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Il fabbro-ferraio era un uomo alto, il più alto del paese, colle spalle tarchiate, col viso e colle braccia neri per le fiamme della fucina e per la polvere di ferro dei martelli. Sotto la selva de' suoi folti capelli, che gli coprivano il largo cranio, s'aprivano due grossi occhi azzurri da bambino, chiari come l'acciaio. Le sue larghe mascelle lasciavano uscire, insieme a risate, sonanti respiri: parevano i respiri del suo mantice, pieno d'enorme allegria; e, quand'egli levava le braccia con un gesto di potenza soddisfatta – gesto al quale il lavoro dell'incudine lo aveva abituato, – sembrava portare i suoi cinquant'anni con più gagliardia di allora che sollevava la così detta «Demoiselle», un martello pesante venticinque libbre, una terribile sua figliuolina, che egli solo da Vernon a Rouen potea far saltare sull'incudine.
Vissi un anno presso il fabbro-ferraio, un intiero anno di convalescenza. Avevo perduto il mio cuore, perduto il mio cervello; ero partito, cercando me stesso, cercando un angolo di pace e di lavoro, dove potessi trovare la mia virilità. E così, una sera, sulla strada, dopo aver passato il villaggio, scorsi la fucina, isolata, fiammante, piantata di traverso sulla crociera dei Quattro Cantoni. La luce era tale che, quando il portone era spalancato, pareva incendiasse il crocicchio, e che i pioppi di fronte, disposti in fila lungo il ruscello, fumassero come torcie. Da lungi, in mezzo alla dolcezza del crepuscolo, la cadenza dei martelli risuonava a mezza lega, simile al galoppo, sempre più prossimo, di un reggimento di ferro. Là, sotto la porta spalancata, in mezzo allo splendore, allo strepito, allo scuotimento di quel tuono, io m'arrestai, felice, già consolato di veder quel lavoro, di contemplare quelle mani d'uomo torcere e spianare le verghe roventi.
In quella sera d'autunno, io vidi il fabbro per la prima volta. Egli fabbricava il vomere d'un aratro. Mostrando dalla camicia aperta il suo ruvido petto, in cui le coste, ad ogni respiro, segnavano il suo scheletro di bronzo, egli si rovesciava, prendeva lo slancio, abbassava il martello. E ciò senza incertezza, con un'ondulazione leggiera e continua del corpo, con una spinta implacabile dei muscoli. Il martello girava in un cerchio regolare, mandando scintille, lasciando un lampo dietro di sè. Era la «Demoiselle» alla quale il fabbro imprimeva il salto colle sue mani, mentre suo figlio, un robusto garzone di vent'anni, teneva il ferro infiammato all'estremità della tenaglia, e batteva dal suo lato, batteva colpi sordi, che soffocavano il movimento strepitoso della terribile figliuola del vecchio. Tot-toc-toc-toc; si sarebbe detto esser quella la voce grave d'una madre, che incoraggiasse il primo balbettìo del suo bambino.
La «Demoiselle» danzava sempre, e, ogni volta che saltava sull'incudine, lasciava il suo solco nel vomere che fabbricava. Una fiamma sanguigna scorreva fino a terra, illuminando le ossa sporgenti de' due operai, le grandi ombre dei quali s'allungavano negli angoli oscuri e confusi della fucina. A poco a poco l'incendio impallidì, e il fabbro si fermò. Egli rimase nero, ritto, appoggiato sul manico del martello, con un sudore alla fronte che non si curava nemmeno di asciugare. Nel rumore del mantice che suo figlio tirava con mano lenta, io sentiva il respiro de' suoi polmoni agitati.
La sera dormii presso il fabbro, e non lo lasciai più. Egli aveva una camera libera, in alto sopra la fucina; me la offrì, e io l'accettai. Cominciavo prima del giorno, a cinque ore, ad entrare nelle faccende del mio ospite. Mi svegliavo al riso di tutta la casa, che s'animava fino a notte della propria gioia enorme. Sotto di me i martelli danzavano. Pareva che la «Demoiselle» mi gettasse fuori del letto, picchiando sul soffitto e trattandomi da infingardo. Tutta la mia povera camera, col suo grande armadio, la sua tavola di legno bianco e le sue due sedie, scricchiolava, mi gridava di far presto. E conveniva discendere. Abbasso, trovavo la fucina già rossa. Il mantice soffiava; una fiamma azzurra e rosea guizzava dal carbone, nel quale pareva che splendesse la rotondità d'un astro, sotto il vento che consumava le bragie. Intanto il fabbro preparava il lavoro della giornata. Egli rimoveva il ferro agli angoli dell'officina; rivoltava aratri, esaminava ruote. Quando il buon uomo mi scorgeva, si metteva i pugni sulle coste e rideva in modo che la bocca gli si apriva fino alle orecchie. Si rallegrava d'avermi cacciato dal letto alle cinque. Credo che il mattino egli picchiasse per picchiare, per suonare la sveglia colla musica formidabile de' suoi martelli. Egli mi posava le sue grosse mani sulle spalle, si chinava come se avesse parlato a un fanciullo, dicendomi che stavo meglio dacchè vivevo in mezzo al suo ferraccio. E ogni giorno prendevano insieme il vino bianco sul dorso d'una vecchia carriuola rovesciata.
