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I.
Tu giungi dai campi, Ninetta, dai veri campi che hanno i profumi acuti e larghi gli orizzonti. Tu non sei tanto sciocca da rinchiuderti in un casino sul confine di qualche regione montana. Tu vai dove la folla non va, in un bugigattolo di fogliame, nel cuore della Borgogna. Il tuo ritiro è una casa bianca, nascosta come un nido in mezzo agli alberi. Là vivi le tue primavere nella salute dell'aria libera. E quando ritorni a me per qualche giorno, le tue amiche fanno le meraviglie delle tue guancie fresche come il tuo biancospino, delle tue labbra rosse come le tue rose canine.
Ma la tua bocca è inzuccherata; e giurerei che ieri ancora mangiavi ciliegie. Oh tu non sei una signorina che tema le vespe e i rovi! Tu cammini bravamente al sole, ben sapendo che il tuo collo abbronzato ha trasparenze d'ambra fina. E tu corri sui campi in veste di tela sotto il tuo largo cappello, come una contadina amica della terra.
Recidi i frutti colle tue forbicette da ricamatrice, facendo, è vero, un magro còmpito, ma lavorando con tutto il cuore e ritornando a casa superba delle graffiature rosee che i cardi hanno lasciato sulle bianche tue mani.
Che farai nel prossimo dicembre? Nulla. T'annoierai, non è vero?
Tu non sei mondana.... Ti ricordi di quel ballo dove ti condussi una sera? Avevi le spalle nude: tremavi di freddo nella vettura. A quel ballo c'era un caldo soffocante, sotto la luce abbagliante dei doppieri. Tu restasti in fondo alla tua poltrona, tranquilla, soffocando leggieri sbadigli dietro il ventaglio. Ah, che noia! E quando fummo di ritorno, mormorasti, mostrandomi il mazzolino avvizzito:
– Guarda questi poveri fiori! Se vivessi in quell'aria così calda, morrei com'essi. Mia cara primavera, dove sei tu?
Non andremo più al ballo, Ninetta. Resteremo in casa, presso un canto del caminetto. Noi ci ameremo; e, quando saremo stanchi, ci ameremo ancora.
Ricordo il tuo grido dell'altro giorno: «Veramente una donna è molto oziosa». – Pensai fino a sera a questa confessione. L'uomo prese per sè tutto il lavoro e lasciò a voi il meditare pericoloso; alla fine delle lunghe fantasticaggini, si trova il fallo. A che pensare quando si ricama tutta una giornata? Si fanno castelli, ove ci si addormenta come la Belle-au-Bois-dormant, aspettando i baci del primo cavaliere che passerà sulla strada.
Mio padre, mi dicesti spesso, era un buon uomo, che mi lasciò crescere al suo fianco. Non appresi il male da quelle sciocche deliziose che, in collegio, nascondono le lettere del cugino nel libro di preghiere. Non confusi mai il buon Dio coi bricconi, e confesso ch'ebbi sempre paura di far dispiacere a mio padre. Ti dirò anche che io saluto con naturalezza, senza avere studiata l'arte delle riverenze: il mio maestro di ballo non m'insegnò ad abbassare gli occhi, a sorridere, a mentire col viso; sono d'una crassa ignoranza riguardo a quelle smorfie da civette che formano il più bello dell'educazione d'una giovanetta nata bene. Io crebbi liberamente come una pianta vigorosa; perciò soffoco nell'aria di Parigi.
II.
Ultimamente, in uno di que' rari pomeriggi belli che la primavera ci concede, mi trovai seduto alle Tuileries, all'ombra fresca dei grandi castagni. Il giardino era quasi vuoto. Alcune signore ricamavano a' piè degli alberi, in piccoli gruppi. Alcuni fanciulli giocavano, rompendo col loro riso acuto il sordo mormorio delle strade vicine.
I miei sguardi finirono col fermarsi sopra una bambina di sei o sette anni, la cui giovane madre parlava con un'amica, a qualche passo da me. Era una fanciulletta bionda, piccina, che si dava già l'aria di una signorina. Portava uno di que' graziosi vestitini di cui le parigine sole sanno abbigliare le loro bambine; una gonna di seta rosea a sbuffi, che lasciava vedere le gambe coperte di calze grigio-perla; un corpetto scollato, guernito di merletti, un berrettino a piume bianche, gioielli, collana e un braccialetto di corallo. Somigliava alla sua signora madre, con un po' più di civetteria.
Era riuscita a prendere alla madre l'ombrellino, e lo teneva aperto passeggiando, benchè sotto gli alberi non ci fosse il minimo raggio di sole. Ella studiavasi di camminare con leggerezza, guizzando con grazia, come aveva veduto fare dalle persone adulte. Non sapeva di essere osservata, ripeteva la sua parte in tutta coscienza, cercando movimenti e smorfie graziose, imparando il girar della testa, gli sguardi, i sorrisi. Finalmente, incontrando il tronco d'un vecchio castagno, gli fece seriamente davanti una mezza dozzina di riverenze.
