Émile Zola
Nuove storielle a Ninetta

A Ninetta.

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A Ninetta.

 

Sono proprio dieci anni, mia cara anima, ch'io t'ho raccontato le mie prime storielle. Che begl'innamorati eravamo noi allora! Io venivo da codesta terra di Provenza, dove sono cresciuto così libero, così fidente, così pieno di tutte le illusioni della vita. Io ero tuo, ero di te sola, delle tue tenerezze, del tuo sogno.

Te ne ricordi, Ninetta? Il ricordo è oggi l'unica gioia, nella quale il mio cuore si riposa. Fino a vent'anni, noi abbiamo fatta insieme la stessa strada. Io sento i tuoi piedini sul duro terreno; io scorgo il lembo della tua bianca gonnella sul raso delle erbe avveniticcie; io sento il tuo alito fra gli odori della salvia che mi giungono da lontano come soffi di giovinezza. E le ore beate mi si fanno distinte. Era una mattina, in barchetto, sulla riva dell'acqua rinnovatasi appena, tutta pura, tutta rosea delle prime porpore del cielo; – era un mezzodì, sotto gli alberi, in un bugigattolo di foglie, colla campagna oppressa dal caldo, dormente intorno a noi, senza un brivido; – era una sera, in mezzo a un prato, lentamente inondato dal ceruleo del crepuscolo, che pioveva dalle colline; – era una notte, camminando lungo una via interminabile, andanti tutti e due all'ignoto, noncuranti delle stelle, col solo gaudio di lasciare la città, di smarrirci lontani, assai lontani, nel fondo dell'ombra discreta.... Te ne ricordi, Ninetta?

Qual vita felice! Noi ci eravamo lanciati nell'amore, nell'arte, nel sogno. Non v'ha cespuglio che non abbia celato i nostri baci, e soffocato il nostro ciarlìo. Io ti conducevo via, io ti conducevo a spasso, come la vivente poesia della mia infanzia. Noi due, avevamo il cielo, la terra, e gli alberi, e le acque, persin le nude roccie che chiudevano l'orizzonte. Mi pareva in quell'età, che, aprendo le braccia, io potessi prendere tutta la campagna sul mio petto, per darle un bacio di pace. In me sentivo gagliardie, desideri, bontà di gigante. Le nostre corse da monelli scapati, i nostri amori da uccelli liberi, mi avevano ispirato un profondo disprezzo del mondo, una calma fede alle sole energie della vita. Sì; fu tra le continue tenerezze, o amica mia, ch'io ho fatto un giorno questa provvista di coraggio, di cui i miei compagni, più tardi, si sono così spesso stupiti. Le illusioni dei nostri cuori erano le armature di fino acciaio che mi proteggono ancora.

Io ti lasciai, lasciai codesta Provenza della quale tu eri l'anima, e fosti tu, tu quella, che, nella vigilia della lotta, io invocavo come una buona santa. Tu fosti il mio primo libro. Esso era tutto pieno della tua esistenza, tutto olezzante del profumo de' tuoi capelli. Tu mi avevi inviato alla battaglia, con un bacio sulla fronte, da intrepida amante che vuole la vittoria del soldato che ama. E io, io non ricordavo di continuo che quel bacio, io non pensavo che a te, non potevo parlare che di te.

Dieci anni sono trascorsi. Ah! mia cara anima, quante tempeste rumoreggiarono, quanta acqua nera, quanti frantumi son passati da quel tempo sotto i ponti crollanti de' miei sogni! Dieci anni di lavori forzati, dieci anni d'amarezze, di colpi dati e ricevuti, di perpetua battaglia! Io ho il cuore e il cervello tutto sfregiato di ferite. Se tu vedessi il tuo innamorato d'un tempo, quel disinvolto fanciullone che sognava di spostare le montagne con un buffetto, se tu lo vedessi passare nel pallido chiaror di Parigi, con la faccia terrea, sbalordito per stanchezza, tu tremeresti a verga a verga, mia povera Ninetta, rimpiangendo i chiari soli e gli ardenti meriggi spenti per sempre. Certe sere, sono così affranto, che ho una voglia codarda di sedermi sull'orlo della strada, disposto ad addormentarmi per sempre nel fosso. E sai tu, Ninetta, ciò che senza posa mi spinge avanti, ciò che mi rende animoso in qualunque debolezza? È la tua voce, o mia adorata, la tua voce lontana, il tuo filo di voce pura che mi ripete i miei giuramenti.

