venisse a cercarmi. –
La conversa fece un inchino e si allontanò.
– Voi dunque ricevete molte visite, donna Beatrice? – domandò il Quintanilla.
– Tutt’altro; non ricevo nessuno; – disse la marchesa. – Ma oggi per l’appunto è capitato qualcuno, che mi ha dato gran noia. E siccome costui, venuto a Siviglia, potrebbe esserci ancora, e ritornare con qualche pretesto....
– Non ritornerà; – interruppe don Alonzo, facendo volentieri il negromante. – Io lo vedo in questo momento andare di buon trotto sulla via di Granata.
– Che cosa dite voi mai? Sapete per caso....
– Che è venuto a vedervi il marchese di Moya, vostro signore e padrone.
– Nè signore, nè padrone; almeno fino a tanto che io rimango qua dentro; – riprese donna Beatrice. – E ci rimarrò fino a tanto che.... Ma lasciamo questi discorsi. A che debbo io la sorte di vedervi, don Alonzo di Quintanilla? Chi vi manda!... il re, forse?
– Allora, – esclamò donna Beatrice, i cui occhi sfavillarono d’allegrezza, – posso essere tranquilla. Che vi mandi la regina, non lo credo.... oramai.
– Infatti, – ripigliò don Alonzo, – la regina non manderebbe due messaggeri in una volta.
– E come sapete voi che ne abbia mandato un altro?
– Ma.... lo indovino.... se pure il marchese di Moya non è venuto per conto suo. Ne sarebbe capace, del resto. –
Donna Beatrice di Bovadilla non potè trattenersi dal ridere, a quella scappata del vecchio gentiluomo.
– Ma noi perdiamo di vista l’essenziale; – diss’ella. – Io voglio sapere una cosa da voi, e voi me ne fate dire un’altra. Non ho ragioni per tacervi nulla di me, don Alonzo; ed anche vi vedo qui molto volentieri. Ma voi dovete dirmi subito perchè siete venuto a vedermi.
– Per pregarvi d’una cosa.
– In nome di chi?
– In nome mio, ma per utile.... di don Cristoval. –
A quelle parole del vecchio gentiluomo, non isfavillarono soltanto gli occhi; tutto il bel viso di donna Beatrice s’illuminò, tingendosi del color della porpora.
– Dite voi il vero, don Alonzo? e don Cristoval non ignora che siete venuto a vedermi? Sapete voi che ho sperato tanto di vederlo qui, un giorno o l’altro?
– Donna Beatrice! – osservò timidamente il Quintanilla. – Se anche fosse stato questo il suo desiderio, come potevate immaginare che egli osasse di mandarlo ad effetto? –
La marchesa di Moya abbassò pudicamente le ciglia, avvedendosi in quel punto di aver troppo parlato, e vergognandosi di un’audacia così grande, che non era neanche giustificata abbastanza dalla età del suo interlocutore, nè dalle ragioni d’amicizia che univano il cosidetto “gruppo dei cosmografi”. Ma non per niente ella era una Bovadilla, e si pentì subito della sua vergogna.
– Oh, infine! – diss’ella, crollando sdegnosamente la testa. – Voi gli siete amico, don Alonzo; e se pure egli non vi ha detto....
– Nulla mi ha detto egli; – interruppe cortesemente il Quintanilla; – molto ho indovinato io, con quel po’ d’esperienza, che è frutto naturale degli anni. Don Cristoval vi stima; più ancora che stimarvi, donna Beatrice, vi venera. Per questi suoi sentimenti, egli ha operato di questi giorni in un certo modo, che non è inteso da nessuno, a Granata; e neanche approvato.
– Mi fate fremere, don Alonzo. Che ha fatto egli mai di così grave, da aver contrario il giudizio di tante.... care persone?
– Giudicatene voi, donna Beatrice. Si era venuti a stringere il patto. Le Loro Altezze davano le navi e gli uomini per quel benedetto viaggio di scoperta. E proprio allora che si stava per raccogliere il frutto di tante fatiche, don Cristoval, tra molti diritti e privilegi che egli chiedeva, si ostinò a volere il titolo di almirante del mare Oceano.
– Ebbene; – disse la marchesa di Moya. – È tutto qui? Mi pare che le Loro Altezze non potrebbero ragionevolmente ricusargli quel titolo. Non va egli a trovar nuove terre attraverso l’Oceano?
– Sì, ma quel titolo.... è forse troppo alto.
– Dite troppo sonoro, se mai. Ma di titoli sonori non mancano esempi, in casa nostra. Del resto, è un bel titolo, e si conviene benissimo all’uffizio.
– Vedo bene, – osservò il Quintanilla, – che quel titolo piace anche a voi. Ed io che speravo....
– Che cosa?
