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I.
Oh, l'eterna pioggia, la pioggia noiosa, la pioggia grigia, che vela il cielo di maggio e di giugno! Si va alla finestra, si solleva un lembo di cortina, e ahimè il sole è annegato! Fra un acquazzone e l'altro esso riappare, scompare, come un astro che siasi affogato per disperazione, e che qualche marinaio celeste riconduca sopracqua con un colpo d'uncino.
Ti ricordi, Ninetta, l'acuta tramontana di primavera, dopo la pioggia? – Si lascia Parigi colla primavera dei poeti, la primavera sognata dal cuore, una stagione tiepida, dai tappeti di fiori, dai languidi crepuscoli. Si ritorna a notte. Il cielo è morto; non una striscia infuocata illumina il tramonto, tetro focolare di ceneri fredde. Bisogna saltare le pozze dei sentieri, coll'umidità che stilla dalle fronde e ti s'infiltra nelle spalle. Quando si entra nello stanzone malinconico, dove l'inverno ha messo tutti i suoi brividi, si trema, si chiudono porte e finestre, si accende un gran fuoco di sarmenti, maledicendo alla pigrizia del sole.
Per otto giorni la pioggia vi chiude in casa. Da lontano, in mezzo al lago delle praterie tutte inondate, sempre la stessa cortina di pioppi, che si fondono in acqua, sgocciolanti, smagriti, che vanno su e giù pel fango che li annega. Poi, un mare grigio, una polvere di pioggia, che avviluppa e ottenebra l'orizzonte.
Si sbadiglia: si cerca d'interessarsi alle sciocchezze che si rischiano sotto l'acquazzone, mentre passano gli ombrelli azzurri dei contadini. – Si sbadiglia a bocca più spalancata. I camini fumano, la legna verde piange senz'ardere; pare che il diluvio salga, che rumoreggi alla porta, che penetri per tutte le fessure, come una sabbia fina. La disperazione ci fa ritornare alla ferrovia, e si rientra a Parigi, rinnegando il sole, rinnegando la primavera.
*
Pure non c'è niente che mi faccia disperare quanto quelle vetture che incontro e che sfilano tutte verso le stazioni. Cariche di valigie, traversano la città coll'allegria di gente liberata dal carcere.
Batto i marciapiedi, e intanto le vedo correre verso i fiumi azzurri, verso le grandi acque, verso le grandi montagne, i grandi boschi. Quello là va forse nella cava d'una certa scogliera che io conosco, presso Marsiglia. Si sta bene in quella cava! Là dentro si può spogliarsi come in una cabina, e le onde vengono a trovarci. Quell'altro corre certo in Normandia, in quel cantuccio di verzura che io amo, vicino al colle che produce quel leggero vino brusco, il cui sapore solletica così gradevolmente la gola. Quest'altro, senza dubbio, parte per l'ignoto, qua o là, in qualche luogo ove si starà benissimo, all'ombra, al sole forse, io non so, ma certo là ove io ardo d'andare. – I cocchieri sferzano le loro rozze colla punta della frusta. Pare che non s'accorgano di sferzare il mio sogno! E si mormorano fra sè, che le valigie sono pesanti e le mancie leggere. Non s'accorgono neppure del male che fanno ai poveri giovanetti, i quali non hanno altra vettura che le loro scarpe e che sono condannati ad abbrustolire le loro suole a Parigi, sul lastricato ardente di luglio e d'agosto.
O fila di vetture, cariche di valigie, e ruotanti verso le stazioni ferroviarie! O visione del gabbione aperto e degli uccelli felici che prendono il volo! O celia crudele della libertà, che traversi le galere delle nostre strade e delle nostre piazze! O incubo di tutte le mie primavere, che mi turba nel mio gabbiotto, che mi riempie del desiderio insaziato del verde e de' liberi orizzonti!
*
Io vorrei farmi piccino piccino e cacciarmi con destrezza nella vasta valigia di quella signora col cappello color di rosa, la cui carrozza si dirige verso la stazione di Lione. Si deve star bene nella valigia di quella signora! Io ne indovino le gonnelle di seta, la biancheria fina, ogni sorta di cosucce profumate, tiepide; io mi coricherei su qualche seta chiara, avrei sotto il naso dei fazzoletti di batista, e se avessi freddo, in fede mia, tanto peggio: mi coprirei con tutte quelle gonnelle.
