Anton Giulio Barrili
Le due Beatrici

LE DUE BEATRICI

CAPITOLO XX.   Sulla spiaggia di Palos.

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CAPITOLO XX.

 

Sulla spiaggia di Palos.

 

Era la mattina del venerdì 3 agosto dell’anno 1492, giorno memorabile nella storia del mondo civile, poichè in quel giorno le tre caravelle, che portavano Cristoforo Colombo e la sua fortuna, dovevano scioglier le vele dalla spiaggia di Palos.

Ancor prima dell’alba, il lido era gremito di gente: uomini, donne, vecchi e fanciulli, tutta insomma la popolazione di Palos; a cui s’erano aggiunte molte famiglie della vicina città di Moguer, e molte della città e dei dintorni di Huelva. Ognuno aveva congiunti od amici da salutare e da piangere. Non era infatti un addio dei soliti, a cui, tra i rammarichi della separazione, sorride la speranza del facile ritorno. Tutti quei poveri marinai, quali presi per forza, quali trascinati dall’esempio dei Pinzon, andavano ad affrontare un pericolo di vita, un pericolo tanto più grave, tanto più spaventevole, quanto più si ascondeva nel buio delle cose ignote. E si piangeva, alla spiaggia, e si aspettava che le tre caravelle sferrassero dalla riva dell’Odiel, per mandare un ultimo bacio, un ultimo grido dell’anima a quei marinai, a quelle vittime sventurate d’un comando reale, e dello stravagante disegno di un pazzo. Sarebbe ritornata, quella povera gente, alle sue sconsolate famiglie? L’Oceano era fosco, e mugghiava; con quella sua voce sorda e monotona pareva risponder di no alle domande formate nei cuori, non ancora articolate dalle labbra.

Poc’anzi, prima di salire a bordo della Pinta, Martino Alonzo Pinzon aveva fatto uno di quei discorsi brevi e sugosi che persuadevano assai più di quelli del buon padre francescano don Giovanni Perez di Marcena. Il frate diceva troppo spesso e volentieri: “confidate in Dio”; con che lasciava credere che ci fosse da far poco assegnamento sulle forze e sull’esperienza degli uomini. Martino Alonzo in quella vece diceva, tra burbero e sarcastico: “Avete paura, teste vuote? Non vedete che parto io? Mi avete mai veduto partire, per non tornare mai più?” E rideva, d’un suo riso formidabile, e faceva certe spallucciate, che guai a chi ci fosse capitato sotto. Ridevano gli altri alle sue risate, e per si rinfrancavano un poco. L’uomo è un povero animale come tutti gli altri, e in certi momenti val meno degli altri. Nei punti difficili della vita vuol esser trattato da bestia, magari battuto; non mai compatito, non mai lisciato; o se mai, lisciato a contrappelo.

Con Martino Alonzo Pinzon si erano imbarcati gli ultimi ufficiali della spedizione. E ad un fischio di segnale, che gli diceva esser tutti gli uomini a bordo, l’almirante aveva dato, nel nome di Gesù Cristo, l’ordine di sciogliere i provesi da terra e di salpare le ancore. Per qualche minuto, nel silenzio universale, si erano sentite cigolare le gomene; poi le caravelle ad una ad una prendevano cammino, cedendo all’impulso della corrente. Esse erano state fin allora ormeggiate alla foce dell’Odiel, un piccolo fiume che scorre accanto alla città di Palos, e muovevano verso l’isolotto di Saltes, che divide in due bocche la foce del fiume, per aspettare laggiù la brezza mattutina, quanta ne occorreva a gonfiar le vele e prendere il largo.

L’alba frattanto imbiancava gli estremi lembi del cielo, facendo spiccare sull’orizzonte le antenne delle navi e illuminando sulla spiaggia le pallide facce degli spettatori. Anche il buon padre Marcena era , con parecchi dei suoi frati. Aveva le lagrime agli occhi, e cercava di nasconderle, traendosi sulla fronte il cappuccio. Ma non erano lagrime di dolore, le sue; erano lagrime di commozione, inni muti di gratitudine al cielo, poichè finalmente il grand’uomo, in cui egli aveva riposta la sua fede, raggiungeva i suoi fini, coronando con le allegrezze della partenza sette anni di aspettazione affannosa, di speranze ad ogni istante deluse, di amarezze trangugiate a goccia a goccia, di umiliazioni e di stenti.

