IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
CAPITOLO XVIII.
Don Cristoval Colon aveva aspettato. Vide ritornare don Alonzo di Quintanilla, come un povero prigioniero vede apparire il carceriere che deve aprirgli le porte del carcere.
– Eccovi finalmente! – gli disse.
– Sì, eccomi; – rispose don Alonzo, facendosi avanti con una cera da funerale. – In questi giorni, nessuno è venuto?
– Sì, il Medina Cœli, e don Luigi Santangel.
– Ma.... – ripigliò don Alonzo, – dalla Corte?....
– Oh, dalla Corte, nessuno. E chi doveva venire? chi aspettavate voi che venisse? – replicò don Cristoval, con accento di profonda amarezza.
– Avete ragione! non mi opprimete; – rispose il Quintanilla, buttandosi sopra una scranna. – In verità, sia detto con tutto l’ossequio dovuto ai nostri sovrani, l’Alhambra ha ancora la mala sorte che ci ha lasciata Boabdil. Non ne indovinano una. E neppur io, vedete, sono stato più fortunato di loro.
– Perchè dite voi ciò? Che cosa avete tentato?
– Eh, un certo colpo!... Ma l’ho fatta bassa, pur troppo, e quasi non sarebbe da parlarne. Sono stato.... indovinate dove?... sono stato a Siviglia.
– Ah! – gridò l’altro, balzando in piedi, e guardando ansiosamente il vecchio gentiluomo. – L’avete veduta?
– E chi, di grazia? chi dovevo vedere, la cui sola immagine vi fa saltar dalla sedia?
– Lei.... lei.... Non mi fate dire, don Alonzo! e non mi tenete alla tortura così!
– Eccolo, l’uomo forte! – esclamò il Quintanilla. – Non sa domandarmi altro che questo: l’avete veduta? Eppure, io ero andato per trovare una via.... alle Indie, a quelle benedette Indie occidentali, che corrono il rischio di non farsi scoprire mai più. Ed egli, scambio di domandarmi della nostra povera impresa....
– Non ispero più niente dalla Spagna; – interruppe don Cristoval.
– E avete centomila ragioni; – ripigliò don Alonzo. – Per altro, mio caro, potrete sempre dire, se vorrete esser giusto, di aver trovato in questa terra disgraziata i vostri amici più caldi. –
Don Cristoval si accostò al vecchio gentiluomo, con le braccia distese.
– Alto là! – gridò il Quintanilla, mentre si lasciava abbracciare. – Mi spiegazzate qui sotto un foglio, che mi è stato consegnato per voi.
– Un foglio! per me! da chi?
– Vi risponda la carta; – disse il Quintanilla, porgendogli la lettera che aveva tratta allora dalla sottoveste.
Don Cristoval aveva afferrato il foglio, lo aveva aperto, e lo leggeva e lo rileggeva, con gli occhi velati di lagrime.
– Ebbene? – disse il Quintanilla, dopo avergli dato il tempo di leggere una terza volta. – L’avete veduta, la macchia dello scritto? –
– Che macchia?
– Ma, che so io? Ci dev’essere una parola che si legge meno bene delle altre.
– Sì, eccola infatti. La carta era forse bagnata.
– Sfido io! c’era cascata una lagrima. –
Don Cristoval guardò lungamente la traccia di quella lagrima, e s’intenerì in quella contemplazione divota.
– E perchè non la baciate? – soggiunse il Quintanilla. – Animo, via; non fate cerimonie. Ho potuto portarvi la lettera; voglio almeno poter dire in compenso che è stata accolta con giubilo, con gratitudine, con ardore di desiderio. –
Don Cristoval non si fece pregare due volte, e coperse di baci il foglio su cui era caduta la lagrima, e su cui si era posata la mano della marchesa di Moya.
– Vi sembro un bambino, non è vero? – diss’egli. – Ma sono così, e non posso nascondere i sentimenti che suscita nel mio cuore il ricordo di quella donna celeste. Il mio amore è puro, don Alonzo, voi lo sapete; ed io non credo che sia una colpa l’amare com’io amo. Partirò da queste terre, e per sempre; ma il saluto di lei mi sarà largo conforto a tutto ciò che ho patito finora. –
Don Alonzo si abbandonò sulla sedia, con le spalle appoggiate al dorsale di cordovano, e rimase in quella postura lungamente pensoso, mentre don Cristoval leggeva per la quinta volta la lettera della marchesa di Moya.
– Quando andrete? – domandò finalmente don Alonzo.