È bellissima questa signora; venticinque anni al più. Un mento incantevole, con una fossetta che deve approfondirsi quand'ella ride. Guardate! Vorrei farla ridere, per accertamene. Quel diavolo di cocchiere è felice di condurla nella sua carrozza. Ella deve amare le violette e sono sicura che la sua biancheria, non sa che di questo profumo squisito. Sdrucciolo nel fondo della sua valigia e vi sto per ore e giorni. Ho scavato la mia buca nell'angolo a sinistra, fra il pacchetto delle camicie e una grande scatola, che mi disturba un poco. Ebbi la curiosità di sollevarne il coperchio; essa conteneva due cappelli, un piccolo portafogli pieno di lettere, poi delle cose che non ho voluto vedere. Misi la scatola sotto la mia testa e me ne feci un guanciale. Giro, giro. Le calze sono alla mia destra. Ho sotto di me tre costumi e sento alla mia sinistra degli oggetti più resistenti, che suppongo essere qualche paio di stivalini.
Mio Dio! Come si sta bene sopra tutte queste cianfrusaglie profumate di muschio! E dove si può andare così? Ci fermeremo in Borgogna? Faremo un giro verso la Svizzera, o scenderemo a Marsiglia? Io sogno d'andare con lei fino alla buca dello scoglio. Sapete, quello dove si può spogliarsi come in una cabina e dove i marosi vengono a trovarci. Ella farà un bagno. Si è a cento leghe distanti dagli imbecilli. In fondo, il golfo s'arrotonda coll'immenso azzurro del Mediterraneo. Vi sono tre pini, alti, all'orlo della cava, e noi a piedi nudi sulle larghe pietre gialle che lastricano il mare, strapperemo le lepadi colla punta dei nostri coltelli. Ella non mi ha l'aria d'una bambola; ella amerà il vasto mare, e noi faremo i monelli, e se non saprà nuotare, le insegnerò io.
La valigia è bruscamente scossa: si ascende la via di Lione. Che delizia, quando, arrivata a Marsiglia, ella aprirà, la sua valigia! Sarà ben sorpresa di trovarmi qui, in un cantuccio a sinistra, purchè io non abbia di troppo sciupato i nastri sui quali mi son coricato.
«Come, signore? Voi siete là? Voi avete osato!...» – Ma certamente, signora, si osa tutto per escire di prigione.... Ed io le spiegherò tutto ed ella mi perdonerà tutto. Ah, eccoci arrivati alla stazione! Io credo già che mi si registra....
*
Ahimè! Ahimè! piove e la signora dal cappello color di rosa se ne va sola soletta sotto la pioggia, colla sua valigiona a sbadigliare presso qualche vecchia zia di provincia, dov'ella tremerà di freddo al cattivo umore della primavera freddolosa.
II.
Bisogna esser vissuti in una città divota e aristocratica, in una di quelle piccole città dove cresce l'erba e le campane dei conventi suonano le ore nell'aria addormentata, per sapere che cosa sono ancora le processioni del Corpus Domini.
A Parigi, quattro preti fanno il giro della chiesa della Maddalena; in provincia, durante otto giorni, le strade appartengono al clero, tutto il medio evo risuscita nelle chiare ore vespertine e se ne va salmodiando cantici, portando in giro ceri, con due gendarmi alla testa e col sindaco in coda, cinto della sua ciarpa.
*
Mi ricordo. Quelli eran giorni di festa per noi collegiali. E noi non domandavamo di meglio che correre per le strade. Se si deve dir tutto, in queste città degli amori, le processioni favoriscono gli amanti. Lungo tutto il corteo le ragazze fanno bella mostra delle loro vesti nuove. La veste nuova è di rigore. Non vi è donzella tanto povera, che in que' giorni non indossi per la prima volta qualche indiana. E la sera, nelle chiese tutte nere, molte mani si incontrano.
