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Capitolo VII.
Jamque dies aderat, avrebbe detto qui un poeta latino, per cavarsela con un bel trapasso alla greca. E già era venuto il gran giorno, che fu un lunedì, come sapete, destinato alla gita del lago della Ninfa, preceduta da una salita sulla vetta del Cimone.
Fino ad un certo punto era tutta una strada. Partiti verso le tre del mattino delle Vaie, i nostri viaggiatori giungevano al pian Cavallaro coi primi lumi dell'alba. Colà, per fare omaggio al nome del luogo, lasciarono le cavalcature, e dopo avere assaggiata l'acqua fresca, quasi gelida, della fonte Beccadella, presero risolutamente a salire la vetta del Cimone.
Ve l'ho già detto altrove, o non ve l'ho detto? Nel dubbio, ve lo ripeterò: l'ascensione di questo altissimo tra i vertici dell'Appennino settentrionale (duemila cento sessantacinque metri, scusate!) non offre difficoltà che all'ultimo passo, cioè nel guadagnare quel suo petroso ciglio, che è formato, dicono, dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. L'ossatura del monte è in gran parte di simili strati, ai quali non piacque la posizione orizzontale, o non fu lasciata piacere da quelle cause che sapete, o che più facilmente non saprete, poichè oggi ancora si cercano. Infatti, vedete: c'è stato un tempo che tra i geologi fu una quistione indiavolata circa la crosta della Terra; chi la voleva cruda e chi cotta, e i primi erano quelli del sistema nettuniano, e gli altri del plutoniano. Vinse per un po' di tempo chi la voleva cotta; ma tra questi si manifestarono ben presto gli screzi; nacquero i dubbi e le liti sul grado di cottura. Poi tornarono a galla coloro che la volevano cruda, e si accapigliarono con quelli che la desideravan almeno un po' riscaldata a bagno maria. Questo è suppergiù lo stato presente della disputa.
Per cattivo che fosse quell'ultimo passo, le vecchie gambe di Don Pietro furono le prime a superarlo, e senza bisogno d'aiuti. Lodando lui, ridendo, offrendo la mano alle signore, si giunse in breve ora sul cono, dalla vetta spuntata, vero osservatorio alpino, che aveva forse cento metri di giro.
Nel bel mezzo di quel pianerottolo sorgeva una piccola torre. Dico che sorgeva, e sarebbe più giusto il dire che cascava a pezzi. Era stata edificata nel 1816, per servire come stazione trigonometrica agli ufficiali che delineavano la carta topografica dello Stato Estense. Non cercate più ora quella piccola torre; mezzo diroccata ai tempi del nostro racconto, crollò del tutto qualche anno dopo. Oggi è surrogata da un bel torrione, di cui gli scienziati si faranno un osservatorio e gli alpinisti potranno farsi un ricovero. Così, quando l'opera sarà inaugurata, e inaffiata spero da qualche bottiglia di lambrusco, non sarà più il caso di partirsi un giorno prima da Fanano e di passar la notte in un tugurio di pastori, ai Faggi, come toccò allo Spallanzani, per voler essere la mattina degli 11 agosto del 1789 sulla vetta del Cimone, e goderci lo spettacolo sempre maraviglioso della levata del sole. Oramai si potrà giungere sul Cimone a tutte le ore del giorno, dormire lassù, levarsi per tempissimo e godere, non che la levata del sole, tutti i preliminari della cosa: l'alzarsi della cameriera in sul bruzzico, l'aprire la finestra della cucina, sul balzo d'Oriente, lo accendere i fornelli, e il portare una tazza di caffè fumante al padrone.
Che volgarità son queste? Non c'è altro da dire sul romper dell'alba e sul levarsi del sole? Amici lettori, il mattino osservato dalla vetta di un monte è stato descritto tante volte, che in verità non si sa più come cavarsela, per rinfrescare in qualche modo il soggetto. Potrei dire con laudabile brevità: «splendido!» Ma neanche questo sarebbe nuovo, avendolo già detto il duca di Wellington, a Waterloo.
