Anton Giulio Barrili
La montanara

Capitolo IX.   Due lettere

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Capitolo IX.

 

Due lettere

 

O Fiordispina! Voi foste allora la donna più felice d'Italia, per non dire del mondo; amante, amata, e sul mattino dell'amore. Perchè, infatti, qual cosa è più bella del principio, nel giorno, e del mattino nell'amore? L'alba promette il meriggio, la luce, la vita, il piacere. Ogni sensazione è fresca, in quell'ora; ogni pensiero è gaio, e la speranza involge tutto de' suoi grati colori. Sull'alba, poi, il calar delle nebbie, il dileguarsi delle nuvole, vi scopre da principio le vette dei monti, vi mostra a mano a mano più ricisi i profili delle colline, vi rischiara le insenature delle convalli, dove la bella luce del giorno nascente illumina ad un tratto qualche ceppo di case, e va a cercare sotto un pergolato la graziosa figura di una fanciulla mattiniera, escita sul terrazzino a respirare la fragranza dei fiori. Così nell'alba dell'amore, i cuori si scoprono a vicenda le loro delicatezze arcane, le loro virtù recondite, i tesori del sentimento e tutto il meglio della nostra povera creta. Ed è grato lo studio, ed ogni novità che si scopre è un'allegrezza per noi.

I giorni delle Vaie si seguivano e si rassomigliavano; cosa piacevolissima, quando i giorni son belli. Gino Malatesti si era fatto grave, di quella dolce gravità che nasconde la beatitudine, ma lascia indovinare i gaudii anticipati di un'anima, la quale sa e può trattenere i suoi desiderii nella certezza del possesso. Dio, quante parole inutili! Ma le ho buttate , e rimangano pure. Il giovanotto scendeva ogni mattina da Querciola, ma quasi sempre a piedi, e faceva per via un bel mazzolino di fiori selvatici. Giungeva alle Vaie ogni giorno alla stess'ora, cioè verso le undici, ed ogni giorno, a quell'ora, una bella forma di fanciulla appariva sul terrazzo, di fianco alla casa dei Guerri. Gino salutava, e si fermava ad un certo punto, per gittar sul terrazzo i suoi fiori, senza fallar mai il colpo, che sarebbe stato di mal augurio sbagliar la parabola. Poi, fatto un altro saluto, entrava in casa, presentava i suoi omaggi alle signore, chiedeva notizie di tutti, dava le sue, quando ne aveva, e faceva un po' di musica con Fiordispina, o leggeva qualche pagina di libro, ad alta voce, aspettando l'arrivo degli uomini, degli amici suoi, che ritornavano per l'appunto sul mezzodì, dalle loro occupazioni quotidiane.

Dopo il pranzo si scendeva in giardino, a far quattro passi e a visitar le piante rare. Esse non erano più tutte nella stufa, poichè la stagione calda permetteva a molte di rimanere all'aperto; ma alcune si tenevano sempre riparate, perchè le notti, alle falde del Cimone, quantunque di estate, non erano calde abbastanza. Per altro, nelle ore del giorno, le finestre della stufa erano tutte spalancate, perchè i fiori bevessero la loro parte d'aria e di luce.

Fiordispina e il conte Gino correvano sempre a visitare la bella raccolta di eriche del capo di Buona Speranza. Sentivano forse che il nome era di buon augurio per essi? Fiordispina ammirava i grappoli di campanelluzzi eleganti, variamente colorati, che pendevano dalle asticciuole ramose; Gino la seguiva nelle sue osservazioni, ma non così attentamente com'ella avrebbe voluto, e vedeva le guance di Minerva tingersi di un incarnato più vivo, quando ella si accorgeva che il compagno guardava troppo un mazzolino di fiori selvatici, sporgente dalla gala di mussolina che ornava e nascondeva ad un tempo lo scollo della sua veste di lana.

Anche le gite lontane si seguivano frequenti, ed un giorno si andò fino a Bismantua. Si era parlato tante volte di far quel viaggio! Fiordispina non c'era mai stata, e Gino moriva dalla voglia di guadagnar quella vetta, che rassomigliava tanto al profilo di una gran testa arrovesciata, in atto di guardare il cielo. Si dice questo in grazia di un naso colossale, che è raffigurato dal colmo della montagna, a chi lo guardi da lunge.

Quel giorno, si sa, venne in campo la famosa terzina dantesca, dove il sasso di Bismantua è ricordato. Il Poeta passa in rassegna le più difficili strade da lui fatte ne' suoi continui viaggi, per paragonarle alla faticosa salita del suo Purgatorio.

 

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,

Montasi su Bismantova in cacume

Con esso i piè; ma qui convien ch'uom voli.