Io apparteneva a una società musicale, che entrava in tutte le solennità, e ho dei grossi peccati sulla coscienza. – M'accuso di aver fatto una mattinata a più d'un funzionario che ritornava da Parigi col nastro rosso. M'accuso d'aver portato in processione il buon Dio officiale, i Santi che fanno piovere, le sante Vergini che guariscono dal colèra. Ho anche aiutato allo sgombero d'un convento di monache obbligate a clausura. – Le povere vergini, avviluppate in larghe tele grigie, perchè nulla si potesse scorgere del loro viso, nè delle loro membra, traballavano, si sostenevano come fantasmi di trapassati sorpresi dall'alba; e delle manine bianche, manine di fanciullo, si mettevano in mostra alle estremità delle tele grigie.
Ahimè! Sì, è vero, ho mangiato le colazioni delle sacristie; poichè, in luogo di pagarci, ci offrivano qualche ciambella. Ricordo che il giorno in cui la toccò alle recluse, giunti al convento, fummo serviti col mezzo della ruota. Le bottiglie, le focaccie, i pasticci si succedevano sulla ruota che girava come per incanto. E quali bottiglie! Sommi dei! bottiglie d'ogni forma, d'ogni colore, d'ogni liquore. Ho sognato sovente la strana cantina, la quale aveva potuto fornire una varietà sì curiosa di vini squisiti. Era la confusione nella dolcezza!...
Dopo quei giorni d'errore, ho fatto lunga penitenza e credo che sarò perdonato.
*
Fin dal mattino, le vie per le quali deve passare la processione, si tappezzano. Ogni finestra ha il suo cencio. Nei quartieri ricchi si vedono vecchie tappezzerie, che rappresentano grandi personaggi mitologici; tutto l'Olimpo pagano, nudo e scolorito, che contempla il passaggio dell'Olimpo cattolico, delle vergini bianche, dei Cristi sanguinosi. Vi sono anche le coltri di seta tolte al letto di qualche marchese, cortine di damasco staccate dalle verghe del salotto, tappeti di velluto, ogni sorta di ricche stoffe, che destano la meraviglia dei passanti. – I borghesi stendono le loro mussoline ricamate, le loro tele più fine. E nei quartieri poveri le buone donne piuttosto che non metter fuori niente, appendono i loro fazzoletti da collo, cuciti insieme. È allora che tutte le strade sono degne del buon Dio!
Tutto è spazzato. In alcuni angoli sono eretti degli altari, soggetto di grandi gelosie e di odii che durano lunghi mesi. Se l'altare del quartiere dei Certosini è più bello di quello del quartiere di San Marco, basta per far incanutire i capelli dei devoti. – Tutto un quartiere contribuisce all'erezione dell'arte. Uno porta i ceri, un altro i vasi dorati, questo i fiori, quello i merletti. È un bell'alloggio che il quartiere offre al cielo.
Lungo gli stretti marciapiedi sono allineate due file di sedie. I curiosi attendono, facendo baccano, ridendo di quel riso provinciale, che ha suoni di tromba. Si adornano le finestre, cessa il caldo soffocante, e i soffi leggeri che si levano, portano da lungi il suono festoso delle campane e il rullo dei tamburi. È la processione ch'esce di chiesa.
*
Avanti, camminano tutti i più bei giovani della città. È una passeggiata regolamentare. Essi v'intervengono per vedere e per essere visti. Le ragazze stanno sulle porte. Si fanno discreti saluti, sorrisi, parole bisbigliate tra amici. I giovanotti fanno così il giro della città, fra i due ordini di finestre pavesate, unicamente per passar davanti a quella tale finestra. Alzano la testa, e nulla più. Il vespero è dolce, le campane suonano, i fanciulli gettano nei ruscelli e sul lastrico manate di ginestre e di rose sfogliate.
La via è rosea e i fiori di ginestra su quel vermiglio pallido formano dei fiocchi d'oro. I due gendarmi sono i primi a farsi vedere. Poi viene la fila dei fanciulli ricoverati, dei collegi, delle confraternite, delle vecchie signore, dei vecchi signori. Un Cristo dondola fra le braccia d'uno scaccino. Un frate tarchiato porta un emblema complicato dove sono rappresentati tutti gl'istrumenti della Passione. Quattro grosse e robuste ragazze, la cui salute fa scoppiare le vesti bianche, sostengono un'immensa bandiera con dei nastri, sulla quale dorme innocentemente un agnelletto. Al disopra delle teste, nella luce dei ceri indebolita dallo splendore del sole, salgono i turiboli d'argento, gettando un lampo e lasciando un fiotto di denso fumo, la cui bianchezza gira un istante, come fosse un brandello strappato agli abiti di mussolina che lo seguono.