Certo, io ti so fanciulla coraggiosa. S'io ti mostro le mie piaghe, tu non potrai che armarmi di più. Lamentarmi con te mi darà sollievo, mi consolerà. Io non ho lasciato la penna un sol giorno, o amica mia; io mi sono, battuto come il soldato che deve guadagnarsi il pane; e, se la gloria verrà, essa m'impedirà di mangiare pane stantìo. Quali còmpiti ingrati, la nausea dei quali mi monta ancora alla gola! Per dieci anni, io ho alimentato, come tanti altri, col meglio di me stesso, la fornace del giornalismo. Di sì immane fatica, non resta nulla, tranne un poco di cenere! Foglie gettate al vento, fiori caduti nel fango, accozzaglia del meglio e del peggio, impastati nel truogolo comune. Ho trattato tutto; mi sono sporcate le mani in questo torrente di torbida mediocrità che trabocca. Il mio amore di assoluta indipendenza sanguinava in mezzo a tali scimunitaggini, così gravide d'importanza alla mattina e così dimenticate alla sera. Mentre io sognavo qualche colpo di pollice eterno dato nel granito, qualche opera vitale piantata, ritta per sempre, soffiavo delle bolle di sapone ch'eran disciolte dall'ala delle mosche ronzanti al sole. Io sarei sdrucciolato nell'inebetimento del mestiere, se, nel mio amore per la forza, io non avessi avuto un conforto: quello che codesta produzione incessante mi rompeva a tutte le fatiche.

Poi, amica mia, io m'ero armato per la guerra! Tu non potresti credere quali ondate di collera in me sollevava l'imbecillità! Io aveva la passione delle mie idee: io avrei voluto cacciare i miei convincimenti nella gola altrui. Un libro mi ammalava, un quadro mi faceva disperare come una pubblica catastrofe; io viveva in una battaglia continua d'ammirazione e di disprezzo. E all'infuori della letteratura, all'infuori dell'arte, il mondo per me non esisteva. E quali colpi di penna, quali cozzi furiosi per far piazza netta! Oggi, mi stringo nelle spalle. Sono un vecchio indurito nel male: ma ho serbata la mia fede. Mi credo tuttavia più intrattabile di prima; ma io mi contento di chiudermi in me stesso e di lavorare. È questa l'unica maniera per discutere sanamente; poichè le opere non sono che argomenti nell'eterna discussione del bello.

Tu immagini già ch'io non possa essere uscito dalla battaglia intatto. Ho cicatrici un po' dappertutto, te l'ho detto; nel cervello e nel cuore. Io non rispondo più; aspetto che gli altri si avvezzino alla mia natura. Forse così potrò tornare a te intero. Egli è, amica mia, che ho lasciato i nostri galanti sentieri d'innamorati, dove i fiori spuntano, dove si colgono solo sorrisi. Io ho ormai pigliato la strada maestra, grigia di polvere, dai magri alberi; io stesso mi sono, lo confesso, fermato curioso davanti ai cani crepati, nel canto della via: ho parlato di verità, ho preteso che si potesse scrivere tutto, ho voluto provare che l'arte è nella vita e non altrove. Naturalmente, mi hanno cacciato nel ruscello; me, o Ninetta, me che ho spesa la mia giovinezza a racimolare pel tuo corsetto le margheritine e i fiordalisi!

Tu mi perdonerai le mie infedeltà d'amante. Gli uomini non possono restar sempre attaccati alle gonnelle delle ragazze. Viene un'ora che i vostri fiori son troppo soavi. Tu ti ricorderai la mesta sera d'autunno, la sera dei nostri addii? Egli fu nell'uscire dalle tue debili braccia che la verità mi ha trascinato nelle sue dure mani. Divenni pazzo d'analisi esatta! Dopo i lavori della giornata, io spendevo le notti a scrivere pagina per pagina libri che mi famigliarizzavano ad essa. S'io ho un orgoglio è quello della volontà, il cui sforzo mi ha lentamente tirato fuori dal mestiere obbligato. Ho mangiato, senza vendere punto le mie convinzioni.

Io ti dovevo queste confidenze, a te che hai il diritto di sapere qual uomo è divenuto il fanciullo del quale tu hai protetto le prime prove.

Oggi, il mio unico patimento è d'esser solo. Il mondo finisce ai cancelli del mio giardino. Io mi sono chiuso in me stesso, per non far altro che lavorare; mi sono rinchiusobene che nessuno vien più. Ecco perchè, cara anima mia, io ho evocato la tua memoria in mezzo alla lotta. Ero troppo solo; erano dieci anni di separazione! Io volevo rivederti, baciarti i capelli, dirti ch'io t'amo sempre, e ciò mi conforta. Vieni, e non aver paura; io non sono sì nero come mi dipingono. Te lo assicuro, io t'amo sempre, e sogno d'aver ancora delle rose per metterne un mazzolino nel tuo seno, sai? Ho voglia di lattemiele! Se non temessi di far ridere, io ti condurrei sotto qualche spalliera di carpini, con un montone bianco, per dirci tutti e tre delle cose tenere.