– Se permettete, amico mio, oggi stesso.
– Non oggi, vi prego; aspettate almeno fino a domattina. Non già ch’io voglia più trattenervi; – soggiunse il Quintanilla. – Approvo la vostra risoluzione; nel caso vostro non mi diporterei altrimenti. Ma non volete vedere un’ultima volta don Luigi Santangel, che vi ama al pari di me? il duca di Medina Sidonia, che vi stima, e vi ha sempre difeso?
– È giusto, non bisogna essere ingrati; – rispose don Cristoval, rassegnato. – Partirò domattina. –
L’ultima sera che il marinaio genovese doveva passare a Granata, nella casa ospitale del Quintanilla, fu triste per lui e per i pochi ma schietti amici che il suo alto ingegno e il suo nobile carattere gli avevano meritati. Quando fu l’ora di separarsi, non mancarono le lagrime. Quei degni gentiluomini si erano avvezzati alla compagnia di don Cristoval; non erano meno infiammati di lui per i vasti disegni che egli esponeva con tanto fervore; non potevano senza dolore vederli sfumare così miseramente, andar perduti per l’onore di Castiglia. Credevano in lui; conoscevano gl’inviti che egli aveva ricevuti da altre Corti: erano certi che ogni altro sovrano sarebbe stato più magnanimo del re Ferdinando.
– E dove andrete? – aveva chiesto il Medina Sidonia.
– A Cordova, per ora, dove prenderò con me il mio piccolo Fernando. Da Cordova partirò subito per il convento della Rabida, dov’è il mio Diego. E di là, accompagnato dai miei figliuoli e dalle mie morte speranze, andrò, signor duca, dove Iddio misericordioso vorrà. Il mio disegno sarebbe di giungere alla corte di Francia, per offrire i miei servizi e i miei disegni a quel re.
– Vi auguro fortuna pari alla costanza, don Cristoval; – disse il duca di Medina Sidonia, accomiatandosi. – Verrò domattina a darvi il buon viaggio. –
E tenne parola, il nobile personaggio, dolente di non poter fare per il marinaio genovese altra dimostrazione di amicizia. Sappiamo già quali riguardi lo trattenessero dallo armare egli stesso e offrire a Cristoforo Colombo i tre navigli, che questi credeva bastanti alla sua spedizione.
Il sole era già alto sull’orizzonte, quando l’ospite italiano si separò dagli amici alle porte di Granata. Essi lo avevano abbracciato, singhiozzando; poi, per non dare spettacolo ai viandanti e ai guardiani delle porte, si erano allontanati rapidamente, rientrando in città. Anche don Cristoval aveva dato di sprone alla sua cavalcatura, e andava verso Santa Fè, senza voltarsi più indietro. Triste chiusa al suo soggiorno in Ispagna, era quella. Quanti bei sogni svaniti! E quanti ricordi d’umiliazioni patite vagheggiando quei sogni! Intanto, le poche gioie dell’amicizia gli erano avvelenate da quella separazione; e gli fuggiva per sempre dall’animo ogni speranza di rivedere una donna adorata. Anch’essa, povera Beatrice di Bovadilla, donna illustre e potente, caduta in disgrazia per il suo gran cuore, condannata a trarre una vita solitaria, oscura, infelice, e per lui!
E dell’altra, nessun pensiero? Nessuno. Avete mai considerato come sia valente il cuore a liberarsi dalle cose che gli dan noia La prima sua cura, naturalmente, è quella di dimenticarlo, se può. Ritornano le immagini moleste, ritornano ad ogni tanto; e il cuore, costante nella sua pazienza, altrettante volte discaccia le visitatrici importune. Son esse che si stancano, in processo di tempo, e spariscono, non lasciando del loro passaggio che una oscura memoria, un dolor sordo, a cui tutti, come a tante altre cose della vita, possiamo avvezzarci. S’intende che il fatto è cosa, quando il cuore sia forte e sano; se no, povero a lui, soggiace alla continua molestia, intristisce e si strugge. I medici vi diranno quante malattie fisiche si possano accompagnare a questi turbamenti morali del viscere disgraziato. Ma ordinariamente può dirsi che sia nel nostro organismo una grande virtù, la quale ci è stata provvidamente collocata dalla madre natura, per custodirlo dal soverchio dei mali. Ficcate nella povera carne umana un corpo estraneo, come seppellireste una moneta sotto una zolla di terra; gli effetti saranno nella carne umana prontissimi. Le fibre irritate dall’insolito contatto rifuggono; ma perchè non possono ritrarsene di continuo, gemono i loro umori, facendone involucro e prigione all’intruso; e a quell’involucro, a quella prigione, incominciano tosto a dare, lentamente, ma sicuramente, una via. Così fa il cuore con gli argomenti di dolore; si restringe, soffrendo; li involge negli acri aromi che gemono da tutte le sue fibre irritate; li fascia nelle bende dell’oblio; li abbandona al loro destino. Son quelli i suoi morti, che il tempo seppellirà, perchè il tempo può esser lento nell’opera sua, ma è pietoso ad un modo per tutti.
