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Capitolo XIX.
Si sentiva debole, il povero Aminta. La via da Desenzano a Brescia non è lunga, e la rendeva anche più breve il viaggio in istrada ferrata, poichè da alcuni giorni quel tratto di ferrovia, rotto dagli Austriaci, era stato riparato dai nostri. Ma le scosse del convoglio, i trapassi faticosi dal carro dell'ambulanza di campo al convoglio, nella stazione di Desenzano, e dal convoglio a un altro carro d'ambulanza, nella stazione di Brescia, non erano fatti per ridar le forze ad un uomo, che aveva una palla in un braccio, l'osso dell'omero scheggiato, fors'anche spezzato, e una febbre da leoni per giunta.
Egli era meno infelice tuttavia di tante migliaia di feriti del 24 di giugno, che avevano dovuto far la strada su carri scoperti, alla vampa del sole, sdraiati su poca paglia, messi a rinfusa, cercando un ricovero negli ospedali improvvisati di Desenzano, e via via di Lonato, di Ponte San Marco, di Rezzate e di Brescia, senz'altra cura possibile, lungo la strada, fuorchè la speranza di ottenerne, appena giunti in un rifugio, che fosse meno riboccante di loro compagni di sventura.
Aminta salì nondimeno da sè le scale di Sant'Eufemia, leggermente sorretto da un infermiere. Fu fatto entrare in una corsìa, dov'era ancora un letto libero. Si dice ancora, ma si potrebbe dire che era stato lasciato libero a mala pena, poichè il soldato che l'occupava da sette giorni era andato quel giorno a dormire il gran sonno. Lui partito, si era mutata la biancheria e messo a capo del letto un altro cartellino. Su questo fu scritto un altro nome, quello di Aminta Guerri, vi si aggiunse la patria, il reggimento, e, appena fu giunto il medico per la visita, anche la qualità della ferita. Così il letto del N. 151 aveva cambiato proprietario.
- Speriamo bene; - aveva detto il medico, dopo avere attentamente visitato il ferito. - Mi pare che tutto proceda a dovere. La palla si sente e non sarà difficile estrarla. Riposate ora un tantino.
- Signor dottore, - disse Aminta, - vorrei chiedere una grazia.
- Scrivere alla vostra famiglia? - disse il dottore.
- Sì; come ha indovinato alla prima!
- Eh, ci vuol poco, mio caro. È il primo pensiero del ferito, appena giunge all'ospedale. Le prime cure che riceve da persone ignote, quantunque amorevoli, richiamano alla sua mente quelle che vorrebbe avere dai suoi.
- È vero; - disse Aminta. - E se potessi far sapere ai miei che son qua, all'ospedale di Sant'Eufemia...
- È presto fatto; - replicò il medico militare, un forte e simpatico giovanotto, a cui non toglievano bellezza, aggiungendo gravità, le due lenti piantate sul naso. - Ho qua dentro dei foglietti di carta e delle buste. Dettate e scriverò. Nessun ringraziamento, vi prego; son cose che fanno perder tempo, e basta sottintenderle. -
Aminta diede il nome e il ricapito dei suoi. Il dottore scrisse poche linee per lui, dando anche notizie rassicuranti intorno al suo stato di salute. Poi mise il foglietto nella busta, suggellò, aggiunse l'indirizzo; tutto alla svelta, a suon di tamburo; finalmente consegnò la lettera a un infermiere, perchè fosse gittata immediatamente nella buca, all'ingresso dell'ospedale.
- Adesso, dunque, riposate. Niente ringraziamenti, vi ripeto: siamo qui l'uno per l'altro; abbiamo servita in faccia al nemico comune la medesima causa; io, più fortunato di voi, ho della carta da lettere pronta nel portafoglio, e le braccia sane per servirmene. A rivederci tra poco; dormite un paio d'ore, vi prego. -
Aminta non accettò la raccomandazione, che dopo aver chiesto e saputo il nome del simpatico uomo, che faceva tutto alla svelta, e bene, e non voleva neanche essere ringraziato. Bravo dottor Pesce! Anch'egli alpigiano come Aminta Guerri; poichè era nato sull'Appennino ligustico, a Campo Ligure, com'egli sull'Appennino modenese, a Fiumalbo.
Saputo il nome, e risposto con un sorriso alle ultime esortazioni amichevoli del dottore. Aminta piegò la testa sul guanciale e prese sonno. Ne aveva bisogno più assai che non credesse, di quel sonno ristoratore; e non dormì solamente le due ore che gli aveva raccomandato il buon medico. La febbre, per miracolo, non soverchiò la stanchezza, e neanche gli diede sogni spiacevoli. Si era addormentato pensando ai suoi monti; sognò di vederli, e di abbracciare suo padre. - «Infine, - gli diceva, mostrando il suo braccio ferito, - l'ho anch'io, la mia brava testimonianza di aver servito il paese. E non è, perdio, una misera condanna a tre mesi di confine!» Aminta Guerri, lo ricordate, non aveva perdonato, come sua sorella; il suo pensiero ricorreva spesso, e sdegnosamente, alle nobili imprese del conte Gino Malatesti. Al campo gli era giunta una lettera, in cui si diceva, tra l'altre cose e notizie di Modena, che il conte Gino era sparito. Sicuro! Tanto sparito, che non se n'erano più avute novelle. Se il conte Gino avesse avuto un'oncia di cuore, se avesse inteso il dover suo, si sarebbe arruolato in un reggimento piemontese, o nell'esercito di Garibaldi; avrebbe fatta la sua brava campagna, e presa magari in petto la sua brava palla, redentrice d'ogni colpa. A quel patto, a quel patto solo, avrebbe perdonato Aminta Guerri le colpe di Gino Malatesti. Ma il conte Gino non aveva fatto nulla di ciò. Se lo avesse fatto, altri modenesi lo avrebbero saputo, altri modenesi lo avrebbero narrato ad Aminta. Nessuno gli aveva data una simile notizia; solo avevano potuto scrivergli che il signor conte era sparito. Sparito!