Ell'era una piccola donna. Fui veramente atterrito del suo sangue freddo e della sua scienza. Non aveva ancora sette anni e sapeva già il suo mestiere d'incantatrice. Solamente a Parigi si trovano fanciullette così precoci, le quali conoscono il ballo prima dell'alfabeto.
Ricordo i fanciulli di provincia; sono goffi e pesanti; si trascinano scioccamente per terra. Ma Lilì non guasterebbe certo il suo vestitino: si contenta di non giuocare, sta ben ritta nelle sue gonne insaldate, mettendo tutta la sua gioia ad essere guardata e a sentirsi dire intorno: «Oh che graziosa fanciulla!»
Intanto Lilì salutava sempre il tronco del vecchio castagno. Ad un tratto la vidi raddrizzarsi e mettersi in guardia: abbassò l'ombrellino col sorriso sulle labbra e con un'aria di pazzerella. Compresi subito. Un'altra ragazzina, una bruna in gonna verde, si avanzava sul gran viale. Era un'amica, e bisognava incontrarsi con tutta eleganza.
Le due bambine si toccarono leggermente la mano, fecero quelle smorfie che sono usuali fra donne dello stesso mondo. Esse avevano quel sorriso beato, che in una simile circostanza è di buon genere. Quando ebbero finito i complimenti, si misero a camminare allato, discorrendo con voce sottile. Di giocare non si parlò neppure.
– Questa guarnizione è di valencienne, non è vero?
– Stamattina, la mamma è stata indisposta, ed io temetti proprio di non poter venire, dopo d'avervelo promesso.
– Avete visto la bambola di Teresa? Ha un corredo magnifico.
– È vostro quell'ombrellino? È bellissimo.
Lilì diventò tutta rossa. Ella faceva risaltare con grazia l'ombrellino di sua madre, contenta di schiacciare la sua amica, che non aveva ombrellino. La domanda la imbarazzò: comprese che se diceva la verità, si dava per vinta.
– Sì, – rispose graziosamente; – me l'ha regalato papà.
Quest'era il non plus ultra. Ella sapeva mentire come sapeva esser bella; poteva crescere così; ella non ignorava difatti niente di ciò che fa una bella donna.
Con tale educazione, come volete che i poveri mariti dormano tranquilli?
In quel momento, un garzoncello di otto anni passò, trascinando un carretto carico di sassi. Egli mandava degli ohe! terribili; faceva da carrettiere, giuocava di tutto cuore, e, passando, fu per urtare Lilì.
– Come sono brutali gli uomini! – diss'ella con disdegno. – Vedete com'è trasandato quel fanciullo!...
E le due signorine fecero un sorriso abbastanza sprezzante.
Il fanciullo, che faceva da cavallo, doveva parer loro molto bambino.
Da qui a vent'anni, se una d'esse lo sposa, lo tratterà colla superiorità d'una donna che ha saputo giuocare coll'ombrellino a sett'anni, mentr'egli, a quell'età, non sapeva che stracciare i suoi calzoncini.
Lilì aveva ripreso il cammino, dopo aver accuratamente aggiustate le pieghe della sua veste.
– Guardate, – riprese ella, – quella stupidona di ragazza in veste bianca che s'annoia tutta sola là, in fondo. L'altro giorno mi fece domandare se volevo che mi venisse presentata. Immaginatevi, mia cara, essa è figlia d'un impiegatuccio. Capite bene che non ho voluto: non bisogna compromettersi.
Lilì fece una smorfia da principessa oltraggiata. La sua amica era sconfitta: non aveva ombrellino e nessuno aveva ancora sollecitato il favore d'esserle presentato. Ella impallidiva come donna che assiste al trionfo della sua rivale. Aveva passato il braccio intorno alla vita di Lilì, cercando, per didietro, di sciuparle la veste, senza che se ne accorgesse. E le sorrideva, tuttavia, d'un sorriso adorabile, co' suoi dentini bianchi pronti a mordere.
Mentre s'allontanavano dalle loro madri, scorsero finalmente che io le osservava. Da quell'istante divennero più sdolcinate, ebbero una civetteria da signorine che vogliono meritare e trattenere l'attenzione. Un signore stava là a guardarle. Ah! figlie d'Eva! il diavolo vi tenta in culla.!
Poi diedero in una risata. Una particolarità del mio vestito doveva sorprenderle e parer loro assai comica: il mio cappello, senza dubbio, non era più di moda. Si beffavano, infatti, di me; celiavano, colla mano sulle labbra, trattenendo il loro riso perlato, come fanno le signore nei salotti. Finii col vergognarmi, coll'arrossire, col non saper più che fare della mia persona. E fuggii, abbandonando il posto a quelle due bambine, che avevano l'allegria e gli sguardi strani di donne fatte.
Ah! Ninetta, Ninetta, conduci queste signorine nelle fattorie, vestile di tela grigia, e lasciale avvoltolare nelle pozze dove sguazzano le anitre. Ritorneranno stupide come oche, sane e vigorose come giovani alberi.
Quando le sposeremo, insegneremo loro ad amarci, e ne sapranno abbastanza.