Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO XIX.   La vigilia di un gran giorno.

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CAPITOLO XIX.

 

La vigilia di un gran giorno.

 

Per tutta la Corte di Castiglia era un gran discorrere del trattato conchiuso dai sovrani con Cristoval Colon, per il suo viaggio di scoperta. La notizia era giunta improvvisa come uno schianto di fulmine, e di fulmine a ciel sereno, mentre quella moltitudine di cortigiani s’aspettava tutt’altro, e uno di essi, don Francisco di Bovadilla, parlando per tutti, aveva potuto dire con mal celata soddisfazione “Finalmente, ce lo siamo levato da’ piedi.” A lui, per l’appunto, a lui, appena si sparse la nuova, corse sbigottito l’arcivescovo di Granata. Il commendatore di Calatrava sapeva già tutto, ed era più sbigottito di lui. Come era venuto a capo il nemico di vincere quella battaglia nelle ore pomeridiane, egli che la mattina era partito per Cordova, con intenzione di non ritornare mai più? Qualche altro santo, certamente, e potentissimo, aveva interceduto per lui. Ma quale, se i Medina, il Quintanilla, il Santangel, avevano per tanto tempo inutilmente patrocinata la causa dell’amico? La marchesa di Moya, dal canto suo, era lontana da un mese, e in disgrazia; Il santo, anzi la santa, non poteva esser lei.

– Ne capite niente, voi? – aveva chiesto il Talavera.

– Io niente, e voi? – aveva risposto il Bovadilla.

E avevano almanaccato un pezzo, senza venire a capo di nulla. Intanto, che mazzata tra testa e collo per tutt’e due! Ma peggio per il Bovadilla, che quella mattina stessa si era fatto lecito di canzonar gli amici di don Cristoval sulla lor mala ventura.

La mattina seguente, altra novità. Beatrice di Bovadilla non doveva esser più in disgrazia, se la regina partiva espressamente da Granata, per recarsi a visitare la sua dama di palazzo. L’arcivescovo di Granata era presente alla partenza; non era stato richiesto di consiglio; non aveva avuto da far altro che presentare i suoi atti d’ossequio e trinciare la sua benedizione a mezz’aria. Del trattato con Cristoval Colon non gli avevano parlato neanche in quel punto; egli si era attentato di domandarne.

Gliene entrò in quella vece il re Ferdinando, quando Isabella si fu messa in viaggio.

– La regina nostra signora così ha voluto; – disse l’un Ferdinando all’altro. – Il pensiero è nobile, ad ogni modo, e si è dovuto approvarlo.

Giusto, oh, giustissimo! – rispose il Talavera, a cui non si dava altra ragione del fatto. – La regina ha un gran cuore. Che donna! che donna! –

E preso commiato dal re, l’arcivescovo di Granata aveva creduto necessario di spiare il passaggio di Cristoval Colon, dell’uomo a cui arrideva la fortuna.

Permettete che io mi congratuli con voi, don Cristoval, figliuol mio dilettissimo; – gli disse. – È un gran rischio, questo viaggio, non lo negherete neppur voi; un gran rischio per tutti. Voi ci giuocate la vita; la corona di Castiglia mette a repentaglio la fama. Comunque, poichè Iddio si è manifestato, noi dobbiamo aver fede. A lui riconduciamo tutti i nostri pensieri, almirante del mare Oceano, e non si parli più del passato. –

Don Cristoval baciò l’anello pastorale e fece un inchino. Di ritornare sul passato non aveva tempo voglia. Così in apparenza fu fatta la pace. Ma su per giù son fatte così tutte le paci di questo povero mondo; la stanchezza le accoglie e l’inerzia le mantiene.