La mattina seguente, fu fatta una vera e compiuta esplorazione della ferita, ed anche estratta la palla. Era conica, la palla, e di carabina Stutzen; ma alla breve distanza a cui era stato colpito Aminta, le era mancato il tempo di allargare le sue ali di piombo. Perciò non era stata troppo grave la lacerazione dei tessuti. Dalla poca quantità delle schegge raccolte, fu anche facile argomentare che l'osso non era stato troppo maltrattato.
- Speriamo bene, anzi meglio di ieri; - disse il simpatico dottore. - Ora che la medicatura è fatta, voglia starsene tranquillo, signor mio, non muoversi, sopratutto non commuoversi, non agitarsi inutilmente. La vita dell'ospedale è noiosa; ma ci vuol flemma. Coraggio e sangue freddo, come dicono al reggimento! E aspetti la famiglia, sì, ma con moderata impazienza. -
Aminta sorrise a quelle raccomandazioni, fatte con un tono di burbero benefico.
- Grazie, tenente! - diss'egli. - Ella non mi vuol guarire soltanto con le mani.
- Eh, si capisce; - rispose il dottore. - Le mani in chirurgia; la lingua in medicina. Ella non ha bisogno solamente di chirurgo, ma anche di medico. Stia dunque ai consigli. -
L'ultimo venuto della famiglia è sempre il beniamino. Aminta Guerri, ultimo venuto a Santa Eufemia, fu il beniamino dell'ospedale. Triste famiglia, un ospedale; ma non dimenticate che si era nel 1859, in un ospedale di Brescia.
Ordinariamente, in un ospedale, è squallore e tristezza, anche quando vi regna la pulizia. Le suore di Carità fanno un servizio ammirabile, assai gradito ai poverelli, che certamente non avrebbero avute mai tante cure in casa propria, e più certamente ancora non videro in casa propria tanta nettezza, tanto ordine, tanta puntualità, tanta abbondanza del necessario. Ma un po' di superfluo, Dio buono, quanto è necessario alla vita! Quelle mura scialbe dello stanzone non destano alcun pensiero giocondo nell'animo, non fioriscono di nessuna consolazione lo spirito abbattuto. Pagine bianche e mute, vi lasciano tracciare con la fantasia tutti i segni più neri, leggere tutte le malinconie che volete. E là, fra tanti letti in fila, tutti della medesima forma, custoditi alla vista dalle medesime cortine, è un principio di depressione del povero orgoglio umano, pur tanto utile a stimolare le energie della vita; in quell'odor molle di corruzione, che nessun profumo varrebbe a dissipare, e che gli stessi effluvii di farmacia mettono in evidenza, pur volendolo vincere, è un principio di morte. Così muore lo spirito, prima che il corpo si spenga. Lo stanzone, il dormitorio in comune, è lieto tra i sani, tra i forti, in una caserma, quando un motto allegro scoppia nel buio e fa scoppiar le risate all'intorno; è uggioso e triste senza fine, dove son venti o trenta uomini che stanno male, e dove chi ne ha meno finisce presto con sentirne di più. Infatti, nella corsìa dell'ospedale si moltiplica il pensiero delle vostre miserie per quello di tutte le altre che vi circondano. Ma non così a Santa Eufemia, nell'anno glorioso; sebbene, in onta alla consolante dottrina del Larrey, si morisse anche delle proprie ferite, dopo aver vinto, e sapendo che l'esercito di cui si era parte onorata, proseguiva la sua opera liberatrice.
Anche a Sant'Eufemia erano scialbe le mura; ma l'ospedale non si aveva tempo a sentirlo, poichè la famiglia appariva da tutti gli usci, brulicava per tutte le corsie, s'inchinava amorosa a tutti i capezzali. Le donne gentili di Brescia assistevano esse i feriti; servivano gli ammalati più gravi, consolavano di buone parole coloro che potevano udire e rispondere, allegravano di graziosi motti i convalescenti. In certe strette, dove i feriti non avevano più bisogno d'altro che di riposo e di nutrizione ricostituente (non è questo il vocabolo?), non pareva più d'essere tra due letti d'ospedale, ma in un salotto; salotto improvvisato, ma pur sempre un salotto. Per l'appunto da due convalescenti erano occupati i due letti alla destra di Aminta, corrispondenti ai numeri 152 e 153. Il 152 era un giovanotto di Casalmaggiore, che aveva avuta a San Martino una ferita sul dorso della mano sinistra, nell'atto di puntare il fucile, prima di aver la sua laurea d'avvocato nella università di Pavia. Il 153 era un gentiluomo di Pistoia, ferito alla regione frontale, ma anch'egli in via di guarigione. Lo chiamavano il poeta, perchè egli, più sfregiato che offeso dallo strisciar di una palla austriaca dalla fronte alla tempia sinistra, diceva di voler coprire lo sfregio con una corona d'alloro. E intanto scriveva rime, come il suo conterraneo Gino Sinibaldi, e fregiava di sonetti e di madrigali gli albi delle belle infermiere.
Aminta vide passar davanti al suo letto le più leggiadre apparizioni, i più varii e i più nobili tipi della bellezza femminile. Vide ed ammirò anch'egli quelle due luci che il 153 chiamava, in un impeto lirico, «i più begli occhi d'Italia» e che il 152, capo ameno se altro fu mai, simulando la parlata e l'accento di un viaggiatore tedesco in Italia, ribattezzava per «belle parrocchie.» - Ma che parrocchie! - esclamava il 153. - Arcipreture, collegiate, abbazie, cattedrali, basiliche! Un par d'occhi come quelli non si dovrebbero portare attorno così, impunemente, audacemente, per tentare al furto i poveri mortali. «Signora... (e qui il nome della felice proprietaria di quel paio d'occhi) non sarebbe forse più prudente metterli in uno scrigno? o consegnarli allo Stato, perchè fossero conservati tra i diamanti della corona?» -
Aminta non udiva sempre di così allegri discorsi. Qualche volta si parlava anche dei compagni più gravemente feriti, subitamente aggravati. E appunto due giorni dopo che gli era stata estratta la palla dall'omero, da un letto alla sua sinistra sentì proferire un nome che lo fece sobbalzare tra le lenzuola. Malatesti, Malatesti, avevano detto? Non ne era ben certo. Un ferito parlava con un infermiere, venuto accanto al suo letto. Il nome di Malatesti, o qualche cosa di somigliante, era stato pronunziato. Si volse, come potè, a stento, e tese l'orecchio. Ma il ferito parlava a bassa voce, e l'infermiere egualmente.