Il pensiero di Beatrice Enriquez era stato da principio una grande afflizione per don Cristoval. Ma il cuore si era vendicato, trattando quella immagine di donna in quella guisa che essa aveva meritato. Orgogliosa, non ligia che alla fortuna, o alle lusinghe della fortuna, Beatrice Enriquez aveva disprezzata la sventura, si era allontanata dall’uomo infelice, come da un povero appestato. E non doveva esser dolente, oramai, dalla certa disgrazia di quell’uomo. Ma dove era essa in quei giorni? Ancora a Siviglia? o a Granata? Per saperlo, sarebbe bisognato domandarne a don Francisco di Bovadilla. Il quale, a farlo a posta, era più rabbioso, più bilioso, più intrattabile che mai. Per un uomo che doveva essere succeduto a Cristoval nel governo di quel cuore femminile, la cosa era strana davvero. E non era neanche da credere che egli si fosse stancato, o per sazietà di possedere, o per disperazione di ottenere. Le relazioni del Bovadilla con gli Enriquez non potevano essere interrotte, se a don Alonzo di Quintanilla giungevano frequenti indizi di una protezione costante, che si tradiva con nuovi favori del re Ferdinando per quella famiglia di nobili decaduti. Oramai si poteva dire che a don Inigo Enriquez fruttasse meglio il ricordo di un feudo posseduto dai suoi maggiori, che non il feudo medesimo, se fosse ritornato in poter suo, com’egli da principio pretendeva.
Queste cose sapeva il razionale di Castiglia, perchè ordini e largizioni passavano spesso per le sue mani. Ma di questo non aveva mai fatto parola a don Cristoval, tenendosi prudentemente le sue notizie per sè. Non è conveniente parlare ad un uomo della donna che egli ama; è sconvenientissimo parlargli della donna che ha amata, e che lo ha fatto soffrire. Così anche l’amicizia pietosa aiuta all’oblio dei passati dolori: i quali vanno a finire in quel pozzo dove il buon Dio gitta le lune vecchie, forse in pascolo all’anguilla dell’eternità, che la più parte del tempo è costretta a beccarsi la coda.
Per intanto, don Cristoval non doveva trovare quella donna a Cordova. E don Francisco di Bovadilla era presso la Corte a Granata.
S’imbatterono in lui, nei pressi dell’Alhambra, il Quintanilla e il Santangel, mentre ritornavano ai loro uffizi quotidiani, ma ambedue con poca voglia di lavorare, tristi e abbattuti com’erano.
Il commendatore di Calatrava, per contro, doveva essersi alzato di buon umore, quel giorno. Vide i due personaggi, e si fermò, contrariamente alle sue consuetudini, davanti a loro, nel bel mezzo della strada, con aria di voler attaccare discorso. La parola del commendatore prometteva di essere umana, poichè era sorridente l’aspetto. Ma del sorriso di don Francisco non bisognava fidarsi. Era un sorriso giallo, traente al verde, come la sua faccia biliosa.
– Ebbene, signori, – diss’egli, incominciando, – è dunque partito, l’amico?
– Sì, – rispose freddamente il Quintanilla, – partito.
– Ah, sia lodato il cielo! – esclamò don Francisco. – Era tempo che quel molesto sognatore di nuovi mondi ci si levasse dai piedi.
– Vi dava dunque tanta noia, don Francisco? – replicò il Quintanilla, seccato.
– A me, sicuramente, come a tutti.
– Fatte le debite eccezioni; – osservò don Luigi Santangel.
– Giustissimo, fatte le debite eccezioni, – ripigliò il Bovadilla, ghignando; – ma tanto poche, da non contare nemmeno. Infatti, signori miei, a che sono servite?
– A poco, in verità; – rispose don Luigi. – Ma che cosa ci volete fare? Non è dato sempre di vincere, e non si ha tutti l’autorità che bisognerebbe, per far trionfare la ragione.
– La ragione! la ragione! Come se foste sicuri di averla voi altri, contro il giudizio dei dotti!