Ma lasciamo questi discorsi. Ai nostri amici delle Vaie toccò una di quelle fortune così rare sui monti, che sono le mattinate limpide tutto intorno, senza nebbie interposte fra essi e il gran giro dell'orizzonte che sembrano comandare dall'alto. Salutato il grande astro rosseggiante che si affacciava dalle vette dei monti toscani, i nostri amici si volsero intorno a veder sorgere, quasi nascere a grado a grado dalle tenebre, tingersi di bei colori e risplendere gloriosa la gran catena delle Alpi, dalle Marittime alle Retiche; biancheggiare di sotto e illuminarsi via via la grande pianura per cui correva il Po in lunga e tortuosa fascia d'argento; più oltre accennarsi in una candida sfumatura l'Adriatico, donde, percorsi rapidamente con l'occhio i dorsi dell'Appennino bolognese e del toscano, veduta Bismantova, con la sua gran faccia di sfinge supina, ma di sfinge europea che abbia il naso aquilino, era permesso di veder le Maremme verdeggianti, le rive del Tirreno e le isole dell'Arcipelago toscano, ninfe nuotanti sopra una grande distesa d'azzurro.
- Andiam, che la via lunga ne sospigne; - aveva detto ad un certo punto Don Pietro.
E obbedendo al cenno dantesco, che non era stato neppur solo, poichè si era veduto e ricordato con parole dantesche il sasso di Bismantova, la brigata si mosse per ritornare alle falde del cono, dove i cavalli aspettavano.
La fonte Beccadella si sprigionava rumorosa dal masso, scendeva copiosa tra due sponde rivestite di felci, tanto copiosa (l'osservazione è dello Spallanzani, che era un uomo pratico) da bastare a mettere in moto la ruota di un mulino. La brigata stette alquanto ad ammirare la fresca sorgente, i muschi che inverdivano i sassi, e le felci che piegavano intorno i loro ombrelli dentati, o rizzavano dignitosamente i loro pastorali dalla vetta ricurva, come se fossero altrettanti vescovi in processione. Poi, rimontati a cavallo, scesero tutti verso greco, dietro la guida di Aminta, addentrandosi in una fitta selva di abeti e di faggi. Fu un'allegra discesa, dove soli i cavalli vedevano il sentiero, mentre i cavalieri dovevano guardarsi dai rami protesi che ad ogni tratto schiaffeggiavano il viso.
Ad un certo punto, le veduta si aperse sopra una vasta conca di azzurro intenso, chiusa d'ogni parte nel verde.
- Bello! - esclamò Gino, a cui Fiordispina aveva indicata la scena. - Il suo nome?
- Non lo ha riconosciuto ancora? - domandò la fanciulla.
- Per l'appunto.
- Ma.... - disse Gino. - Cerco la Ninfa, e non la trovo. È tutto verde, in giro al lago.
- Ancora un po' di strada e vedrà scoprirsi da quella parte la roccia biancastra.
- Ella crede dunque, signorina, che noi non possiamo vedere niente più della nuda roccia? E la Ninfa in persona non sarà ad aspettarci?
- Ci sarà sicuramente; - rispose Fiordispina. - Non le ha detto Don Pietro che è stata convertita in sasso? -
Il conte Gino seguiva con gli occhi tutte le curve graziose di quello specchio azzurro, mentre la cavalcata scendeva la costiera, in mezzo alle aste rossiccie di una macchia di abeti. Anzichè lago della Ninfa, quel volume d'acque si sarebbe potuto dir occhio; un occhio limpido e sereno, a cui erano ciglia i faggi della riva e sopracciglia le prominenze della balza; uno di quegli occhi bovini, pieni di stupore, con cui Iside, o la santa natura, contempla il cielo suo padre e ne riflette l'immagine in terra. Ahimè, nient'altro che l'immagine!
