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Capitolo VI.
Il conte Gino era aspettato con ansiosa cura alle Vaie. Le signore lo accolsero con un sorriso amabilissimo, che fioriva allora allora sul terrazzino, come in risposta alla serenità di buon augurio, diffusa sul volto del cavaliere. Gli uomini erano discesi sull'uscio di strada, per tenergli le staffe, e lo abbracciarono, come se tornasse da un lungo viaggio.
- Ebbene? - domandò Aminta, - Chi erano?
- Commissarii, applicati, gente della polizia ducale; - disse Gino; - venuti a farmi una visita, quantunque io non abbia avuto mai il piacere di conoscerli.
- Volevano assicurarsi... - disse il signor Francesco.
- Già; - rispose Gino; - assicurarsi che veramente io fossi al mio luogo di pena. Ed ho sudato, sa? ho sudato, a nasconder loro che questo è un luogo di delizie. Avevano osservati i miei mobili, troppo eleganti per quella povera casa. Mi perdonerete, amici miei; ho detto una grossa bugia, accennando così di passata che quei mobili li avevo presi a nolo. Dove, poi, non me lo han chiesto, ed io non ho avuta occasione di dire una nuova bugia, facendoli venire da Paullo, o da un altro luogo più lontano.
- Sì, questa sarebbe stata una bugia; - disse il signor Francesco; - ma l'altra non lo è. Non ci paga forse il nolo con le sue visite? -
Non c'era da far altro che inchinarsi; e Gino s'inchinò.
- Noi, del resto, siamo stati qui un paio d'ore in agguato; - disse Aminta a sua volta. - Avevamo visti quei due signori andare in su, e abbiamo voluto aspettare per vederli al ritorno, ma con le finestre chiuse, e guardando di sotto le tendine. In due erano venuti, in due se ne ritornavano, e questo ci ha consolati. Temevamo già che ti portassero via.
- Oh, non c'è questo pericolo; - gridò Gino, ridendo. - Mi han lasciato capire che la correzione sarà lunga. E non potrà essere altrimenti, - soggiunse il giovinotto, - se vorrà essere efficace. -
Quella sera, come già immaginate, il conte Gino rimase a cena dai Guerri, e poichè non era sera di luna, non gli fu permesso di ritornare a Querciola.
- Così resto io a confine? - diss'egli. - E mentre gli agenti del tiranno, venuti ad assicurarsi de visu, non sono ancora a Paullo? Per fortuna, sono lontani quanto basta, per non sentir più la voce del pianoforte.
- Hai capito, Fiordispina? - disse la signora Angelica. - Ti si domanda di suonare. -
Fiordispina era di buonissimo umore. Corse alla tastiera e attaccò l'andante maestoso del bellissimo inno di Goffredo Mameli.
- Ecco qua! - rispose la fanciulla. - Se hanno orecchi per sentire, sentano questo!
- Che cosa si ardisce suonare? - gridò una voce dall'anticamera. - L'inno della rivolta? È un orrore, e meriterà tutti i rigori della legge. -
Era la voce di Don Pietro Toschi. Il vecchio prevosto delle Vaie giungeva sempre a quell'ora, e nessuno si lasciò cogliere dallo spavento, udendo la sua ammonizione.
- Ah! - esclamò egli, entrando nella sala. - Loro signori se la ridono? Ebbene, non c'è da ridere. Se un agente del governo ducale udisse questa musica, ci sarebbe un processo per tutti.
- Dobbiamo cessare? - domandò Fiordispina.
- No, continuate, figliuola mia. I primi Cristiani si ritiravano a pregare nei loro sotterranei, ma non interrompevano neanche i loro inni per l'avvicinarsi dei pretoriani. Qui poi i pretoriani non sono neanche vicini. -
I signori Guerri raccontarono allora a Don Pietro che i pretoriani erano passati per l'appunto in quel giorno dalle Vaie. E il buon prevosto si rallegrò che dopo quella visita il conte Gino Malatesti non dovesse avere altre noie.
- Vede? - diss'egli. - Sono venuti ad autenticare il suo cambiamento di domicilio. Io ora lo scriverò nel registro della parrocchia, ed Ella apparterrà alle Vaie per ragion civile e per ragione canonica. Le piace?
- Così voglio; - disse Gino, andando anche più in là.
E i suoi occhi, in quel punto, s'incontrarono con quelli di Fiordispina. Fu un lampo, come potete immaginarvi facilmente; ma per quel lampo la fanciulla arrossì, ed egli si sentì correre una vampa alla fronte.
Fiordispina aveva posate nuovamente le sue belle mani sulla tastiera del pianoforte, ed arpeggiava sommessamente. Gino le chiese un'aria della Sonnambula; ma cambiò subito opinione, e chiese in quella vece un'aria del Pirata. Fiordispina aveva lo spartito nella sua biblioteca musicale; dopo un'aria gliene suonò un'altra, e ad una ad una gliele eseguì tutte.
- Che bella musica! - diceva ella, frattanto. - Non so come sia, che l'ho suonata così poco, finora. Oggi piace molto anche a me.
- Ha mai letto il Leopardi, signorina?
- Sì, una volta. Perchè mi fa questa domanda?
- Per venire ad un raffronto fra il poeta e il musicista. La musica del Bellini è come la poesia del Leopardi; non piace, ordinariamente, che in certe condizioni d'animo; ma allora non piace più che quella; tutto il resto è rumoroso ed aspro, o fiacco, lezioso e svenevole. -
Quella sera la fanciulla dei Guerri suonò meglio e più lungamente che mai. Un'aria seguiva l'altra e tutti i grandi maestri diedero il loro contributo alle artistiche commozioni di Gino. Ma una grande maestra diede certamente il maggiore, poichè Gino ne contemplava l'opera maravigliosa coll'attenzione concentrata e con la beatitudine diffusa di un Pater extaticus.
Possiamo immaginarci che ciò fosse per effetto di riconoscenza. La fanciulla dei Guerri aveva dimostrata tanta sollecitudine per lui! Il meno che Gino potesse fare in ricambio, era di darle un primo premio di bellezza. E di bontà poi! Quegli occhi sereni dicevano con tanta eloquenza la bellezza dell'anima sua! E ridevano, quegli occhi, come ora non si usa più, ma come si usava un tempo, se dobbiam credere ai poeti latini e agl'italiani del Risorgimento.
Quando il nostro Gino si ritirò nella camera ospitale dove egli aveva già dormito e sognato una notte, la sua ebbrezza era al colmo. E le furie? Vi ho già detto che c'era un compromesso col suo dolore. Non voleva pensarci, e non ci pensava: ecco tutto. Pensava in quella vece ad altro, e cominciava a credere che quella ebbrezza non fosse tutta musicale.