Non si pacificò egualmente don Francisco di Bovadilla. Ben altre ragioni gli mantenevano in cuore lo sdegno e il maltalento contro il marinaio genovese. Era venuto a capo di stornare da lui l’ambiziosa Cordovana, aveva favorita in ogni modo la famiglia di lei e reso con regali concessioni un po’ di lustro alla casata degli Enriquez; ma non era altrimenti riescito a vincere il cuore della sua bionda tiranna, che tutto accettava, come se le fosse dovuto, e niente dava in ricambio. L’amicizia, veramente, non gli era negata; ne era prodigo anche il vecchio hidalgo, che, per mostrarsi degno di un tanto protettore, aveva smesso perfino di alzare il gomito e di passar le serate fuori di casa. Il suo buon amico Bovadilla gli aveva proposto di passare da Siviglia a Granata; e don Inigo si era affrettato ad accettare il partito. La cosa andava benissimo; gli Enriquez, finalmente, erano di Granata, e padroni, un tempo, di largo territorio nella Vega; ottimo dunque il partito che proponeva don Francisco, di recarsi a vivere colà, di restituirsi alla sede dei loro antenati. E don Francisco, per aver guadagnato di esser sempre vicino agli Enriquez, non poteva fare una visita a casa loro; senza ritrovarsi l’hidalgo tra’ piedi.

Caro don Francisco! – diceva l’hidalgo al suo protettore, battendogli amorevolmente sulla spalla, col diritto che la vecchiaia. – Siete buono, voi, a tenerci un pochettino di compagnia. L’amicizia è una gran bella cosa; peccato che non ci sia un vincolo più stretto fra noi. Quella vostra commenda di Calatrava, per esempio, sarà un grande onore, ma dev’essere anche una gran noia per voi. Ma fatene una, potente come voi siete a Corte!... ottenete di essere prosciolto dai voti, e sposate una donna che vi renda felice. –

Il discorso traditore era fatto a don Francisco, in presenza di Beatrice Enriquez. La bellissima bionda attendeva al suo ricamo, non levando gli occhi da quello. E don Francisco sospirava; modo facile di dire e non dire, ma che non può servir sempre, quando un Inigo Enriquez ritorni spesso sull’argomento, e la sua bella figliuola sia ad aspettare che parliate più chiaro.

Ma che cosa si erano messi in testa gli Enriquez? Era un conto fatto tra il padre e la figliuola, o una canzonatura che gli si dava a lui, don Francisco di Bovadilla, commendatore di Calatrava? Comunque fosse, era un duro castigo, un supplizio, da mettersi a pari con quello di Tantalo.

Ed uno di quei giorni che egli era più inviperito, non gli avevano domandato se fosse vero che i sovrani di Castiglia si erano risoluti di nominare almirante il navigatore genovese? Gli toccavano proprio dove più gli doleva. E don Francisco rispose che non ne sapeva niente, che dovevano esser chiacchiere, come se ne erano fatte già tante, per finir sempre in nulla. Ma quella volta, pur troppo, non erano chiacchiere; da troppe parti giungevano le notizie, e si soggiungeva di certi patti che don Cristoval Colon aveva messi e la corona di Castiglia accettati.

– E lasciate che li accetti! – gridò il commendatore di Calatrava, cedendo ad un moto d’impazienza. – Se a Corte son matti, noi non ci abbiam nulla a vedere. Bene vedranno essi, che cosa ne seguirà, quando centinaia di buoni marinai castigliani si saranno inabissati con quel matto impostore nei gorghi dell’Oceano.

Credo ancor io che sarà questa la fine dell’impresa; – aveva osservato la bionda Beatrice.

– Oh brava! diteglielo voi, a vostro padre. Oggi ammattiscono tutti, per seguire l’esempio dei nostri sovrani. –

Così aveva parlato don Francisco di Bovadilla, un po’ rabbonito dalle parole di Beatrice Enriquez, ma non ancora abbastanza per aver voglia di restare a discorrere con quello stupido pezzente, che s’incocciava a restare in casa tutte le ore del giorno. E fatte poche altre parole, se ne andò, il burbero commendatore di Calatrava, per ismaltire la sua rabbia all’aperto.

Un altro, a cui la fortuna di don Cristoval doveva tornar ostica, era il marchese di Moya, cognato di don Francisco, e, nella sua qualità di gran ciambellano, costretto ad esser testimone quotidiano delle cortesie dei sovrani verso il navigatore genovese. Ma il vecchio Giovanni Cabrera sopportava quella contrarietà con maggior calma di spiriti. Un’altra sventura, e più grave, lo aveva abbattuto e disfatto. La partenza di sua moglie dalla Corte lo lasciava solo, e in una certa maniera ridicolo nel cospetto della gente. Il vecchio gentiluomo si sentiva un gran vuoto dintorno; era come il padre, mezzo brontolone e mezzo amoroso, che vede per la prima volta la sua casa deserta, poichè l’unica figliuola è andata a far parte di una nuova famiglia.