Questi occhi d'Iside, o di Giunone, o d'altra divinità che raffiguri la virtù feconda della madre terra, son comuni tra i gioghi dell'Appennino settentrionale, e sarebbe piacevolissimo ragionarne a lungo, se non si temesse di dar noia al lettore. Dal lato superiore della gran valle del Po, i laghi son tutti lunghi e vasti come la catena delle Alpi da cui prendono le acque, come i fiumi a cui debbono restituirle. Dal lato inferiore, sono meno alti i monti, meno lungo è il corso dei fiumi, le nevi durano meno sui dorsi dell'Appennino, e i laghi, quantunque più numerosi, sono infinitamente più piccoli; veri laghetti, serbatoi montanini, dai quattro agli ottocento metri di giro, formati sempre nelle alte convalli, dove in antichissimi tempi erano altrettanti ghiacciai. Sull'Appennino le nevi disciolte, ma più ancora le selve fitte, nutrono fonti vive e perenni; son queste che fanno lago, cento o dugento metri più sotto, in qualche piega del monte. Dalla parte inferiore, dov'è come il labbro della conca montana, è facile riconoscere tuttavia la mora dell'antico ghiacciaio, enorme parete di massi ammonticchiati, rivestiti di verdura e arieggianti una collina a chi li guardi dal basso. Sui fianchi del lago, un picco ignudo, una cresta scogliosa, una spina dentata di rocce, lasciano ancora indovinare gli strati di vecchio macigno terziario, che il ghiacciaio ha corrosi via via, trovandoli sul confine del suo regno. Se l'epoca glaciale fosse durata nel nostro piccolo mondo venti trenta secoli di più, certamente quelle pareti si sarebbero corrose dell'altro e sfiancate, scendendo a formare altre more di sassi sul confine del ghiacciaio medesimo, che le aveva da principio sfaldate. Ma per bontà di un cambiamento di temperatura, che ha permesso a noi di nascere (non so per qual fine e nemmeno con quanto utile nostro), quelle pareti rimangono in piedi, come segni delle antiche erosioni che han dato la forma più recente al nostro pianeta. Vogliano i cieli benigni che sia anche l'ultima.
La cavalcata era giunta al confine della macchia, donde si stendeva in dolce pendìo un tappeto erboso, un verde pulvinare, fino alla riva del lago. Qua e là il declivio era seminato di massi enormi, le cui facce scabre si vedevano chiazzate di licheni e annerite dai geli di un numero sterminato d'inverni. Un geologo ci avrebbe veduto altrettanti esemplari dei famosi massi erratici, fatti scorrere fin là sul piano inclinato del ghiacciaio, e deposti sul limite della mora. Un pittore, senza cercar tanto, avrebbe messo mano ai pennelli e si sarebbe affrettato a ritrarli, per portar via una bella impressione dal vero. Gino, che non era geologo nè pittore, si contentò di osservare. La poesia del luogo era grande, la pace incantevole, e Fiordispina, bella come una Dea, certamente più della Ninfa che fino allora aveva regnato da sola in quel verde di macchie, su quell'azzurro di lago, affascinando e traendo a morte i viandanti ignari, i cacciatori della leggenda.
Mentre egli ammirava tacendo, i suoi compagni si affollavano intorno alla barca, che i boscaiuoli di casa Guerri avevano tirata lassù a forza di braccia. Non era una barca molto grossa; era un burchiello, capace di due persone sedute e di una terza che stesse al maneggio dei remi. Ma era la prima che andasse lassù, e alla Ninfa del lago poteva parere una grande maraviglia. Doveva trovarsi male, quella povera Ninfa; il suo regno era finito; il suo recesso non avrebbe più avuto segreti, poichè era consentito di correre il lago da una riva all'altra e di giungere fino al suo letto di pietra.
La barca non era stata ancora lanciata nell'acqua. Il signor Francesco aveva ordinato che fosse tenuta sulla riva, in attesa della brigata. Don Pietro doveva benedirla, il padrino e la madrina imporle un nome. Il padrino, si capisce già, sarebbe stato l'ospite, il conte Gino Malatesti; la madrina poi... debbo dirvi anche questo? la madrina sarebbe stata la fanciulla dei Guerri.
Mentre la comitiva stava intorno al burchiello, che i boscaiuoli traevano ancor più presso alla riva perchè fosse pronto al mistico bacio delle onde, Gino guardava il masso bianchiccio, che sorgeva, bizzarramente stagliato, dall'altra parie del lago. Egli doveva cantare la Ninfa, poichè ne aveva fatto solenne promessa a Fiordispina; voleva perciò impadronirsi del soggetto. Era dunque laggiù, era quella veramente, la Ninfa del lago convertita in pietra! La vecchia balza calcarea, isolata sul fianco della montagna ed impervia, colorata dai caldi riflessi del sole mattutino, poteva benissimo aver raffigurato in altri tempi la chioma, il profilo di una faccia umana e tutto insieme il corpo di una persona sdraiata; ma via, per innamorarsene, anche da lontano, ci voleva proprio un cacciator da leggenda.