- Orbene! - esclamò, levando la testa dal guanciale, come per rispondere ad un contradittore invisibile. - E se fosse dell'altro, che male ci sarebbe? Lasciate che per una volta io respiri una boccata d'aria salubre. Vi par troppo, una pagina d'idillio, tra cento di romanzo moderno? Infine, non è dato di sognare? Ecco un sogno, e preghiamo che duri. -
Il sogno di Gino Malatesti durò una settimana, senza che più gli tornassero a mente le sue noie di città. Ma una sera, così di punto in bianco, non richiamati da alcuna associazione d'idee, i sopraccapi dimenticati si ripresentarono a lui.
- Si saran dati bel tempo a Modena! - pensò il giovinotto. - L'avran finita quest'oggi, la loro piccola impresa musicale fuori stagione! Chi sa? Forse all'ultima rappresentazione della Sonnambula avranno domandato il bis. Un altro paio di rappresentazioni, perchè ricusarle ad un pubblico che applaude e rompe le panche? Ci sarà anche il pretesto della beneficenza, per continuare. Le nostre belle signore, pur di avere un'occasione di brillare, farebbero anche l'elemosina ai Turchi. E lei sopra tutte! Non è forse la regina della moda? -
Un piccolo rimorso gli venne; ma egli lo scacciò, come si spaccia un ladro domestico.
- Orbene! - gridò egli, ripetendo una sua esclamazione favorita. - Che è ciò? Avevo un obbligo, sicuramente, ma l'ho forse distrutto io?
- Troppo presto e troppo volentieri lo dice il signor Gino; - rispondeva una voce interiore. - Non pensa egli al fatto strano di esserne uscito senza lagrime?
- Ci penso; - replicava egli, seccato... - Ma che vuol dire? Forse che, per non aver sofferto troppo avrò meno ragione io? Facciamo la peggio: ci siamo incontrati ad essere stanchi in due; ella di me, io di lei. Così avviene di tutte, o di quasi tutte le relazioni che si stringono in società, e che rappresentano il superfluo del nostro tempo. Il necessario è quello che va dato all'ambizione, alla vanità sua sorella; il superfluo è quello che si dà all'amore. No, correggiamo, non è l'amore, questo, è la galanteria. Ma non bisogna usarne troppo, perchè viene a noia, come tutti i cibi galanti. L'abitudine aiuta molto, lo so, a mantenere queste relazioni; la lontananza le rompe senza sforzo, senza lagrime, e questo lo vedo ora, pur troppo. Dovevo vederlo prima, e avrei oggi più merito di essermi liberato. Infine non son io che lascio; è lei che mi ha dato il benservito. -
Così ragionava, e per uno spirito preoccupato non vi parrà che ragionasse male. Qual è, del resto, lo spirito che pensi e ragioni fuor d'ogni vincolo o influenza particolare? Neanche i filosofi, mi dicono, poichè sotto alla libertà della speculazione, sotto alla lealtà dell'indagine, si cela sempre la ragion di sistema, che tanto più naturalmente comanda, in quanto che è la medesima causa che ci muove a pensare, a cercare.
Il raffronto tra la marchesa Polissena e la fanciulla dei Guerri non si fermò solamente al fatto che una si fosse dimenticata di Gino e l'altra venisse a lui, chiamata da tutte le voci arcane della gioventù e dell'affetto nascente. Le loro qualità intrinseche ed estrinseche dovevano trovarsi a contrasto sotto gli occhi del giudice, e la botanica, amica compiacente, fornire i termini di paragone tra la civetteria sapiente dell'una e le grazie ingenue dell'altra. La marchesa Polissena gli apparve allora come una bella gardenia, fiore lucente ed aperto, bellezza spampanata e trionfante, accompagnata da fragranze acutissime; la fanciulla dei Guerri come un caro e modesto fiorellino delle Alpi. Il conte Gino avrebbe potuto ricordare l'Edelweiss, se questa graziosa stelluccia vegetale fosse stata fin d'allora alla moda. Egli pensò in quella vece a quelle eriche del Capo, che aveva pur conosciute lassù, e che alle delicatezze della forma congiungevano un così gentile profumo.
E andava là, di giorno in giorno, vivendo così del suo nuovo amore, che gli pareva il primo ed il vero, senza parlare, senza desiderare di più, respirando tacitamente le fragranze del fiore divino. Godeva intanto la bella e confidente amicizia dei Guerri, e gli sembrava che così dovesse durar sempre la vita, che non si potesse desiderare di vivere, nè di aver vissuto mai altrimenti. Era anche così adatta la scena! così amante la natura dintorno a lui! Oh dolci calme, soavi tepori primaverili dell'estate tra i monti! Gli usignuoli cantavano ancora nel folto dei boschi; la gioventù e la speranza levavano inni continui dagl'intimi penetrali dell'anima sua.
Era solo, lassù, ben solo, tra l'amicizia e l'amore, che si rivelavano a lui in quella forma nuova e con quella insolita forza. Veramente, i re della montagna non erano i Guerri, o quel titolo si addiceva anche a lui, che sentiva di regnare così pienamente, e rendeva ogni giorno in grazia elegante, in sorrisi amorevoli, ciò che andava ricevendo in liete dimostrazioni di affetto.
Ma un giorno, dopo quella settimana di pace profonda, casa Guerri ebbe un ospite nuovo. Era un parente, per verità, e veniva dai monti del Reggiano. Scendendo dal suo eremo di Querciola, il conte Gino trovò alle Vaie quel personaggio inatteso, che riesce sempre importuno nella compagnia formata a modo nostro, alla quale non avremmo da toglier nulla e nulla avremmo da aggiungere. Notate poi che quel personaggio era giovane, ed anche bello; una figura d'Ercole adolescente, ma dal viso aperto, dall'aria candida e buona; occhi azzurri, capegli biondi, naturalmente ricciuti, ed abiti semplici, da cacciatore.
- Nostro cugino Ruggero Guerri; - disse il signor Francesco, presentando il nuovo ospite al vecchio.
- Felicissimo di conoscerlo; - rispose Gino, che non si sentiva neanche felice.
Ma così è, lettori miei: il superlativo, entrato nell'uso del discorso, ha perduta ogni virtù di significazione. Si chiama illustrissimo l'uomo a cui non possiamo dar titolo d'illustre; è eccellentissimo il tribunale, che non è mai stato eccellente.