Passavo sovente la mia giornata alla fucina. L'inverno sovratutto, nei giorni piovosi, vissi là tutte le mie ore. M'interessavo a quel lavoro. Quella lotta continua del fabbro contro il ferro greggio ch'egli impastava a suo modo, mi appassionava come un dramma potente. Seguivo il metallo dal fornello all'incudine; avevo continue sorprese nel vederlo piegarsi, distendersi, arrotolarsi, come una cera molle, sotto gli sforzi vittoriosi dell'operaio. Quando l'aratro era finito, mi v'inginocchiavo davanti: non riconoscevo più l'abbozzo informe della vigilia, esaminavo i pezzi, pensando che certe dita d'una forza immensa avevano dato loro quella forma senza il concorso del fuoco. Sorridevo talvolta, pensando ad una ragazza che avevo veduta in altro tempo torcere colle sue mani flessibili degli steli d'ottone, sui quali ella attaccava con un filo di seta violette artificiali. Il fabbro non si lagnava mai. Lo vidi, dopo aver battuto il ferro, durante giornate di quattordici ore, ridere la sera del suo riso sereno, stropicciandosi le braccia coll'aria d'un uomo soddisfatto. Egli non era mai triste, mai stanco. Se la casa fosse rovinata l'avrebbe sostenuta sulle spalle. Diceva che l'inverno si stava bene nella sua fucina, e l’estate apriva il portone, per lasciar entrare l'odore del fieno. Quando venne l'estate, al cadere del giorno, andavo a sedermi vicino a lui, davanti la parta. Eravamo a metà del pendìo, donde si dominava la valle in tutta la sua ampiezza. Egli era beato contemplando quell'immenso tappeto di terre coltivate, che si perdevano all'orizzonte nel violetto chiaro del crepuscolo.
E il fabbro scherzava sovente. Diceva che tutte quelle terre gli appartenevano, che la fucina, da più di duecent'anni forniva aratri a tutto il paese. Era suo orgoglio che neppure una messe crescesse senza di lui. Se la pianura era verde in maggio e gialla in luglio, era debitrice a lui di quella seta cangiante. Amava i raccolti come suoi figli, e, felice dei soli ardenti, levava il pugno contro le nuvole di grandine quando scoppiavano. Mi mostrava sovente da lungi qualche pezzo di terra che pareva meno largo del dorso della sua veste e mi raccontava in quale anno egli aveva fatto un aratro per quel quadrato d'avena e di segala. Al momento della coltivazione egli abbandonava talvolta i suoi martelli e si recava sull'orlo della strada; e, colla mano sugli occhi, guardava, guardava la numerosa famiglia dei suoi aratri mordere il suolo, tracciar solchi, davanti, a sinistra, a dritta. La valle n'era tutta piena.
Nel veder gli aratri, tirati da buoi, procedere lentamente, si sarebbe detto ch'erano reggimenti in marcia. I vomeri brillavano al sole mandando riflessi d'argento. Ed egli alzava le braccia, mi chiamava, mi gridava che andassi a vedere il «sacro lavoro» ch'essi facevano.
Tutto quel ferraccio rimbombante, che risuonava sotto di me, mi metteva del ferro nel sangue e mi giovava meglio delle droghe del farmacista. M'ero avvezzato a questo strepito, avevo bisogno di questa musica del martello sull'incudine per sentirmi vivere. Nella mia camera, tutt'animata dal romoroso soffiare del mantice, avevo ritrovata la mia povera testa. Quel toc-toc-toc-toc era come il pendolo giocondo che regolava le mie ore di lavoro.
Quando l'opera ferveva di più, quando il fabbro s'arrabbiava e io sentiva il ferro rovente scoppiare sotto i salti dei martelli indiavolati, avevo una febbre da gigante nei pugni, avrei voluto stiacciare il mondo con un colpo della mia penna. Poi, quando la fucina taceva, tutto faceva silenzio nel mio cranio; discendevo e mi vergognavo del mio lavoro, nel vedere tutto quel metallo vinto e ancora fumante.
Ah! come lo vidi superbo, talvolta, quel fabbro, durante i caldi pomeriggi! Egli era nudo fino alla cintura, coi muscoli sporgenti e tesi, simile ad una di quelle grandi figure di Michelangelo, che si raddrizzano in uno sforzo supremo. Trovavo, a guardarlo, la linea scultoria moderna, che i nostri artisti cercano con fatica nelle carni morte della Grecia. Io vedeva in lui l'eroe ingrandito del lavoro, il figlio infaticabile di questo secolo che dà forma col fuoco e col ferro alla società dell'indomani. Egli giocava co' suoi martelli. Quando voleva ridere, prendeva la «Demoiselle» e picchiava a tutto andare. Allora faceva tuonare la casa, in mezzo all'anelito infuocato del fornello. Mi pareva di sentire il respiro del popolo all'opera.
È là, nella fucina, in mezzo agli aratri, che son guarito per sempre dalla malattia dell'infingardagine e del dubbio.