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Capitolo X.
Che pensava frattanto la fanciulla dei Guerri? La poveretta, partito Gino, si era ritirata nella sua camera verginale. A piangere, sicuramente, a piangere, guardando tra le lagrime i mazzolini, che il conte Malatesti soleva gittarle ogni giorno. Quei fiori, la più parte disseccati, erano tutto il suo dolce passato; gli ultimi, ancor freschi, solamente appassiti, sarebbero disseccati anch'essi tra breve. Nè ella sapeva quando sarebbe ritornato il donatore, e pensava invece con terrore che chi parte.... No, no, non era possibile! Gino Malatesti, un animo nobile, un gentiluomo, doveva ritornare, come aveva giurato.
Il conte Gino era giunto tra quei monti, era apparso a lei con l'aureola del proscritto. Fiordispina Guerri non aveva veduto il nobile, il cavaliere di città, l'elegante giovanotto, come tante altre avrebbero fatto al suo posto. Lo aveva ammirato perchè amante della sua patria e per lei disposto a soffrire; si era sentita attrarre da lui, perchè egli recava con sè, profumo incantevole, quella gentilezza di atti e di pensieri che ella stessa chiudeva nell'anima; lo aveva amato, perchè egli rispondeva ad un tipo ideale del suo cuore, quel tipo che ogni fanciulla ha sognato nella sua celletta di educanda, o nella pace un po' fredda delle pareti domestiche.
Anch'ella lo aveva intravveduto, quel tipo: da principio nel Damone e nel Pizia delle Novelle del Soave; poi nel Niso e nell'Eurialo dell'Eneide, tradotta del Caro; meglio ancora nel Telemaco di Fénélon, su cui aveva studiato il suo francese, e nel Tancredi della Gerusalemme, che l'aveva iniziata alla grandezza dell'ideale cavalleresco e alle bellezze del linguaggio più nobile che mai abbia parlato per bocca italiana l'amore. Questo tipo, sempre conteso, sempre gelosamente nascosto alle fanciulle nella loro educazione morale, trapela ad ogni istante, da ogni pagina della loro educazione letteraria. A farlo a posta, si ottiene un fine ben diverso da quello che presiede alla educazione femminile. Non vedendo mai quel tipo nella sua verità più umana e più umile, una fanciulla se lo foggia nella fantasia, più grande del vero, elegante, eroico, tenero, maraviglioso, sublime, come tutti quei tipi di perfezione, che ricorrono, per onore della umanità, nei poemi più emendati, nelle novelle più castigate, nelle storie più sommariamente narrate. Anche il giovane Scipione, in Ispagna, Curzio sull'orlo della voragine, Caio Gracco, nel Foro, perfino Cesare, nelle Gallie, diventano personaggi poetici, tipi leggendarii di virtù pericolosa, come Tancredi e Telemaco.
Alle Vaie, dov'era ritornata dopo parecchi anni di conservatorio, alle Vaie quel tipo ideale non esisteva, e la fanciulla dei Guerri aveva un po' sofferto, per avvezzarsi a quel crudo contrasto fra le immagini della scuola e la realtà della vita.
Qualche volta, sui primi tempi, ricordando le favole dell'infanzia e le belle fantasie del poeta così caro alla sua famiglia, la fanciulla dei Guerri si figurava di essere una principessa chiusa da qualche scongiuro di strega in un castello incantato. Era necessario, per liberarla, che ad un bel cavaliere, dopo molte prove eroicamente sostenute, toccasse la sorte di possedere il talismano, davanti a cui tutti i ponti levatoi si calavano e tutte le porte meglio chiuse si aprivano. E il bel cavaliere giungeva, e il mago custode spariva fremendo, e Fiordispina era condotta dal cavaliere con gran pompa e dimostrazioni d'ossequio alla corte del re suo padre. Nelle favole cavalleresche il padre è sempre re, e il suo regno è facilmente tagliato dalla pezza, nei vasti dominii di Artù.