Il lido, dalla insenatura del porto fino alla foce del fiume, era tutto gremito di popolo. Le parlate erano diverse, secondo i luoghi donde tutta quella gente era venuta. Ma i discorsi, pur troppo, si accordavano tutti in una nota di tristezza e di compianto. Povera gioventù d’Andalusia, come andava a finir male! Che follìa era stata quella dei reali di Castiglia, che mettevano tante vite in balìa d’un solo, il quale aveva delle speranze, sì, ma fors’anche faceva dei sogni, e nel fatto, poi, non sapeva dire dove sarebbe andato a parare! Povera gioventù d’Andalusia, rubata ai suoi cari, alla sua patria, per andar ludibrio ai venti e pascolo ai mostri dell’Oceano! E , di parola in parola, di lamento in lamento, ogni cosa cresceva, ogni cosa si sformava alla vista e alla fantasia. L’Oceano, non mai tentato da alcuno degli antichi e dei moderni navigatori, era una continuazione di quel mare che vedevano dalla spiaggia di Palos; ma le sue acque, in quella mattina, parevano più nere del solito; non si voleva più ricordare che fossero state navigate in parte, almeno fino alle Canarie, a Madera, alle Azzorre. E tutta quella povera gioventù era condannata a perire, senza speranza di vederne ritornare un manipolo. E per la partenza sua, per la sua morte sicura, erano spopolate le terre per molte miglia all’ingiro, quantunque non fossero che cento venti le persone imbarcate.

Ma così lavorano le fantasie popolari. Intorno a Troia si affollavano i Greci a centinaia di migliaia; e quando li mieteva la peste, cadevano a miriadi, come le mosche. Poi, quello che si teme, si vede accadere; è accaduto senza rimedio. E , sulla spiaggia di Palos, non si sentivano che lagni e singhiozzi; mancavano le imprecazioni all’autorità, sebbene fosse ragionevole il credere che in mezzo alla calca si nascondessero i servitori del bargello, pronti a legare e a condurre in prigione i troppo linguacciuti detrattori del governo.

Per l’onore di quel popolo, non mancavano neanche gli animosi, che intendevano le nobili audacie e sapevano lodarle.

– Che cosa significano questi pianti da femminette? – gridava un vecchio nostromo. – Perchè avete tanta paura voi, mentre i vostri, laggiù, non mostrano di averne? Credete proprio che il Genovese sia un pazzo, egli che ha navigato tanti anni ed ha fatto conoscere il suo valore ai primi personaggi dello Stato? Credete proprio che sia un ignorante, uno scemo, il nostro Martino Alonzo Pinzon, che ha sentiti i disegni di quell’uomo, e si è risoluto di seguirlo, insieme coi suoi fratelli, mettendo nell’impresa la sua pelle, e la borsa? Andate , siete voi altri che non sapete nulla di nulla, e parlate perchè avete la bocca, e state al mondo perchè c’è posto. Infine, siete gente di mare, o non siete? Quante occasioni di perder la vita non ci sono tutti i giorni per noi, quando usciamo al largo per la pesca delle acciughe, o per quella dei tonni? Il vento che soffia di , facendo imbarcar l’acqua fino al capo di banda, non è lo stesso vento che incontreranno quei giovanotti, di qua dalle Canarie, ed anche di ? E poi, sentite, io voglio dirne una; si vive una volta sola; e per quella volta sola bisogna saper vivere, da uomini coraggiosi, per farsi onore in faccia al mondo e non meritare che tornino i Mori, come una volta, a bastonare i Cristiani, come se fossero della razza maledetta che ha messo in croce nostro signor Gesù Cristo. E se bisogna saper vivere, dico io, bisogna anche saper morire. Ho sentito leggere nelle storie antiche di certi Spagnuoli che combattevano contro i Romani, come il Cid Campeador contro i Mori; e si facevano tagliare a pezzettini così, piuttosto che cedere un palmo di terreno e un’oncia dell’onore Castigliano. Animo, dunque; ricordiamo di che sangue siamo nati, e lasciamo piangere le fontane. Da quelle, almeno, ci si cava la sete. –

Si era fatto crocchio intorno all’oratore popolano; s’incominciava a sorridere, alcuni erano persuasi altri no.