Ruggero Guerri! Altro personaggio ariostesco. E accanto a Fiordispina, poi! Si doveva vederci l'effetto del caso, una di quelle lontane preparazioni del destino che vengono poi improvvise e noiose, come un colpo tra capo e collo? Altro che felicissimo! Il conte Gino Malatesti fu seccatissimo della comparsa di quel cugino, che era così giovane, così biondo, e si chiamava anche Ruggero. Che cosa era venuto a fare, dai monti del Reggiano a quelli del Modenese? Che cosa voleva, quell'arcangiolo in cacciatora, e che cosa avrebbe ottenuto alle Vaie? Immaginate. lettori, che il conte Gino cominciò subito ad aprir gli occhi ben bene, e che quel giorno, e i giorni seguenti, osservò attentamente ogni cosa. Ma il cugino Ruggero non diede argomento a giudizi, come aveva dato argomento a sospetti. Stava molto con gli uomini, e passava lunghe ore alle serre, col signor Francesco e col signor Orlando; alle donne parlava poco, senza mettersi in pretesa, con vera semplicità campagnuola. Sì, ma anche questa semplicità non può nascondere il desiderio di raggiungere un fine? Gli uomini dei campi non conoscono le nostre delicatezze di spirito, non usano le nostre smancerie di linguaggio; ma danno un'occhiata lunga e luminosa come il primo venuto, ed essi, o i loro parenti, possono fare una molto chiara domanda di matrimonio.
In queste osservazioni e in questi dubbi si guastò l'umore del conte. Qualcheduno se ne avvide e gliene domandò; ma egli non aveva nulla, e questa risposta poteva bastare per gli uomini. Non bastò a Fiordispina, quando ella molto candidamente gli chiese che cosa avesse e si sentì rispondere quel nulla, a fior di labbra e discretamente impacciato.
- Oh, non me lo dica, signor conte; - replicò la fanciulla. - Ha ricevuto qualche notizia spiacevole da Modena?
- No, signorina, nessuna notizia.
- Ma allora che cos'ha? È così mutato, da qualche giorno! -
Il conte Gino taceva, e allora la fanciulla ripigliò a domandargli:
- Si annoia, forse? Comprendo che qui non c'è gente abbastanza, per tenerle compagnia.
- No, davvero! - scappò detto a Gino. - Vorrei anzi che ce ne fosse un po' meno. -
La fanciulla lo guardò con aria di stupore. Era egli che parlava così? L'elegante, il gentile, il garbatissimo conte Gino Malatesti? Ma sì, propriamente egli, e due grinze sdegnose agli angoli delle labbra commentavano ancora la frase che gli era sfuggita di bocca.
- Com'è cattivo! - esclamò allora Fiordispina.
- Ha ragione, signorina; - diss'egli. - Sono veramente cattivo. Ma voglia scusarmi, per una volta soltanto, ed ascoltare anche una mia preghiera. Non faccia parlar l'uomo quando egli è in collera. È troppo brutto, in quei momenti. Io, del resto, mi vergognerò sempre di esserlo stato con Lei.
- Vede? - gridò ella. - Non lo è più. -
Gino s'inchinò, senza risponder altro, perchè in verità gli pareva d'esserlo ancora, e non voleva mettersi al caso di dover dire la ragione del fatto. Una cosa era sempre dispiaciuta su tutte le altre, a quel cavaliere elegante, a quello spirito raffinato: di esser geloso e di darlo a divedere.
Per quattro o cinque giorni ancora il conte Gino dovette godersi la compagnia dell'Ercole adolescente. E notate che lo vedeva solamente all'ora del pranzo; ma che in quell'ora, diventata lunga su tutte le altre del giorno, il signor Ruggero stava seduto alla sinistra di Fiordispina. Erano cugini, erano i più giovani della compagnia, e niente era più naturale del vederli seduti vicini a tavola; ma perchè una cosa piaccia a tutti, non basta ch'ella sia naturale.
Cionondimeno, parve al conte Gino di osservare che dopo quel suo dialogo con la fanciulla dei Guerri, ella parlasse meno col cugino Ruggero. Già, è da notare che non aveva molte occasioni di discorrere con lui, perchè durante il giorno egli era sempre fuori con gli uomini di casa. Giungeva con essi per l'ora del pranzo, e trovava sempre Gino a chiacchierare con le signore. Dopo il pranzo esciva da capo e non ritornava che per la cena. Ma allora il conte Gino non era più là a vigilare, e si poteva capire che il signor Ruggero non escisse più, ma rimanesse con gli altri nella sala comune. Che cosa faceva allora? Una sera il nostro geloso senza ragione volle rimanere a cena, per averne l'intiero, non importandogli affatto di dover ritornare a notte alta nel suo eremo di Querciola. E vide allora che gli uomini restavano seduti a tavola, mentre le signore si raccoglievano da una parte per attendere a qualche lavoruccio; che Fiordispina andò poi a suonare il pianoforte, e che l'Ercole adolescente stette a sentirla, ma da lungi, in piedi, nel vano di una finestra, senza batter palpebra, senza fare un cenno del capo, senza dire alla cuginetta una parola di lode, senza dar segno di gradire almeno la musica. Era un contadino, e non bisognava farne le meraviglie.
Sì, tutto bene; ma anche un contadino poteva essere un pretendente e diventare un marito. È forse necessario per questo di gustare la musica e di applaudire ai talenti musicali delle ragazze? La possibilità di un matrimonio era sempre là, librata a mezz'aria, e la presenza di quel giovanotto, di quel cugino, capitato alle Vaie senza ragione apparente, mutava troppo facilmente la cosa possibile in una cosa probabile. Immaginate come ne dolesse al nostro povero Gino, geloso senza ragione, ed anche senza diritto. E un giorno che egli non vide più capitare il signor Ruggero all'ora del pranzo, restò dubbioso, come dovrebbe rimanerlo un ambasciatore, accreditato presso una corte, donde vede sparire l'inviato straordinario di un altro governo. Si voleva sapere da prima perchè c'era, e si passavano in rassegna tutti i fini per cui poteva esser venuto; quando se ne va, si domanda perchè è partito, e si dubita che la sua missione abbia sortito buon esito.
Il conte Gino, da quella persona bene educata ch'egli era, non volle domandare perchè il signor Ruggero Guerri fosse partito dalle Vaie, e rimase con la sua curiosità, ignorando quali speranze lo avessero condotto, quali concerti lo accompagnassero a casa, quali occasioni potessero farlo ritornare. La fanciulla appariva tranquilla, serena come prima, forse un tantino più ilare. Perchè più ilare? Per essersi liberata da una noia, o per aver avuto una notizia che suol chiamare il sorriso sul volto delle ragazze da marito? Il conte Gino non ne capiva nulla, e si sentiva una spina nel cuore.