Restò a lungo turbato, cercando e non trovando nella sua mente confusa il modo di soddisfare la curiosità ond'era tormentato. Ma aveva poi udito bene? E se anche aveva udito bene, non ce n'erano altri, di Malatesti, in Italia?
Aminta era in questi dubbi, quando incominciarono le visite mattutine. Una bellissima signora bresciana, proprio quella dei «più begli occhi d'Italia», apriva in quel giorno la marcia. Giunta al letto di Aminta, entrò nella stretta, si avvicinò al suo capezzale, e gli domandò con la sua vocina soave come avesse passata la notte.
- Sognando di Lei; - avrebbe risposto il 153. Ma il nostro Aminta era il 151; non rispose che un «bene, grazie», come avrebbe fatto ogni semplice mortale, alla domanda di ogni semplice dama, e sessagenaria per giunta.
- Ha bisogno di nulla? - domandò ancora la bella infermiera.
- Sì, signora; - osò dire Aminta. - Di una notizia.
- Ah, bene! Mi dica; - rispose ella, contenta di potergli esser utile in qualche cosa.
- Vorrei sapere... - ripigliò Aminta. - Le chiederei, in grazia, di dirmi se tra i feriti c'è qui un Malatesti.
- Sì, - rispose la signora, - ho sentito questo nome.
- È modenese? - domandò Aminta.
- Non so; ma aspetti, si fa presto a saperlo. - Così dicendo, la bella signora, escì leggiera leggiera dalla stretta e ritornò sopra i suoi passi, fino all'uscio di una cameretta, dove alloggiava l'infermiere della sala. Aminta la vide ricomparire, due minuti dopo, alla sponda del suo letto.
- Sì, - diss'ella, ripigliando il discorso, - è un conte Malatesti, di Modena. Lo ricordo benissimo, ora; è un soldato volontario del 13° Reggimento; occupa il primo letto della corsia. -
Aminta era preso da una strana inquietudine. Tutti quei particolari eccedevano, oramai; gl'impedivano di saper subito l'essenziale.
- E scusi... - diss'egli; - è ferito... gravemente? - Forse la bella signora si era avveduta del turbamento di Aminta; forse non era in lei che un sentimento di pietà femminile. Comunque fosse, ella si mostrò meno franca nel rispondere a quell'altra domanda.
- Gravemente?... Non credo, se per una ferita grave si ha da intendere che ci sia pericolo di vita. Non so bene come sia ferito; mi pare alla spalla; quasi come Lei, Ma si spera... si spera molto.
- Ho sentito dire, - ripigliò Aminta, - o mi è parso di sentire d'un Malatesti che stava assai male.
- Sì, dev'essere una notizia di ieri sera; - rispose la signora, abbassando le ciglia pietose sui «più begli occhi d'Italia». - Si è temuta una recrudescenza, per un forte accesso di febbre... Ma questa mane, poc'anzi, quando son passata daccanto al suo letto, mi è parso abbastanza tranquillo.
- Ha detto che è ferito alla spalla?
- Sì, vicino alla spalla... più in qua... sotto la clavicola destra. Ma si calmi, la prego. E sopratutto non parli troppo; le farà male.
- Ancora una domanda, signora! È lontano di qui?
- Le ho detto che è in principio di questa corsìa. Ma già, ella non può voltarsi a vedere, e meno ancora contare i letti. Il suo amico è al numero 140.
- Grazie, signora; - disse Aminta. - Il conte Malatesti è infatti un amico mio. Speriamo bene. -
I più begli occhi d'Italia si spiccarono finalmente da Modena, per brillare di luce pietosa su Casalmaggiore e Pistoia. Colà si aveva meno bisogno di chieder notizie, e molto più di ammirare la loro bellissima proprietaria. Beati convalescenti! Ed anche beati cuori tranquilli, che non sentivano, come Aminta Guerri, il rimorso di un falso giudizio.
Aminta soffriva acerbamente del suo. Povero Gino! povero Gino! Lo aveva dunque accusato a torto? Sparito, il conte Malatesti, sparito da Modena! Sì, sparito da Modena, ma per passare il confine, anzi i due confini di Modena e di Parma, per correre in Piemonte, e indossar la divisa del volontario. Ma perchè non ne faceva un cenno, la lettera? Ah, sì, che poteva dire la lettera? Il conte Gino, il figlio di Jacopo Malatesti, di un fedel servitore del Duca, non poteva mica toccar la tromba, per annunziare al popolo e al comune il suo virile proposito. Era sparito, come fa in simili circostanze l'uomo forte e modesto, che la voce del dovere ha chiamato. E senza lasciar trapelare il suo segreto da anima nata, senza mandar notizie di sè ai parenti, agli amici, era entrato, egli cavaliere esperto e magnifico, in un reggimento di fanteria, forse per meglio nascondersi, per sottrarsi alla vista, alla curiosità de' suoi pari, al pericolo di notizie che sul suo conto si potessero spargere. Ignoto a tutti, fuorchè al suo reggimento, aveva fatta la sua brava campagna, e una palla in petto aveva premiato il suo doppio eroismo, mentre tutti gli altri lo dicevano semplicemente «sparito da Modena» e Aminta Guerri lo accusava di non aver fatto seguire i fatti, i forti fatti, alle chiacchiere vane, alle piccole glorie di una condanna al confine. E come lo aveva mal giudicato in ciò, non poteva Aminta Guerri averlo giudicato male in qualche altra cosa? Per esempio nel suo mancar di fede alle Vaie? A buon conto, sua sorella Fiordispina, quella che più di tutti aveva a soffrirne, non aveva dubitato del cuore di Gino; sua sorella Fiordispina gli aveva perdonato, senza mestieri di giustificazioni, di pentimenti, di atti da eroe. Povera Fiordispina! Ed ella aveva profondamente sofferto; e soffriva ancora; avrebbe sempre sofferto. Sono nel mondo creature di tempra più nobile, vasi d'elezione, secondo il detto di un grande, ai quali è stato affidato, come a sua propria sede, il dolore; e da quei cuori più alti, come da fari accesi sulle tenebre vaste dei mari, il dolore umano spande la sua luce più bella.