Altre volte il sogno prendeva un diverso indirizzo. La realtà incominciava a gravar d'ogni parte, come un'aria densa, sulle ali della fantasia. Il suo fratello Aminta era un giovanotto tagliato alla montanara, ma di buon'indole e di sentimenti generosi; aveva dimenticato una parte del latino imparato alle scuole di Modena; le cacce, i mercati, le serre, avevano un po' trasformato la sua dolce natura. Ma il fondo restava, ed ottimo; una donna di delicato sentire, amandolo com'egli meritava, avrebbe potuto trasformarlo da capo, trarre il cavaliere dalla ruvida corteccia del montanaro. Perchè la fanciulla dei Guerri non avrebbe potuto operare un miracolo come quello, sull'animo giovane e buono di un altro principe della montagna? Era un vicino, un congiunto di sangue, e le occasioni di vederlo, di studiarlo, non sarebbero mancate. A quel giovane montanaro ella infondeva i suoi proprii sentimenti, il suo modo di vedere, tutto quel po' che aveva imparato, tutto il più che alla sua mente dicevano le aurore e i tramonti, le acque correnti, le solitudini profonde e i grandi echi delle alti convalli. Così intesa, così avviata alle regioni del pensiero, la vita poteva ancora esser bella. Perchè, voi lo indovinate, o lettori, Fiordispina era tirata al fantastico dalla sua stessa condizione, dal contrasto naturale tra un'educazione perfetta, che aveva ricevuta in conservatorio, e il nuovo genere di esistenza a cui la condannava oramai il soggiorno delle Vaie. Un po' romantica, adunque, ma tanto da non guastare; e poi, sotto quel lieve tessuto di sogni e di larve poetiche, la donna di carattere non aveva indugiato molto ad apparire.
Proprio in quel tempo si era incominciato a dire, nella gran sala dei Guerri: - Tra qualche giorno avremo la visita del nostro cugino Ruggero. Suo padre ci annunzia che il giovinotto è andato a Reggio, per certe faccende di casa, e poi verrà da noi, per vedere le serre. Dev'esser grande, oramai, il cuginetto! Come passa il tempo! Ci par ieri, il giorno che lo abbiam visto bambino, in compagnia di sua madre. -
Era passato per la mente della fanciulla che il giovane montanaro dei sogni fosse il cugino Ruggero? Sì e no; anzi diciamo meglio: ne sì, ne no. Poteva esser egli, come poteva esser un altro. Quando la fanciulla sognava, nessuna immagine spiccata si offriva agli occhi della sua fantasia. Il montanaro discepolo non aveva dunque un tipo, un viso conosciuto, o altrimenti foggiato su notizie domestiche. Anche il principe del talismano, il principe liberatore, faceva capolino qualche volta, ed anch'egli era un'immagine confusa, non era biondo, nè bruno. Era il principe, era l'invocato, il consolatore che si aspetta, pensando a lui tra un punto e l'altro dell'ago frettoloso. - Vediamo; - dice tra sè la fanciulla; - giungerà egli, prima che io abbia finito questo ricamo, che sarà pure così lungo? - Così immaginarono i Greci che usasse Penelope, aspettando il marito. E perchè Ulisse non giungeva mai, la bella regina era costretta a disfar nella notte il pezzo di tela che aveva ordito nel giorno. Ma ciò, evidentemente, per la necessità del romanzo, in cui, elementi perturbatori della tacita aspettazione di lei, entravano i Proci importuni e arroganti. Le fanciulle non hanno da disfar nulla, salvo qualche maglia mal fatta, o qualche punto mal messo; aspettando l'invocato, il principe del talismano, fanno sempre nuovi lavori, adornano dei loro ricami la camera dei parenti, la culla del fratellino, il salotto, e via via tutta quanta la casa, prima che il principe arrivi. Talvolta, ahimè! giunge la sua caricatura, il suo nano, il suo buffone arricchito e giubilato. Che pianti, allora, mie povere bambine! Come è diversa, come è lontana quella figura, dalla immagine non veduta bene, ma sentita nel sogno! E come si preparano, in un giorno di festa (così è costume di chiamarlo, perchè vi adornano a festa) i giorni dolorosi delle ripugnanze invincibili!