Ma se egli non poteva chieder nulla al signor Francesco, nè far parlare il suo buon fratello Aminta, qualcheduno doveva pure istruirlo. Gino pensò al vecchio prete, e alcuni giorni dopo la sparizione del signor Ruggero, disceso da Querciola un'ora prima del solito, passò davanti al portone dei Guerri senza smontar da cavallo. Se i quadrupedi sentono la maraviglia, il generoso animale dovette maravigliarsi molto, quel giorno, argomentando da una pressione di ginocchio del suo cavaliere, che questi non voleva fermarsi al portone dei Guerri, e stupirsi poi della gran novità che lo faceva fermare cento passi più giù, davanti all'umilissimo ingresso della canonica.
Bene si stupì il prevosto delle Vaie, ricevendo la visita del conte Gino. Ma questi fu pronto a dirgli che essendo calato da Querciola un po' prima del consueto, avrebbe fatto ora molto volentieri, visitando la chiesa e quel certo quadro antico di cui gli aveva parlato più volte Don Pietro, suo amico degnissimo. Il pretesto fu ammesso naturalmente per buono. Il sagrestano, mutatosi in garzone di scuderia, prese il cavallo per le redini e lo condusse nella sua stalla, dai Guerri. Frattanto il conte Gino entrava in chiesa, per vedere il famoso quadro, che rappresentava lo sposalizio di Santa Caterina, salvo errore, ed era forse stato di un buon autore, a' suoi tempi, ma non lo lasciava più scorgere, sotto i ritocchi di un restauratore assassino.
Veduto il quadro senza fermarcisi troppo, era naturale che stessero a chiacchiera. L'argomento non poteva fornirlo che la vita di quei monti, o la famiglia dei Guerri, tutt'e due le cose insieme. Si parlò adunque del signor Francesco, del fratel suo Orlando e del figliuolo Aminta, bravissima gente, che il prevosto delle Vaie amava come se fossero sangue del suo sangue e carne della sua carne. Era dipeso per l'appunto da essi che Don Pietro Toschi fosse rimasto in quella magra anzi magrissima fra tutte le parrocchie di montagna. L'aveva accettata quarant'anni prima, contro la promessa che glien'avrebbero data un'altra più ricca; c'era rimasto venticinque anni aspettando; finalmente la buona occasione era venuta di scendere al piano e di fare un bel cambio. Ma allora Don Pietro aveva anche cambiato parere. La chiesa e la canonica di Fagliano eran belle e ben provvedute; la mensa parrocchiale rendeva tre volte tanto di quella delle Vaie; il popolo era tranquillo e virtuoso: il sagrestano della chiesa, miracolo inaudito, era un buon diavolo, che non pretendeva di far egli da parroco; insomma, quella era proprio la man di Dio. Ma non c'erano i Guerri a Fagnano, e Don Pietro Toschi si era assuefatto a vedere i Guerri. Perciò rispose al vescovo, che gli proponeva il passaggio: - «Se Vostra Eminenza permette, rimarrò dove sono. Son vecchio, tra gente che conosco e che mi vuol bene. L'inverno è rigido, ma i bei giorni ci sono più frequenti che al piano; e poi, le mie quattr'ossa si sono avvezzate; ci vorrebbe uno sforzo per adattarle a un ambiente diverso.»
- Così son passati altri quindici anni; - proseguiva Don Pietro, parlando al conte Malatesti; - e sono contento più che mai d'aver risposto picche a Fagnano. Le mie giornate vanno via l'una dopo l'altra come le foglie dell'ontano, quando si accosta l'inverno. Questi amici mi sono stati riconoscenti di ciò che han voluto chiamare un sacrifizio, e mi aiutano volenterosi a discendere la fiumana della vita. Francesco ed Orlando li ho conosciuti ragazzi; Aminta l'ho battezzato io; Fiordispina egualmente.
- E la mariterà; - disse Gino.
- Dio voglia; - rispose il prete. - Sebbene, non vedo ancora con chi. -
E fece un mezzo sospiro per appoggiare la frase.
- Ma... con suo cugino Ruggero; - osò dire il giovinotto, facendo uno sforzo sovrumano per mettere fuori quel nome.
- Sì, sarebbe stato un buon partito per lei; - replicò Don Pietro. - I Guerri stabiliti sul Reggiano non sono così ricchi come questi del Modenese, ma Ruggero ci ha il vantaggio, economicamente parlando, di esser figlio unico.
- Ecco dunque una buona occasione; - riprese Gino, con un altro sforzo, non meno doloroso del primo.
- Eh, si fa presto a dirlo, come a pensarlo; - rispose Don Pietro. - Ma per giungere al fatto, bisogna che parecchie cose si accordino; le volontà, per esempio.
- Capisco; ma se sono d'accordo i babbi....
- Questo è il primo punto, sicuramente. E l'accordo ci poteva essere, tra loro. Son cugini, i due vecchi, e per l'uno e per l'altro, con la vita che fanno, lontani dalle città, non si potrebbe sperare un'occasione migliore. Ma forse i giovani sono ancora... troppo giovani. Fiordispina, per esempio, non vuol saperne, di andare a marito.
- Lo ha dunque detto? L'hanno interrogata?
- Eh, sì, credo bene... alla larga.... Ma la risposta è stata come se fossero venuti a mezza spada.
- A mezza spada! - ripetè il conte Gino ridendo. - I miei complimenti. Don Pietro!
- Che! - esclamò il vecchio prete. - Non è ben detto?
- Ma sì, egregiamente. Notavo soltanto la militarità della frase.
- Ebbene, che c'è di strano? Perchè son prete? - rispose Don Pietro, accettando di buon grado la celia - Anche la nostra è milizia. Veda per esempio San Paolo; non ci viene rappresentato con una spada lunga tanto? -
Così scherzava a sua volta il bravo prevosto delle Vaie, e il suo interlocutore lo lasciò dire fin che volle. Contento di aver saputo ciò che gli premeva di sapere, Gino si rallegrava di aver potuto dare un nuovo giro alla conversazione, dissimulando in questo modo la curiosità, e le ragioni per cui quella curiosità poteva essergli venuta.
Quando fu di ritorno alle Vaie per l'ora del pranzo, il nostro giovanotto era così ilare in volto, che Aminta gli domandò ridendo se avesse avuto notizie da Modena.
- Che idea! - esclamò Gino. - C'è bisogno di notizie della città, per esser contenti in montagna?
- Scusami; - disse Aminta. - Da tre giorni eri così rannuvolato!
- Anche il monte Cimone lo era; - rispose Gino; - e vedilo oggi, come rosseggia al sole!
- L'uomo è un barometro che cammina, mio caro. Io segno bel tempo, quest'oggi.
- Ah, meglio così, e rimani al bello stabile; - replicò Aminta. - Eccoti frattanto una lettera, che potrà giovare all'uopo.