Per quel vecchio, Beatrice di Bovadilla era poco più di una bambina; la luce, ad ogni modo, l’allegrezza e la vita della sua casa. Che cosa non avrebbe egli dato, per farla ritornare! E un giorno aveva sperato di muoverla, di toccarle il cuore, andando a lei con un messaggio della regina. Per , il vecchio gentiluomo non avrebbe chiesto nulla, non avrebbe posto condizioni. Senza dirlo, si sarebbe arreso a discrezione, come un altro Boabdil. Ma ella, quantunque pregata da Isabella di Castiglia, non aveva voluto saperne di ritornare alla Corte, di ripigliare il suo posto, dama della regina, accanto al ciambellano del re.

E la regina era andata in persona, al monastero di Santa Chiara, per vincere la ritrosia della sdegnosa Bovadilla. Il suo viaggio era stato alquanto più utile di quello del marchese di Moya, perchè Bovadilla si era almeno commossa alla vista della regale visitatrice. Ma ella non si era altrimenti risoluta di escire dal monastero.

– Più tardi, – aveva detto; – non ora.

– E perchè non ora? – domandò Isabella. – Ti dorrà dunque di ritornare alla Corte, accompagnata dalla tua regina? Buona, ma ferma nelle tue idee fino all’ostinazione, ti ho sempre conosciuta; saresti diventata un po’.... come dire?...

– Un po’ matta? – suggerì Beatrice di Bovadilla. – Dica pure, Vostra Altezza. Tanto, incomincio a persuadermi ancor io di non aver sano intieramente il cervello. Mi vengono alle volte delle idee così strane! Immagini Vostra Altezza che io senta l’attrazione del precipizio, come si narra nella storia di quell’Arabo che voleva cogliere un fiore nato nella parete interna di un pozzo. Se vengo a Granata, e lo vedo.... non so chi mi tenga....

– Il fiore! – esclamò la regina. – Ma quello è nella favola moresca.

– Non il fiore, ma lui.... don Cristoval; – disse Bovadilla. – Vostra Altezza si è degnata di riferirmi le sue parole. Orbene, se lo vedo, se gli parlo, infiammata come sono per la sua grande impresa, mi guardi Iddio.... sarei capace di vestirmi da marinaio, e d’imbarcarmi ancor io. –

Rideva, così dicendo; ma d’un riso stridente, da cui trapelavano tutte le amarezze di parecchi mesi di meditazioni solitarie.

Anche la regina si sforzò di sorridere, volgendo in celia la confessione di Bovadilla.

– Ma bene! – diss’ella. – Ecco un’idea più pazza delle altre. E saresti anche capace di tagliarti quei bei capelli neri?

– Le monache di Santa Chiara hanno fatto pure il sacrifizio dei loro. E talune di esse li avranno avuti più fitti, più morbidi e più lucenti dei miei. Ah, mia buona e dolce signora! esser uomo, che fortuna! Creda Vostra Altezza; se mai dovrò tornare al mondo un’altra volta, vorrò rinascere uomo.

– Per intanto, farai una grazia a me, ritornando a Granata.

– Sì, ma non ora; non mi chieda Vostra Altezza di ritornare.... prima che don Cristoval Colon sia partito dalla Corte.

– Ho capito, – disse la regina, – tu dubiti ancora.... e di noi!

– Oh, non è questo; – gridò Bovadilla. – Quantunque.... se Vostra Altezza....

– Ti permettesse, non è vero? – interruppe Isabella. – Anche tu vuoi domandarmi libertà di parola. La domandano tutti, in questi giorni, gli amici di don Cristoval. Agli altri la concedo; ma non a te. Sappi, Bovadilla cattiva, che ho promesso una cosa; il navigatore genovese andrà a cercar le sue Indie per ponente; ci andrà ad ogni costo; hai capito? ci andrà. Se non ti basta, aggiungo questa altra notizia: appena io sia di ritorno a Granata, si sottoscriveranno i capitoli della nostra convenzione con Cristoval Colon; dopo di che, egli partirà per la spiaggia di Palos.