 

- E qui è stato il padre della patria; - disse Gino, salendo anch'egli «con esso i piè» ma non senza fatica sull'erta del monte. - Di qui ha veduto il nostro Cimone e l'Alpe di San Pellegrino, l'Alpe di Succiso, il Mal Passo e l'Orsaro; qui gli si è stesa davanti agli occhi quella fila di giganti che sono laggiù i monti Apuani. Non credete voi, Fiordispina, che tutte queste scene di sassi, orridamente belle, ammirate da lui sul colmo di Bismantua, siano entrate per molta parte nella composizione del Poema sacro?

- Sì, - disse Fiordispina, - dovete aver ragione. Ma io penso ancora un'altra cosa, quassù. Penso che in molti versi, sparsi qua e nella Divina Commedia, il Poeta mostra di credere alla grandezza del suo lavoro; ma che nessuna cosa indichi meglio questa sua fede, che il fatto di aver vedute o descritte con un cenno maestro tante regioni d'Italia. Da ogni terra ch'egli ha visitata, Dante prende un'idea, un colore, una immagine, e le aduna nel suo poema, che sarà la Bibbia degli Italiani, quasi volesse rappresentarci la penisola già unificata nella sua mente profetica.

- Ah! - gridò Gino. - Si avverasse presto il gran sogno! -

Così la gita di Bismantua si era mutata in un pellegrinaggio di voto, come se i nostri due innamorati fossero andati ad un santuario antico, per venerare gli Iddii della patria. Ma a tutti fa questo senso Bismantua, anche senza aver compagna nella salita una bellissima donna, che abbia letto Dante e lo ami.

Quel giorno, sotto la vetta del monte, Gino Malatesti incise tre nomi sulla corteccia di un faggio: il nome del Poeta su in alto; più sotto il nome di Fiordispina ed il suo. Oh, non c'era pericolo che facesse errori, scrivendo il nome di lei! Questi malanni non occorrono che in sogno.

Nella realtà, piuttosto, ne occorrono degli altri. Il conte Gino, per esempio, al suo ritorno di Bismantua, trovò una lettera, che aveva lasciata per lui il procaccia. Da qualche tempo, sapendo che il conte Malatesti faceva8 capo ogni giorno alle Vaie, era uso del procaccia di consegnargli le sue lettere laggiù, o di lasciargliele, se non lo avesse trovato.

- Notizie di casa tua; - disse Aminta, separando la lettera di Gino da quelle dei Guerri, e consegnandola all'amico.

- No, - rispose Gino, dopo aver dato una guardata alla soprascritta, - non è il carattere dei miei. -

Ma dopo aver guardato il carattere, guardò anche il bollo postale. La lettera non veniva da Modena; veniva invece da Lucca.

Chi9 poteva scrivergli da Lucca? Erano già scorse parecchie settimane senza che Gino Malatesti ricordasse la esistenza di quella graziosa città. Da Lucca? Ah, gli tornava allora la memoria del passato, e sebbene quello della soprascritta non fosse il carattere di una certa persona, la provenienza della lettera lo seccò molto, molto, molto; lo seccò tanto, che egli cacciò la lettera in tasca, senza darsi la briga di aprirla.

- Tu fai sempre complimenti con noi; - disse Aminta, che aveva veduto quell'atto.

- No, sai? non ne faccio; - rispose Gino.

- Ah, dico bene! Non ne sarebbe il caso; - replicò Aminta. - Noi intanto leggiamo bene le nostre.

- La mia è la lettera di un noioso; - disse Gino. - Ci sarà sempre tempo a leggerla. -

E gli parve di respirar meglio, poichè l'ebbe seppellita nel fondo della tasca, con quel po' po' d'epitaffio.

Bel coraggio! direte. Bella tranquillità d'animo! E il più bello fu questo, che non sapete ancora. Gino Malatesti non lesse quella lettera neanche a Querciola; non la lesse il giorno appresso, l'altro che seguì. Passarono otto giorni, a farvela breve, e la lettera di Lucca stava sempre suggellata; non più in una tasca dell'abito, ma in un angolo del suo cassettone. Ciò avviene qualche volta a tutti, e non è sempre una prova di coraggio, ahimè, di tranquillità d'animo; ve ne ricordate? Si è messa quella lettera in disparte, rimandandone la lettura fastidiosa ad un momento più tranquillo; ma quel momento non vien mai; e i giorni passano, frattanto; e quando, rovistando le vostre carte, quella lettera malaugurata vi viene davanti, fremete, vi adirate con voi medesimi, e paghereste qualche cosa perchè non ve l'avessero scritta.