– L’avrete voi, don Francisco; – entrò a dire il Quintanilla; – tenetevi dunque contento della nostra sconfitta. Se ciò basta alla vostra felicità, potete dire di essere il più fortunato cavaliere di Castiglia. Dio vi assista, signore. –
E tiratosi un poco in disparte, don Alonzo di Quintanilla ripigliò la sua strada. Don Luigi Santangel fece a sua volta un mezzo inchino, e tenne dietro all’amico, lasciando il commendatore di Calatrava a rider verde da solo.
– Ah! – mormorò don Luigi, venendo al fianco dell’amico. – È troppa, l’audacia del Bovadilla, è troppa.
– Così penso ancor io; – rispose il Quintanilla, studiando il passo.
– E bisognerebbe fargli tornare in gola il suo ghigno; – ripigliò don Luigi Santangel.
– È la mia opinione; – rispose don Alonzo. –Ma come? Io vi domando il come.
– Noi, – replicò don Luigi, – non abbiamo fatto ancora tutto ciò che potevamo, per quel povero amico.
– Credete?
– Ne sono persuaso, e ne ho vergogna pari alla rabbia. –
Entravano frattanto nel cortile dell’Alhambra, avviati alle scale dei piani superiori.
– In questo avete compagni; – replicò don Alonzo.
– Or dunque, bisogna fare.... bisogna tentare qualche cosa; – disse don Luigi.
– Tentiamo. Ma io ve ne avverto: non ho più idee.
– Ne ho una io, don Alonzo. Volete venire con me? –
Giungevano in quel mentre alle logge del primo piano. Di contro a loro era l’ingresso degli appartamenti reali. Il Santangel mosse difilato a quella volta, e si fermò davanti al gentiluomo di guardia.
– Dà udienza la regina, quest’oggi? – gli domandò.
– Sì, cavaliere; – rispose il gentiluomo. – C’è per l’appunto il governatore.
– Da molto tempo?
– Da una mezz’ora, a dir poco. Ma ecco, si apre l’uscio. L’udienza è finita, e il conte di Tendilla se ne ritorna. –
Don Luigi di Santangel si volse all’amico Quintanilla e sotto voce gli disse:
– Vedete? è Dio che lo vuole. –
Poi, rivolgendosi al gentiluomo di guardia, riprese:
– Vorreste voi, don Ramirez, annunziare a Sua Altezza che due umili suoi servitori chiedono di essere ammessi alla sua presenza, per cosa grave ed urgente? –
Il giovane gentiluomo sorrise alla domanda, e cortesemente rispose:
– Hanno sempre cose urgenti da dire, il gran razionale di Castiglia e il gran ricevitore delle entrate ecclesiastiche d’Aragona; per loro non ci dev’esser mai anticamera. –
Ciò detto, salutò, e si mosse per andare ad annunziare i due personaggi.
– Che cosa sperate voi, don Luigi? – chiedeva intanto il Quintanilla all’amico. – Tanto si è già parlato alla regina! Di che nuovi argomenti pensate voi di farvi forte con lei? –
Don Luigi di Santangel non ebbe tempo di rispondergli. L’uscio si apriva in quel punto, e don Ramirez, affacciatosi sulla soglia, diceva ai due visitatori:
– Entrate, signori; Sua Altezza vi aspetta. –
Ed entrarono; prima il Santangel, che aveva il suo segreto; dietro di lui il Quintanilla, che non sperava niente di bene.
La regina Isabella stava seduta presso una finestra, davanti al suo telaio da ricamo. Era quello un suo vezzo, nel ricever la gente. L’augusta donna, che maravigliava i suoi sudditi con l’altezza del sentire e la profondità dei disegni, con la perspicacia rara che soleva portare in tutte le più gravi trattazioni per la grandezza e la prosperità del reame, era felice di mostrarsi donna, nelle cure gentili della vita domestica. Si può far tutto, basta volerlo, era la sua massima prediletta. E che sapesse, potesse, volesse far tutto, lo dimostrava anche qualche volta, mostrandosi vestita di ferro, sul suo cavallo di guerra, a capo dell’esercito, come un’Amazzone antica.
– Siate i benvenuti, signori; – disse Isabella, invitandoli con un grazioso gesto a farsi avanti. – Che grave cagione vi ha qui condotti, ed insieme? Pericola il tesoro, per abbondanza di denaro, o per carestia? –
Isabella celiava; ma la celia le fu interrotta sul labbro, dal vedere le due facce compunte dei due gentiluomini. E si alzò, allora, e con aspetto mutato proseguì:
– Don Luigi di Santangel.... don Alonzo di Quintanilla.... qualche disgrazia?... Parlate.