– Ebbene, – disse Bovadilla, prendendo la mano della sua signora, e baciandola, – si degni Vostra Altezza di farmi avvertita a mala pena don Cristoval sia partito per la costa; ed io subito farò ritorno a Granata.

– Lo prometti?

– Lo giuro, per l’amore che porto alla mia dolce sovrana. –

Isabella baciò sulle guance la sua dama di palazzo, e partì dal convento di Santa Chiara, per far ritorno a Granata. Rimasta sola, e andata a chiudersi nella sua cameretta, Bovadilla si abbandonò piangente su d’una scranna, con la faccia nascosta sul copertoio del letticciuolo monastico.

Dio mio! – esclamò, tra i singhiozzi. – Non vederlo più!... Ma l’ho giurato a voi; voglio avere questa forza. Amore, infine, è dolore. –

Tre giorni dopo la visita della regina Isabella al monastero di Santa Chiara in Siviglia, la Corte era tutta raccolta nella cittadella di Santa , davanti a Granata. Il luogo era stato scelto dalla regina, come per trarre il buon auspicio dal nome e dai ricordi che si collegavano a quell’antico campo dell’esercito Castigliano. Don Cristoval era particolarmente invitato, essendo stata indetta per lui l’adunanza.

Nel cospetto delle Loro Altezze e di tutti i dignitari ecclesiastici, militari e civili, Juan de Coloma, segretario del Re, lesse il capitolato che di suo pugno aveva già scritto. Incominciava così: “Nel nome della Santa Trinità ed eterna Unità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, tre persone realmente distinte in una essenza divina, che vive e regna per sempre senza fine, e della beata Vergine gloriosa Santa Maria nostra Signora, Madre di Lui, la quale noi tenghiamo per Signora e Avvocata in tutte le opere nostre; e ad onore e riverenza di Lei e del beato Apostolo Signore San Giacomo luce e specchio della Spagna, patrono è conduttore dei re di Castiglia e di Leon; e similmente, ad onore e riverenza di tutti gli altri Santi e Sante della Corte Celeste.” Seguiva un lungo ragionamento sull’essenza di Dio e sulla sua rappresentanza in terra, che è la persona del re; quindi si scendeva alla perorazione: “E perchè tra gli altri guiderdoni e rimunerazioni che i Re possono fare a coloro che bene e lealmente li servono, havvi pur questa di onorarli e sublimarli tra gli altri della stirpe loro.... vogliamo che per questa nostra lettera di privilegio.... sappiano tutti che ora sono e saranno di poi, come noi, don Ferdinando e donna Isabella, per grazia di Dio, Re e Regina di Castiglia, di Leon, di Aragona, di Sicilia, di Sardegna, di Cordova, di Corsica, di Murcia, di Jahen, dell’Algarve, di Algesira, di Gibilterra e delle isole Canarie, Conte e Contessa di Barcellona, Signori di Biscaia e di Molina, duchi di Atene e di Neopatria, Conti di Rossiglione e di Cerdania, Marchesi di Oristano e di Goceano, abbiamo veduto certi capitoli firmati dei nostri nomi e suggellati del nostro sigillo, fatti in tal guisa.”

E qui, come il savio lettore intenderà, venivano i rispettivi capitoli, ad ognuno dei quali era soggiuntoplase a sus Altesasautenticato sempre dalla firma del loro segretario. Chiudeva la carta il paragrafo: “Sono conceduti e spediti con le risposte delle Altezze Vostre nel fine di ogni capitolo. Nella Villa di Santa della pianura di Granata, il giorno diciassette aprile, l’anno della natività di N. S. Gesù Cristo mille quattrocento novantadue. Yo el Rey. Yo la Reyna. – Por mandado del Rey e de la Regna: Yohan de Coloma.”

Non bastava ancora; il giorno 30 di aprile erano spedite le lettere patenti, per cui don Cristoval Colon era riconosciuto Almirante, Viso rey, y Governador de las islas y tierra firme, con tutti i privilegi, diritti e benefizi che aveva domandati per e per gli eredi suoi, por juro e derecho hereditario para siempre jamas.