Non auguriamo questa sventura alla fanciulla dei Guerri. A lei, quando meno lo aspettava, il principe del talismano era apparso. Aveva corona di conte, e si chiamava Gino Malatesti. Inoltre, era proscritto, per grande amore della sua terra, l'Italia, per quella Italia che ella aveva imparato ad amare nelle rime di tutti i poeti della patria; così degli antichi, che le avevano lasciati leggere in iscuola (Dante, ad esempio), come dei più recenti, che aveva trovati, gelosamente custoditi, nella piccola libreria di suo padre e di suo fratello Aminta. Proscritto! Quel nome era allora un titolo di nobiltà, ben maggiore di tutte le corone e di tutti gli stemmi; era il marchio della sventura, il sigillo del valore; era come un diritto alla pietà, all'amore, poichè la pietà è sua sorella, in ogni cuore di donna. Fiordispina si era impietosita: e quando aveva guardato dentro di sè, si era avveduta di amare il proscritto, di amarlo con tutte le forze dell'anima.
E qual pace in lei, quando ebbe scoperto lo stato del suo cuore! Calde e vaste ed impetuose correnti attraversano il grembo dei mari profondi; mentre la superficie è tranquilla, e limpida e tersa come un cristallo sembra sorridere al cielo, di cui porta amorosamente i colori. Ah, fosse durata sempre così, la sua vita, senza chiedere, senza sperar nulla di più, confusi in quella estatica calma degli amori eterni! Ma anche Gino l'amava di quel medesimo amore? Sì, l'arrivo di Ruggero, del cugino, aveva giovato ad istruirla anche di ciò. Biondo e forte montanaro, Ercole adolescente, anima candida, che a guisa di molle cera avresti potuto prendere ogni impronta dalla volontà della gentile educatrice, aveva ella pensato a te un solo momento? Fiordispina intravvide ciò che forse era passato per la mente de' suoi; lo intravvide alla gelosia che la presenza di Ruggero aveva destata nel cuore di Gino. Ma come? Era proprio geloso, il conte Malatesti? E di chi? Ruggero Guerri era un bel giovane, e la bellezza, anche non osservata in modo particolare, è fatta per piacere agli occhi e per ispirare la simpatia. Fiordispina non poteva sentir ripugnanza per suo cugino; avrebbe potuto amarlo, sì, come amava suo fratello Aminta, come si amavano tutti, in quella buona stirpe sana dei Guerri. Ma amarlo di un altro amore, lui? Era possibile? Poteva il conte Gino solamente pensarlo?
Il cugino Ruggero, venuto per pochi giorni alle Vaie, ne era ripartito, senza capir nulla, senza indovinare, senza immaginare neanche il segreto delle calde e vaste ed impetuose correnti che attraversavano il grembo di quel mare azzurro e tranquillo. Siamo sugli Appennini, e scambio delle correnti del mare si dovrebbero ricordare i gorghi di un lago. Ci pensava ella, in quel punto, al lago della Ninfa, e al giorno in cui era andata con Gino a visitarlo? O scoglio solitario, o letto della Ninfa, al cui piede erano approdati insieme! O sasso di Bismantua, dove il suo nome era stato inciso nella scorza di un faggio, accanto a quello di Gino, e sotto a quello del divino Poeta, del padre della patria! Come si erano collegati, consertati e confusi quegli amori supremi! Certe cose non si sentono e non s'intendono più, nelle città popolose. Dante, ad esempio, non è tra noi che un importuno, strumento di tortura ai cervelli adolescenti del ginnasio e del liceo, pascolo gradito solamente ai vecchi barbogi, ai commentatori, a tutta la noiosa caterva degli eruditi. Quando per caso è citato in un libro, si sospira, si levano gli occhi al firmamento, come se si volesse fare un'offerta delle proprie afflizioni all'Altissimo. C'è ancor questa abitudine delle offerte, pur non credendo alla divinità. Se poi è citato in un romanzo, apriti cielo! - Come? «Anche qui, la smania erudita?» - Ma là, sul monte, dove non arrivano le sinfonie dei sapori acuti e degli odori dell'arte nostra, lassù il padre della patria intellettuale è ancora onorato. Il monte, come già per gli antichi popoli, è sempre un altare, su cui si offrono, ostie innocenti e grate, i nostri sensi più miti, i nostri affetti più nobili.