Dunque, coraggio e tranquillità d'animo, no; piuttosto una diffidenza, un sospetto, che confinavano con la paura di legger cose spiacevoli, di esser tirato in altre difficoltà, solamente (ma era già abbastanza per lui) di rinnovare sensazioni dolorose. E perchè le noie sono come le disgrazie, loro sorelle maggiori, che non vengono mai sole, otto giorni dopo l'arrivo della lettera, rimasta suggellata nel suo cassettone, e mentre Gino se ne stava alle Vaie, seduto nel salotto dei Guerri, capitò una fantesca ad annunziare: - sono arrivati due signori. -

- Ebbene, - disse il signor Francesco, - falli entrare.

- Cercano del signor conte Malatesti; - ripigliò la fantesca.

- Falli entrare egualmente; - replicò il vecchio Guerri.

A quell'annunzio il conte Gino si era fortemente turbato. Chi diamine poteva cercar di lui? E , poi, in casa d'altri, quando il suo domicilio era a Querciola?

- Aspettate; - diss'egli, trattenendo col gesto la donna, che già si moveva per obbedire al comando del signor Francesco. - Non è conveniente che io regali questa seccatura ai miei ospiti. Andrò a ricevere questi importuni nell'anticamera. -

E prima che il signor Francesco potesse rispondergli, escì dalla sala, per entrare in quella cameretta che conoscete.

Poco stante, avvisati dalla fantesca che potevano salire, apparvero i due forastieri sull'uscio. Gino riconobbe il commissario di polizia e l'applicato che aveva già ricevuti una volta, sul principio della sua dimora a Querciola.

L'atto suo fu di meraviglia, e non lieta. Il commissario se ne avvide benissimo, e cercò di rimediare con una buona parola.

- Non si turbi, signor conte, la prego; - diss'egli. - Portiamo notizie allegre. -

Non c'erano notizie allegre da quella parte, per il conte Gino Malatesti, e il suo viso non si rasserenò punto punto.

- Siamo stati a Querciola; - ripigliò il commissario; - ma abbiamo avuto il dispiacere di non incontrarla. Ci han detto che forse avremmo potuto trovarla qui, dai signori Guerri, dov'Ella usa venire....

- Sì, a far visita; - interruppe Gino, seccato e confuso ad un tempo.

- Ottima cosa avere dei buoni vicini! - osservò il commissario. - Si passa gradevolmente qualche ora del giorno, in attesa d'un fortunato cambiamento.

- Ha qualche cosa da annunziarmi? - disse Gino, riconducendo il signor commissario all'argomento della sua visita.

- Sì, e tale che le farà piacere. Ma io non ardirò sostituirmi10 al suo signor padre, cui spetta il piacere di dargli la notizia, dopo avere avuto il merito di provocare il fatto. Eccole una lettera del signor conte Jacopo, che le spiegherà meglio la cosa. -

Gino prese con mano tremante la lettera che gli porgeva il commissario; l'aperse, non senza fatica, e lesse quel saggio della prosa paterna.

 

«Mio caro figlio,

 

«Avrei dovuto, per i torti vostri e per il danno morale che essi hanno recato alla mia casa, lasciarvi dove il giusto rigore del Governo vi aveva confinato. Ma son padre, e mentre la mia severità non muta i suoi giudizi, il mio cuore e lo stesso decoro della famiglia non potevano che farmi desiderare di veder cancellata con un atto di clemenza sovrana quella macchia che i vostri diportamenti hanno fatta al buon nome dei Malatesti. Sua Altezza Serenissima ha voluto accogliere benignamente le mie preghiere, ed esagerando nella sua grazia qualche merito mio, non vedere nei vostri atti che l'effetto di una leggerezza giovanile, che il tempo e i consigli correggeranno, se già non è bastato l'esempio salutare di tre mesi di confine. Quasi sarebbe inutile il dirvi che io mi sono impegnato formalmente e solennemente per Voi, promettendo che d'ora innanzi avreste mutato intieramente il vostro tenore di vita, e in particolar modo per quel che si attiene alle relazioni, alle amicizie. Meno amici avrete, e più potrete sperare di averli sicuri. Del resto, vi sarà libera la scelta nella vostra medesima classe, con maggiore onor vostro e rispetto al principio di autorità, di cui tutti, se onorati del favore sovrano, rappresentiamo una parte. Nutro speranza che non mi farete bugiardo, e non mi costringerete a considerarvi straniero alla nostra famiglia. Desidero frattanto di rivedervi presto, e a quest'effetto mi recherò giovedì mattina ad incontrarvi a Sassuolo. La mia età non mi permette di fare un più lungo viaggio. Vi aspetterò dunque colà, nella giornata di giovedì, lasciandovi in questo modo il tempo di fare le vostre valigie.

«Vostra madre, i vostri fratelli e le vostre sorelle vi abbracciano con me.

 

«Vostro padre

«Conte Jacopo Malatesti

 

Giovedì, a Sassuolo! E che giorno era quello? Ahimè, un martedì. Gino rimase istupidito dal colpo. Giovedì a Sassuolo! Ma bisognava dunque partire quella sera medesima? Al più al più, sull'alba del giorno seguente? Il poveretto non ci vedeva più lume, e sicuramente si sarebbe trovato in un bell'impiccio, dovendo ripigliare la conversazione col signor commissario, se in quel punto non fosse capitato Aminta al soccorso.