Da ultimo, era data a don Cristoval una lettera credenziale da presentare al Gran Cane, al Prete Janni, e a qual si fosse altro potentato Orientale, ai cui territori egli potesse arrivare, navigando per ponente. La lettera diceva così:

Ferdinando e Isabella al Re....

“I sovrani spagnuoli hanno sentito che V. S. e li suoi sudditi portano grande affetto ad Essi e alla Spagna. Sanno inoltre che V. S. e i suoi sudditi desiderano assaissimo di aver notizie dalla Spagna; mandano pertanto il loro almirante don Cristoval Colon, il quale dirà loro che essi sono in buona salute e perfetta prosperità. – Granata, 30 aprile 1492.”

La nota comica è in tutte le cose umane; così avendo saviamente disposto la provvida natura, per darci qualche ora di buon umore in questa valle di lagrime. il Gran Cane del Cattaio, il Prete Janni di Etiopia, dovevano leggere le credenziali dei reali di Spagna. Leggiamole noi, e passiamo, seguitando il navigatore genovese, che solamente il 12 di maggio potè prender commiato dalla regina e dal re, per andarsene a Palos, il cui porto era assegnato per luogo di riunione delle navi destinate al grande viaggio.

Fin dal 30 di aprile, ordine era stato spedito alle autorità di quella spiaggia, di dare gli opportuni provvedimenti, perchè due caravelle entro dieci giorni fossero pronte a prendere il mare, con le loro marinaresche, a piena disposizione del nuovo Almirante. E poichè egli stimava insufficienti al bisogno due navi, gli era lasciata ampia facoltà di allestirne una terza. In pari tempo, tutte le autorità di Andalusia dovevano provvedere viveri, munizioni, e ogni cosa che bisognasse; libero d’ogni balzello tutto ciò che a quello scopo fosse comprato o venduto; gravi pene minacciate a chiunque si rifiutasse di obbedire. Ai marinai era fissato il medesimo soldo di quelli delle navi da guerra, con quattro mesi di paghe anticipate. Per tutto il tempo della spedizione, e due mesi dopo il ritorno, sospesa ogni azione civile e criminale contro coloro che prendessero parte al viaggio. Le tre marinaresche dovevano prestare all’Almirante quella medesima obbedienza che avrebbero prestata alle Loro Altezze, essendo egli il loro rappresentante; e dovevano seguirlo in quella direzione che a lui piacesse, salvo a spiaggie di Portoghesi sulle coste occidentali dell’Africa. Un certificato di buon servizio, rilasciato al ritorno dell’Almirante, avrebbe liberato ogni uomo del resto degli obblighi suoi verso la Corona, per fatto della sua capitolazione d’imbarco.

Non dimentichiamo un bel tratto della regina. Due giorni innanzi di dar commiato a don Cristoval, Isabella firmò un decreto con cui nominava paggio del figliuol suo, Infante don Giovanni, erede presuntivo della Corona, l’adolescente don Diego Colon, figlio del signor Almirante del mare Oceano, vicerè, governatore delle isole e terraferma.... di da scoprire. L’assegno annuo, fatto al nuovo paggio, era di novemila quattrocento maravedis.

Il 12 di maggio, adunque, don Cristoval Colon esciva da Granata per andarsene a Palos. Prima di scendere a quel porto, fece naturalmente una sosta al convento della Rabida, dove quei frati lo accolsero a gran festa, rallegrandosi della fortuna di lui come di un loro proprio trionfo. Il dotto padre guardiano, don Juan Perez di Marcena, colui che primo lo aveva raccolto ed ospitato al suo arrivo in Ispagna, lo accompagnò egli stesso e lo presentò agli abitanti di Palos, nella chiesa di san Giorgio, dove un regio notaio, con tutte le formalità consuete, al cospetto degli alcadi e dei giudici del luogo, lesse l’ordine dei due sovrani, che comandava alla città di armare e di mettere a disposizione di Cristoval Colon, nuovo almirante, le due caravelle.

I magistrati di Palos si dichiararono pronti all’obbedienza. E così fecero, dopo la rispettiva lettura dell’ordine regale, i magistrati della vicina città di Moguer.