– Che voi voleste persuadere don Cristoval a rinunziarci. Infine, non si tratta che di un titolo. I nostri sovrani non lo vorrebbero concedere, per non destar gelosie. Quando poi c’è la sostanza, che importa il titolo, sia pur bello e sonoro?
– Capisco; – disse la marchesa. – Quando c’è la sostanza!... E don Cristoval si ostina a volerlo? per qual ragione?...
– Per una ragione molto cavalleresca, in verità. Egli dice che quel titolo gli è stato dato da voi. –
Beatrice di Bovadilla non abbassò le ciglia; le inarcò, guardando fissamente il suo interlocutore.
– Ah! – esclamò. – Egli vi ha detto questo?
– Sì, questo me lo ha detto, senza ritegno, e per dimostrarmi, con un argomento trionfale, che niente lo smuoverebbe dal suo proposito.
– E allora, – ripigliò la marchesa, – abbiamo pensato di venire da Bovadilla, perchè si provasse lei a vincere l’ostinazione di don Cristoval, non è vero?
– Avete indovinato, marchesa. Lo amo, vorrei che fosse contento nella sua legittima ambizione, felice del colmo della sua gloria, svergognando i suoi detrattori, abbattendo i suoi nemici implacabili. A raggiungere questo fine, non fa impedimento che la questione di un titolo; bel titolo, ma vano, e che ad ogni modo gli verrà conferito dalla pubblica voce, quando egli ritorni dalla sua arditissima impresa.
– E da queste ragioni che voi esponete così bene, egli non si lascia convincere?
– No, niente lo smuove. O quel titolo, o nulla.
– Bene! – gridò la marchesa, dopo un istante di pausa, in cui parve raccogliere tutti i suoi pensieri a capitolo. – Andate a dirgli che ceda, rassegnandosi all’avarizia di titoli, che oggi ha il sopravvento alla corte di Castiglia. E soggiungetegli ancora che, se egli si ostina a volere quel titolo, che io gli avevo conferito, se egli rinunzia piuttosto all’impresa, da cui dovrebbe venir tanta gloria al suo nome.... io di gran cuore lo approvo.
A don Alonzo di Quintanilla parve di cascar dalle nuvole, sentendo quello strano discorso.
– Come? – esclamò. – Siete voi che gli date ragione?... Che lo esortate a star fermo?
– Non lo esorto, io; – rispose Beatrice di Bovadilla. – Voi, voi, mi avete detto che egli non si smuove. Ed io vi prego di dirgli che fa molto bene. Non dobbiamo noi confortare gli amici? Pagarli della loro fermezza di proposito, che a tutti dispiace, dicendo loro che quella fermezza piace almeno a qualcuno? Badate, don Alonzo! Io non sono egoista. Se volete essere del numero, c’è posto anche per voi.
– Sì, sì, canzonatemi! – rispose il Quintanilla. – Me lo son meritato. Bel viaggio, ed utile sopra tutto, è stato il mio, di quest’oggi! Dovevo tentare il gran colpo presso di voi, per trattenere don Cristoval.... ed ottenere questo magnifico effetto!
– Di potergli portare la mia approvazione; e vi par poco? Capisco! – soggiunse Beatrice di Bovadilla, con aria di compunzione; – ciò deve parer poco a voi; ma non parrà poco all’amico vostro, se è vero che si sia ostinato per cagion mia.
– Oh, di questo non potete dubitarne; – gridò il Quintanilla.
– E bene sia! – replicò la marchesa. – Per queste vostre parole io vi perdono tutto il resto. Ma vogliate ragionare anche voi, buon amico. La gloria di don Cristoval è certamente una gran cosa, una bella cosa, non lo nego. Ma, a parer mio, la gloria non sarebbe grande, nè bella, se non fosse conseguita in compagnia dell’onore. E laggiù, ora, vorrebbero mandarlo a trionfare dell’Oceano, dicendogli in anticipazione che egli non potrà fregiarsi col nome della sua stessa conquista! vorrebbero disonorarlo in un giorno, dopo averlo per anni ed anni abbeverato di fiele!
– Perdonate, signora; – disse timidamente il Quintanilla. – Egli andrebbe, vincerebbe la prova, riducendo i suoi detrattori al silenzio, i suoi nemici all’impotenza, e farebbe vergognare.... qualcuno, di avergli negato una così giusta onoranza. Credete voi che il re Ferdinando non sarebbe il primo a riconoscere la necessità di scusarsi con lui, e di fare onorevole ammenda? –
La marchesa di Moya assentì lievemente del capo.