- Gino, - disse questi, entrando nell'anticamera, - ricordati che sei in casa tua. Spero che dopo aver parlato d'affari con questi signori, vorrai invitarli a passare in quell'altra sala, dove noi vi aspettiamo.

- Ringrazio; - rispose il commissario, senza aspettare che il conte Gino ripetesse l'invito. - Ringrazio ed accetto subito, poichè la nostra missione è compiuta. Essa è stata anche gratissima, e speriamo che, come è piaciuta al signor conte Gino Malatesti, così sarà per piacere ai signori Guerri, suoi ospiti. -

Così dicendo, il cerimonioso personaggio entrò nella sala, seguito dall'applicato e da Gino, che non si era per anche riavuto dal suo stordimento. Qui si fecero i soliti saluti, e il signor Francesco offerse una refezione, che fu ricusata, poichè i due visitatori avevano già desinato a Pievepelago.

- Accetteranno almeno una tazza di caffè ed un bicchier di vino; - disse allora il vecchio Guerri.

- Per non rifiutar le sue grazie; - rispose il commissario, inchinandosi.

Vennero i bicchieri sul vassoio d'argento, con la bottiglia di vin Santo delle grandi occasioni e con la catasta dei cantucci, ben ordinati nel piatto.

Il signor commissario amava i dolciumi, secondo l'uso di tutte le virtuose persone, e intinse volentieri un cantuccio nel suo vino. Come l'ebbe inzuppato ben bene, lo immerse beatamente in bocca, facendo batter la lingua contro il palato, e chiudendo gli occhi a mezzo, in atto di buongustaio che voglia concentrare tutte le facoltà dell'anima intorno alla voluttà del momento. Felicissima bocca del mio signor commissario! Essendo ella così soavemente vellicata, immaginate voi quante dolcezze ne uscirono.

- Sicuramente! - diss'egli. - Reco una buona notizia, che piacerà a tutti gli amici del nostro signor conte, desiderato oramai da tutta Modena. Sua Altezza Serenissima - (e qui un inchino tanto fatto) - ha revocata la pena del confine, che si era degnata di applicargli, senza processo, notino bene, senza processo. I processi restano, e costituiscono sempre uno spiacevolissimo precedente, nella vita di un gentiluomo. La sentenza c'è e non c'è, quando il processo manca; la pena è applicata così, alla breve, in modo di correzione paterna, e quando è revocata non ne resta più traccia. Il signor conte ringrazierà, ne son certo, la clemenza sovrana; la quale si è esercitata più presto che io non prevedessi, in grazia dei meriti singolari dell'illustrissimo conte Jacopo, suo degno genitore, che è senza dubbio uno dei soggetti più eminenti dello Stato. -

Finito il suo discorsetto, il degno commissario finì il suo cantuccio e il suo resto di vin Santo, con la coscienza di aver meritato l'uno e l'altro.

- Mi compiaccio molto della fortuna che gli tocca; disse allora il signor Francesco Guerri. - A noi dispiacerà di perdere un così buon vicino; ma non dobbiamo essere egoisti. Non è vero, figliuoli miei? -

Alle prime parole del commissario, Fiordispina era diventata pallida, e si era sentita mancare, tanto che aveva dovuto appoggiarsi alla tavola, per non dare un triste spettacolo della sua debolezza. Ma fu un momento, e non altro. Gli occhi del signor commissario, volgendosi torno torno nel giro del discorso, erano giunti fino a lei, e Fiordispina fece uno sforzo supremo per non dare a divedere la sua commozione. Anch'ella, come Aminta, rispose con un cenno di assentimento e con un sorriso alle ultime parole del babbo.

- Ne son tutti felici, ed è giusto; - ripigliò il commissario. - Oso dire che il primo sono stato io, ed ho accettato con giubilo l'incarico di portar la notizia al signor conte, mentre qualche altra necessità del nostro ministero mi chiamava da queste parti. Del resto, se è lecito nella soggetta materia esprimere tutto il proprio pensiero, la pena del confine è tra le lievi la meno adatta al suo scopo correttivo. Un uomo che ha potuto, per qualche bazzeccola, trascorso di lingua, od altro lieve errore di gioventù, richiamare sopra di l'attenzione del governo, s'invigila meglio a casa, che tra i monti e sui laghi dell'Appennino. Non credono?