Ma non era anche finito il periodo delle difficoltà. Vinta la guerra dei grandi, bisognava vincere i dubbi, le ritrosie, le paure degli umili. Che viaggio era quello, a cui si sarebbe andati con quell’uomo? Si doveva solcare su fragili legni quel mare che nelle carte nautiche del tempo era indicato col nome di Mare tenebrosum; le cui acque, per conseguenza, più s’andava innanzi, e più diventavano fosche, riboccanti di mostri. E che mostri, per san Giacomo maggiore! Alcuni di essi, se si doveva credere alle carte degli Arabi, mettevano fuori dalle acque certi artigli lunghi lunghi, che afferravano le navi e le tiravano nell’abisso. Si narrava anche di strani uccelli, grossi cinquanta volte come il più grosso avvoltoio, che s’aggiravano per quei paraggi, piombando sulle navi malcapitate, sollevandole fino alle nuvole, e sfracellandole poi, col lasciarle ricadere sugli scogli di cui era seminato quel mare. E a tanto pericolo voleva esporre quell’uomo temerario i poveri marinai di Moguer e di Palos?

Il padre Juan Perez era certamente un sant’uomo, e degno della massima venerazione. Ma egli, a buon conto, non prendeva imbarco per quella audacissima impresa. Perciò le sue esortazioni non facevano sugli animi la buona prova che egli si riprometteva, predicando ogni giorno sulle calate del porto. Così passava il tempo, senza che gli ordini reali fossero eseguiti. Si era a mezzo giugno, e di caravelle non si vedeva pur l’ombra. L’autorità non poteva essere così audacemente disconosciuta; e un nuovo ordine sopravvenne, con la data del 20 giugno, ingiungendo a tutti i magistrati di Andalusia d’impadronirsi con la forza di qualunque nave stimassero adatta al viaggio di don Cristoval, costringendo con la forza piloti, uomini d’albero e soldati, ad imbarcarsi su quelle navi, per seguire il nuovo almirante dovunque a lui piacesse di andare.

Giovanni di Peñasola, ufficiale della casa reale, fu spedito con ordini perentori a stimolare quelle popolazioni marittime. Gli erano assegnati per suo stipendio dugento maravedis al giorno; e dovevano pagarglieli le due città ribelli al comando. Ma queste, altre pene minacciate ottenevano l’effetto desiderato; riducendosi tutto alla cattura della caravella nominata la Pinta, appartenente a certi Gomez Rascon e Cristoval Quintero, armatori di Palos. Fortuna volle che il buon Giovanni Perez di Marcena e l’amico suo, il fisico Garcìa, toccassero il cuore di Martino Alonzo Pinzon, altro armatore e capitano di navi, ed uomo di grande autorità nel paese.

Martino Alonzo Pinzon, amicissimo del Garcìa, aveva viaggiato nelle acque italiane; era stato dianzi fino a Roma, aveva visto il Papa, ed anche, per caso, il bibliotecario del Papa. Uomo di mare, aveva ragionato di cose del mare; gli era anche occorso di accennare ad un certo navigatore italiano, che era in Ispagna, e proponeva di andar per mare a rintracciar l’isola Antilla di Aristotile, e quella di Cipango, descritta da Marco Polo. Il bibliotecario allora gli aveva fatto vedere il libro in cui Marco Polo descriveva i luoghi visitati, nel suo maraviglioso viaggio, ad anche un codice greco in cui era toccato dei viaggi periodici, stabiliti ai tempi di Salomone, e ritentati sotto i primi imperatori romani, dal mar Rosso alla terra di Ofir. La vista di quei libri aveva fatto colpo nell’animo di Martino Alonzo Pinzon. Uomo di poche lettere, doveva credere nell’autorità dei libri, assai più che non ci credano coloro che li scrivono. Infiammato da quella fede che i libri gli avevano ispirata, Martino Alonzo ritornava in patria, mentre don Cristoval Colon stentava tanto a ritrovare due navi e due marinaresche, per prender finalmente il largo, trovar nuovo Mondo o affogare.

– Chi è che non crede alla possibilità dell’impresa? – aveva detto Martino Alonzo Pinzon, sulla calata del porto di Palos. – Chi è che parla di mostri che ingoiano le navi, e di uccelli che le sollevano in aria? Siete uomini da aver paura, voi? o bambini da trastullare coi racconti della balia? Andate da don Cristoval Colon, e prendete imbarco con lui, teste vuote! O se non volete prendere imbarco con lui, prendetelo con me, che accetterò di navigare sotto i suoi ordini.