– Direte benissimo; – rispose. – Questi sono ragionamenti.... da uomini. Riuscire a buon fine, è sempre stato per essi il gran punto. Ma noi donne sentiamo diversamente. Per noi, l’ottenere è molto; il meritare è assai più. Val meglio la disgrazia, quando ci sentiamo ad essa superiori, che la fortuna a cui ci sentiremmo inferiori. Anch’io, vedete, sono in disgrazia; e me ne vanto. Credete che io sia qui, ospite in un convento, a far la vita delle monache di Santa Chiara, per semplice capriccio, o per gusto? Mi hanno offesa, infamando l’amico nostro; il ciurmadore, l’avventuriero, come essi dicono. Ebbene, io non lo stimo soltanto, non lo venero soltanto, com’egli me, attraverso la vostra relazione, che mi piace di credere un pochettino attenuata; lo amo, io, e non mi ritengo dal dirvelo. Figuratevi, don Alonzo, se questa confessione mi pesa! Ho detto quel che pensavo, prima di ritirarmi dalla corte; l’ho ripetuto ancor oggi, un’ora prima che giungeste voi. Son fatta così; la sincerità è la mia divisa. Proteggevo don Cristoval Colon; non posso abbandonarlo e non voglio, quando lo abbandonano gli altri.
– Ma appunto per questo?... – gridò il Quintanilla. – Appunto per questo, voi dovreste venire a Granata.
– No, non c’intendiamo sul modo; – replicò la marchesa. – Io lo proteggo a modo mio. Non escirò più di qui, se don Cristoval non ottiene tutto ciò che ha il diritto di ottenere.
– Ma se egli partisse?...
– Dovrebbero richiamarlo. Una volta è partito, e lo hanno mandato a cercare. Rimanderanno; o nessuno mi vedrà più; morirò sotto queste volte. Soy Bovadilla yo tambien. –
La marchesa di Moya aveva ragione anche qui. Nella vecchia lingua castigliana Bovadilla voleva dir “vôlta” per l’appunto; e magari scavata nel sasso.
Don Alonzo di Quintanilla stette un pezzo senza aprir bocca. In verità, non c’era nulla da ribattere, nulla da tentare, per ridurre quella dama ostinata a più miti consigli.
– Che volete che vi dica? – diss’egli poscia, battendo le labbra e tentennando la testa. – Con voi non c’è verso di spuntarla. Ed anche il marchese di Moya ha dovuto ritornarsene sconfitto, non è vero? Ma già, bisognerebbe sapere che cosa fosse venuto a dirvi, di che cosa a pregarvi.
– A pregarmi, infatti, e in nome della regina.
– Ah, bene? – esclamò don Alonzo. – La regina, dunque, non vuole che don Cristoval se ne vada. Ecco una cosa che è buona a sapersi. E voi, donna Beatrice, non avete ceduto ad una preghiera della regina?
– Non dovevo ceder io; avrebbe dovuto cedere don Cristoval. Vogliono da lui una viltà, e da me la viltà maggiore di dargliene il consiglio. “Rinunziate, don Cristoval” avrei dovuto dir io; “rinunziate a quel titolo che io stessa vi avevo dato, e per celia.” Vedete, amico? – soggiunse la marchesa sorridendo. – Pare che il nostro don Cristoval abbia confessato alla regina quello che ha confessato a voi, che il titolo di grande almirante del mare Oceano è una mia invenzione. E ne godo; e vorrei che fosse andato a gridarlo a tutte le piazze di Granata, perfino sul terrazzo della grande moschea, come facevano i preti musulmani, quando invitavano alla preghiera i credenti. Gli uomini prudenti io li rispetto e li ammiro; quando lo son troppo mi annoiano. Egli almeno, in un punto solenne, ha saputo parlare, e parlar chiaro.
– Questa volta, se mai, era il debito suo; – rispose il Quintanilla. – Voi eravate sparita, donna Beatrice; egli non sperava di vedervi più; doveva rendervi giustizia, facendo merito a voi della vostra protezione costante.
– Ben dite, costante. Io non mi muto e non piego. Ho detto oggi a don Giovanni Cabrera: andate, e riferite alla regina che io non ritornerò alla Corte, che io non escirò di qui per vane parole, come se ne dicono alla Corte. Quando il ciurmadore, l’avventuriero, il marinaio genovese, insomma, sarà partito con la sua commissione per la spiaggia di Palos, io, se la regina crederà ancora utile la mia povera persona a palazzo, lascerò questo convento per ritornare al suo fianco; non prima. Voi, don Giovanni Cabrera, ci guadagnate un tanto, che non avete da pensare alle vostre sciocche gelosie: ed anch’io ci guadagnerò, che non avrò fatto nulla per consigliare un atto di debolezza a quell’uomo.