- Che cosa pensa? - gli domandò Fiordispina.
- Penso, - rispose Gino, - alla fantasia del nostro ottimo prevosto. Egli è Pietro, e su quella pietra ha edificata una graziosa leggenda. Mi dica lei, signorina, ora che ha quel bizzarro profilo sott'occhio. Le par proprio quella una figura da innamorarsene a prima vista?
- È di sasso, - replicò la fanciulla, - e chi sa quanti sconcerti atmosferici hanno lavorato a guastarle il profilo! Povera ninfa del lago! Ci vuole sicuramente uno sforzo di volontà, per ricostruirne i contorni. Ma noi, fra cent'anni, - soggiunse la fanciulla, sospirando, - saremo più riconoscibili di lei?
- È un pensiero filosofico, signorina; - disse Gino; - ed anche molto pietoso per quella povera morta. Ma non basta a salvarla; ne conviene? -
La fanciulla non ebbe tempo a rispondere.
- Venite qua, Fiordispina; - gridò in quel punto il vecchio prevosto. - Ed anche Lei, signor conte. I due più giovani della brigata si stringano intorno al più vecchio. Così! E tutti gli altri in giro, perchè siamo al momento solenne. Che nome vogliamo noi dare a questo burchiello?
- Dica Lei, signor conte; - mormorò Fiordispina, a cui era rivolto il discorso di Don Pietro.
- Non l'oserò mai; - disse Gino, che avrebbe dato volentieri il nome della fanciulla.
- Bene, vedrò dunque io d'interpretare il suo pensiero; - rispose Fiordispina. - Facciamo una cosa alta, non è vero?
- Siamo in alto per questo; - disse Don Pietro. Fiordispina, allora, si accostò al vecchio prete e gli susurrò una parola all'orecchio.
Don Pietro si scosse, sospirò, levò gli occhi al cielo, come per chiamarlo testimone ed auspice di un voto del cuor suo; poi, con atto paterno, baciò in fronte la fanciulla.
- Che tu sia benedetta, - diss'egli, - come io benedico nel nome di Dio questa fragile barca. Va, - soggiunse allora, sospingendo il burchiello, - va nel nome d'Italia, che Fiordispina Guerri t'ha imposto, e conduci le sue fortune all'altra riva, alla meta sospirata dei nostri cuori. -
La scena, piccola com'era, aveva una grandezza semplice, una solennità commovente.
- Italia! - gridarono tutti. - Viva l'Italia! -
- Così l'avete chiamata? - mormorò Gino, volgendosi alla fanciulla, e dimenticando in quel punto le forme cerimoniose di discorso che aveva sempre usate con lei.
- Non è il vostro sospiro, conte? - diss'ella di rimando. - E non siete qui per amor suo? -
Così, senza lunghi discorsi, che non era il caso, senza bandiere, che non ce n'erano di pronte, ma con grande effusione di cuori, fu lanciata sulle acque l'Italia. Illustre signor commissario, e voi non eravate là per riferire del fatto!
Il conte Gino, preso da un impeto subitaneo, era saltato dentro il burchiello, e di là porgeva la mano a Fiordispina. La bella montanara, presa la mano del conte, balzò ardita e leggiera sul capo di banda, prima che alcuno pensasse a trattenerla, o a sostenerla nel salto.
- Che fate? - gridò la signora Angelica.
- Non vede, signora? - disse Gino. - Andiamo alla meta. -
E afferrava i remi, per adattarli sugli scalmi.
- Aspettino almeno che venga un uomo con loro; - - disse il signor Francesco. - Aminta, entra anche tu nel burchiello.
- Crede al vortice, Lei? - chiese Don Pietro al vecchio Guerri.
- No, davvero; ma sono due giovani, e un po' d'esperienza....
- Li lasci andare, sor Francesco. È un viaggio che tocca ai giovani.
- Non temer nulla, del resto; - disse Aminta a suo padre. - Noi andremo lungo la riva, tenendo la fune. -
Il pensiero di Aminta parve buono al vecchio Guerri. Il lago, di forma elittica, non misurava che trecento metri nella sua maggiore larghezza, e la fune legata alla poppa, quando gli uomini che ne tenevano il capo andassero lungo la riva seguitando il corso della barca, poteva bastare per accompagnarla fino al piede della balza, obbligando all'uopo il rematore a piegare da un lato, anzichè a tenersi nel mezzo del lago.