- Lo credi? - mormorò Gino, prendendo la lettera dalle mani di Aminta. - Quando non si desidera di saper nulla di ciò che avviene lontano da noi, una lettera è sempre una noia.
- Prendila allora come correttivo, e non dolerti col messaggero, perchè l'ho portata io.
- A Pievepelago, dove sono andato stamane. Me l'ha consegnata un servitore, che domandava appunto all'albergatore del Falco reale se ci fosse qualcheduno per rimettere una lettera al conte Malatesti, a Querciola. L'albergatore, che mi aveva veduto passare poco prima davanti alla sua insegna, mi venne a cercare, e il servitore mi consegnò la lettera, mentre i suoi padroni aspettavano di far cambiare i cavalli.
- I suoi padroni! - ripetè Gino. - Chi saranno costoro?
- Non saprei dirti, M'è parso di vedere un signore vecchiotto e grassotto, con la barba bianca, tagliata a ghirlanda, e una signora bionda, con una ragazza bionda come lei. Del resto, leggi la lettera, e capirai più che io non ti possa dire, nella mia ignoranza.
- Hai ragione; - balbettò Gino, che aveva già capito più che non dicesse e non credesse di dirgli l'amico. - Ma leggerò più tardi. -
E stava per mettere la lettera in tasca, fingendo una tranquillità che non aveva.
- Se si trattiene per noi, ha torto; - disse la signora Angelica. - Legga pure liberamente. Tanto, non è ancor l'ora di metterci a tavola. -
Gino s'inchinò, ed obbedì, aprendo la lettera. Aveva già data un'occhiatina alla soprascritta, e riconosciuto il carattere di Giuseppe.
A voi parrà che ciò dovesse calmarlo un pochino. Ma no, signori; ciò accresceva i suoi dubbi e le sue ansietà. Perchè mai una lettera del suo servo Giuseppe gli era portata da così strani viaggiatori? Perchè mai veniva a battere da quelle parti la signora bionda, che Aminta aveva veduta, con una figlia bionda come lei? Di signore bionde con figlie egualmente bionde, se ne danno sicuramente parecchie migliaia, nel mondo, e la città di Modena, per la sua parte, poteva averne anche un paio; ma a farlo apposta, quella lì era accompagnata da un signore vecchiotto e grassotto, con la barba bianca tagliata a ghirlanda. Se quelli non erano i Baldovini, bisognava dire che la natura si fosse compiaciuta a fabbricare dei doppi, nelle sue combinazioni ternarie.
Il conte Gino represse un sospiro e si ritirò nel vano di una finestra, in apparenza per aver più luce, nel fatto per nascondere il viso, mentre leggeva la lettera.
Giuseppe diceva poco di veramente importante. Incominciava narrando che tutti, in casa Malatesti, godevano buona salute, secondo l'uso. Seguitava raccontando che a Modena si erano fatte sei rappresentazioni della Lucia e della Sonnambula, scambio di quattro che avevano annunziate; che la società elegante era andata in visibilio per la celebre Venturoli; che i giovanotti l'avevano accompagnata l'ultima sera a casa con le fiaccole; che le signore le avevano offerta una cena sontuosa; che tutti, infine, erano diventati pazzi per la cantante. Nient'altro, per allora; ma il poscritto era importantissimo, nella semplicità del racconto, poichè spiegava a Gino in che modo quella lettera doveva essergli ricapitata. - «Le scrivo (diceva Giuseppe) approfittando di un'occasione favorevole. Severino, il cameriere dei signori Baldovini, accompagna i suoi padroni ai bagni di Lucca, dove la signora marchesa passerà l'estate, mentre il signor marchese andrà fino a Firenze, per vedere i suoi amici Geroglifici. Non so se scrivo bene il nome, e Lei mi perdonerà se ho fallato. Son quelli che studiano per la coltivazione dei campi.» -
Qui il nostro lettore diede in uno scroscio di risa.
- Ah, vedi? - gridò Aminta. - Non era poi una lettera che dovesse rattristarti.
- No davvero; - disse Gino. - È il mio servitore che mi scrive. Indovina un po' come chiama i Georgofili!
- Non saprei; - rispose Aminta. - Garofani?
- No, sarebbe troppo facile. È andato a cercare la variante più strana; ha scritto Geroglifici! -
Qui, insieme con Aminta, risero di cuore tutti i presenti. Gino, rasserenato, mandò uno sguardo a Fiordispina, che andava e veniva per la stanza, anch'ella sorridente e felice. Divino sorriso! Come s'illuminava per lui, quel sorriso, di tutte le liete notizie che gli aveva date Don Pietro! Il cugino Ruggero, l'Ercole adolescente, era partito per sempre; era un pretendente fallito, un'ombra dileguata. Ed anche per Gino Malatesti un'ombra era passata, alle falde del Cimone, ma per andarsi a dileguare nella val di Nievole.
Per altro, pensandoci bene, era stato un grande amore, quello della marchesa Polissena! E un grande rammarico era stato il suo, per l'esilio di Gino Malatesti da Modena! Bel modo, poi, di passargli daccanto, senza fermarsi mezz'ora, senza pur chiedere se fosse morto o vivo! Vedete un po' che strano contrasto, e un mese dopo i più terribili ardori, dopo i più solenni giuramenti di un amore eterno! Si sa, di eterno non c'è che la nostra sciocchezza, nel mondo; ma si vorrebbe almeno che certi aggettivi, come sono usati sinceramente, a significare la forza della passione, così non fossero dimenticati troppo presto. Non si salvano dunque neppure le apparenze? Morta la virtù, non c'è neanche più ipocrisia? Ecco qua la bella e ardente Polissena della fuga di Torino, che passava tranquillamente in vettura di posta da Pievepelago, vedendo lassù, dalla parte del Cimone, biancheggiare a mezza costa le case di Querciola, e non aveva nemmeno un pensiero per il povero confinato. Un servitore della signora marchesa poteva avere in tasca una lettera per Gino Malatesti, e ricordarsi di consegnarla a qualcheduno, che gliela facesse ricapitare. Lei, frattanto, passava di là, biondamente obliosa, per andarsene ai bagni di Lucca, alle conversazioni, alle passeggiate, ai concerti. Strana combinazione, se Gino avesse quel giorno accompagnato Aminta, come gli accadeva qualche volta di fare! Che incontro sarebbe stato quello! Ah, davvero, l'aveva scappata bella; e pensava, non senza un leggero brivido, che non è prudente andare a diporto sulle strade maestre.
Meditò su queste cose il tempo strettamente necessario a mettere in chiaro la bella serenità di spirito della marchesa Polissena; poi diede una crollatina di spalle. Filosofia, son queste le tue consolazioni.