La processione va lentamente. S'ode uno scalpitìo sordo che lascia sentire il mormorare soffocato delle voci. S'ode uno scoppio di cembalo, si battono le cennamelle; poi, le voci acute si perdono sottili e deboli nell'infinito. Le labbra mormorano e, bruscamente, si fa un gran silenzio. Non rimane che un muto procedere di persone, una cappella ardente in pieno sole. Da lontano, i tamburi battono una marcia.
*
Mi ricordo dei penitenti. Ve ne sono ancora di tutti i colori, i bianchi, i grigi, gli azzurri. Quest'ultimi si sono imposti il tetro ufficio di seppellire i giustiziati e fra essi si annoverano i nomi più illustri della città. Come sono spaventosi! Vestiti d'un saio azzurro, coperto il capo d'un berretto appuntito e d'un lungo velo con due buchi agli occhi. I buchi sono sovente troppo distanti e gli occhi, sotto quella maschera terribile, appaiono stravolti. Dal lembo della veste escono dei calzoni grigio-perla e degli stivalini inverniciati.
La grande curiosità della festa sono proprio i penitenti. Una processione senza penitenti è un misero banchetto. Ultimo viene il clero. Talvolta alcuni fanciulletti portano palme, spighe di grano su guanciali, corone, oggetti preziosi. I divoti volgono le loro sedie, s'inginocchiano e guardano di sottecchi. Ecco il baldacchino che s'avanza. Esso è monumentale; la tenda è in velluto rosso, sormontata da pennacchi, sostenuta da bastoni dorati. Ho veduto dei sottoprefetti portare questa lettiga immensa, nella quale la religione malata si fa portare a passeggio al sole di giugno. Una turba di fanciulli coristi, camminano a ritroso, lanciando i turiboli in alto. Non si sente che la salmodia dei preti e, ad ogni scossa, il suono argentino delle catenelle degli incensieri. È il cattolicismo zoppicante che si trascina sotto il cielo delle vecchie credenze. Il sole tramonta; la luce rosata s'estingue sui tetti; col crepuscolo piove una dolcezza infinita, ed in quest'aere limpido del mezzogiorno, la processione se ne va colle sue voci morenti, melanconico abbandono di tutta un'età, che discende nella terra.
Vengono dietro, in costume, i tribunali, le Facoltà, senza contare i fabbricieri, con lanterne intagliate e dorate. E la visione sparisce. Le rose sfogliate, le ginestre d'oro sono calpeste, e dai mattoni sale l'odore acre di tutti questi fiori appassiti.
*
Qualche volta, nel suo ritorno, per le vie tortuose del vecchio quartiere, la processione è sorpresa dalla notte. Le vesti bianche non sono più che vaghi pallori; i penitenti si perdono in una fila scura lungo i marciapiedi; le fiammelle dei ceri, nelle strettoie delle vie, fra le nere case, paiono folletti che ballano, stelle che filano lente. E le voci hanno quasi un brivido di paura, in mezzo a quelle croci, a quegli stendardi, a quel baldacchino, del quale, nelle tenebre, si distinguono appena le morte braccia.
È l'ora in cui i guatteri abbracciano le sgualdrinelle: l'organo romoreggia in fondo alla chiesa; il buon Dio è ritornato a casa sua. Allora, le ragazze se ne vanno con un bacio sul collo e una lettera amorosa in saccoccia.
III.
Quando passo sui ponti, nelle sere ardenti, la Senna mi chiama con amichevole mormorio. Essa scorre larga, fresca, piena di amorose lentezze, spiegandosi, attardandosi fra le sponde. L'acqua ha ondulazioni come di abiti di raso marezzato. È un'amante che cede, un'amante che ci fa provare desideri irresistibili.
*
I proprietari di bagni galleggianti che, costernati, guardavano cadere le continue pioggie di maggio, sudano beati sotto il sole cocente di giugno. Finalmente l'acqua è buona. Tutto il bagno è ingombro fin dalle sei del mattino. I calzoncini da nuoto non hanno tempo d'asciugarsi, e verso sera, gli accappatoi mancano.