Gino, allegro e superbo della sua piccola audacia, vogava arditamente, contemplando la fanciulla, che stava seduta a poppa, con una mano penzoloni fuori del capo di banda, sfiorando l'acqua fresca col sommo delle dita e segnando lo specchio azzurro d'una piccola striscia d'argento.
- Voi siete Minerva, o la saviezza incarnata; - disse Gino alla fanciulla. - Così fossi io Achille, per obbedirvi e giungere sotto il vostro patrocinio alla vittoria sperata!
- Sì, se non ci fossero altri pericoli che questo! - esclamò Fiordispina ridendo. - Ma per l'impresa a cui alludete, signor Gino, se anche io fossi Minerva, ci vorrebbe un Ulisse.
- E vada per Ulisse; - replicò Gino. - Siamo in acqua, di fatti, ed egli ne corse molta, con l'aiuto della Dea. -
La fanciulla sorrise, ma non rispose più altro. Pensava ella a tutte le avventure dell'eroe itacense? e alla lunga solitudine della casta Penelope?
Frattanto, il suo mite sorriso correva sulle acque, illuminando quella pace profonda, meglio che non facessero i raggi obbliqui del sole, penetrando a lunghi sprazzi dorati tra i faggi e gli abeti, lunga e fitta selva di lance vigilanti, ond'erano contornate e chiuse le verdi rive del lago.
- Eccolo, il famoso vortice! - disse Gino, mentre il burchiello sotto l'impulso dei remi giungeva quasi a rasentare il centro dello specchio azzurro. - Vedete che tranquillità d'acque!
- Mio fratello crede più di voi alla voce popolare; - rispose la fanciulla. - Egli ci tira insensibilmente da un lato e non ci lascia andar sopra al punto pericoloso.
- Ma ci permette di vederci dentro; - replicò Gino. Guardate là, come si distingue il fondo. Ci saranno sei metri d'acqua, a far molto.
- Avete ragione; le cose vedute da vicino pèrdono assai del loro carattere pauroso. Anche la ninfa del lago dà meno illusione agli occhi, quanto più ci accostiamo al suo trono di pietra. L'unica cosa che le rimanga è la sua capigliatura dorata. Infatti, al raggio del sole, la vetta dello scoglio par bionda. Non amate il biondo, voi, signor Gino?
- Sia il colore delle donne di pietra; - rispose il giovane, senza pure voltarsi sui remi a guardar la scogliera. - La donna vera, la donna vivente, sia ala di corvo... come voi.
- Ahi - gridò Fiordispina. - Il topolino bianco!...
- E vi dispiace, signorina? Qui almeno dovrebbe essere tollerato. Credete che sia mai stato detto un complimento, in questo punto del globo?
- No, davvero; è la prima volta di certo. Accettiamolo dunque. Ma se quella bionda vi sente, povera la nostra barchetta!
- A proposito! - disse Gino. - Mi fate pensare che bisogna tener d'occhio la riva. -
Così dicendo, si volse, e levatosi in piedi vogò con la faccia rivolta alla sponda. La balza, dalla parte del lago, offriva agli occhi uno scoscendimento di sassi, di lastroni sfaldati, che ingombravano il lido. Quello era un vantaggio per la barca, che poteva accostarsi, senza toccare con la chiglia il terreno, ed offrire un più facile approdo ai nostri due viaggiatori. Il conte Gino rallentò la voga, per non urtare nei lastroni sporgenti; e quando venne a rasentarli con la prora, fu lesto a disarmare i remi, per saltar subito a riva. Di là, trattenendo con una mano il piccolo legno, tese l'altra a Fiordispina, che lo imitò prontamente.
- Terra! terra! - gridò Gino alla comitiva, che dalla sponda opposta aveva seguito con gli occhi il viaggio dei due giovani argonauti. - Aminta, tira il burchiello a te, e seguici sull'intentato pelago.
- Con poco rischio, oramai; - rispose Aminta, mentre lavorava con la squadra dei boscaiuoli a tirare la fune.
Lasciamo che la barca ritorni indietro, rasentando la scogliera, e seguiamo i due giovani. Gino aveva presa la fanciulla per mano e la conduceva di sasso in sasso fino al piede della balza. La ninfa del lago era là, supina sul guanciale di pietra, ma ohimè, come aveva già detto Fiordispina, non più riconoscibile.