– Veniamo, – disse il Santangel, – per raccomandare a Vostra Altezza la causa di don Cristoval Colon; o piuttosto, poichè egli è partito, la causa della Spagna, dell’onor suo e della vostra corona.
– Partito! – esclamò Isabella. – E quando?
– Stamane, per Cordova, donde si recherà a Palos, per andarsene coi suoi figliuoletti in Catalogna, e di là proseguire per Francia.
La regina rimase un istante pensosa; poi disse:
– E senza darcene avviso; senza prendere congedo da noi!
– Perdoni Vostra Altezza; – rispose don Luigi di Santangel, – Aveva avuto il congedo con l’ultimo rifiuto di Vostra Altezza, alle sue ultime domande.
– Non parlate soltanto di me; – replicò la regina; – fummo in due a rifiutarle, se mai. Ed erano domande.... che io lascio giudicare a voi, Santangel, a voi, Quintanilla. Ho protetto don Cristoval Colon; gli ho dato prove della mia benevolenza. Ho acquistato il diritto di dire agli amici suoi che erano domande esagerate.
– Vostra Altezza ci ha permesso di darne giudizio; – rispose don Luigi di Santangel. – Possiamo noi darlo, dopo ciò che Vostra Altezza ne dice?
– Lo potete; vi dò licenza di parlare come credete meglio.... per l’onore della Spagna e della nostra corona.
– Ringrazio Vostra Altezza per me e per l’amico mio Quintanilla. Soffrite dunque, nobile signora, che da buoni e leali servitori vi parliamo con libertà e schiettezza degne di voi e della causa che sosteniamo. È gran meraviglia per noi di vedere che Vostra Altezza, avendo sempre dimostrato animo grande in ogni più vasta e pericolosa intrapresa, di poveri argomenti si dia oggi pensiero, trattandosi di favorirne una, in cui è così poco il risico, mentre ne potrebbe venire tanto servizio a Dio, tanta esaltazione alla sua Chiesa, tanto incremento e gloria alla corona di Spagna. Ecco ora don Cristoval Colon, che se ne va a proporre altrove la sua magnanima impresa, ed altri principi godranno dei benefizi e della gloria che i reali di Spagna non avranno voluto. Perdoni Vostra Altezza l’audacia grande; ma noi pensiamo ancora che dolore non dovrà essere per voi, di aver respinte le domande di don Cristoval Colon, quando udrete tutta Europa risuonare del nome di lui, per maraviglia delle fatte scoperte; quanto il popolo vostro non dovrà lagnarsi, e non ingiustamente, pur troppo, d’essere privato di tanto bene e di tanta gloria, solamente per il rifiuto di un titolo e di qualche parte degli utili che il navigatore genovese domandava, in premio del suo ardimento.
– Orgoglio e cupidigia! – disse Isabella. – Non saran questi i sentimenti di don Cristoval, che io avevo immaginato e che mi pareva di conoscere tanto diverso. Ma egli ha operato come se questi sentimenti fossero i suoi.
– Questo si è detto, e creduto; – replicò prontamente don Luigi. – Ma Vostra Altezza non lo pensa. E non potrà in questo particolare trovar giuste le argomentazioni dei nemici di don Cristoval, se considera che egli non pretende nulla, da esser tenuto per tracotante ed avaro. Che cosa chiede egli, infatti, che non sia giusto? Chiede di esser pagato delle sue fatiche, se viene a capo di mantenere ciò che ha promesso. E promette di regalare alla Spagna isole, regni, mari, tesori, popoli nuovi. Se a nulla riesce la sua spedizione, nulla avrà di ciò che domanda. E per dimostrare com’egli abbia fede nell’impresa, oltre ad avventurarci la sua vita, si offre di entrare a parte nella spesa. E ciò si chiama non aver modo nè misura nel chiedere?
– È giusto, ciò che voi dite, Santangel; – rispose la regina. – Ma lasciamo le pretese di benefizi. Che potete voi dire degli onori che domanda, dei titoli, dei privilegi?