Bravo, per sant’Jago! – disse una voce di donna, col puro accento della classe signorile di Castiglia. – Così parlano gli uomini. –

Si volsero tutti a guardare dondera venuta la voce; e si vide una dama. La dimostrava tale, infatti, la lunga mantiglia che le involgeva la persona dal capo alle piante, lasciando scoperta al sommo della fronte la tocca di velo nero con le trine d’oro. Ed era anche facile di riconoscere in lei una gran dama, vedendola accompagnata da parecchi cavalieri nobilmente vestiti, con le bianche gorgiere che spuntavano dall’alto dei mantelli, mentre i lembi inferiori erano sollevati dai puntali d’acciaio delle spade.

La donna aveva espressa ad alta voce la sua ammirazione per quel virile discorso di un povero marinaio. Ed anche, poichè la gente aveva fatto largo intorno a lei, per segno di alto rispetto, ella si era avanzata un tratto, dicendo al vecchio marinaio:

– Eravate degno di accompagnare il grande almirante del mare Oceano nel suo glorioso viaggio.

– E mi sono offerto, signora; – rispose il vecchio. – Non mi hanno voluto. “Tu hai più anni di Matusalem”, mi ha detto Martirio Alonzo Pinzon. “Con noi ci vuol della gente che possa arrampicarsi alla penna, far la guardia sul calcese, e saltare da un momento all’altro nel palischermo.” Tutte cose che ho saputo fare per quarantacinque anni alla fila, – soggiunse egli, sospirando, – ma che ora, naturalmente, mi riescono un pochettino difficili. Ed ho capito, e sono rimasto in terra. È doloroso, signora, non poter fare un viaggio più lungo degli altri su quell’Oceano che mette tanta paura in corpo ai giovani della giornata. Perchè io, quell’Oceano l’ho corso parecchie volte dalle Canarie alle Azzorre, e una volta poi, per burrasca, di da Madera una ventina di leghe.

– Senza trovar mostri che volessero ingoiarvi? – domandò la signora.

– Ma che mostri! che mostri! Acqua e poi acqua, questo sì. E un’altra disgrazia di quei paraggi è questa, che non c’è caso d’incontrarci belle dame. Queste, bisogna trovarle in terra spagnuola; e quando, purtroppo, si hanno settantacinque anni sulla groppa. –

La galanteria del vecchio marinaio ottenne un mormorio di approvazione. Lo spagnuolo, si sa, è cavaliere di nascita.

– In verità, non vi si darebbero; – disse la signora, dopo essersi fatta un po’ rossa, come è debito d’ogni donna quando si sente lodata. – E il vostro nome, se è lecito?

Pedro Escoba di Moguer; – rispose il vecchio con dignità, come se avesse dovuto proferire uno dei primi nomi di Castiglia.

– Il nome di un buon Andaluso; lo terrò a mente; – disse la signora. – E permetterete che io vi mandi un ricordo della mia amicizia. Datemi intanto la vostra mano, Pedro Escoba. Sono miei amici tutti coloro che hanno fede in qualche cosa, o in qualcuno. –

Pedro Escoba non si era mai visto trattare con tanta gentilezza. E da una gran dama, poi! Prese la mano che la signora gli offriva; la prese tutto tremante, col sommo delle dita, e s’inchinò per baciarla, ma col sommo delle labbra.

– Ecco una dama, – diss’egli, quando la signora si fu allontanata, – ecco una dama che non si vergogna di toccar la mano alla povera gente. Dev’essere delle più alte; perchè quelle così così non si vorrebbero mica tinger le dita con noi. Ed ecco qua! io ho avuto il premio; a voi la lezione, o gente di Palos. In qualche cosa, o in qualcheduno, bisogna aver fede. Voi, per intanto, abbiatela nella gloria, a cui vanno incontro i vostri figliuoli. –

Parlava a sordi, pur troppo, il buon nostromo di Moguer. La nota triste predominava, in quel concerto di anime che aveva occupate la pietà domestica, lasciando l’adito aperto a tutti i dubbi, a tutte le ansietà, a tutti i terrori. Con qual frutto parlar di gloria a quella moltitudine avvilita? La gloria, se mai, toccava tutta al capo della spedizione, a colui che aveva ideata l’impresa. E quell’uomo era un forestiero; grande argomento di avversione istintiva. Lo spirito dell’antico villaggio, dell’antica tribù, non si è sradicato mai dal cuore dell’uomo. E forse è un bene, che sia così. Che cosa si guadagna egli, finalmente, a sentirsi cittadini del mondo intiero, e ad amare d’un medesimo amore tutto il genere umano? Su per giù, quello che guadagna uno che giuochi a carte scoperte, mentre gli altri giuocatori tengono le loro bene accostate alla faccia.