- Siete qui, affascinatrice leggendaria? - diss'egli, accostandosi al sasso. - Vi tocchiamo, finalmente, e come il vortice non ci ha inghiottiti, così le vostre bellezze non ci faranno smarrire la ragione. La cosa, del resto, sarebbe stata impossibile, qualunque fosse il poter vostro. Vedete questa gentile fanciulla? Orbene, sappiate, vo' dirvi una cosa all'orecchio, com'ella dianzi ne ha bisbigliato una a Don Pietro. -
E si accostò al masso, mormorando parole indistinte.
- Ecco! - esclamò Fiordispina. - La Ninfa non è cortese come Don Pietro, che ripetè ad alta voce ciò che io gli avevo bisbigliato all'orecchio.
- La Ninfa è di pietra; - rispose Gino. - Se fosse viva, e se potesse parlare, ripeterebbe che io vi amo. Ecco una cosa che non è mai stata detta qui. Vi dispiace, signorina? - soggiunse egli, vedendo che la fanciulla si era turbata. - Son io stato troppo audace e vi ho offesa con le mie pronte parole? Perdonate, Fiordispina! Non è sempre dato tacere quello che si ha nel cuore. Il mio è pieno di voi.
- Non ho da perdonarvi nulla; - rispose Fiordispina, abbandonandogli con atto confidente la mano ch'egli aveva afferrata. - Siete sincero, e la sincerità è una bella cosa, che deve piacere ad ognuno. Ma dite, signor Gino, avete voi pensato... a tutto?
- Tutto!... - diss'egli, perplesso. - Tutto... siete voi, oggi.
- Oggi! - ripetè la fanciulla, crollando mestamente il capo. - Son io, l'oggi, e siete voi, Gino. Ma il domani! Il domani è la vostra famiglia, che vi richiama. Il domani è il conte Jacopo, vostro padre, la cui volontà dovreste consultare... e rispettare. -
Gino rimase un istante sopra di sè.
- Mi fate pensare, - diss'egli - poscia, - che dovevo parlar prima al vostro. Correggerò l'errore, non dubitate.
- No, non lo fate! - gridò la fanciulla. - Io non vi domanderò di leggere meglio nel vostro cuore, perchè vi offenderei, parlandovi così. Vi domanderò invece di essere ben certo di ciò che vostro padre potrebbe consentirvi, negarvi. Ho pensato molto a queste cose, sapete? Ci ho pensato lungamente, e da gran tempo. Io, signor conte, vi ho amato fin dal primo giorno che vi ho veduto. Non so se queste cose si debbano dire; ma voi attribuirete la mia sincerità alla inesperienza degli usi del mondo. Per me, eravate infelice, condannato a vivere tra questi monti, lontano da casa vostra e da tutte le vostre cose più care. Dovevano venire a voi tutti i cuori, per medicare le ferite vostre, per farvi dimenticare le amarezze della vita. Era naturale che io vi amassi, conte Gino; dirò di più, era fatale. Ma quando mi sono avveduta che anche voi mi amavate, - e qui, la voce della fanciulla fu quasi per ispegnersi in un singhiozzo, - allora ho incominciato a tremare. Che avverrà? ho detto allora a me stessa. Che avverrà? vi ripeto oggi ancora. Per me, conte Gino, io non lo so, non oso cercarlo. C'è buio, nel futuro, ed ho paura di andare innanzi, perchè temo di trovarci un gran vuoto, un terribile vuoto.
- Qual pensiero! - esclamò Gino. - Perchè questi timori? Non avete voi fede in me? Non l'ho io meritata?