– Che essi non sono punto superiori a ciò che la corona di Castiglia può concedere a chi va per la gloria sua ad una mirabile impresa; a chi per la potenza sua va a piantare il vessillo di Isabella e di Ferdinando su tante terre sconosciute; a chi in nome di Isabella e di Ferdinando, nostri eccelsi padroni, dovrà trattare con principi e re di lontane regioni. Almirante o pilota, non sarà don Cristoval il ministro, il rappresentante della vostra autorità? un raggio della vostra luce, spinto di là dall’Oceano? E dalla povertà d’un pallido raggio, come si riconoscerebbe la forza del sole dond’egli emana? Pensi ancora Vostra Altezza che questi onori, oggi negati, non basterebbero poi, quando la scoperta fosse fatta; che non varrebbero nulla, che sarebbero come non conferiti, se la impresa non riescisse a buon fine, e don Cristoval Colon dovesse portarseli con sè, misero conforto, negli abissi del mare sconosciuto.
– Mi fate fremere! – gridò Isabella, inorridita. – Povero don Cristoval!...
– La pietà è cosa divina; – ripigliò don Luigi; – e son divine le vostre parole, o signora. Così potesse udirle l’amico nostro, che n’avrebbe grande conforto e largo compenso a tante umiliazioni patite!
– Ma non per colpa nostra, Santangel; – gridò la regina.
– D’altri, s’intende; – replicò don Luigi; – d’altri, che sono molti, e il cui nome è legione. Nominerò primo don Fernando di Talavera.
– L’arcivescovo di Granata.... il mio confessore.... vi prego di ricordarlo.
– Se Vostra Altezza mi ha concesso piena libertà di discorso, per la gloria e l’onore della corona di Castiglia, è ben necessario che io dica tutto l’animo mio; – rispose con rispettosa fermezza il Santangel. – Non è il Talavera che ha presieduta la famosa giunta di Salamanca? e l’altra ancora, che ha dato un nuovo parere contrario ai disegni del navigatore genovese? Non è il Talavera che fino a questi ultimi giorni, dopo aver gridato contro la possibilità dell’impresa, si è scalmanato a gridare contro l’orgoglio e la cupidigia dell’avventuriero, dell’impostore? A buon conto, questo impostore, questo avventuriero, non domanda, a prezzo d’incerti benefizi, che di mettere a rischio la vita; e si offre di entrare a parte nel carico della spesa. I dotti hanno parlato! Che dotti? L’unico veramente degno di tal nome gli si è mostrato favorevole; il Deza, che è per giunta un teologo, e che, per quanto risguarda le opinioni religiose, ha pur dalla sua il cardinale Mendoza, gran primate di Spagna.
– Siate giusto, Santangel, – osservò la regina. – L’arcivescovo di Granata non insiste sulle obiezioni teologiche.
– Ma nelle scientifiche perdura, e senza avere neanche l’apparenza dell’autorità. Perdoni l’Altezza Vostra; ma in materia di cosmografia, di geografia, di navigazione, crederemo tutti più facilmente a don Cristoval, che ha tanti studi e tanta pratica del mare, da non lasciarsi muovere agli allettamenti di immaginose supposizioni. Taccio di tutti gli uomini di mare, dei più provetti capitani di Moguer e di Palos, che la pensano come lui; voglio ammettere per un istante che il tentativo di don Cristoval possa anche andare fallito; non per questo ne verrebbe alcuna vergogna alla corona di Castiglia, come il Talavera pretende. Tutto il contrario è in quella vece da credere; perchè, se ad altri principi è venuta lode grandissima solo dall’aver tentato un passo sulla via dell’Oceano, quanta gloria non ne verrebbe all’Altezza Vostra, se osaste correrla arditamente, per iscoprire uno dei maggiori segreti dell’universo? Nè si dirà che la cosa è troppo incerta, perchè in argomenti di tanto rilievo, anche un dubbio meriterebbe d’esser chiarito; e per ritrovare la verità, bene sarebbe usata ogni somma di denaro. Quella che domandava don Cristoval era così meschina, che un ricco privato, il Medina Cœli, il Sidonia, od altri molto minore di quei due, poteva tentarla a tutto suo carico.
– Perchè non l’ha tentata nessuno?
– Per rispetto all’Altezza Vostra. Permettete, nobile signora, che ciò sia, e il primo ad offrirsi sarà Luigi di Santangel.
– Voi?
– Io, sì; io, dieci, venti volte meno ricco dei Medina, io son disposto a mettere le sostanze mie nell’impresa di don Cristoval.
– È una bella prova di amicizia e di fede, la vostra!