Ma sì, ragazzi miei belli, che navigate tra due acque, che vi cullate tra due amori, l'uno dei quali è già nato, e l'altro non è morto ancora, queste lezioni vi toccano. Credete di essere necessarii, e già si pensa a voi, come si penserebbe al Gran Turco.
Andiamo al fondo, per altro; andiamo al fondo delle cose. Non era meglio così? Amava egli forse più la marchesa Polissena? Non aveva detto egli stesso, facendo il suo esame di coscienza, che il suo sentimento per lei era tutt'altra cosa da quello che provava per la fanciulla dei Guerri?
Si dirà che queste son distinzioni troppo sottili, ed anche arbitrarie, mentre la diversità di un amore da un altro dipende al più al più dalla diversità dell'oggetto. Ma io, se permettete, entro più che nei panni, nel cuore del personaggio; trovo che egli pensava così, come ho avuto l'onore di dirvi; so che era in buona fede, pensando così, e non domando di più. Finalmente, se la casuistica esiste, è segno, che risponde, o rispondeva da principio, ad un bisogno dell'animo umano.
Comunque fosse del suo primo e del suo secondo amore, Gino Malatesti si sentiva libero di cuore e di spirito, tanto che gli pareva di essersi levato un gran peso di sullo stomaco. Anche Fiordispina era libera, e la notizia, avuta nel medesimo giorno che si sentiva libero lui, gli parve di buon augurio. Non Polissene di qua, non Ruggeri di là, per far ombra alla scena; il cuore di Gino Malatesti brillava, sgombro di nebbia importuna, come la vetta rosea del Cimone sul sereno azzurro dei cieli.
O fanciulla dei Guerri, come foste felice quella sera anche voi, vedendo così lieto l'ospite del vostro buon padre! Da parecchi giorni egli non lo era più, e la cosa vi aveva profondamente turbata. Una sua parola acerba era venuta ad illuminarvi la mente; ma che ne potevate voi, se in casa di vostro padre c'era un ospite di troppo? Del resto, ilare come allora, il conte Gino Malatesti non lo era stato mai, dacchè il destino lo aveva sbalestrato alle Vaie. Sempre, anche nelle ore più confidenti, una piccola nube gli oscurava la fronte, e dietro a quella nube s'indovinava un triste pensiero appiattato: forse la sua città natale abbandonata, forse i parenti lontani, forse le care consuetudini interrotte, mutate violentemente da un decreto ducale. Ma che importava più di guardare il passato? Per allora il conte Gino rideva; per la prima volta appariva felice; il suo occhio era così limpido, che si sarebbe giurato di potergli leggere in fondo all'anima i più riposti pensieri.
Così pareva a lei, fanciulla intelligente, ma inesperta della vita. Se si fosse guardato nel fondo di quell'anima, si sarebbe veduto ancora un po' di torbido. Anche nel fondo di un ruscello, talvolta, si giurerebbe di non trovare che sabbia tersa e lucente. Ma chi stende la mano, raccatta sempre con la rena un po' di fango. I detriti della riva, depositati nell'alveo, non turbano la limpidezza delle acque; ma a patto di non rimestarle troppo.
Quel giorno, contento il signor Gino, erano contenti tutti, e si ciarlò più allegramente del solito nell'intima conversazione dei Guerri. Don Pietro, capitato sull'ora del caffè, domandò perchè non si fosse ancora pensato a fare qualche bella gita nei dintorni, al monte Cimone, al Cimoncino, a Bismantova, all'alpe di San Pellegrino. E il lago della Ninfa! Perchè non si andava a visitare il lago della Ninfa, per vedere la bella dai capegli biondi, tramutata in sasso?
Gino non aveva una grande curiosità di veder belle dai capegli biondi, dopo la triste esperienza che gli pareva di aver fatta di una fra queste. Ma una bella tramutata in pietra è sempre uno spettacolo degno di esser veduto, non foss'altro per riscontrare se la finezza dei lineamenti duri inalterata nella nuova sostanza. Il nome di Ninfa, poi, lo colpì più del color dei capegli e del tramutamento in sasso.
- Che storia è questa? - diss'egli. - Forse un avanzo dell'antica mitologia?
- Non saprei dirle, signor conte; - rispose Don Pietro. - Si dice la Ninfa, e potrebbe dirsi la Fata, la Sirena, l'Ondina, od altro di consimile, perchè son tutte forme diaboliche della stessa famiglia.
- Ma c'è una leggenda? - riprese Gino.
- Sicuro, ed eccola qua. Un giorno (Ella non mi domandi il mese e l'anno, perchè non glieli saprei dire) un giorno avvenne ad un cacciatore di passare tra i faggi, inseguendo una cerva, sulle rive del lago. Dall'altra parte, dove mancavano gli alberi e sorgeva in quella vece un picco aguzzo a mo' di scogliera, vide una bellissima figura di donna, che pareva una bagnante, escita allora dall'acqua, e in atto di rasciugare al sole la sua capigliatura bionda. Il cacciatore rimase estatico ad ammirarla; il che, per dirglielo così di passata, diede tempo alla cerva di mettersi in salvo. Quanto rimanesse egli in contemplazione non so, perchè la leggenda non lo dice; il fatto sta che quando egli fece per avvicinarsi alla bella figura, costeggiando la riva del lago, trovò un canaletto d'acqua, e in fondo al canaletto un roveto così fitto, che non ci fu verso di passare dall'altra parte. Quando ritornò al suo posto primitivo per rivedere la bella, un velo di nebbia si era levato dal lago; fors'anche l'oscurità della sera aveva calato quel velo dall'alto, e il cacciatore non vide più nulla. Ma la bella apparizione gli era rimasta impressa, come scolpita nel cuore. Domandò di quella bagnante ai carbonai che lavoravano nella valle, ai pastori che passavano i mesi della buona stagione sul monte, poco sopra il lago, e tutti a gara gli dissero: - Non ci tornate, bel cacciatore; è la Ninfa del lago, che si pettina al sole i capegli d'oro. Guai a voi, se v'innamorate di lei. Ella getta un fascino sui giovani e li conduce a morire. - A morire! Di che? - Di crepacuore, per non potersi avvicinare a lei. Lo scoglio su cui va a sedersi è alto, e non c'è modo di giungervi, costeggiando la riva. Quanto al gittarsi a nuoto, non c'è neanche da pensarci, perchè il lago è senza fondo, e nel bel mezzo ci ha un vortice, che v'inghiotte ogni cosa. -
Qui il narratore prese fiato e fece un sorrisetto al suo uditore.
- È vero questo? - domandò Gino, che non aveva perduto una sillaba.