– Farete questo, Martino Alonzo? – chiedevano i marinai, stupefatti.

– Come io vi dico, sicuramente. E vado, di questo passo che vedete, a cercare il nuovo almirante, per mettere a sua disposizione una delle mie caravelle, la mia persona.... e la mia poca esperienza. –

La diceva poca, il signor Martino Alonzo Pinzon; ma egli ben sapeva che nessuno la teneva per poca. Lo stimavano tanto, che tutti in breve ora si convertirono alla sua fede, specie quando seppero che egli aveva fatto quello che prometteva. Martino Alonzo Pinzon si era presentato all’almirante, gli si era profferto compagno, ed era stato accolto a braccia aperte. Con lui si profferivano subito aiutatori i fratelli suoi, Francesco Martino e Vincenzo Yanez, anch’essi capitani arditi ed esperti; l’ultimo dei quali fornì del suo la terza caravella, chiamata la Nina, mentre la seconda, intitolata Gallego, era fornita dalla stessa città di Palos. Parenti ed amici dei Pinzon non tardarono a scriversi marinai; quali per cieca fede in essi, quali per non parer da meno dei primi.

Non ci fermeremo alle piccole difficoltà che seguirono ancora, come quella di un timone accomodato alla Pinta, per modo che al primo urto di mare dovesse spiccarsi dalla poppa. Scoperta l’alzata d’ingegno con cui qualche timido marinaio voleva prepararsi l’occasione di un pronto ritorno, fu incominciato con altri uomini più animosi il lavoro. Finalmente, le tre caravelle erano pronte. Sulla Gallego, provveduta dalla città di Palos, prendeva imbarco l’almirante, dopo averne mutato il nome in quello di Santa Maria, e fatto dipingere Gesù crocifisso nel mezzo della bandiera.

Delle tre caravelle, una sola, la Santa Maria, era coperta d’un ponte, con due castelli, da poppa e da prora. Le altre due non avevano che un piccolo ponte, da poppa e da prora; nel resto erano scoperte. E con quei tre gusci di noce, uno dei quali, la Nina, non portava che vele latine, Cristoforo Colombo si avventurava sul mar tenebroso, argomento di terrore per tutti.

Con l’almirante s’imbarcarono le primarie autorità della spedizione: Diego de Arana, grande alguazil; Pietro Gutierrez, ragioniere generale; Rodrigo Sanchez di Segovia, revisore dei conti; Rodrigo di Escovedo, regio notaio; Bernardino di Tapia, istoriografo; Luigi de Torres, ebreo convertito, dotto in molte lingue, e perciò interprete designato. Piloti, cioè luogotenenti di vascello, erano Pier Alonzo Nino, Bartolomeo Roldan, Sancio Ruiz, Giovanni de Cosa. Scudieri dell’almirante erano Diego Mendez, Francesco Ximenes Roldan e Diego di Salcedo. Tra ufficiali e soldati non erano a bordo che sessantasei persone, la più parte di Siviglia e della provincia di Huelva; non mancavano due genovesi, due portoghesi, un inglese, un irlandese, e un abitante dell’isola di Maiorca. Nessuno, a bordo della Santa Maria, era nativo di Palos.

Di Palos o di Moguer furono tutti a bordo della Pinta, con Martino Alonzo Pinzon, i cui piloti erano Francesco Martino suo fratello, Giovanni di Hungria suo cugino, e Cristoval Garcìa Xalmiento Medico di bordo era Fernando Garcìa, il cosmografo amico dei frati della Rabida, che volle dare, partendo anch’egli, una testimonianza di fiducia a Cristoforo Colombo e di riconoscente amicizia a Martino Alonzo Pinzon. Si erano anche imbarcati sulla Pinta i due proprietari della nave, Gomez Rascon e Cristoval Quintero. In ogni impresa, anche arrischiata, ma che costi denaro, c’è sempre chi corre il rischio, per tener dietro al proprio denaro. Tra ufficiali e marinai erano sulla Pinta trenta uomini, non uno di più, non uno di meno.