Il medico giunse, guardò il ferito, gli toccò il polso, e trovò cresciuta la febbre.
- Ebbene, che è? - diss'egli. - Abbiamo fatto qualche pazzia? Il cervello ha lavorato troppo, non è vero?
- Ella vede tutto, tenente! - mormorò Aminta. - Indovina tutto!...
- Eh, ci vuol poco; - rispose il dottore. - Abbiamo una bella febbrona.
- La ferita, forse...
- La ferita non ci ha che fare; la ferita procede bene. Qui ci siamo riscaldati la testa, dico io. Forse col pensiero della famiglia? Si calmi; la famiglia verrà. Vuol farsi trovare dai suoi più ammalato che non sia veramente?
- Ha ragione, tenente! Vedrò di calmarmi, non penserò a nulla.
- Bravo, così va fatto. Neanche a tutte queste belle signore che passano, mi raccomando. Ah, bene! La vedo sorridere, mio caro Guerri. Abbiamo già dunque il cuore impegnato con una di queste angiolesse custodi? Lo dicevo ben io, che questa febbrona non veniva dal braccio!
- S'inganna, tenente; ho il cuore altrove. E poi, nel mio stato.... Le pare? Mi dica ora, di grazia; - soggiunse tosto il ferito, vedendo il dottore già sulle mosse per continuare le sue visite; - come sta il 140?
- Benissimo! - esclamò il dottore, inarcando le ciglia. - Conosce già i numeri di tutta la corsìa!
- Si tratta di un mio concittadino, del conte Malatesti; - rispose Aminta. - Mi hanno detto che è qui, al numero 140. -
Il dottore rimase un istante perplesso, guardando di sotto alle sue lenti il curioso. In quell'istante la sua risoluzione era fatta.
- Il 140 va molto meglio, - rispose.
- Con una palla nel polmone! - disse Aminta.
Qui, altra guardata attraverso le lenti. Ma con tutta la sua penetrazione, il bravo dottore non poteva mica indovinare che il ferito giuocasse di scherma con lui e gli facesse una finta così audace, per obbligarlo ad una certa parata.
- Ebbene, - diss'egli allora, - che cosa c'è di strano? Con un polmone forato si può vivere... quando non si muore subito: il che, mi concederà, guasta anticipatamente tutta la cura del medico. Il conte Malatesti è stato ferito il 24 giugno; siamo al 5 di luglio; son passati dunque undici giorni, ed egli è ancor vivo. Sarebbe già, da solo, un bel fondamento di speranza; ma non è solo, perchè un certo miglioramento si è già manifestato nelle sue condizioni generali.
- Mi avevano detto.... - balbettò Aminta.
- Ah, caro il mio Guerri! Se Ella dà retta agli infermieri, crederà che qui siano tutti moribondi. Qui, invece, ho l'onore di dirglielo, guariscono tutti, nella proporzione del novantacinque per cento.
- Sì e no; - rispose il dottore, mettendo per amore della verità scientifica un correttivo all'asserzione pietosa. - Ella deve anche pensare che qui abbiamo tutti i feriti che si son potuti trasportare. Hanno durato agli strapazzi del viaggio; c'era la fibra. Ma basta; ora finisco il mio giro.
- Purchè Lei stia zitto un paio d'ore, e tranquillo tutto il resto del giorno, sì.
- Mi saluti il conte Malatesti; gli porti un augurio del mio cuore!
- La servirò. -
Ciò detto, il tenente medico si allontanò dal capezzale di Aminta, per andare a finire il suo giro. Da quella parte là, per fortuna, non aveva che convalescenti.
- Sì, sì! Potrà sentirli i saluti? - borbottava egli tra i denti. - Ed anche approfittare degli augurii, quel povero conte! -
Finito il giro, andò a cercar l'infermiere della sala, che stava nel suo camerino, leggiucchiando un giornale.
- C'è qui un uso.... - gli disse il dottore, - un uso che non va.
- Ho preso il giornale or ora; - rispose l'infermiere, alzandosi tosto. - Sono i primi due minuti di riposo, dalle cinque di stamane.
- Non parlo di riposo; - ripigliò il dottore, - parlo dall'uso di dar notizie dei feriti gravi agli altri feriti, che lo son meno, ma che potrebbero ancora aggravarsi.
- Non mi pare di aver fatto nulla di simile.
- Al 151, per esempio, si è detto che il 140, un suo concittadino, ha il polmone forato e che il suo stato è gravissimo. Queste notizie turbano. La debolezza di chi le riceve, l'amicizia, metta anche in certi casi la parentela, tutto ciò aiuta a far crescere l'ansietà, l'agitazione, la febbre. Non va, dico, non va.
- Mi accusa a torto, signor tenente; - replicò l'infermiere. - Le giuro, da buon italiano come sono, non ho detto nulla di nulla, nè al 151, ne ad altri.
- Allora il signor Guerri mi ha ingannato; - disse il dottore. - Gli ho risposto di non credere a ciarle d'infermieri.... Capirà, dovevo parlar così!... Ed egli non mi ha detto nulla in contrario.
- Creda, signor tenente, avrà voluto tirare a indovinare. Qualcheduno gli avrà detto che qui c'è il conte Malatesti....
- E che ha il numero 140, e che ha un polmone forato! - aggiunse il dottore.
- Ma proprio non gliel'ho detto io; - ribattè l'infermiere. - Se non sono le signore....
- Ah, donnine belle! - esclamò il dottore, tentennando la testa.
- Sicuro, donnine belle! - ripetè l'infermiere. - Non ce ne dovrebbero essere, negli ospedali, a confonder la testa.
- Bravo! La confondono a Lei?