- Che il lago della Ninfa è senza fondo? - disse Don Pietro. - Non voglio crederlo. Che c'è un vortice in mezzo? Non appare, ch'io sappia, da nessun movimento della superficie. È voce antica, e si ripete da tutti i nostri montanari; ecco tutto.
- Ma nessuno si è arrisicato nel mezzo del lago?
- L'acqua è molto fredda, e le salamandre che abbondano alla riva, tanto che se ne trova una sotto ogni sasso, rendono poco piacevole entrarci a piè nudo. Del resto, a recarsi nel mezzo del lago, sarebbe necessaria una barca. C'era il signor Francesco Guerri, nostro degnissimo amico qui presente, che aveva promesso di mettere lassù un burchiello; ma credo che ciò sarà nella settimana dei tre giovedì.
- Bella stima che si fa delle mie parole! - disse il signor Francesco, ridendo. - Sappia Lei, uomo di poca fede, che io non ho dimenticato nulla, e che il burchiello promesso è già arrivato a Pievepelago, dov'è andato il mio Aminta a riceverlo. Domani sarà alle Vaie, e lo faremo portare, senza levarlo dal carro, fino alla Beccadella, donde, coll'aiuto di quattro ruote, e a forza di braccia, se sarà bisogno, lo manderemo su, fino alla riva del lago. È contento, ora, di avermi fatto parlare? Aspettavo che la cosa fosse condotta a buon termine, per proporre la gita al nostro ospite.
- Oh! - gridò Gino. - Sarà una vera festa per me. Ma c'è il resto della leggenda, se non erro.
- Sicuro che c'è; - rispose Don Pietro. - Ad onta di tutte le ammonizioni, il cacciatore ritornò sulle rive del lago. Da principio andava guardingo, rimaneva appiattato tra i faggi, per non turbare la quiete della Ninfa, che stava sempre rasciugando i bei capegli d'oro al sole, e cantava frattanto una canzone, di cui egli non intendeva le parole, ma coglieva benissimo la soave melodìa. Ardì avanzarsi un giorno allo scoperto, e gli parve che ella, non che turbarsi della sua presenza, gli sorridesse e gli accennasse del capo. Lo chiamava forse a sè? Il giovane innamorato tentò allora di avvicinarsi; ma c'era sempre l'ostacolo di quel canaletto così profondo, in cui si vedevano guizzare le negre salamandre attraverso alcuni tronchi di faggio che infracidivano là dentro, galleggiando a mezz'acqua. Più oltre si vedeva fitto, irto di mille punte il roveto, e di là non c'era speranza di aprirsi una via. Neanche si poteva ascendere dai fianchi della montagna fino a quella punta scogliosa che sorgeva sul lago, essendo da quella parte tutta una balza a piombo, per un'altezza spaventosa. Il lago della Ninfa, se non lo sa, è scavato in una insenatura del monte, in una specie di cratere che gli fa come una tasca sul fianco, e l'acqua della sorgente, che scaturisce da un masso più in alto, ci sta come l'acqua santa nella sua pila di marmo. Tastati inutilmente tutti i passi, l'innamorato cacciatore dovette contentarsi di guardare da lungi. Venne l'autunno, ed egli seguitò a contemplare l'amor suo; venne l'inverno, e si copersero i monti di un mantello di neve, il vento incominciò a fischiare più rumoroso tra i faggi, e la Ninfa seguitava a star là, come se non sentisse il freddo pungente dell'Appennino, sempre pettinando al sole i suoi capegli d'oro. Ed egli pure, insensibile al freddo, non badando alla neve, nè al vento gelato, poichè era caldo d'amore, sdrucciolando più e più volte sul ghiaccio del sentiero, chiudendo gli occhi al nevischio che gli flagellava la faccia, ascendeva tra i faggi fino alla conca del lago, per ammirare ogni giorno la bella incantatrice. Prodigio inaudito! Si era la Ninfa impietosita di lui? Un bel ponte di cristallo, largo quanto lo specchio delle acque, si stendeva tra lui e la scogliera inaccessibile. E la Ninfa del lago seguitava a cantare, a guardarlo, a sorridergli, ad accennargli del capo. Arrisicò un passo, poi due, verso di lei, che cantava sempre, sorrideva e accennava del capo. Corse allora più rapido, volò più leggero sulla superficie cristallina, che il nevischio veniva coprendo di piccole stelle opache. Ma ohimè! Quando il cacciatore è già a mezzo del ponte, la via trema sotto i suoi piedi, dà suono di cristallo che si spezzi. Non è più in tempo a retrocedere; una fenditura di qua, una fenditura di là, e cric! la lastra si è rotta, il cacciatore s'inabissa nel baratro. Il ponte di cristallo non era altro che una crosta di ghiaccio. Lo sventurato non fu più visto da quel giorno tra i vivi. È fama per alcuni che la Ninfa del lago scendesse a consolarlo nel fondo delle acque. Altri crede di no. La Ninfa del lago era sempre stata immobile e fredda come una pietra lassù; pietra divenne, per giustizia divina, nè più scese a bagnare il bianco piede nell'acqua.
- Stupendo! - gridò Gino, poichè Don Pietro ebbe finito. - Ed è sempre visibile lassù?
- Sì, sebbene il tempo e l'azione alterna del caldo e del gelo le abbiano un po' guastati i contorni.
- Bella storia! Meriterebbe di esser vera, e andrebbe cantata col titolo: La Ninfa di pietra.
- Da bravo, dunque! - disse il vecchio prete. - Una ballata in piena regola, e mano al Ruscelli!
- Se fossi un poeta, - rispose Gino, tentennando la testa, - non ci sarebbe bisogno di un simile aiuto. Ma non lo sono, e il rimario non basta. Quando si va?
- Anche doman l'altro, appena sia condotto lassù il burchiello; - rispose il signor Francesco.
- Doman l'altro? È domenica; - disse Don Pietro. - Io ci ho la spiegazione del Vangelo. Il dovere prima di tutto; poi la buona compagnia, i faggi, il lago e la leggenda.
- Giustissimo; sia per lunedì, allora.
- Se potrò, volentieri.
- Se non potrà, lo sapremo, e rimanderemo la gita. Nessuno ci comanda, e siamo qui tutti l'un per l'altro; - replicò il signor Francesco.
- Così va bene; - disse il prete. - Questa gita mi sarà graditissima, dopo tanti anni che non l'ho più fatta. Ho una gran voglia di provare le mie gambe. La salita dalla Beccadella al lago, se ben ricordo, è cattiva.
- Oggi più di prima; - rispose Aminta. - Ci sono passato io l'altro mese e l'ho veduta. Le pioggie di primavera hanno fatti i solchi molto profondi, e in un luogo hanno addirittura sfondato il sentiero.