La signora aveva fatto alcuni passi per ritornare ai cavalieri, che erano rimasti in disparte. Con essi, fatte poche parole, si allontanò dell’altro, muovendo verso la riva. Il gran disco del sole, tutto emerso dal mare, rosseggiava sull’orizzonte, mandando un guizzo di luce rosea sui flutti tremolanti ai primi soffi della brezza mattutina, che ancora non era giunta a gonfiar le vele delle tre caravelle, ma già le faceva sbatacchiare contro gli alberi, in segno di promessa.

Gli occhi della dama erano rivolti alla capitana, che era facile riconoscere per il gran vessillo del crocifisso, sventolante alla penna della vela maestra.

– Eccolo dunque , il nostro povero amico! – diss’ella, volgendosi ad uno dei cavalieri, che le veniva da lato. – E voi, don Alonzo, che lo amate tanto, non siete neanche andato a stringergli la mano!

– Come fare, mia signora? – rispose quell’altro, sospirando. – Si è venuti così alla celata, come scolari di Salamanca fuggiti dallo studio!

– Già! – disse la dama a mezza voce, come chi vuol rispondere per mostrare di aver seguito il discorso, ma va intanto col pensiero molto lontano di .

E il pensiero della dama era laggiù, su quella nave a cui rivolgeva lo sguardo; a quel ponte tutto pieno di figure in moto, a quel castello di poppa su cui le pareva di distinguere un personaggio più alto della persona, in atteggiamento di comando.

Il cavaliere, a cui la dama non aveva più detto altro, dopo quel suo monosillabo, rispettò il suo raccoglimento e si ritrasse indietro a ragionare coi compagni. Ella non si avvide nemmeno che don Alonzo si fosse allontanato da lei. Aveva finalmente riconosciuto l’almirante sul castello di poppa della Santa Maria, e non vedeva più altro, non pensava più ad altro.

Dio vi guardi, don Cristoval! – mormorò ella, con accento di preghiera, mentre una lagrima le inumidiva le ciglia.

Frattanto, si era inoltrata ancora di qualche passo sul lido, cedendo al desiderio di accostarsi quanto più poteva all’oggetto della sua attenzione. Ah, se avesse potuto fare il miracolo di passeggiare sulle acque! Ma dovette fermarsi ben presto, dove il flutto veniva a morire sulla rena, lasciando le sue labili tracce di spuma.

In quel punto, da un crocchio vicino, si era spiccata un’altra persona, accostandosi alla nobile signora. Era anch’essa una donna, e non di umile condizione, per quanto si poteva giudicarne dall’aspetto, e dal modo signorilmente disinvolto con cui portava la sua grande mantiglia nera, rigirata intorno alla vita, con un lembo fermato sul capo.

La vicinanza di quelle due donne non aveva nulla di strano in un momento e in un luogo come quello, dove tutti si facevano avanti per guardare sulle acque. Ma l’ombra della persona che s’inoltrava, e tanto vicina a lei, fece voltare da quella parte la dama, che diede una rapida occhiata alla nuova venuta, e la riconobbe tosto, ai lineamenti corretti ma severi del volto, e ai capelli biondi luccicanti di riflessi d’oro ai vivi raggi del sole.

Stettero un istante a guardarsi scambievolmente, la gran dama dai capegli neri, che il lettore ha già riconosciuta, e la giovane donna dai capegli biondi, che egli riconoscerà, spero, egualmente; belle ambedue, ma di bellezza diversa, con le labbra contratte, atteggiate a disfida, e gli occhi scintillanti come lame d’acciaio, quando balenano sottilmente in aria, cercando la via di ferire. Ma quella scherma fu un lampo, quasi accenno di due anime e di due intenzioni; successe tosto la fredda compostezza, la dignità, quasi la grazia femminile. E la nuova venuta, facendo ancora un passo avanti e un mezzo inchino del capo, con aria di maraviglia, incominciò in questa guisa a parlare:

– Voi qui, signora marchesa di Moya?