- Veramente.... - rispose il signor Francesco. - Non saprei dirle. Mi dispenso volentieri dallo avere una opinione in questa materia, che è di spettanza del governo e dei suoi savi consiglieri. -

L'accenno malizioso ai laghi era evidente, come lo sforzo di ragionamento con cui il signor commissario aveva tirato il discorso fin . Il signor Francesco Guerri non volle mostrare di averlo capito; ma la sua risposta, fatta più prudente dal pensiero della difesa, parve dar noia al dolcissimo signor commissario.

- Ella, signor conte, - riprese questi, voltandosi a Gino, - mi perdoni la libertà di un giudizio che non esce dalla cerchia delle mie attribuzioni. Posso anche ammettere che la sua lealtà di suddito sia stata sospettata a torto, per informazioni non bene accertate. Il migliore dei governi, si sa, non può sperare di aver servitori tutti egualmente accorti, che sappiano sceverare il vero nelle relazioni di un fatto, cogliere da un ponderato esame le intenzioni della gente, misurarne secondo i casi la importanza, distinguendo l'assoluta dalla relativa. Ad ogni modo il perdono è intiero e cancella fin l'ombra dei sospetti passati. Ella si prepari a fare le sue valigie, perchè l'illustrissimo signor conte suo padre le viene incontro domani a Sassuolo. -

Un'altra occhiata andò in giro, e si fermò sul volto di Fiordispina. Era forse l'occhiata consuetudinaria dell'impiegato di polizia, che deve aver l'aria di scrutar gli animi e i cuori. Ma la fanciulla dei Guerri n'ebbe un senso di freddo, e stette più salda che mai.

- Mi duole, - diceva frattanto il conte Gino, - mi duole che il mio signor padre si voglia scomodar tanto per me. Le mie valigie son presto fatte. Ma io, signor commissario, - soggiunse egli con una certa alterezza di accento, - senza partecipare alla sua opinione sulla lievità di certe pene, mi ero avvezzato, gliele confesso sinceramente.... mi ero avvezzato alla mia.

- Capisco.... capisco.... - rispose quell'altro, sconcertato dalla schiettezza del conte. - Una così bella compagnia.... si lascia mal volentieri. Ma Ella potrà ritornare, da libero visitatore, in questi bei luoghi.

- Lo spero bene! - ribattè il conte Gino.

Il momento non era piacevole. Ma il signor Francesco Guerri mise fine alla scena, alzandosi di scatto, per dar commiato ai suoi ospiti. Si rivolse per altro all'ospite caro, e non badò punto ai noiosi.

- Conte Gino, - diss'egli, stendendo la mano al giovanotto, - vada a prepararsi per la sua partenza da Querciola. Mio figlio Aminta le terrà compagnia. Le Vaie, del resto, sono sulla strada del ritorno, e noi avremo tempo a farle i nostri saluti amichevoli e i nostri augurii sinceri. -

Anche il signor commissario aveva dovuto alzarsi.

- E noi frattanto, - diss'egli, - ritorneremo a Fiumalbo, per l'altra parte della nostra missione.

- Ah, già!... - rispose il signor Francesco. - C'è un'altra parte....

- Dobbiamo vedere il sindaco; - ripigliò il commissario. - Sarà reperibile, a quest'ora.

- Credo bene. Se vuole, manderemo anche ad avvertirlo.

- No, non occorre; troveremo noi questo signor Cervarola. Si chiama così, non è vero?

- Lorenzo Cervarola, per l'appunto. La sua casa è a cinquanta passi dal mulino di Fiumalbo.

- Grazie! Ci andiamo subito, perchè vorremmo sbrigarci; - disse il signor commissario. - Far bene e presto è il gran fine, il gran desiderio; ma pur troppo non è sempre possibile, in materia amministrativa.

- Col suo ingegno e col suo zelo, signor commissario!...

- Eh, lo zelo è grande davvero; così fosse l'ingegno! - rispose quell'altro, umilmente. - Ma si farà quello che si potrà. Il governo desidera un po' di relazione, fatta de visu et de auditu sullo stato e sui bisogni reali di queste industriose popolazioni. Accogliere i legittimi voti, togliere gli abusi, se ce ne sono, concedere tutte le agevolezze compatibili con le esigenze del servizio, son questi i criterii di un ottimo governo; ed il nostro, la Dio grazia, non lascia nulla a desiderare, per questo lato. -

Il signor Francesco Guerri s'inchinò leggermente. Un inchino costa poco e fa risparmiare molte parole inutili, pericolose.

- Signor conte, - ripigliò il commissario, volgendosi a Gino, - voglio sperare che i doveri del nostro uffizio ci permetteranno di vederla domattina, al suo passaggio da Fiumalbo. -

Gino s'inchinò anche lui, ma il suo inchino poteva anche parere l'atto di un uomo che si stringe nelle spalle.

- Se questa sorte ci fosse negata, - proseguì il commissario, - abbia fin d'ora i nostri augurii, ed accolga la preghiera che io Le faccio, di presentare i miei più rispettosi ossequi all'illustrissimo signor conte Jacopo. Il degno personaggio ha un po' di benevolenza per me, ed io gliene sono riconoscentissimo.