Così tutti quei giorni di purissima gioia erano passati davanti agli occhi di lei. Pensando a quei giorni, era possibile immaginare che Gino non fosse più Gino? No, l'amore che gli traspariva dal volto, che aveva reso tante volte eloquente il suo labbro, doveva essere custodito così gelosamente nel suo cuore, com'erano custoditi da lei tanti poveri fiori appassiti. Infine, doveva andare. Poteva egli ribellarsi al comando? Dimenticar la famiglia? quella famiglia, in cui ella stessa... No, doveva andare, non poteva trascurare i suoi, le persone da cui dipendeva tutto, anche per lei, per la sua felicità futura. Andava, finalmente; sarebbe ritornato. Stare un mese, anche tre, lontana da lui, triste cosa! Ma è delle donne il soffrire in silenzio. Avrebbe sofferto; sarebbe stata forte; voleva esser forte, e sorridergli.
Si scosse, allora, richiuse i suoi fiori, ed escì sul terrazzo, per respirar l'aria viva della montagna. Era tempo. Si udiva da lunge lo scalpitìo dei cavalli. Gino ritornava da Querciola alle Vaie: appariva già, tra le lunghe file dei cerri. Portava egli forse il mazzolino consueto, raccolto nel bosco per lei? No, pur troppo, veniva a mani vuote, per allora. Ma come avrebbe potuto raccogliere i fiori delle balze, ritornando a cavallo? Ed anche in compagnia di Aminta. Si può pensare a queste cose, in presenza di un terzo, sia egli pure un fratello? L'amore ha la sua verecondia, o non è più l'amore.
Ma vedete, come il pensiero di Gino rispondeva al suo. Il cavaliere si era arrestato al punto in cui soleva fermarsi ogni mattina, scendendo alle Vaie. Non aveva gittato un mazzolino, ma faceva un saluto, un gran saluto, in cui parve offrirle tutto se stesso. Un alito caldo venne ad accarezzarle la guancia; ella arrossì, come soleva, ma respirò, bevve quel soffio consolatore, e rientrò nella sala poco prima del suo diletto. Quando lo vide apparire sull'uscio, era calma, era forte; e gli sorrise, mentre egli si avvicinava, e dagli occhi e dalle labbra, dall'atteggiarsi di tutta la persona di lei, spirava un pensiero solo: - Grazie, bel conte, vi amo, vi aspetterò! -
Gino Malatesti era triste. Parlò del suo viaggio come un poveretto che va incontro alla morte. Amava la sua famiglia, sì, ma non si era ancora assuefatto all'idea di lasciare il suo dolce luogo di pena. Qual pena, infatti! L'avrebbe accettata di grand'animo per tutta la vita. Ma sarebbe ritornato, e presto. Alla peggio, perchè bisognava prevedere anche il peggio, non voleva mancare per i quattro di ottobre, all'onomastico del re della montagna. Se il signor Francesco era un re, non dovevano trovarsi presenti tutti i suoi vassalli, per rendergli omaggio di fedeltà?
- Vassalli! - rispose il vecchio Guerri, sorridendo. - Che dice Ella mai, signor conte?
- Il mio pensiero più intimo e più caro; - rispose Gino. - È ciò che voglio essere per Lei, in attesa di meglio. -
L'allusione era chiara, e il vecchio Guerri finse, da quel prudente uomo ch'egli era, di non averla capita. La raccolse Fiordispina e la chiuse nel cuore.
Poco stante giunse Don Pietro. Il degno uomo aveva risaputa la grande notizia, ed accorreva, per salutare il conte Gino.