- Manda una squadra d'uomini a farci due giornate di lavoro; - disse il signor Francesco al figliuolo. - Sarà tanto di guadagnato per il trasporto del Leviathan. -
Si era ai tempi, lo ricordate, che tutta Europa si dava pensiero di uno smisurato piroscafo inglese, chiamato per l'appunto il Leviathan dei mari. Oggi, il signor Francesco Guerri, se dovesse parlare del burchiello che aveva destinato al lago della Ninfa, lo paragonerebbe più volentieri al Duilio.
Così fu concertata la gita al lago, e così furono dati tutti i provvedimenti perchè riescisse ogni cosa a dovere. Noi ci siamo un po' indugiati su questi discorsi, perchè la conversazione della gente dabbene è sempre molto piacevole, anche quando gli argomenti son lievi.
La conversazione si spezzò in dialoghi, come per solito avviene, quando una brigata si muove e ognuno si dispone a riprendere il carico, dolce o molesto, delle proprie faccende. In quel punto, Gino Malatesti si ritrovò molto naturalmente daccanto a Fiordispina.
- Che bella storia ci ha raccontata Don Pietro! - diss'egli. - Non pare anche a Lei, signorina?
- Bella, quantunque assai triste; - rispose la fanciulla. - Ma ho veduto che in letteratura è quasi sempre così; il lieto fine par sempre meno artistico, ai signori scrittori.
- In una leggenda, del resto, - disse Gino, - il pauroso e il patetico son sempre di regola.
- Da bravo! - saltò su a dire Fiordispina. - La metta in versi, come Le ha consigliato Don Pietro.
- Anche Lei, signorina?
- Anch'io; perchè no?
- Quando non si è poeti!... - esclamò Gino.
- Quando non si è poeti... si diventa; - rispose la fanciulla. - Non basta una forte commozione a schiuder la vena della poesia?
- Eh! per il sentimento, capisco.
- Il sentimento è tutto, o quasi tutto; - replicò Fiordispina.
- Ma un po' d'arte non guasta, anzi è necessaria; - disse Gino. - E questa non la dà che un lungo esercizio.
- Non troppo lungo, via! Se no, consuma l'estro. Ritorniamo all'essenziale, che è la commozione.
- Perdoni, signorina; io conosco qualche cosa di meglio della commozione, per render poeta un uomo. Esempio: una preghiera sua.
- Ah! - gridò ella, inarcando le ciglia e minacciandolo col dito levato. - Il topolino bianco che fa capolino dalla sua tana! -
Il topolino bianco era il complimento. Al conte Gino era avvenuto più volte di dirne, e di graziosissimi; donde, per convenzione di discorso, il loro nome, trovato dalla fanciulla, di topolini bianchi.
- Ecco, signorina... - rispose il giovanotto, volendo giustificarsi; - il topolino bianco può ammettersi terzo fra noi, quando viene per annunziarci la verità.
- Bene, la prendo in parola; - replicò Fiordispina. - Se non è stato un complimento, il suo. Ella deve provarsi, e scrivere la ballata.
- La condanna è severa; - diss'egli.
- Sia; - rispose Gino, inchinandosi. - Se così vuole davvero, mi proverò. Ma poi?...
- Poi trascriverà la ballata sul mio albo.
- Sull'albo! Anche Lei, signorina, ne ha uno? E perchè non l'ho ancora veduto?
- Perchè non me ne ha chiesto, ed io non ho avuto occasione di dirgliene. Del resto, eccolo qua; era alla vista di tutti. -
Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si accostò alla sua piccola libreria, e di mezzo a certi libri trasse un volume rilegato di marocchino, coi fermagli d'argento.
Gino prese il volume dalle mani di lei e lo aperse. Era tutto pagine bianche.
- Come? - esclamò. - Un albo vuoto?
- Sicuramente. E chi ci doveva scrivere? buono, o nulla.
- Bellissima risposta! Ma badi, signorina, vedo qui un altro topolino bianco.
- Perchè?
- Perchè Ella dice anticipatamente che le piacerà quello che ci scriverò io.
- Scriva, - rispose la fanciulla, - e non si dia pensiero d'altro.
- Ahimè! - mormorò Gino. - Debbo pure darmi pensiero di ciò che altri ci scriverà dopo di me. -
Gino aveva fatto il viso malinconico, parlando così; Fiordispina fece il viso serio, udendo quelle parole.
- Ecco, - diss'ella, - ora mi fa torto. Non ci ha scritto nessuno prima di Lei; non ci scriverà nessuno dopo. Sono montanara, signor conte, e molto ferma nei miei propositi, l'avverto. Ne dubita forse? È cattivo.
- No, no! Non sono cattivo, perchè sono felice; - rispose Gino, colto da un soave turbamento, e abbassando la voce, poichè anche a dir poco voleva parlare solamente per lei. - Se fossi cattivo, Minerva non mi assisterebbe più, nell'impresa poetica alla quale mi accingo.
- Si tratta di poesia; - disse Fiordispina. - Dovrebbe assisterla Apollo.
- No, signorina. Apollo è la forma, il metro, il ritmo, tutto ciò che vorrà, meno il pensiero. Il pensiero è Minerva.... e per me, - soggiunse Gino, additando maliziosamente una certa acconciatura di testa, - anche Minerva con l'elmo. -
L'allusione era così diretta e il gesto così comico, che Fiordispina non potè trattenersi dal ridere.
- Per un fazzoletto di seta, dir elmo è troppa! - rispose. - Ma me lo leverò, non dubiti. Portare un fazzoletto in testa, è anche un esser troppo montanara.
- No, resti così.... montanara, se montanara è, come dice Lei, una persona ferma ne' suoi propositi. Resti così, signorina, sul monte Ida.
- Oh, questo, poi!... - gridò Fiordispina, - Sull'Ida, no. Non sa lei che Minerva fu vinta, lassù?
- Per il giudizio di uno sciocco! - rispose Gino. - Crede Ella che sia tale ancor io? È cattiva Lei, ora.
- Or dunque, per non esser cattivi, ritiriamo ciò che si è detto; - replicò Fiordispina, chinando la testa con atto di comica rassegnazione. - Ma ritiri anche Lei il suo monte Ida, per carità. Non ci ho che vedere, con l'Ida, e mi attengo al nostro Cimone, tanto meno classico, ma non privo di poesia.
- Divina fanciulla! - esclamò Gino infiammato.
Ma voi siete pregati di credere, o lettori discreti, che questa esclamazione fu fatta con gli occhi. Con gli occhi, ripeto, quando essi parlano, lampeggiando l'idea, e le labbra si contentano di mormorare un suono indistinto, il suono del desiderio, della giaculatoria, della adorazione, dell'estasi, o di tutte queste cose insieme.