- Eh! per questo, vada là! Un po' d'aria di famiglia fa bene. Vestono con eleganza; mettono in mostra qualche colorino allegro, che fa un po' di contrasto, che rompe questa monotonia nosocomiale. Veda anche il nome, quanto è brutto! Nosocomio! E siamo poco belli noi altri, con le nostre divise; e son brutti lor signori, con quelle cappe nere, che li fanno rassomigliare a tanti confratelli della buona morte. Lasci che le signore vengano, che le signore risplendano, che le signore sorridano; è tanto di guadagnato per la salute. Dico soltanto che bisogna guardarsi dal notiziario. Veda, per esempio; ieri il 151, non aveva più febbre; oggi gli è ritornata. La cosa mi rincresce tanto più, che oggi può capitare suo padre.
- Potrò dunque lasciarlo passare?
- Certamente. La vista della famiglia non fa mai male. È una febbre diversa, una febbre benefica, quella che dà la vista della famiglia ai feriti. -
L'infermiere s'inchinò, e il dottore, escito dal camerino, scese per la scala di servizio, che era lì accanto, riuscendo, come quello stanzino di guardia, a metà del camerone, o piuttosto del gran corridoio, dov'erano in fila i letti degli ammalati.
Da quella scala, poche ore dopo, il bravo infermiere vide affacciarsi una piccola comitiva, che domandava di vedere il volontario Guerri. L'accompagnava un soldato di guardia (un piantone, per usar la parola propria) che portava il permesso del dottore.
- Il volontario Guerri è in questa corsìa, per l'appunto; - disse l'infermiere. - A sinistra, al numero 151. È il padre, Lei?
- Sissignore, - rispose il primo della comitiva. - E come va, il mio povero figliuolo?
- Bene, una guarigione sicura. Complicazioni non se ne temono, con quella costituzione robusta. L'osso è scheggiato per una parte assai piccola, e le schegge vengono fuori benissimo, ad ogni medicatura.
- Grazie! - esclamò il vecchio Guerri, mandando un respiro tanto fatto. - Ella mi ridà la vita. Avrà un po' di febbre, m'immagino.
- Sì, un pochettino; ma non per la ferita. Non ne ha avuto stanotte, per esempio. Gli è venuta stamane, per certe chiacchiere di signore, che gli hanno dato una notizia spiacevole d'un suo amico, un conte Malatesti, che è al numero 140, e grave, assai grave. Ella capirà, signor mio.... quando si è amici.... sentir dire lì per lì.... -
Il signor Guerri non stette a capir altro, ma si volse indietro e vide Fiordispina impallidire. La zia Angelica era stata pronta a sostenerla.
L'infermiere non finì la sua frase. Anch'egli aveva veduta quella bella ragazza, che veniva alle spalle del signor Guerri, e non gli era sfuggito il turbamento che l'aveva colta.
- Che ha? - gridò egli. - Si sente male?
- Nulla, nulla! - rispose il vecchio Guerri. - Con questo caldo, e con questo odor grave....
- Ha ragione; - ripigliò l'infermiere. - Noi siamo abituati; ma lor signori, che vengono di fuori, lo sentono. Aspetti, prenderò qualche sale, e lo faremo aspirare alla signorina.
- No, grazie, non ne ho bisogno; - disse Fiordispina, scuotendosi. - Non ho più nulla. -
Ma il pallore ond'era coperto il suo viso, contrastava con le parole.
- Andiamo; - ripigliò essa, tuttavia, sforzandosi di sorridere. - Vediamo Aminta. Dov'è?
- Per di qua, signori, per di qua! - disse l'infermiere, guidando i visitatori.
E giunto davanti al numero 151, entrò nella stretta, per dare la buona novella al volontario Guerri.
- Sono arrivati i suoi, sono arrivati; - gli disse. - Ora non sarà più triste, non soffrirà più d'impazienza.
E si ritirò, vedendo sorridere Aminta; si ritirò, per lasciare il passo libero ai parenti del ferito.
- Babbo.... sorella.... zia.... - balbettò Aminta, commosso. - Vi ho qui, finalmente?
- Sì, molto meglio. Anzi, mi pare d'esser guarito, ora. Per altro, vedete? non posso abbracciarvi.
- Non te ne dar pensiero; ti abbracceremo noi, e tu ci renderai più tardi l'abbraccio.
- Don Pietro! - esclamò Aminta, poi ch'ebbe baciato suo padre e le donne. - Anche Don Pietro, è venuto? Che bontà è stata la sua!
- Ma sì.... ma sì! grande bontà! - rispose Don Pietro con le lagrime agli occhi. - Quando penso a voi altri, che avete messa a repentaglio la vita per fare tante belle cose, mi pare che dovremmo venir tutti, dai monti e dai piani, per baciare le vostre ferite.
- Sempre giovane, il nostro Don Pietro! Tu lo vedi! - disse il signor Francesco.
- Se fossi giovane! Se fossi giovane! - borbottò il vecchio prete. - sarei qua, e verreste a trovarmi; o sarei là.... e preghereste per me. -
Si ritrasse, ciò detto, lasciando Aminta coi suoi. Avevano tante cose da dirsi! Egli frattanto dava una giratina per la corsìa, ma voltando subito da destra.
- Dov'è il numero 140? - chiese egli sottovoce all'infermiere.
- Ho capito; - disse l'infermiere, che incominciava a non capire più nulla. - Eccolo là; è il primo della corsìa. -
E mentre seguiva il prete, soggiungeva contrito:
- L'ho fatta bella anch'io; anzi l'ho fatta peggio. Perchè io, finalmente, ero avvisato! Ma chi diavolo ha da pensare che queste notizie debbano far tanto male anche alle persone sane? Oramai c'è da temere perfino di metter loro tra le mani un giornale. A proposito, non ho neanche potuto leggere il mio! -
Un altro infermiere appariva nel corridoio.
- Ah, bravo! - gli disse. - Sei venuto a rilevarmi? Avevo proprio bisogno di andare a prendere una boccata d'aria. Guarda; ci son qui alcuni signori. Quel vecchio, e le due signore, sono parenti del 151; il prete, laggiù, è un parente o un amico del 140.