E sai tu ciò ch'io ho fatto, Ninetta, per trattenerti presso di me questa notte? Te la do a indovinare in mille. Ho sfogliato il passato, ho cercato nelle centinaia di pagine scritte un po' dappertutto se trovavo niente di delicato per le tue orecchie. Tra le mie rozzezze, m'è piaciuto mettervi questa dolcezza. Sì; ho voluto far questo regalo a noi due. Noi ritorniamo bambini, noi merendiamo sull'erba. Sono storielle, nient'altro che storielle; sono confetti nel piattino del monello. Ciò non è grazioso? Tre grappolini d'uva spina, due grani d'uva secca bastano alla nostra fame; ci ubriacheremo con quattro gocce di vino nell'acqua pura. Ascolta, o mia curiosa! Prima di tutto, ho da raccontarti alcune novelle discretamente decenti: poi, certe altre che hanno un principio e hanno una fine; altre ancora, è vero, vanno a piedi nudi, dopo averla fatta finita con tutte le convenienze e con tutti. Ma io debbo avvertirti che più avanti, noi entreremo nelle fantasie che battono assolutamente la campagna. Capperi! ho spigolato tanto; bisogna pur bene che ti trattenga la notte intiera! Orsù, io canto la canzone del «te ne ricordi». È la ingenua sfilata de' nostri ricordi, bimba mia; tutto ciò che v'ha di più dolce per noi, il meglio dei nostri amori. Se ciò annoia gli altri tanto peggio! Essi non hanno bisogno di venir a cacciare il naso nei nostri affari. Poi, per trattenerti ancora, comincerò una lunga storia, l'ultima che ci condurrà, spero, fino al mattino. Essa fu messa apposta in coda alle altre, per addormentarti fra le mie braccia. Lasceremo cascare il libro, e ci abbraccieremo.

Ah! Ninetta, quale orgia di colori bianco e rosa! Non prometto mica, sai, che, non ostante le mie cure nel togliere le spine, non resti qualche goccia di sangue nel mio mazzo di fiori. Non ho più le mani così delicate da legare un mazzolino senza guai. Ma tu, non inquietarti: se tu ti pungi, bacierò le tue dita e berrò il tuo sangue. Non sarà senza gusto.

Domani, io sarò ringiovanito di dieci anni. Mi parrà di venire dalla vigilia, dal fondo della giovinezza col mele de' tuoi baci sulle labbra. Sarà il ricominciamento del mio còmpito. Ah! Ninetta, io non ho ancora fatto niente. Io ploro su questa montagna di carta annerita; io mi desolo a pensare ch'io non ho potuto spegnere la mia sete del vero e che la grande natura sfugge alle mie braccia troppo corte. È desìo selvaggio prender la terra, possederla in una stretta, veder tutto, saper tutto, dir tutto. Io vorrei collocare sopra una pagina bianca l'umanità, tutti gli esseri, tutte le cose; la mia opera sarebbe l'arca immensa.

E, adesso, fatto ciò che mi toccava, non m'indugio di più all'appuntamento che ti ho dato, in Provenza. Ho troppo da fare. Io voglio il romanzo, voglio il dramma, voglio la verità dappertutto. La notte sola, ormai, mi reca il tuo caro ricordo; mi ci viene su un raggio di luna che piove fra le mie cortine, nell'ora nella quale io potrò piangere con te senz'essere veduto. Ho bisogno di tutta la mia virilità. Più tardi, oh! più tardi, sarò io che verrò a ritrovarti nelle campagne tiepide ancora delle nostre tenerezze. Noi saremo già vecchi, ma noi ci ameremo sempre. Tu mi condurrai in pellegrinaggio nel barchetto, lungo la riva dell'acqua rinnovatasi appena; nei bugigattoli di foglie, con la campagna infiammata, dormente intorno a noi; in mezzo ai prati, a poco a poco inondati dal ceruleo del crepuscolo; lunghesso la strada interminabile, noncuranti delle stelle, col solo contento di perderci nell'ombra. E gli alberi, gli steli dell'erba, persino i ciottoli ci riconosceranno da lungi ai nostri baci e ci daranno il benvenuto.

Senti: perchè non ci cerchiamo, ti vo' dire a quale siepe verrò a prenderti. Tu conosci il passaggio dove il fiume fa gomito, dopo il ponte, più giù del lavatoio, proprio di facciata al riparo dei pioppi? Pensaci bene; noi ci siamo baciati le mani in una mattina di maggio. Ebbene, a sinistra, c'è una siepe di biancospino, il muro di verzura, ai piedi del quale noi ci siamo coricati per non vedere che l'azzurro del cielo. È dietro alla siepe di biancospino, mia cara anima, che io ti do appuntamento, fra alcuni anni, in un giorno di pallido sole, quando il tuo cuore mi sentirà vicino.

Parigi, 1.° ottobre 1874.

Emilio Zola.


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