- Grazie! - mormorò Gino, in ricambio a quel fiume di parole.

Ma dopo quel «grazie» fu ancora costretto a stringere la mano del signor commissario, del suo tormentatore, del suo aguzzino. Meno spiacevole gli fu la stretta di mano dell'applicato. Vi rammentate che in quella stretta il conte Gino aveva già ricevuto un messaggio del suo servo Giuseppe. Se anche quella volta gli fosse capitata una simile fortuna! Egli si era ben preparato a riceverla; ma il bravo applicato non aveva niente da dargli. Piuttosto avrebbe avuto qualche cosa da dirgli. Guardò infatti il conte Gino con una cert'aria, gli strinse la mano in un certo modo, che il giovanotto ne rimase un po' sconcertato.

- Che cosa vorrà dirmi con la sua occhiata e con la sua stretta? - pensò. - Veda lui di spiegarsi più chiaro. Io del resto so bene una cosa: che niente potrebbe esser peggio della sentenza che mi ha portata il suo superiore immediato. -

Partiti i due rappresentanti del governo ducale, ci fu un po' di scena muta, nel salotto dei Guerri.

Anche questa volta parlò primo il signor Francesco, che aveva la testa più forte e il cervello più libero.

- Andate, conte; - diss'egli. - Non farete in tempo a preparare le cose vostre, se aspettate dell'altro.

- Si, vado; - rispose Gino, scuotendosi; - ma ritornerò al più presto possibile.

- Questa sera, perbacco! Pellegrino s'incaricherà lui di trasportare le valigie. Aminta vi aiuterà a farle.

- Sì, sì; - mormorò Gino, che non aveva più volontà. E si allontanò, seguito da Aminta, dopo aver salutate le signore, più che con le parole sue, con gli occhi pieni di lagrime.

- Coraggio, via! - gli disse il signor Francesco, che lo aveva accompagnato sull'uscio di strada. - Si direbbe che nei momenti solenni, dove è più necessaria l'energia del carattere, essa vi manchi del tutto. Siate uomo, conte Gino: pensate alla vostra famiglia, che rivedrete doman l'altro; a vostro padre, che abbraccerete domani.

- Ma io, signor Francesco.... padre mio... avevo posto il mio cuore qui! E se permettete....

- No, amico mio! - interruppe il vecchio Guerri, abbracciandolo. - Non dite nulla, perchè il tempo stringe. Mi parlerete del vostro cuore, quando verrete a riprenderlo. -

Mezz'ora dopo, andando a spron battuto per la via del bosco, Gino ed Aminta giungevano a Querciola.

Il Mandelli fu maravigliato di quella partenza improvvisa del suo inquilino; ma lo aveva sempre veduto così poco, che non ebbe ragione di piangere. Non si dovevano commuovere niente di più i rustici abitanti di Querciola, che non avevano veduto mai il forastiero traversare il paesello, tranne una volta, ed al trotto, confuso in una allegra cavalcata co' suoi amici delle Vaie: coi re della montagna, come si usava dire lassù.

Le valigie furono presto fatte. L'unica noia un po' grossa era quella di mettere in ordine le carte, che ingombravano il tavolino e i cassetti del conte. Sul tavolino, per esempio, c'erano alcuni fogli pieni di versi e di cancellature; il principio di una ballata, che portava un bel titolo, scritto a grossi caratteri: La Ninfa del Lago.

- Che? - disse Aminta. - Scrivevi dei versi?

- Per tua sorella; - rispose Gino, - E resteranno incompiuti.

- Li finirai a Modena e ce li porterai a leggere per il quattro di ottobre. Hai due mesi di tempo, non poco troppo, per tutte le cose che avrai da fare laggiù; - disse Aminta, appoggiando forte sulla frase. - Il quattro di ottobre è l'onomastico di nostro padre.

- E tutti i suoi figli debbono fargli corona, in quel giorno! - rispose Gino, animandosi. - Non mancherò, te lo prometto. -

Nel raccogliere le carte che stavano pigiate entro i cassetti, venne fuori la lettera di Lucca.

- To'! - disse Aminta. - Ecco una lettera che non hai neanche aperta.

- Ah sì, è vero; - rispose Gino, crollando la testa.

- Perchè non la leggi? - chiese Aminta.