- Viene a tempo, il prete, per il 140! - disse quell'altro.
- Eh, pare di sì. Povero giovane! -
Mentre i due infermieri facevano questi discorsi Don Pietro Toschi era giunto al capezzale di Gino Malatesti. Il ferito era immobile nel suo letto, pallido, cereo nel volto, non più vivo che nello sguardo. Ma come aperto, quell'occhio! come lucente! Pareva che il poveretto, sentendo prossima la fine, volesse bere per lo sguardo tutta la luce del giorno che fuggiva.
Gino vide Don Pietro e lo guardò fissamente; poi mosse le labbra, accennando di voler parlare. Don Pietro gli fe' cenno di non affaticarsi; e intanto si curvò lui, si curvò tanto, che il suo orecchio venne a toccar quasi le labbra di Gino. - Grazie! - mormorò a quell'orecchio il ferito.
- Mio caro signor Gino! - disse il vecchio prete, rattenendo a stento le lagrime. - Mio valoroso amico! Vi porto i saluti di Aminta. Soldato della patria anche lui, rimasto ferito, sotto Peschiera, e trasportato da pochi giorni a Sant'Eufemia. Se egli potesse muoversi, come verrebbe volentieri ad abbracciarvi! -
Un lampo di allegrezza balenò dagli occhi di Gino Malatesti. E lo sguardo, fisso negli occhi di Don Pietro, e il moto delle labbra, sembravano dire al visitatore: - «Continuate! continuate!»
- Aminta è ferito all'omero, ma si spera bene, come per voi; - proseguì il vecchio prete. - Vogliamo farle ancora, quattro chiacchiere insieme, e tutti e due, miei bravi ragazzi, racconterete le sante imprese ad un povero ottuagenario, che non ha potuto seguirvi con la croce nel pugno. Non potendo far altro, son venuto anch'io a trovare il nostro ferito. E qui abbiamo saputo di voi, di ciò che vi è costato il vostro amor patrio. Ma speriamo.... - soggiunse Don Pietro. - Speriamo!
- Più nulla da sperare; - mormorò Gino. - Veduto da voi; perdonato.... da tutti; mi basta!
- Oh, non è questa l'opinione dei medici; - rispose Don Pietro. - Non vi mettete in capo delle tristi idee! Fidate nella scienza dei pratici, ed anche un pochino nella vostra bella gioventù.
- Son così debole! - mormorò il ferito.
- Per il sangue perduto, e che dovete rifare; - ripigliò amorevolmente Don Pietro. - La vostra debolezza mi fa pensare che le parole vi costano, e che dovete risparmiarvi. Lasciate parlar me, caro Gino! Parlerò, non dubitate; parlerà anche il signor Francesco, che è qui. Voi perdonerete ad un padre, se egli non corre subito a baciarvi, dovendo dare il primo pensiero a suo figlio! -
Il ferito obbedì alla raccomandazione. Ma i suoi occhi interrogavano sempre Don Pietro.
Sopraggiunse in quel mezzo il dottore, e si accostò all'altra sponda del letto.
- Ella ha trovato un amico, reverendo? - gli disse, mentre con la mano accarezzava la fronte al ferito.
- Sì, e quale amico! Come un figliuolo, per me! - rispose Don Pietro. - Abbiamo passate tante belle ore insieme! Ed altre ne passeremo, non è vero, dottore?
- Certamente, certamente! - disse il dottore, sforzandosi di accompagnare la parola con un sorriso fiducioso. - Il nostro prode Malatesti deve esserci conservato. Egli non è amato solamente da Lei. Al reggimento ci si pensa sempre moltissimo, e il suo colonnello manda ogni giorno a chieder notizie. Ieri, poi, ci ha incaricato di annunziargli che è stato messo a rapporto, per la medaglia al valore. Ci ha diritto due volte, il conte Malatesti. Già ferito ad una gamba, poteva lasciare il campo, e non volle. Era troppo leggera, la ferita, capisce? Leggera o no, il regolamento parla chiaro, ed egli, restando ancora pochi minuti al suo posto di combattimento, aveva meritata la medaglia. Ha voluto meritarla, zoppicando e facendo fuoco per un'ora, fino a tanto non ebbe l'altra ferita. Bravo soldato! bravo soldato! - esclamò il dottore, ripulendo col fazzoletto le sue lenti, che gli si erano un pochettino offuscate. - Ce ne vorrebbero centomila, di questi, e s'andrebbe in capo al mondo.
- Bravo! bravo Gino! - balbettò Don Pietro, con voce soffocata dalla commozione. - E dica, signor dottore: nessuno della sua famiglia è stato avvertito?
- Si è scritto a Modena, sì; ma pare che laggiù non ci sia nessuno dei suoi. Ci ha risposto il sindaco, che la contessa Malatesti è a Reggio, presso la marchesa Baldovini sua madre. Da Reggio hanno scritto che la marchesa Baldovini è incomodata, e che sua figlia non può lasciarla. -
Don Pietro chinò la fronte, e mandò un sospiro a bocca chiusa.
- Ma il nostro conte non ha bisogno di nessuno; - soggiunse il medico, tornando ad accarezzare la fronte al ferito. - Egli è soldato ed ha intorno i suoi fratelli.... la sua famiglia militare, non è vero? -
Gino mosse lievemente la testa, in atto di assentire alle amorevoli parole del medico. Poi, non volendo rompere la consegna con lunghi discorsi, mormorò una parola soltanto:
- La lettera....
- Ah, sì! - rispose il medico. - Il nostro Malatesti vuol farle sapere che ha ricevuto una lettera da Vienna; una lettera di suo padre. Gli era stata mandata al reggimento; dal reggimento è venuta qua, ed io ho avuto il piacere di leggerla a lui. Eccola qua, nella tasca del suo cappotto grigio. È una lettera che onora due persone ad un tempo: il padre ed il figlio. -
Così dicendo, il dottore aveva ficcata la mano nella tasca del cappotto, che pendeva alla gruccia, daccanto al capezzale, e ne traeva fuori il documento in discorso.