Mi ricordo della mia prima visita ad uno di codesti bagni, di queste gran conche di legno, nelle quali i bagnanti girano come sfaldature di stagno che ballano nel fondo d'una casseruola d'acqua bollente.
Io giungeva da una villetta, da un fiumicello, dove avevo sguazzato in piena libertà e fui costernato di vedermi in quel truogolo, nel quale l'acqua prendeva il colore della fuliggine.
Verso le sei della sera, il brulichìo è tale che bisogna calcolare il salto per non sedersi sopra una schiena o immergersi in un ventre. L'acqua spumeggia; i corpi sono tutti a riflessi smorti; e i lembi di tela tesa alle corde a guisa di tetto, lasciano piovere una luce fosca.
Lo strepito è spaventevole. In certi momenti, a certi salti bruschi, l'acqua rimbalza col rombo d'un cannone lontano. Capannelli di buffoni battono colle palme l'acqua col tic-tac dei mulini; e ve ne sono che si studiano di cadere a sghimbescio in modo da fare il più gran chiasso possibile e inondare lo stabilimento. Ma tutto questo è nulla in paragone dei gridi intollerabili, di quel gagnolìo di voci, che ricorda i convitti nell'ora della ricreazione. Nell'acqua pura l'uomo ritorna fanciullo. Coloro che passeggiano gravi lungo le rive, gettano uno sguardo spaventato su quelle tele volanti, fra le quali vedono saltare dei gran diavoli nudi. Le signore affrettano il passo.
*
Eppure ho goduto là delle belle ore, di buon mattino, quando la città dorme ancora. Non si vedono allora pullulare le spalle magre, le teste calve, i ventri enormi delle ore vespertine. Il bagno è quasi deserto. Vi nuota solo qualche giovanotto che ha fede nei bagni. L'acqua è più fresca, dopo il sonno della notte: essa è più pura, più vergine.
Conviene andarci prima delle cinque. La città attende le ore tiepide per risvegliarsi. È cosa deliziosa passeggiare le rive, guardando l'acqua, collo sguardo cupido degli amanti. Quell'acqua vi apparterrà ben presto; nel bagno essa dorme; siete voi che la risvegliate. Voi potete prenderla fra le braccia in silenzio; voi sentite la corrente lambire la vostra carne, dalla nuca ai calcagni con una fuggevole carezza.
Il sole levandosi tinge di strisce rosate la biancheria che tappezza l'alto della vasca; poi, un brivido vi corre sotto la pelle coi baci più vivi del fiume e si sente il bisogno di avvilupparsi nell'accappatoio e camminare sotto le gallerie. Vi par d'essere in Atene, coi piedi nudi, col collo libero, con una semplice veste intorno alla vita. I calzoni, il farsetto, il soprabito, gli stivali, il cappello sono lontani. Il sogno corre fino alle primavere elleniche, là, sulle rive del perpetuo azzurro dell'Arcipelago.
Ma, giunta appena la folla dei bagnanti, bisogna fuggire, perch'essi coi loro calcagni portano il calore del lastricato. La riviera non è più la vergine del mattino: è la figlia del mezzogiorno, che si offre a tutti, appassita, calda degli abbracciamenti della folla.
*
E che bruttezze! Le signore fanno bene ad affrettare il passo sulla riva. Il museo degli antichi, messo in caricatura da un artista buffone, non giungerebbe a quell'alto punto di ridicolo straziante.
Mostrarsi nudo è una prova terribile per un uomo moderno, per un parigino. Le persone prudenti non vanno mai ai bagni freddi. Mi fu mostrato un giorno un consigliere di Stato, sì miserabile colle sue spalle appuntite e col suo povero ventre spianato, che in appresso non potei trattenere un sorriso ogni volta che incontravo il suo nome in qualche grave affare.
Vi sono i grassi, i magri, i lunghi e i corti, quelli che rimbalzano nell'acqua come vesciche, quelli che s'immergono e sembrano fondersi come zucchero d'orzo. Le carni cedono, le ossa saltan fuori, le teste s'incastrano nelle spalle o si elevano su colli di pollastri spiumati, le braccia si allungano in forma di zampe, le gambe si rannicchiano come le membra torte dell'anitra. Ve n'ha alcuni che sono tutti deretano, altri tutti ventre, ed altri che non hanno nè questo nè quello. Galleria grottesca e lamentevole per la quale la pietà arresta gli scoppi di riso.