– Ah, siete voi, donna Beatrice Enriquez? – disse l’altra a sua volta. – In verità, se era qui il posto mio, per salutare un amico che parte, non avrei creduto mai che fosse più il vostro. Almeno, – soggiunse, con accento sarcastico, la marchesa di Moya, – le ultime parole che ho udite da voi, non mi potevano lasciare questa speranza. –

Una vampa di rossore tinse le guance e la fronte di Beatrice Enriquez.

– Ben dite, signora; – rispose. – E non son venuta a contendere il posto a nessuno.... sebbene qui, su questo lido di Spagna, ci sia luogo per tutti. Non son venuta qui a salutare un amico, ma ad abbracciare un congiunto.

– Ah! un congiunto.... che parte?

– Sì, mia signora, Diego de Arana, grande alguazil della spedizione.... Oceanica.

Benissimo! Ecco dunque uno del vostro sangue, che mostra di aver fede nella fortuna di don Cristoval Colon, del grande almirante del mare Oceano?

Ricordate, o signora, – disse Beatrice Enriquez, – che i gentiluomini vanno dove il re comanda che vadano? e che Diego de Arana non poteva come gentiluomo come suddito fedele ricusarsi ad un comando del re? Noi piuttosto dobbiamo compiangere questi cavalieri di Castiglia, che vanno così tranquilli, per sentimento d’onore, ad affrontare una morte senza gloria.

– Voi dunque non credete, Beatrice Enriquez? Non crederete dunque mai? – replicò la marchesa di Moya. – Due anni or sono, eravate incerta se il marinaio genovese fosse un impostore od un pazzo; ma eravate almeno sicura che i reali di Castiglia non gli avrebbero dato ascolto. Non è così? E l’evento è riescito contrario alla vostra superba sicurezza. I reali di Castiglia han fatto del marinaio genovese un almirante, il primo almirante del regno, mandandolo a scoprire le nuove terre che il suo pensiero ha indovinate oltre l’Oceano. Crede in lui la prima autorità delle Spagne; e non credete voi, Beatrice Enriquez, voi mente eletta, voi inflessibile, voi infallibile, per cui è un nome vano l’errore. –

Beatrice Enriquez avrebbe voluto ribatter l’offesa, che si nascondeva male sotto il velo trasparente dell’ironia. Ma ribattendola, avrebbe mostrato d’intenderla. Guerra di sarcasmi voleva essere, non di parole apertamente ingiuriose.

– Che debbo io dirvi, mia nobile signora? – rispose. – Io avevo perduta la fede; e voi l’avete acquistata.

– Io sì, e senza sforzo; – disse la marchesa di Moya.

– Perciò, – riprese Beatrice Enriquez, – avete aiutato quell’uomo nei suoi disegni; per voi egli è venuto a capo di tutto.

Mettete pure,che sia così. C’è infatti una gran parte di vero, in quello che dite.

– E allora, mia nobile signora, lasciatevi dire che quella di don Cristoval Colon non è stata la vittoria dell’ingegno; ma quella delle amabili protezioni, dei gentili artifizi, dei graziosi intrighi di Corte. –

La marchesa di Moya aggrottò le ciglia e saettò d’un’occhiata la sua interlocutrice. Ma in quella occhiata era più disprezzo che collera.

Beatrice Enriquez, – diss’ella, dopo un istante di pausa, che parve accrescere la solennità delle parole, – voi sapete, o credete di saper molto degli intrighi di Corte. Potrei farvi pentire di un così irriverente linguaggio. Ma non lo farò. Io posso eccedere, in un momento di sdegno; non mi vendico mai a mente fredda. Vi darò invece una ammonizione che avete meritata per la vostra ira implacabile contro un grand’uomo, il quale ebbe il torto di credere un giorno a voi. –

La Enriquez diede un sobbalzo, facendo l’atto di volerla interrompere.

Lasciatemi dire, – proseguì la marchesa di Moya; – risponderete poi. So molto di voi e dei vostri. So, per esempio, che le vostre cose domestiche vanno ora assai meglio di prima. Il padre vostro è provveduto di una pensione sull’erario.

Giustizia resa! – esclamò Beatrice Enriquez. – E solamente in parte.