Tutti di Palos erano a bordo della Nina, comandata dal terzo dei Pinzon, Vincenzo Yanez. E contando lui, non si andava oltre i ventiquattro uomini. Tirate le somme: tutta la spedizione che doveva dare un nuovo Mondo all’antico, non contava che centoventi persone.

Allestita ogni cosa per la partenza, gli uomini si disposero all’imbarco. Ma prima, seguendo l’esempio dell’Almirante, si recarono alla chiesa di San Giorgio, dove confessarono i loro peccati e ne ebbero l’assoluzione. Cristoforo Colombo ricevette il cibo eucaristico dalla mano del suo protettore don Juan Perez di Marcena, che fino all’ultimo stette fuori del convento, per utilità dell’amico; poscia, stimolati i marinai, che erano tutti alle cure degli ultimi saluti, degli abbracci e dei pianti domestici, salì a bordo delle caravelle, per accertarsi co’ suoi occhi che niente mancasse; da ultimo si ridusse nel castello di poppa della Santa Maria, per prendere qualche ora di riposo. Egli giustamente pensava che quella sarebbe stata la sua ultima notte di sonno tranquillo, fino a tanto non approdasse alla sua terra promessa.

Ma il sonno fu lento a giungere, per la grande commozione dell’animo. L’Almirante sognò per un pezzo ad occhi aperti, vedendo davanti a la interminata distesa dell’Oceano.

Domani, dunque! – mormorava tra il navigatore genovese. – Verrò a te, oscuro brontolone di enigmi per i sapienti d’ogni tempo, di paure eterne per il volgo ignorante. O tu inghiottirai il mio corpo, o strapperò io il tuo segreto, per vantaggio di tutti. Hai tu una zona di frangenti che i navigli non possono varcare? o di alghe fitte, in cui restino impigliati? Li vedremo ora, questi avanzi favoleggiati dell’Atlantide di Platone. Vedremo i mostri terribili, di cui ti hanno popolato le fantasie turbate degli Arabi. Vedremo la tua isola delle sette città, che fugge sempre sull’orizzonte, agli occhi del navigante deluso. Quanta caligine sugli spiriti umani! Se indizi di terre e di popoli strani ci son venuti liberamente di , perchè dovremmo noi trovar la strada impedita, e sempre vane le immagini della terra lontana? –

Il pensiero del giacente rimase muto per un tratto; ma gli occhi suoi guardavano sempre fissi nell’ombra.

– È laggiù, la grande isola; – proseguiva; – Antilla di Aristotile, o Cipango di Marco Polo, è laggiù, e non dovrebbe sfuggirmi. Qual gloria per me, dopo tante umiliazioni! Ma sono io degno di tanta fortuna? Che ho fatto io, misera creatura, per meritare dal cielo la grazia di cogliere un premio che nessuno ha osato mai di sperare? Possono le grandi opere esser compiute da uomini di cui non sia puro lo spirito? Ed è puro, il mio? Non l’hanno offuscato le ambizioni vane, le ire infeconde, i piccoli rancori e i piccoli amori? L’ombra densa del peccato non si è troppo aggravata sulla mia coscienza? E basterà il pentimento, basterà l’assoluzione del ministro di Dio a dissiparla? a fare che ciò che è stato non sia? Signore Iddio! santi miei tutelari! ho peccato, sì, ma molto ancora ho sofferto, ed ho come il re David contrito lungamente il mio cuore. Un’immagine cara mi torna troppo spesso alla mente. È anche questa una colpa? Ho taciuto, almeno, ho sempre nascosto il tormento dell’anima mia. Un sorriso di quella donna, un solo sorriso, mi avrebbe fatto tanto felice! E non ho cercato quel sorriso; son fuggito, fuggito come un vile davanti al pericolo. Signore Iddio, offro a voi misericordioso il pensiero di quella felicità a cui ho rinunziato, ben sapendo che agli occhi vostri sarebbe stata una colpa. E voi, padre e signore di tutte le creature, gittate la mia inutile vita negli abissi di quel mare, ma non ricusate l’anima mia, che è piena di ammirazione e di desiderio per tutte le grandi cose create e collocate da voi sotto la vôlta dei cieli. –

 



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