– Capisco che tutto è finito; – conchiuse don Alonzo di Quintanilla. – I nostri sovrani, non potendo vincere la vostra ostinazione, nè quella di don Cristoval, si guasteranno del tutto con lui. E il nostro povero amico partirà dalla Spagna per sempre. –
Beatrice di Bovadilla sospirò, e i suoi begli occhi si velarono di lagrime.
– E sia così, come Iddio vuole; – rispose ella, scuotendosi. – Non lo vedrò più. Ma ho giurato a me stessa di restare; e resterò, dovessi morirne. Già, pensandoci bene, a che serve la vita, quando non possiamo farne omaggio alle persone che amiamo? Don Alonzo, volete voi farmi una grazia?
– Sono ai vostri ordini, sempre.
– Vorrei scrivere una parola a don Cristoval. Se egli deve partire, abbia un saluto della povera Bovadilla.
– Scrivete, signora; porterò la vostra lettera all’amico.
– Grazie, don Alonzo; voi siete un cuor d’oro.
Ciò detto, Beatrice di Bovadilla andò verso la tavola, prese un foglio di carta, e con mano convulsa così scrisse a don Cristoval:
“Il nostro amico mi dice a qual punto vi abbiano messo, e che cosa vi tocchi, resistendo ad una preghiera sovrana. Fate, uomo grande, ciò che il cuore e l’onore vi dettano. Un giorno, per preghiera mia, avete rinunziato agli inviti di Portogallo, d’Inghilterra e di Francia. Siete libero, oggi. Andate, abbiate la fortuna che io vi prego, e la gloria che non vi può fallire. Io vi dimostro ciò che penso e sento di voi, non muovendomi da questo ritiro, che sarà la mia tomba, se occorre. Il mio cuore è vostro; il vostro onore è mio.”
Vergata quella lettera breve, ma chiara, la marchesa di Moya sottoscrisse per intiero il suo nome: “Beatrice di Bovadilla”: poi piegò il foglio; e lo porse al vecchio gentiluomo.
– Prendete; – diss’ella; – datelo a lui e ditegli che non badi, se in un punto si legge un po’ male. C’è caduta una lagrima.
– Sarete obbedita; – rispose il Quintanilla.
E presa la lettera, andava verso la tavola per suggellarla con la cera e il sigillo del monastero.
– No, non voglio, così; – disse Beatrice. – Anzi, desidero che la leggiate.
– Perchè?
– Perchè.... non ho segreti per voi, don Alonzo, e non voglio averne. Leggete. –
Don Alonzo obbedì, e lesse; quindi, riposta diligentemente la lettera nella sottoveste, prese la mano della marchesa e le disse:
– Beatrice di Bovadilla, voi siete un angelo. E non mi parrà di aver fatto un viaggio inutile, se ho avuto occasione di dirvelo. –
Mezz’ora dopo, Alonzo di Quintanilla aveva ritrovati i suoi uomini e rimontava in sella, per ritornarsene a Granata. D’incontrarsi da capo col Cabrera non aveva timore, poichè quegli era partito due ore prima, e doveva correre da soldato. Egli, il Quintanilla, era venuto più che da soldato, da paggio impaziente; ma poteva ritornarsene da razionale di Castiglia, com’era. E, d’altra parte, a che si sarebbe affrettato? Portava una buona lettera d’addio, ma niente di consolante all’amico.
Cioè, intendiamoci. Che cosa ne sapeva egli? La lettera di una donna che si ama, val meglio di tutte le vittorie, consola assai più di tutte le glorie del mondo. Inoltre, pensandoci bene, se don Alonzo non portava in arcione le sorti di don Cristoval, era pur giunto a sapere una cosa importante, che doveva lasciargli viva una speranza nel cuore. La regina Isabella aveva mandato a Siviglia il Cabrera; pregava Beatrice di Bovadilla a ritornare, si raccomandava a lei perchè volesse persuadere don Cristoval a rinunziare un titolo, che certamente non dispiaceva a lei di concedere, bensì al suo regale marito. Isabella, adunque, non voleva che il marinaio genovese abbandonasse la Spagna. Se la regina si doleva di vederlo partire, tutto non era perduto; qualche cosa si poteva ancora tentare. Ma quale? Don Alonzo non lo intendeva, lì per lì, lungo la strada maestra da Siviglia a Granata. L’avrebbe inteso poi, ad animo tranquillo, e a corpo riposato.
Frattanto egli portava a don Cristoval una lettera ben dolce, e una più dolce lagrima della marchesa di Moya. Non per questo, veramente, don Alonzo di Quintanilla era giunto all’onorevole ufizio di gran razionale di Castiglia. Ma gli onori sono una cosa, l’amicizia è un’altra, e passa avanti a molte. Chi intende ciò, non riderà del buon cavaliere diventato cavallante, del vecchio gentiluomo tramutato in postino.