- È la lettera d'un noioso; ci sarà sempre tempo; - replicò Gino. - Oggi ho un diavolo per occhio. - E con atto risoluto cacciò la lettera in tasca, per farla finita una volta. Sì, questo era il suo pensiero, per farla finita. Ma oramai non poteva più sciogliersi da un altro pensiero, che era quello della lettera, ritornata nel suo soprabito. Il foglio malaugurato gli dava noia, gli destava un senso di bruciore sul petto. Oh, finalmente! Che cos'era quel foglio, di cui sentiva tanta paura? Non ne aveva forse avuto abbastanza, di dolori, e non sopportava egli già la pena più acerba, con quella energia che gli aveva infusa una esortazione del vecchio Guerri, del padre di Fiordispina? Alla peggio, non era quello il suo giorno triste? Non era quello il momento di bere tutto, fino alla feccia, il suo calice di amarezze? La curiosità non c'entrava punto, e questo egli lo sapeva bene; se non ne fosse stato certo, gli sarebbe bastato ricordare otto giorni della più superba noncuranza. Il conte Gino andò allora nel vano della finestra, cavò di tasca la lettera, la spiegazzò un poco fra le dita; poi ruppe il suggello.

- Ah, finalmente! - borbottò egli. - È fatta. Vediamo questo maledetto foglio, che fa tanta paura. Non ne salterà mica fuori una vipera! -

Corse, come potete credere, alla firma: «Emilio Landi

- Ah! - gridò allora. - Emilio Landi.» -

E rise, d'un riso convulso, che fece voltare il compagno.

- Che c'è? - chiese Aminta, tralasciando di serrar la cinghia di una valigia.

- Te lo dicevo io! - esclamò Gino. - L'ho aperta, ed è la lettera del più sciocco, del più noioso tra gli uomini.

- Ebbene? - disse Aminta. - Leggila egualmente. C è sempre qualche cosa da imparare, anche nella lettera d'uno sciocco.

- Leggerò, sicuramente, leggerò; - rispose Gino, rifacendosi dalla firma al «Carissimo

La lettera, come sappiamo dal bollo postale, veniva da Lucca. La data, in principio del foglio, diceva più chiaramente: «Dai bagni di LuccaEra dunque ai bagni di Lucca, il marchesino Landi? Gino Malatesti avrebbe potuto gridare con Amleto: «Ahi, profetica anima mia!» Ma egli, se non ruppe in quel grido, pensò certamente qualche cosa di simile.

Ed ora, leggiamo quella famosa lettera insieme con lui. Secondo il giudizio di Aminta Guerri, ci sarà sempre qualche cosa da imparare, anche nella lettera d'uno sciocco. A buon conto vedremo se il marchese Emilio Landi fosse a dirittura uno sciocco personaggio, come piaceva al conte Gino di gabellarlo.

 

«Carissimo amico,

 

«Che cos'è avvenuto di te? Ti sei insalvatichito, vivendo tra i monti? Perchè da tre mesi non dài segno di vita agli amici? Avevi forse paura di comprometterli? Potevi bene immaginarti che le tue notizie mi sarebbero state gratissime, ed anche pensare che nessuno avrebbe trovato a ridire nella lettera di un uomo che manda un cenno della sua salute e delle sue occupazioni ad un amico d'infanzia. Voglio credere che qualche forosetta, qualche bella ninfa dei boschi ti abbia incantato. Non vedo altra ragione che possa scusarti di un così lungo silenzio

 

- Sciocco! - ripicchiò il conte Gino, come fu giunto alla fine del paragrafo.

Poi, come era naturale, ripigliò la lettura.

 

«Pensando a questo, mio caro Gino, ti ho perdonato. Perdonato, bada bene, e non giustificato. L'odore del foin coupé è buono, ma in estratto; il gradirlo sul posto è da cacciatori, ma per un giorno, e non di più. Comunque, lo ripeto, ti ho perdonato, e la mia amicizia per te non si è punto affievolita. Vedine infatti la prova: ho una buona notizia che ti risguarda, e mi affretto a comunicartela. Ma procediamo con ordine, come dice mio zio, quando discute.

«Ero venuto con lui a Lucca, per queste acque che gli hanno decantate. I luoghi di bagni hanno il loro periodo di voga; oggi son tornati alla moda i bagni di Lucca. E gli ammalati, creduli sempre, seguono il consiglio dei buontemponi. Eccoci dunque a Lucca, come l'anno scorso eravamo a Graefenberg, per esperimentare i miracoli della doccia. Venuto qua, mi son trovato come in casa mia. C'è mezza Modena, figùrati, anzi tutta Modena, poichè ci ho incontrata la marchesa Baldovini, sempre bella a quel Dio! Ma perchè è venuta alle acque di Lucca, la bionda marchesa, che ha in casa sua la fontana di gioventù? E con che coraggio ha messa in mostra la sua figliuola! Un bottoncino di rosa, caro mio, un occhio di sole, e tutto il meglio che vorrai. Dovresti vederla, come noi la vediamo qui, ammirata da tutta la colonia bagnante e bevente, in cui pure si ritrovano tante bellezze straordinarie. È tutt'altra cosa da quella timida verginella, che ci veniva di tanto in tanto alla vista, ne' suoi modesti abiti di educanda. È un angelo sempre, ma un angelo con le ali dispiegate. Così doveva essere a diciott'anni sua madre, e si pensa naturalmente a quel verso di Orazio, che dice... Come dica, non lo ricordo più bene, e non voglio farti ridere guastandolo. È quel verso in cui Orazio loda la madre, ma lascia intravvedere che gli piace anche maledettamente la figlia

 

- Ah! - esclamò Gino. - È dunque innamorato della figliuola? Se la sposi e sia finita. Ma che bisogno c'è di seccar me coi suoi inni? -

Ripigliò la lettura, poichè gli premeva di giungere al fine.