- Ho fede in voi; - rispose la fanciulla. - Ma su di voi, su di me, su di noi tutti è il destino. Ho pensato molto, vi dicevo poc'anzi. Qui si pensa molto, quando si pensa; nulla ci distrae, nulla turba il quieto ed assiduo lavoro dello spirito; nessun pensiero, nessun affetto si diffonde o si perde; si raccolgono, si fortificano tutti nel profondo dell'anima. Che voi abbiate dei doveri, lo so; che abbiano a cozzare con le inclinazioni del vostro cuore, lo prevedo. L'idea che vi ha meritato il confine, non è sicuramente un'idea leggiera, se ad essa avete sacrificati gli affetti della famiglia e le consuetudini della vita. Chi sa quali altri sacrifizi non vorrà essa da voi? La patria, Gino Malatesti, sta sopra ad ogni cosa. Avete un bel nome; i vostri padri, prima di essere gentiluomini di corte, furono soldati, e sperarono tutti di collegare il loro nome al ricordo di qualche utile impresa; italiani di nascita, furono certamente italiani di pensiero, ed anche servendo a barbari, a predatori, ad avventurieri fortunati, si dolsero di veder correre la patria loro da tanti ladroni stranieri. Sventurati nell'esito delle loro fatiche, non vi hanno lasciata una patria rifatta, gloriosa e felice; ma hanno potuto lasciarvi un titolo ed una corona, come obbligo e incitamento a proseguire un'opera grande, da essi intravveduta, da essi vagheggiata. Per qual ragione ci sarebbero dei nobili, in un paese, se non fosse per dare l'esempio alle turbe? Lo stemma e la corona non furono inventati, che io creda, per dare un bel rilievo ai suggelli delle lettere, o per adornare gli sportelli delle carrozze, ma per offrire un segno di collegamento nella battaglia. Oggi, poi, tutti coloro che hanno potuto nutrir meglio lo spirito, hanno l'obbligo sacro di trovarsi ai primi posti, per l'ora delle prove solenni. Voi non credete già che l'Italia poserà sempre sotto lo scettro, o sotto il bastone dei suoi sette signori. C'è chi veglia e lavora a destarla. Forse lo scoppio dell'ira è vicino.
- Non tanto, - replicò Gino, - non tanto da impedire che voi portiate il mio nome. Sarò più forte, nell'ora delle prove, se voi sarete la contessa Malatesti. -
Fiordispina chiuse gli occhi, come per non vedere l'altezza a cui egli voleva trascinarla con sè.
- Bella cosa! - mormorò ella, dopo un istante di pausa. - La mia mano nella vostra; la vostra fede suggellata nella mia! Ma è forse un sogno. Vostro padre vorrà? Non dovrete combattere? E un combattimento di questo genere non porterà obblighi di molta delicatezza, e per voi e per me? Pensate anche alla mia famiglia, conte Gino. Ci chiamano i re della montagna, ed abbiamo il nostro orgoglio anche noi, sotto la semplicità dei nostri costumi. Noi non dobbiamo e non vogliamo sapere che il conte Jacopo Malatesti possa aver ricusata per un giorno, per un'ora, l'alleanza dei Guerri. Il carico della battaglia sarà tutto per voi. Potrete sostenerlo? Dio lo voglia, come io lo desidero. Ma se è troppo grave rinunziateci.
- Perdonate! - interruppe Gino. - Quali difficoltà immaginate voi ora? Perchè mio padre non dovrebbe volere? Se egli vi vede, Fiordispina....
- Ecco, voi ne trovate un'altra, di difficoltà; - replicò la fanciulla. - Vostro padre dovrebbe ancora vedermi. La cosa è più lontana che non vi sembri, accennandola. Gino, ve ne prego! Nessuna leggerezza, in un così grave argomento! Con l'amore e con l'onore non si scherza, e voi stesso, voi cavaliere perfetto, potreste insegnarlo ad una povera montanara come son io. Pensate a me, qualunque cosa avvenga di noi. Giuratemelo, e questo mi basterà, perchè il vostro giuramento sarà quello di un uomo leale.
- A voi lo giuro e al cielo che ci vede; - disse Gino. - Il mio cuore è vostro; siete voi l'amor mio. E voi, Fiordispina?...
- Non chiedete di me; - rispose ella, con accento di nobile alterezza. - Voi avete forse già amato, signor conte. Io non ho amato mai, e vivrò di questo amore per sempre. Con queste poche parole io vi ho detto ogni cosa. la felicità con voi, o la infelicità per tutta la vita. -
Il burchiello si accostava alla scogliera, portando il fratello di Fiordispina.
- Ebbene? - gridò Aminta. - Non venite a darmi il benvenuto nella vostra isola? -
Gino accorse, stese la mano ad Aminta, lo abbracciò stretto e lo baciò su ambedue le guance. Era anche la sua risposta alle ultime parole di Fiordispina.