- Le esprimerò l'animo mio con un detto di Cicerone; - diss'egli. - Tibi gratulor, mihi doleo. E non solamente mi dolgo con me, ma con una gentile signora, che abbiamo avuto occasione di riverire insieme. Povera Ninfa del lago, a cui Ella aveva promesso una ballata!
- Oh, non dubiti, Don Pietro; - rispose Gino, più gravemente che non richiedesse la cosa; - tutto quel che ho promesso farò. -
Quel tutto, si capisce, non andava soltanto per risposta a Don Pietro.
- Farò, tempo futuro! - esclamò questi, cercando di volgere nuovamente il discorso in burletta, poichè intendeva bene che la nota gaia doveva metterla lui, in quel triste concerto. - Se Dio vuole, Ella non aveva neanche incominciato.
- S'inganna; - replicò Gino. - Parli mio fratello Aminta per me.
- Gli restituisca la sua stima, Don Pietro; - disse Aminta, così tirato nel discorso da Gino. - Ho veduto io poc'anzi tutto un quaderno di versi.
- Niente di meno! - scappò detto al prevosto.
E avrebbe voluto soggiungere: «troppa grazia, sant'Antonio!» - ma gli parve inopportuno, e se ne astenne.
- Aminta non dice tutto; - rispose Gino. - Son già parecchi, i versi della ballata; ma sono anche più le cancellature, i pentimenti, che non ne ha avuto un maggior numero la famosa ottava della rosa, nel manoscritto dell'Ariosto. I miei versi entreranno almeno per questo in paragone coi suoi; - soggiunse Gino umilmente. - Anch'io, del resto, da poeta novellino, cerco di fare il meno peggio che so. Non dubiti dunque, Don Pietro; la ballata che Ella aspetta da me, sarà il compito mio, la mia consolazione, nei tristi ozi di Modena.
- E ce la porterà?...
- La manderò prima. Se la signorina vuole imprestarmi il suo albo, quei versi, scritti là dentro, saranno i miei messaggeri alle Vaie. -
Fiordispina si alzò, per andare alla sua biblioteca, che era in fondo alla sala. Gino, vedendo l'atto di assenso, si affrettò a seguir la fanciulla.
- Ah, signorina! - mormorò egli, sospirando, mentre ella apriva l'invetriata. - È assai tristo il partire.
Ma la sua voce tremante diceva chiaro com'ella avesse più mestieri di trovarne per sè, che non d'infonderlo altrui.
- Coraggio! - ripetè Gino. - Ne ho; ma questa partenza, così improvvisa, mi lacera il cuore.
- Ebbene, non dovevate.... - rispose ella, facendo uno sforzo supremo, per reprimere un singhiozzo; - non dovevate partire ad ogni modo, per ottenere....
- Un consenso? - diss'egli, compiendo la frase, rimasta interrotta sul labbro della fanciulla. - E l'otterrò. È la mia certezza, sarà il conforto di questa separazione. Mi amerete voi sempre?
- Sempre! - rispose la fanciulla.
- Giuratelo, -
Fiordispina levò gli occhi umidi al cielo e stese la mano al conte Malatesti.
Le parole non erano udite, ma l'atto fu alla vista di tutti. Ed era un atto solenne.
Gino doveva partire all'alba; però la conversazione fu breve, quella sera, nella gran sala delle Vaie. Il giovanotto recò l'albo di Fiordispina nella sua camera, in quella camera dove aveva passata la prima notte del suo dolce esilio alle falde del monte Cimone.
Dormì poco, il conte Malatesti, in quell'ultima notte d'esilio; dormì poco, e pianse assai. L'alba apparve più presto ch'egli non l'aspettasse. Già l'aveva annunziata il grugar dei colombi nel cortile ancora immerso nel buio; l'accompagnavano i primi rumori della casa, e lo strepitar dei cavalli che Pellegrino sellava sull'ingresso della scuderia. Gino si era vestito in fretta, e già infilava il soprabito, quando sentì battere all'uscio della sua camera.