– Ma non più grande di quella che ho data, parlando con tanta libertà ad Isabella di Castiglia. La regina, del resto, è magnanima, e può ascoltare lo schietto linguaggio di un leal servitore. Ella può ancora ascoltare la sua propria magnanimità, non ritenendosi per picciole ragioni dallo intraprendere la più grande opera che mai si offrisse a portatori di corona. –
Isabella di Castiglia stette un istante perplessa. Ma la generosità innata nell’animo suo ebbe presto il vantaggio sui dubbi della prudenza.
– Cavaliere di Santangel, – diss’ella, con solennità di accento regale, – non sia mai detto che un suddito d’Aragona o di Castiglia vinca in magnanimità la regina. Ho risoluto; dovessi dare i diamanti e tutte le gemme della mia corona in pegno ai Giudei, la impresa di Cristoval Colon si compirà, nel più breve termine di tempo. Mandate frattanto sulle traccie del fuggitivo, e venga egli a ricevere, nel titolo e nei privilegi che domanda, il castigo della sua fuga. –
Don Luigi di Santangel piegò a terra il ginocchio, prese la mano che la regina gli concedeva, e la baciò ripetutamente, con devota effusione di cuore.
Isabella sorrideva; le sue guance s’erano tinte di quel rossore che torna così bene al volto della donna; i suoi occhi scintillavano d’allegrezza.
– Don Alonzo! – diss’ella, volgendosi al Quintanilla. – E voi non avete detto nulla? Avevate dunque paura di noi?
– No, mia eccelsa signora; – rispose don Alonzo – Parlava cosa bene, e persuadeva tanto don Luigi Santangel!
– Ma voi farete un’altra cosa, signor taciturno – ripigliò la regina. – Andrete dal nostro sposo, e gli riferirete fedelmente tutto ciò che ha detto l’amico vostro, per convincere la nostra ragione, e persuadere la nostra coscienza.
– Ahimè! – disse don Luigi. – Il re, forse....
– Il re, – interruppe Isabella, – non verrà meno alla promessa della sua donna, non dubitate, signori. Sarà quel che sarà, ma Cristoval Colon avrà le sue navi. Così Dio ci assista, come noi assisteremo quel nostro buon servitore nel suo generoso proposito. Vedo e credo, in questo momento, ciò che voi vedete e credete. Già, in ogni cosa che si faccia, è necessario avere la fede. –
Mezz’ora dopo, un messaggero di don Alonzo era in arcioni e correva a spron battuto sulla strada di Cordova. Raggiunse don Cristoval Colon al ponte di Pinos, due leghe discosto da Granata, che tutto mesto e cogitabondo proseguiva lento la sua via. Il navigatore genovese lesse il biglietto che gli mandavano gli amici, e a tutta prima stette alquanto in forse, sapendo per troppo lunga esperienza quanto alla Corte di Castiglia facilmente si usasse trovare ad ogni momento nuove dilazioni e difficoltà. Ma informato dal messaggero intorno alla deliberata volontà d’Isabella, voltò la sua cavalcatura e fece ritorno a Granata.
Il re Ferdinando aveva sentita male la risoluzione della moglie. Parlò dell’erario, che le recenti guerre avevano ridotto a mal punto, e tentò di affievolire con questo argomento l’ardore d’Isabella. Ma la regina aveva promesso; non poteva, non voleva dare più indietro. Alle spese del viaggio di scoperta avrebbe provveduto ella del suo. Ricordava un’altra volta le sue gioie; le avrebbe date in pegno, per ritrovare la somma di denaro occorrente al bisogno.
Di accettare l’offerta del cavaliere di Santangel, non era il caso davvero. Che si sarebbe detto dei sovrani, se avessero, in cosa che toccava l’onor loro, preso a prestanza da un suddito? Don Luigi propose allora di prendere il denaro delle casse d’Aragona. E il re concesse, ma patteggiò regolarmente la restituzione della somma. Il lettore non ignora che i due regni, di Castiglia e d’Aragona, nominalmente uniti per il matrimonio d’Isabella e Ferdinando, erano tuttavia separati nella amministrazione, con erario distinto, giustizia, e tutto l’altro che si comprende sotto il nome di governo.
– Siete voi, Isabella, – aveva detto il re Ferdinando, – siete voi che tentate l’impresa. Ne sia tutto di Castiglia e Leone l’onore. L’Aragona non era persuasa; l’Aragona non c’entra. Riesca o non riesca l’impresa, in capo ad un anno, nelle casse d’Aragona rientri il denaro versato. Per contro, amando noi in tutte cose la giustizia, ogni terra che si scoprirà sull’Oceano, sia esclusivo possesso di Castiglia e Leone. –
Questo razzo finale di liberalità e di giustizia doveva dissimulare la spilorceria del consiglio. Ma con razzo, o senza, la risoluzione del re Ferdinando restava sempre una piccineria. Il marito d’Isabella di Castiglia era fatto così; per averlo diverso, sarebbe bisognato rifarlo; e di rifarlo non francava la spesa. Egli aveva meditata la sua piccola vendetta, per non essere stato consultato in quell’ultima fase dei negoziati; e la mandava ad effetto in quel modo.