- Dov'è questa Ninfa, che io non la vedo? - disse Aminta, volgendo gli occhi al sommo della balza.
- Eccola! - disse Gino, indicando Fiordispina.
La fanciulla era seduta sul masso, e la sua bella testa di Minerva Glaucopide spiccava con la precisione di un antico cammèo sul fondo azzurro del cielo.
- Vada per il complimento! - rispose Aminta, ridendo. - Ma non ha i capegli d'oro, che ci ha promessi Don Pietro.
- In pochi minuti tutto ciò è stato cambiato; - disse Gino. - Adesso la Ninfa li ha neri come ala di corvo. Aggiungi che non affascina più i cacciatori, ma dà eccellenti consigli agli ospiti di casa Guerri. Sai di che cosa abbiamo parlato, aspettandoti?
- Dell'Italia, ne son certo; - rispose Aminta. - Mia sorella non pensa ad altro, non vede altro, e noi salutiamo in lei una Romana antica.
- È troppo poco; - disse Gino. - Permettimi di credere che se fossero state così le Romane antiche, Roma comanderebbe ancora alle genti.
- Hai sentito, Fiordispina?
- Sì; - rispose la fanciulla, dall'alto.
- E ti pare?...
- Che il conte Malatesti abbia ragione. Prendiamo senza finta modestia quel che ci viene. Non è il valore, non è l'altezza della mente, che mi regala il nostro ospite, riconoscendo in me l'amore della patria. Oggi il culto dell'Italia nel segreto delle nostre case, o sulla vetta dei monti, lontano dal sospetto dei tiranni e dall'orecchio dei delatori; domani l'impeto della rivolta, il riconoscimento e l'alleanza delle libere volontà alla luce del sole. Ma allora voi combatterete, e noi pregheremo. -
Gino era in estasi, e taceva, come tutti gli estatici. Aminta, che non aveva le sue ragioni per rimanere a bocca aperta, ma che aveva pur sentito profondamente il discorso di sua sorella, stette un momento sopra di sè, poi scosse la testa con atto risoluto, e rispose:
- Combatteremo! -
Proferì quella parola, come se avesse giurato. Il conte Gino, scosso a sua volta da quell'accento solenne, prese la mano di Aminta e la strinse fortemente, associandosi al giuramento.
Il resto della giornata non si racconta. La scampagnata fu gaia, piacevole, amena, con momenti di grato riposo alternati da scoppi di pazza ilarità, con aliti di frescura che rianimavano gli spiriti, con ondate di tepore che scaldavano il cuore. Infatti, c'è questa sequela di sensazioni materiali in tutte le gioie intense, in tutte le belle riunioni e scorribande all'aperto, dove la natura è scena, e i nostri pensieri si effondono senza timore o sospetto.
Quella sera, appena giunto co' suoi ospiti alle Vaie, il conte Gino volle ritornarsene al suo eremo di Querciola. Sentiva il bisogno di raccogliersi, di meditare, di assaporare la sua felicità.
Nell'atto di separarsi da Aminta, che secondo il solito lo aveva accompagnato un tratto, sul limitare del bosco, Gino disse all'amico.
- Ti ho chiamato fratello, e vorrei esserlo davvero.
- Grazie! - rispose Aminta. - Questo sarebbe anche il mio desiderio.
- Amo tua sorella; - rispose Gino, chinandosi sulla sella e parlando a bassa voce, come se temesse di farsi udire dagli alberi della foresta.
- Oh, il gran segreto! - esclamò Aminta, ridendo.
- Come? Già lo sapevi?
- Me n'ero avveduto da un pezzo. Sfido io, a non avvedersene! Credo che lo sappiano a quest'ora tutti i sassi della montagna.
- E dimmi.... - ripigliò Gino. - La cosa non dispiace a te?
- No, davvero. Sei un uomo leale e la mia mano stringe volentieri la tua. Conte Gino Malatesti....
- Non parlar, di contea, te ne prego! - interruppe Gino, turbato. - Vorrei che i re della montagna non isgradissero la mia alleanza.
- Ebbene, - rispose Aminta, - se tu mi avessi lasciato finire, non avresti da domandarmelo ancora. Volevo dirti per l'appunto questo, con tutta la solennità possibile ed immaginabile. Conte Gino Malatesti, i re della montagna in questa stretta di mano ti accettano. -