- Su! - gridò la voce di Aminta. - È l'ora. Il caffè ti aspetta fumando. -
Nella gran sala erano già parecchi dei Guerri, e comparvero tutti all'entrata dell'ospite: il signor Francesco, la sorella Angelica, la cognata Olimpia, il fratello Orlando, la figliuola Fiordispina, che il conte Malatesti cercò subito con gli occhi pieni di tristezza e di desiderio.
- Signor conte, - disse il vecchio Guerri, poichè Gino ebbe bevuto, - rammenti che questa casa è sempre sua, come fu per questi tre mesi. Perdoni! - soggiunse; - avrei dovuto dire tre giorni.
- Grazie! - rispose Gino. - Lo so. Dolce casa delle Vaie, dove ho trovata la pace.... la cara pace che gli uomini intendono così tardi, nella vita, e che io, felice su tutti, ho gustata così prima del tempo! Mi abbracci, signor Francesco.... padre mio! -
Il vecchio Guerri gli aperse le braccia e lo tenne lungamente stretto sul cuore; poi si ritrasse, e col rovescio della mano cacciò una lagrima importuna dagli occhi.
- Mi permettono, le signore? - ripigliò Gino, accostandosi alla signora Angelica. - In altri tempi si usava, e l'uso era bello. -
Così dicendo, prese la mano della signora e s'inchinò per baciarla. Era un po' confusa, la signora Angelica, anzi sconcertata senz'altro. E non meno confusa, non meno sconcertata la signora Olimpia, a cui si volgeva il conte Malatesti, dopo aver baciata la mano della cognata. Avrebbe voluto schermirsi, ritirare la sua. Ma era donna, e pensò che un suo atto di timidezza, di ritrosìa, sarebbe stato un guaio per sua nipote Fiordispina.
Quando egli giunse davanti alla fanciulla dei Guerri, fu per lui una violentissima stretta di cuore. Baciò, ribaciò quella mano delicata, che tremò sotto le sue labbra; poi, non reggendo più allo spasimo, diede in uno scoppio di pianto, ed uscì a precipizio dalla sala.
Aminta ed Orlando lo seguirono fuori, cercando di consolarlo. Gino abbracciò lo zio di Fiordispina; poi salì a cavallo e partì, accompagnato dal fratello di lei. Si volse alla casa, salutò ancora la famiglia, che si era affacciata sul terrazzo per dargli l'ultimo addio, sventolò il fazzoletto, fino a tanto la strada diritta gli permise di vedere i suoi ospiti, gli amici suoi, il suo tutto. Solamente a Fiumalbo, scorgendo alcune brigate di viandanti, pensò a rasciugar le sue lagrime.
La vettura, fissata in anticipazione da Aminta, doveva aspettare il viaggiatore davanti all'ingresso del mulino. Ma prima che i nostri due cavalieri giungessero là, un uomo si spiccò dall'uscio di una gran casa bianchiccia, e venne verso il mezzo della strada, chiamando ad alta voce il conte Malatesti.
- Che vuole costui? - disse Gino.
- Siamo davanti alla casa del sindaco: - rispose Aminta; - sarà qui ad alloggio il signor commissario. -
Gino stava per mandare a quel paese il sindaco, il commissario e tutti i suoi pari, quando ravvisò l'applicato. Fermò allora il cavallo, per sapere che cosa avesse da dirgli quell'altro.
- Signor conte, una parola, di grazia! - incominciò l'applicato. - Il signor commissario desidera vivamente di offrirle i suoi omaggi.
- Non si potrebbe fare a meno... - borbottò Gino, - di disturbarlo a quest'ora?
- È già quasi all'ordine; - riprese l'applicato, senza aver l'aria di capire. - Finiva appunto di vestirsi, quando ha sentito i cavalli. Vorrebbe Ella scendere un momentino? Farebbe un piacere anche a me; - aggiunse a mezza voce, inchinandosi.
- Scenderò; - disse Gino. - Vuoi tenermi il cavallo, Aminta?