– Sia pure, come voi dite. Ma per rendere giustizia ai diritti dei cittadini, c’è un Consiglio della corona. E ricordo che il Consiglio, richiesto del suo parere intorno ai diritti vantati dagli Enriquez su certi possedimenti della Vega di Granata, lo aveva dato contrario. Non discuto le vostre ragioni, del resto; mi contento di esporre un fatto, che non potete negare. La vostra condizione si è in ogni modo migliorata; il re Ferdinando ha creduto opportuno di migliorare la vostra casa, e sia sacro il volere del re. Ma per intercessione di chi, avete voi ottenuto il favore? Non per amabili protezioni, non per gentili artifizi, non per graziosi intrighi di Corte. Oh, lo so bene io: per le sollecitazioni d’un gentiluomo, di don Francisco di Bovadilla, commendatore di Calatrava, mio fratello. –

Beatrice Enriquez aveva fatto un gesto di dispetto, come persona che veda messo repentinamente in luce un suo geloso segreto, e non intenda come sia potuto venire a cognizione degli altri.

– Ah! – ripigliò la marchesa di Moya, sorridendo. – Credete che io non lo sappia? Il mio signore fratello, veramente, non suol dire quello che fa, ad amici, a congiunti. A me, poi, non doveva far conoscere a chi concedesse la sua protezione. Ma io so molte cose, ve l’ho detto; ed ho anche il modo di scoprire quelle che non so. Io posso dirvi intanto che senza il favore di mio fratello, senza la protezione del commendatore di Calatrava per voi, i diritti della vostra casa non sarebbero stati riconosciuti dal re Ferdinando, a cui poteva bastare, per negarvi giustizia, il parere del Consiglio della corona. Ed ora veniamo a noi; potrà sembrare una bella cosa agli Enriquez, e tale da vantarsene, di essere stati sovvenuti dalla munificenza del re, per opera di un ammiratore della vostra bellezza?

– Io non sono l’amante di vostro fratello, signora! – scattò Beatrice Enriquez, con voce soffocata dalla rabbia. – Se dovessi amare un uomo, non sarebbe egli quello.

– E avete il torto; – ribattè la marchesa di Moya, implacata. – È un nobile cavaliere, pieno di onore e di cortesia. Ma se voi non lo amate, perchè avete accettato un così grande servizio da lui?

– Abbiamo accettata quella protezione che un uomo potente può concedere lealmente ai deboli che la sventura ha percossi. E non altro. Vorreste voi farcene una colpa?

– Oh no, davvero. Ma io amerei che queste cose le diceste al commendatore di Calatrava. Egli forse non le troverebbe piacevoli.

– Se egli crede che l’accettazione riconoscente di un servizio lealmente offerto fosse a patto di una viltà, di una abiezione, s’ingannerebbe a partito! – replicò Beatrice Enriquez. – Ma voi forse gl’imprestate sentimenti e intenzioni che egli non ha; voi che insistete tanto sulla commenda di Calatrava, dovreste sapere quali obblighi essa imponga ad un gentiluomo entrato in quell’ordine.

– Siete molto severa! – notò la marchesa di Moya. – E giudicate con molta libertà dei segreti pensieri di un povero cavaliere, che in fondo non avea nessuna ragione di occuparsi della casa Enriquez e dei suoi antichi diritti. Che lo facciate soffrire dei vostri rigori, mi è noto; e vogliate vedere, in questo accenno spontaneo, che io non so negar nulla alle ragioni della verità. Queste cose, del resto, non mi risguardano. Ma esse spargono una luce maravigliosa sul vostro carattere, donna Beatrice Enriquez. Voi siete nata ambiziosa. La smania di escire da un troppo umile stato, vi ha fatta cieca, vi ha condotta all’errore. Un uomo vi conobbe, e vi amò. Vi siete aggrappata a lui, immaginandolo favorito dalla fortuna, caro ai potenti, vicino a raggiungere uno stato invidiabile. Voi eravate allora assai povera, abbandonata, senz’altre speranze; vi siete appigliata a quell’unica.

– E mi sono pentita del mio acciecamento; – rispose Beatrice Enriquez. – Anche del pentimento mi farete una colpa, voi?

– Del pentirvi tardi, sì, certamente, vi faccio una colpa. Volubile amante, siete voi stata madre migliore? Ma già, una cosa trae l’altra. Non amavate di vero amore quell’uomo; e sdegnosamente, mia bella ambiziosa, avete discacciato quell’infelice da voi.

So bene che si è consolato! – rispose Beatrice Enriquez, con un amaro sorriso alle labbra. – Mi amava, voi dite? di un amor vero e profondo? Ebbene, egli poteva meditare sulla mia severità, trovarne anche più oneste cagioni che a voi non piaccia di credere. E in questo caso, io penso, sarebbe ritornato a me.