- Ecco! - soggiunse, spiegando il foglio e porgendolo a Don Pietro. - Legga anche Lei, come il nostro amico desidera. -
Gino sorrise al medico, e mormorò un dei suoi «grazie!»
- E poi staremo qualche ora tranquilli, non è vero! - disse il medico, chinandosi su lui e parlandogli quasi all'orecchio. - Sarei contento se dopo la visita dei vostri amici, poteste dormire un pochino. -
Don Pietro frattanto leggeva la lettera, che, col permesso di Gino, leggeremo anche noi. Il conte Jacopo scriveva in questa forma a suo figlio:
«Ero già molto dolente di non ricever tue nuove da Torino, quando la tua lettera è venuta a dichiararmi la risoluzione che hai presa. Mi chiedi perdono. E di che, figliuol mio? A te piuttosto dovrei chiederlo io, che non ho lavorato a farti felice, e che, scambio di accompagnarti in Piemonte, ho preferito di seguire il mio signore in Austria. Ma io, caro Gino, son della vecchia generazione, e mi sarebbe parso di non meritare la stima di nessuno, neanche la tua, se avessi fatto un voltafaccia all'ultim'ora, e sopra tutto senza ombra di pericolo. Aggiungi che, fedele alla buona, dovevo esserlo anche alla cattiva ventura. A voi giovani, a voi liberi, le vie del futuro. Ti mando la mia benedizione e l'augurio che tutti i tuoi voti si adempiano.
- Buon padre! - mormorò Don Pietro, commosso. E rese la lettera al dottore, che fece l'atto di voltarsi da fianco, per rimetterla al suo posto.
- No, no! - disse Gino, con quel suo filo di voce. Il dottore comprese il gesto delle labbra, più che non udisse la parola.
- Avete detto di no? - chiese egli, curvando la testa più presso al ferito.
- Nel cappotto no; - rispose Gino.
- Allora qui, sotto il vostro guanciale?
- No; - disse Gino, mentre i suoi occhi si volgevano a guardare Don Pietro.
- A lui? - ripigliò il dottore, vedendo quella guardata. - Ma il vostro amico l'ha letta. -
Lo sguardo di Gino non si spiccava più dalla faccia di Don Pietro.
- Che debbo farne? - chiese a sua volta il vecchio prete. - Mostrarla, forse.... ad altre persone?
E nello sguardo gli brillava la contentezza di essere stato capito.
- Bene! - replicò Don Pietro. - Il primo a leggerla sarà il signor Francesco Guerri. Ma sappiate, mio Gino, che non sarebbe necessario. Tutto ciò che è avvenuto era stato inteso per il suo verso, e niente, si è mutato per voi alle Vaie, dal giorno che voi ne siete partito. M'intendete? niente mutato, e tutti amici vostri, come prima. -
Il medico, tiratosi un po' indietro, accennò con gli occhi al prete. E questi, che intese la mimica, fece poche altre parole, poi si tolse di là, promettendo di ritornare tra poco. Anche il medico si mosse dopo di lui, e lo raggiunse quasi vicino al letto di Aminta.
- Povero conte Malatesti! - gli disse. - Se sapeste come ha pianto, quando gli ho letta la lettera di suo padre! Allora non era così debole, così rifinito come ora; ed anche il dolore aveva un'espressione più forte dalla medesima saldezza della fibra.
- Ah sì, povero conte Malatesti! - ripetè il vecchio prete. - Forse meno infelice oggi, nel punto di lasciare la vita, che non lo fosse prima di ricevere quella palla in petto! Egli ha sofferto molto, nella vita, portando i rimorsi di una colpa non sua, ma del conte suo padre.
- Appunto! - disse il dottore.—C'è una frase, nella lettera....
- Ah! - esclamò Don Pietro. - L'ha osservata anche Lei? È quella in cui il conte Jacopo esprime il suo dispiacere di aver fatto contro ai desiderii del figlio. Ed è per quella frase che il conte Gino desidera che la lettera sia veduta da altri. Le dico un segreto non mio, signor dottore; ma tra noi, in questo momento, è cosa necessaria. Possiamo parlare qualche minuto in disparte?
- Sì, venga qua; - rispose il dottore. - C'è il camerino dell'infermiere. -
L'infermiere in quel mentre stava accanto al letto di Gino Malatesti, dandogli a bere un sorso di brodo: unico suo nutrimento, oramai. Poco stante, il ferito chiuse gli occhi e si assopì. La fibra, eccitata un istante dall'arrivo dell'amico e da tutti i ricordi delle Vaie, si rilassava da capo. Ma il suo sonno, come al solito, doveva esser breve.
Anche al sonno riparatore è necessario, negli infermi, un buon resto di forze; perciò è naturale che non dia lunghi sopori una vita che sfugge. Così nella mente di Gino Malatesti erano anche poche idee, come è poca cerchia di luce intorno ad una fiammella che sta per ispegnersi. Egli sentiva gratitudine per il dottore, per quell'amico degli ultimi giorni, che oramai non esciva neanche più da Santa Eufemia, per esser pronto ad ogni chiamata. Pensava anche a suo padre, già tanto severo e crudele con lui, ma nobilitato, purificato da un pentimento sincero. Poi, si raccoglieva a contemplare un'immagine di donna, una immagine dolorosa e cara, che si offriva a lui sempre nella sua ultima forma, quando gli era apparsa un istante nel teatro di Modena. Che istante era stato quello, per il povero Gino! Ferito da un'aspra parola della contessa Elena, si era alzato dal suo posto. Anch'essa, la povera Fiordispina, si era ritirata dal suo. Nè più l'aveva veduta; ma da quel punto, e in quella forma, in quell'atto, gli era rimasta impressa negli occhi. Così come aveva cercato di stordirsi dapprima, quando suo padre lo aveva costretto alle nozze con la Baldovini, così aveva egli cercato di stordirsi, dopo quell'incontro, battendosi col barone De Wincsel. Non n'era venuto a capo, per la intromissione audace della marchesa Polissena; ad altro ancora aveva dovuto pensare, perchè fosse stornata dal capo dei Guerri una nuova tempesta. Ma dopo d'allora la sua vita era stata un tormento quotidiano dello spirito, reso anche più doloroso dalla necessità di portar la sua maschera d'uomo tranquillo e felice. Per fortuna erano sopraggiunte le cure politiche, turbando in vario senso gli animi della sua classe. La marchesa Polissena si era sempre occupata poco di politica; ma quella volta bisognava pensarci, poichè si trattava di un grosso temporale, e il suo primo pensiero fu di dispetto contro gli uomini potenti, che mettevano l'Italia, o, per dire più esattamente, la sua piccola corte a soqquadro. La contessa Elena, si capisce, seguitava le idee di sua madre, come ne imitava gli esempi.