- Siamo a pochi passi dal mulino; - rispose Aminta. - Lo conduco laggiù, e potrai venire con tuo comodo a piedi. -
Disceso da cavallo, il conte Malatesti si avviò verso la casa del sindaco, in compagnia dell'applicato.
- Grazie! - mormorò questi. - Quando saremo più sotto alla casa, e non più veduti dalle finestre, rallenti un poco; ho qualche cosa a dirle. -
Gino ricordò allora l'occhiata che quell'altro gli aveva data il giorno prima. E rallentò il passo, dove il compagno indicava.
- Non ho tempo per farle un lungo discorso; - incominciò l'applicato, come furono al coperto. - Ma badi, signor conte, un'altra burrasca si prepara, e più grave. Se ha amici potenti a Modena, com'è dimostrato dalla grazia ch'Ella ha ottenuta, ad onta di certe aggravanti, non perda un minuto a scongiurarla.
- Ma che è? che debbo fare? - chiese Gino, turbato.
- Giuseppe è avvertito; le dirà ogni cosa. Si tratta dei suoi amici di qui.
- Dei Guerri?
- Per carità, stia zitto; non dia segno di nulla, a nessuno; rovinerebbe me e la mia povera famiglia.
- Non tema, non tema; - disse Gino sollecito. - Vedrò Giuseppe; saprò da lui quello che c'è di nuovo, e quello che dovrò fare.
- Con prudenza, mi raccomando; - rispose ancora l'applicato. - Sono un amico della buona causa; comprometter me sarebbe un far danno a quella.
- Lo so, non dubiti, sarò prudente; - bisbigliò Gino, mettendo piede sulla soglia.
In capo alle scale appariva allora il signor commissario. L'ufficioso personaggio chiese un milione di scuse per la libertà grande che si era presa, fermando il signor conte Gino a mezza strada e obbligandolo a scendere da cavallo. Ma in verità non lo aspettava così presto. Come si vedeva che il signor conte aveva fretta di giungere a Sassuolo e di cader nelle braccia di suo padre! Amor di figlio, e largamente ricambiato dal degnissimo conte Jacopo! Lo riverisse in nome suo, quell'eminentissimo soggetto! Il conte Jacopo doveva sapere per la bocca di suo figlio che nessuno, nei felicissimi Stati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla, gli era più affezionato, più sviscerato, più divoto servitore del commissario Camotti.
Gino promise, per farla finita con tutte quelle smancerie; toccò la mano a lui, la strinse all'applicato e ritornò sulla strada.
La testa gli ardeva, per tutto quello scombussolìo che ci avevano messo le parole oscure dell'applicato. Si ritrovò al mulino, e davanti alla vettura, senza sapere come avesse fatto a giungervi.
Aminta lo vide stralunato, ma attribuì quella condizione di spirito all'angoscia del distacco.
- Animo, dunque! - gli disse. - Dammi un abbraccio e parti. -
Gino gli gettò le braccia al collo e lo baciò ripetutamente sul viso.
- Sempre uniti, non è vero? Qualunque cosa accada, siamo l'uno per l'altro; - mormorò Gino singhiozzando. - Casa Guerri ha in me più che un amico riconoscente. Un fratello per te. Aminta; un figlio per tuo padre. Darei, non una, cento vite per voi. -
Aminta non capì il discorso di Gino; ma neanche era necessario di capire ciò che si poteva mettere sul conto della commozione. Aiutò l'amico a salire in carrozza, gli strinse ancora una volta la mano, gli diede un addio affettuoso, poi fece un gesto al vetturino.
- E svelto! - gli disse, ritraendosi dal montatoio. Il vetturino fece scoppiettar la sua frusta, e i cavalli partirono di trotto, poi presero a dirittura il galoppo.
- Povero ragazzo! - esclamò Aminta, restando là in mezzo alla strada fino a che vide la carrozza. - Com'è addolorato! Ma se ha da ritornare, che c'è da disperarsi tanto? Mia sorella, piuttosto.... Son così tenere al pianto, le donne!