– Se io non ero! – soggiunse la marchesa di Moya. – Non è così? Non è questo il vostro intimo pensiero?

Sapete molte cose, mia nobile signora; – rispose Beatrice Enriquez, – e molte altre ne intendete benissimo, con la vostra rara perspicacia.

Lasciate i sarcasmi; – replicò la marchesa. – Dopo il nostro colloquio di Cordova, abbiamo il diritto di parlarci con sincerità, anche amandoci poco, o niente affatto, come è più giusto di dire. Voi dunque, bella ambiziosa, che avevate respinto da voi don Cristoval, vedendolo deluso nelle sue speranze di innalzamento, credevate che dovesse ritornare a voi, dopo che le sue speranze erano rifiorite.... per le amabili protezioni, per i gentili artifizi, e per i graziosi intrighi di Corte. Lui ritornato nel favore dei sovrani, lui nominato almirante, gli avreste nobilmente perdonato.... il vostro abbandono. Ma se voi siete ambiziosa, siete anche intelligente; e non potete ignorare che questo cambiamento di fortuna è recente, quasi di ieri. Per quattro anni lo avete lasciato gemere, il povero don Cristoval mentre per quattro anni altre amicizie, meno interessate e meno volubili, si adoperavano per lui. Nondimeno, vi è parso che ogni tempo fosse buono per ripigliare un posto che voi stessa avevate ricusato. E di questi giorni ancora.... non è vero?...

– Che cosa intendete di dire? – domandò la Cordovana, turbata.

– Che voi avete fatto il sogno di riconquistarlo, Beatrice Enriquez, – rispose la marchesa di Moya, accostandosi a lei e guardandola fissamente, come per leggerle il suo segreto negli occhi; – ma che a quel sogno non avete saputo dar vita con un degno proposito, combattuta com’eravate tra l’ambizione e la vanità. Che finalmente siete venuta a Palos, col pretesto di salutare Diego de Arana, un congiunto, del quale finora v’importava assai poco. Che giunta qui, avete fatto sapere all’almirante della vostra presenza....–

Beatrice Enriquez fece un gesto involontario, che non era di diniego.

– Che finalmente, – conchiuse Beatrice di Bovadilla, – l’almirante non ha voluto veder voi, altri che gli parlasse per voi. Negatelo, se potete. –

Beatrice Enriquez si morse le labbra a sangue. Levò gli occhi verso la marchesa di Moya, che la stava guardando con la sua aria imperiosa, e le disse, con voce in cui sibilava tutto lo sdegno concentrato nel profondo del suo cuore

– Siate maledetta!

– E tu, perdonata; – replicò Beatrice di Bovadilla, rialzando la fronte. – Va, povera donna. Tu che sei libera, e puoi seguire gli impulsi del cuore, va, prendi un palischermo, fatti condurre alla capitana. Le navi sono ancora. Due forti rematori possono raggiungerle, prima che girino la punta di Saltes. Si direbbe che la brezza non sia ancora rinforzata, o che a bordo non sia compiuta la manovra delle vele, solo per dar tempo a te di arrivare laggiù.

– Per che fare? – mormorò la Cordovana, alzando sdegnosamente le spalle.

– Per che fare? E me lo domandi? – replicò Beatrice di Bovadilla, infiammandosi. – Ma se io fossi in te, Beatrice Enriquez, se io fossi in te, credilo, mi sarei fatta perdonare, ad ogni costo, da lui. Rasi i capegli, in abiti virili, tinte le mani, il collo e la faccia di pece, mi sarei presentata, mi sarei fatta accogliere come un povero mozzo, come un garzoncello di bordo; non avrei lasciato andare quell’uomo.... no, te lo giuro per la croce del Dio vero, non lo avrei lasciato andare al pericolo e alla gloria, senza di me. Ma tu non l’hai pensato prima, e tu non l’osi ora; – soggiunse la nobile donna. – Che amore è il tuo, Beatrice Enriquez? Infelice anche tu, del resto; schiava della vanità, com’io del dovere! Va, povera donna, e tienti per vendicata. Tu mi hai maledetta, e fu una vana parola. Avevo già la mia maledizione con me, senza mestieri della tua. Possa il mio perdono aver più forza su te.

– Voi lo amate molto, signora? – balbettò la Cordovana, umiliata.