 

«La marchesa Baldovini è sempre il buon cuore fatto donna. Si è parlato subito di tante cose e di tante persone. Puoi immaginarti, mio caro, che si è parlato anche di te. Dirò anzi che tu sei stato ricordato dei primi. - Sapete? mi ha detto. Il confine del Malatesti durerà poco. In verità, è durato già troppo, e contro tutte le mie sollecitazioni, contro tutte le promesse che mi erano state fatte. Non ne avevo parlato mai, perchè non mi piace vantarmi, lasciar concepire speranze, che non possano convertirsi tosto in realtà. Ma questa volta siamo al punto buono. Ho ricevuta ieri la lettera che mi dice: «Si farà grazia al vostro protetto. Non c'è più che da firmare il rescritto, poichè Sua Altezza mi ha detto finalmente di sì.»

«Io, come puoi bene immaginarti, le ho chiesto subito il permesso di mandare a te questa buona notizia. Era una consolazione per me, poichè mi era dato di associarmi in qualche modo alla sua buona azione. - Fate pure (mi ha risposto) purchè la notizia non abbia l'aria di venire da me, e sopratutto purchè il Malatesti non sappia che ho fatta questa parte per lui. - Ma perchè questo? domandai. - Il perchè mi par chiaro; voi stesso, Landi, avete decorato del nome di buona azione ciò che ho potuto ottenere io, seguendo l'impulso di un'amicizia costante. Ora, delle buone azioni è bene sentir gli effetti, senza conoscerne l'autore; lasciatemi il gusto della modestia, che mi procurerà una gioia più viva di tutti i ringraziamenti del mondo. - Ho promesso perchè la marchesa voleva così; ma, come vedi, non mantengo ciò che ho promesso. Appunto perchè la marchesa Baldovini ha fatta una buona azione che ti risguarda, è giusto che tu ne sia avvertito da chi ha potuto essere a parte del segreto. Ma ti prego, mio caro, sii prudente; non dirne nulla a lei, quando la rivredrai. Passerei a' suoi occhi per un linguacciuto, e la dama sarebbe capace (me lo ha minacciato, anzi) di mettermi alla porta

Seguivano altre chiacchiere, che Gino lesse a volo, o non lesse. Gli si era come offuscata la vista, per il gran turbamento che lo aveva preso. In mezzo a quella novità di cose gli sarebbe stato necessario racapezzarsi, poichè veramente non sapeva che pensare di tanta generosità d'animo, di tanta amicizia, in contrasto con la freddezza apparente e col silenzio ostinato della marchesa Polissena. Ma il fratello Aminta era , che aveva finito il suo lavoro; e Gino Malatesti, non sapendo che pensare, si appigliò al partito di non pensare, e rimise in tasca la lettera.

Le valigie erano fatte, ed Aminta le consegnò a Pellegrino, che doveva portarle alle Vaie. Il Mandelli era sull'uscio, e Gino gli strinse la mano, ringraziandolo della sua ospitalità, che del resto aveva rimunerata, oltre il prezzo pattuito, con qualche donativo alla famiglia. Ciò fatto, senza dare un pensiero d'addio a Querciola, dove in tre mesi di confine era vissuto così poco, Gino Malatesti rimontò a cavallo. Partito dalle Vaie nel pomeriggio, ritornava alle Vaie sull'ora del tramonto.

- Far presto e bene, - avrebbe detto il signor commissario, - è la grand'arte della vita. Ed io godo, vedendo la sua prontezza, signor conte Malatesti, godo nel pensare che questi esempi le vengono dall'alto. -

Gino Malatesti, per altro, non sapeva di aver fatto ben male, poichè tutto il carico dagli apparecchi era stato sopportato da suo fratello Aminta. Neanche pensava di aver fatto presto, mettendo appena due ore tra la partenza ed il ritorno. Una cosa sola sapeva e pensava egli in quel punto: che la mattina, sull'alba, cioè fra dieci ore, a dir molto, avrebbe dovuto lasciare il suo paradiso.

 

 

 





8 Nell'originale "facena". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



9 Nell'originale "Ci". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



10 Nell'originale "sostistuirmi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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