Anche il conte Jacopo vedeva addensarsi la burrasca, e se ne addolorava profondamente. Egli, che da tanti anni era stato messo fuori delle grazie del Duca, riprese proprio allora a mostrarsi in Corte, mentre tanti altri fedeloni, favoriti del giorno innanzi, diradavano le visite, preparandosi a prendere di largo: mentre lo stesso marchese Paolo, spiando l'occasione di lasciare l'ufficio, si teneva quasi sull'ali, disposto ad allontanarsi anche lui.
- Jacopo, - gli disse il marchese Paolo, un giorno che le notizie di Parigi e di Torino erano venute più tristi che mai per la causa dei tirannelli d'Italia, - voi siete un uomo raro.
- Perchè dite questo, mio buon Paolo?
- Perchè voi serbate fede alla sventura.
- Non ho fatto così, anche nel Quarantotto? E vi è parso allora un difetto?
- Nè allora, nè oggi; - rispose il marchese Paolo; - quantunque oggi, a giudicarne da certi indizi, mi sembri che se si va....
- Non si torna più, volete dire? Ebbene, non si torni; - replicò il conte Jacopo. - I vecchi Malatesti si contenteranno di finire con me. Non sono mai stati furbi, lo sapete; sarebbero assai più di quel che sono, se si fossero voltati, come i girasoli, ad ogni sole nascente. Ma poi.... che importa ciò? - soggiunse egli, stringendosi nelle spalle. - Guardate i girasoli. Non muoiono anch'essi? Si muore tutti, amico Paolo, e non c'è altro conforto, per l'uomo di carattere, che di esser vissuto disprezzando chi andava disprezzato, e di lasciare, dopo morto, un nome non disprezzabile.
- Onore ai vecchi Malatesti! - esclamò il marchese Paolo. - E fortuna ai nuovi!
- Parlate di mio figlio? - rispose il conte Jacopo. - Egli è andato dove lo chiamavano le sue idee giovanili, che io non ho ispirate, vivaddio, nè educate. Qualunque cosa egli faccia, e per quanto io mi dolga di saperlo su quella strada, mi è caro di pensare che egli non ha aspettato il nuovo sole, per fargli festa. Noi vecchi restiamo al nostro posto. La via è senza uscita, ci dicono? Ebbene, poichè ci si è entrati, e per nostra elezione, c'è anche onore a non ritornare più indietro. -
Questi discorsi trattenevano un poco il marchese Paolo. Ma egli non seguì il Duca, quando questi dovette partirsene, e non si ritirò da Modena che quando fu proclamato il governo provvisorio. Ai pochissimi che andarono a visitarlo in quel giorno, che doveva essere così triste per lui, disse chiaro e tondo che egli «lo aveva preveduto»; che non si erano voluti seguire i suoi consigli, rispettosi, ma fermi e frequenti; che infine egli era nato italiano e non si sentiva straniero in casa sua; solamente per non dar noia con la sua presenza a nessuno, sarebbe andato il giorno dopo in campagna. Infatti, se ne andò in una sua villa, presso Reggio, tranquillo, rassegnato agli eventi, col desiderio di essere dimenticato per allora, non senza una lontana speranza di essere ricordato in tempi più calmi.
Il conte Malatesti, niente furbo, e contento di non esserlo, aveva seguitato il suo signore sul territorio austriaco. Egli credeva di essere italiano, mantenendo le sue convinzioni, perseverando anche in un errore, per non dare il brutto esempio di un cambiamento consigliato dall'utile personale. E poi, e poi, era della vecchia generazione, il conte Jacopo. Ben poteva scrivere da Vienna al suo Gino, sapendolo arruolato nel 13° Reggimento dell'esercito piemontese: «A voi giovani, il futuro.»
Ahi, quale futuro, povero Gino! Fu molto, fu ogni cosa per lui, che la immagine soave di Fiordispina Guerri consolasse il suo breve sonno: che quella immagine, così amorevolmente pietosa come gli era apparsa nel sogno, gli apparisse ancora al suo ridestarsi.
Era là, daccanto al suo letto, la fanciulla dei Guerri; era là, viva e palpitante per lui. Spalancò gli occhi, il poveretto, la guardò attonito, la guardò lungamente, quasi non potesse credere a tanta fortuna; da ultimo aperse le labbra, mormorando il suo nome.
- Tacete, ve ne prego! - diss'ella sommessamente, chinando il bel viso su lui. - Tacete, Gino; non vi affaticate, e confidiamo in Dio! -
La vista di Fiordispina Guerri parve dar nuove forze a quel povero morente. Viveva di quella contemplazione muta. Riconoscente di quel perdono e di quella cura amorosa, Gino Malatesti ebbe ancora la virtù di sorridere alla sua consolatrice. Ma oramai non gli restava che un soffio di vita. Quella medesima notte, vegliando essa al suo capezzale, il ferito mandò un gemito, e a lei, che si era prontamente accostata a guardarlo, mormorò:
- Gino! che pensieri son questi?
- No, mi sento morire; - ripetè egli, con voce soffocata dal rantolo dell'agonia. - Raccogliete la mia anima.... ve ne prego! -
Si era chinata su lui, la povera fanciulla, per rialzargli la testa, leggermente, come un'altra volta aveva fatto, dandogli un po' di sollievo. Ma la testa di lui ricadde inerte sull'origliere, e un soffio rapido sulle labbra di Fiordispina, e un fiotto di sangue apparso sulle labbra di Gino Malatesti, dissero chiaramente alla fanciulla dei Guerri, che tutto era finito.