Isabella era grande e buona. Tante cose aveva già perdonate il suo cuore! Perdonò anche quella, e nella forma più eletta di perdono, fingendo di non avvedersi dell’offesa.
– Accetto di grande animo; – diss’ella; – al rischio e al benefizio, sarà la corona dei miei maggiori quella che tenterà l’impresa, col suo nuovo almirante. E potremo dire, dopo la scoperta: Por Castilla y por Leon, nuevo Mundo hallò Colon. Vedete? senza volerlo, ho fatto due versi. –
Don Cristoval giunse quella sera istessa a Granata, e fu subito ricevuto in udienza dalla regina Isabella. Non si parlò del passato, se non per dirgli che tutte le condizioni sue erano accettate. Anche il re Ferdinando, o fosse veramente pentito o fingesse, fece a mala ventura buon viso, e si mostrò più che cortese, affabile, col nuovo almirante di Castiglia.
Le condizioni di don Cristoval dovevano ancora esser poste in carta. Isabella ne diede tosto l’incarico al notaio di Corte. Ma don Cristoval ci aveva qualche cosa da aggiungere, e timidamente ne faceva cenno alla regina.
– Sappiamo, – rispose ella, mozzandogli le parole sulle labbra, – sappiamo quello che voi desiderate, cioè di entrare per l’ottava parte nel carico delle spese. Questa condizione sarà scritta nel nostro chirografo, come la maggior concessione che noi possiamo fare a voi, don Cristoval Colon, nostro Almirante del mare Oceano. Come desiderato, vogliamo trattare da pari a pari con voi.
– Vostra Altezza ha l’animo grande; – rispose don Cristoval. – Ma io, oltre a quella condizione, che già avevo accennata.... vorrei dimandare a Vostra Altezza un’altra condizione.... o piuttosto, non una condizione.... una grazia. Io, caduto ieri in disgrazia, oggi riammesso nel favore di Vostra Altezza, non posso dimenticare....
– Voi non potete dimenticare; – interruppe la regina, con una severità di parola a cui contrastava il sorriso delle labbra, – ed io non voglio ascoltare. Della vostra ultima condizione parleremo un altro giorno, quando io sia ritornata.
– Vostra Altezza parte? per un lungo viaggio?
– Oh, per restar fuori due giorni. Vado a Siviglia, don Cristoval, per sciogliere un voto del mio cuore.... nel monastero di Santa Chiara. Che volete? Tutti mi abbandonano, gli amici più cari; e gli uni mando a trattenere sulla via della fuga; gli altri vado a cercare io medesima. Non avete pensato più, voi, a quella povera Bovadilla, che si è tanto adoperata per un certo personaggio di nostra conoscenza, fino ad allontanarsi da noi, perchè il suo protetto non otteneva alle prime tutto ciò che gli era piaciuto di chiedere?
– Mia nobile signora! – gridò egli, trepidante di commozione. – Ma io, per l’appunto....
– Zitto, don Cristoval! – interruppe ancora la regina. – Non togliete ai miei consigli il merito della spontaneità. Quanto alle vostre condizioni, – soggiunse ella, con un risolino malizioso, – ne parleremo al mio ritorno.
– Oh, nessuna condizione, – rispose egli, giubilante. – Non ho più nulla da chiedere.
– E neanche da far sapere a Bovadilla? – ripigliò la regina, abbassando la voce. – Non vorrete voi incaricarmi di dire una parola per voi alla vostra animosa protettrice?
– Sì, – rispose egli, turbato, – di dirle che qui, nel mio cuore, il suo nome resterà eternamente impresso.... accanto a quello di Vostra Altezza.
– Eh! – disse Isabella di Castiglia, crollando il capo, in atto di chi abbraccia un partito. – Posso contentarmene anch’io. Ma vuol sentire un gran caldo, il mio nome, là dentro, e in quella compagnia. Non arrossite, don Cristoval, non vi turbate; – soggiunse la regina, mettendosi sul grave; – un grande amore, nobilmente sentito e gelosamente custodito nell’anima, non ha mai fatto male a nessuno. Esso, a buon conto, fa vivere. –