– Lo amo, sì, più che lingua non possa dire, mente pensare. Non mi vergogno che sia risaputo; potresti ripeterlo a tutti gli angoli del mondo, ed esser certa di non darmi rammarico. Ma aggiungi che Beatrice di Bovadilla vede partire quell’uomo senza averne avuto un addio; che Beatrice di Bovadilla lo ha protetto, guidato fin qua, alla soglia del vecchio mondo, sulla via del nuovo, senza averne avuto in ricompensa una parola di amore. Non te l’ho detto io, Beatrice Enriquez? La tua maledizione vien tardi. –

La Cordovana stette in forse un istante, come se volesse rispondere ancora. Ma la persuasero presto le ragioni del tacere. Scosse il capo, in atto di prendere una risoluzione sdegnosa, raccolse i lembi del manto intorno alle guance, e si allontanò, andando a nascondersi nella folla.

Beatrice di Bovadilla era rimasta sola, ansante per commozione violenta, che ancora la faceva tremare per tutte le membra, ma con gli occhi rivolti alle navi, che si cullavano sui flutti, con le vele biancheggianti nell’ombra dell’isolotto di Saltes.

Alonzo di Quintanilla, vedendola finalmente sola, si fece avanti con cavalleresca premura. Troppo presto, per verità; poichè donna Beatrice aveva gli occhi gonfi, e bagnati di lagrime.

Coraggio, signora! – le disse sottovoce.

– Ne ho, don Alonzo, ne ho; – rispose ella, scuotendosi.

Sorridete, allora, sorridete. Non bisogna che vi vedano così. L’amico Santangel non sa nulla di nulla. I due Medina nemmeno. E tutti costoro debbono vedervi lieta.

– Ah no! Questo sarebbe troppo; – proruppe la marchesa di Moya, in uno di quei suoi scatti generosi, quanto subitanei. – Si potrà infine esser dolenti per la partenza di un amico. Ci eravamo avvezzati a lui, perfino al suo stato di continua disgrazia; non è vero? – soggiunse ella, voltandosi ai tre gentiluomini che erano rimasti indietro, e non dubitando di mostrar loro la sua bella faccia lagrimosa. – Pensavamo oramai che la sua alternativa costante di speranze e di delusioni dovesse durare per sempre. E ci pareva che in quelle incertezze continue il nostro grande amico fosse intimamente più nostro.

– È vero, verissimo, ciò che voi dite, marchesa; – rispose il Medina Celi. – E ci voleva una donna, per intendere queste cose delicatissime.

– Ma le incertezze spariscono; – ripigliò la marchesa di Moya. – Ecco, vedete? –

E indicava, così dicendo, le grandi vele latine delle caravelle, che incominciavano a distendersi, a rigonfiarsi, sotto l’impulso dell’aria.

– Hanno serrato quel po’ di vento che spira alto dai monti; – osservò il Medina Sidonia. – Fra poco, se girano l’isola, sentiranno la brezza dello stretto. –

Come egli diceva, le caravelle incominciavano a muoversi, serrando il vento con una accorta manovra del timone. E lente, quasi solenni, si avviarono, costeggiando l’isolotto di Saltes. La marchesa di Moya non perdeva più uno dei loro movimenti. La sua anima era , in quelle vele distese, e quasi aiutava a sospingerle col desiderio. Perchè le avrebbe ritardate oramai? Se il navigatore genovese doveva ad ogni modo partire, se nella partenza era la sua fortuna, l’onor suo, la sua contentezza, bene era mestieri aggiungere la potenza del desiderio alla sincerità dell’augurio.

La folla muta assisteva allo spettacolo. Le tre caravelle sfilavano di dalla punta di Saltes, trovando finalmente il mare più mosso e il vento più fresco. Allora le vele si gonfiarono del tutto, e le navi presero l’abbrivo verso ponente. Precedeva la Santa Maria, sempre facile a riconoscersi dall’ampio vessillo, che portava l’immagine di Cristo crocifisso in campo bianco.

Beatrice di Bovadilla si sentiva venir meno. Afferrò allora con moto convulso il braccio del Quintanilla, come per comunicare all’amico una parte di . Ma volle ad ogni modo padroneggiarsi, e levata la destra in segno di saluto, con alta voce gridò:

– Per Castiglia e Leone, don Cristoval Colon, almirante del mare Oceano, alla gloria! –

 

 

Fine

 

 


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