Il peggio è che questi poveri corpi conservano l'orgoglio del loro abito nero e del portamonete che hanno lasciato allo spogliatoio. Gli uni si studiano di dare all'accappatoio panneggiamenti artistici, posando come possessori di una casa in proprio. Altri camminano nella loro stravagante nudità colla dignità di capi d'ufficio che traversano la loro popolazione d'impiegati. I più giovani fanno smorfie, come se si credessero nelle quinte di qualche teatrino; i più vecchi dimenticano che si sono spogliati del busto e che non si trovano accanto al fuoco presso la bella contessa di B....
Ho veduto durante tutta una stagione, ai bagni di Port-Royal, un uomo grosso, tondo come una botte, rosso come un pomodoro maturo, che rappresentava Alcibiade. Egli aveva studiato le pieghe del suo accappatoio davanti qualche quadro di David; era all'Agora; fumava con gesti antichi. Quando si degnava di gettarsi nella Senna, era Leandro che attraversa 1'Ellesponto per raggiungere Ero. Pover'uomo! Mi ricordo ancora del suo torso corto, sul quale l'acqua lasciava delle macchie violette. Oh bruttezza umana!
*
No, preferisco ancora il mio fiumicello, dove non si mettevano neppur le mutandine. A che scopo? Il santamaria e le cutrettole non ne arrossivano certo.
Si attraversava il fiume a piede asciutto, saltando sui ciottoloni, ma i buchi erano spaventosi. Alcuni di quei buchi divoravano ogni anno due o tre fanciulli. Vi erano delle iscrizioni atroci e pali pieni di minaccie, ma non c'inquietavano punto. Erano il nostro bersaglio, e sovente non restava di essi che un'estremità attaccata ad un chiodo e ondeggiante al vento.
Alla sera, l'acqua era ardente. Il cocente sole riscaldava l'acqua dei buchi, tanto che bisognava lasciarla raffreddare dal fresco venticello del crepuscolo. Noi stavamo lunghe ore, nudi sulla sabbia, lottando, gettando pietre contro le tavole di quelle iscrizioni, prendendo le rane nella melma. La notte cadeva, e un immenso sospiro, un sospiro di sollievo, passava sugli alberi.
Ed allora quante immersioni! Quando eravamo stanchi, ci coricavamo sull'acqua, sulla riva, in un sito poco profondo, colla testa posata su qualche zolla erbosa. E restavamo là, accarezzati dallo scorrere continuo dell'acqua sulla nostra pelle, colle gambe galleggianti, quasi trasportate dalla corrente. A quell'ora, gli assistenti del collegio si giudicavano severamente, e i doveri dell'indomani si obliavano nel fumo delle pipe.
O buon fiume dove ho imparato a nuotare, o acqua tiepida in cui i pesciolini bianchi si cuocevano, io t'amo ancora come una maestra d'infanzia. Tu ci hai rapito un camerata, una sera, in una di quelle buche, nelle quali scherzavamo, ed è forse questa macchia di sangue sulla tua veste verde, quella che ha lasciato in me un brivido di desiderio per il tuo sottile filo d'acqua. Vi sono singhiozzi nel tuo cicaleccio innocente.
IV.
Non conosco che una caccia, una caccia di cui i Parigini ignorano le gioie tranquille. Qui nei campi vi sono lepri e pernici; non si spreca la polvere coi passeri, si sdegnano le allodole, riservando i colpi di fuoco ai soli pezzi grossi. In provincia, lepri e pernici sono rari; i cacciatori s'attardano dietro alle capinere, a tutti gli uccelletti dei cespugli. Quando hanno ucciso una dozzina di beccafichi, ritornano a casa superbi.
Ho corso spesso le terre coltivate, durante intere giornate, per riportarne tre o quattro bestiole. M'immergevo fino alla caviglia nel suolo soffice come sabbia fina. La sera, quando non potevo più reggermi in piedi, me ne ritornavo a casa contentissimo.
Se, per miracolo, una lepre mi passava fra le gambe, la guardavo correre con un sacro stupore; ero così poco abituato ad incontrare bestie sì grosse! Ma ricordo che una mattina una pernice prese il volo dinanzi a me e restai sì stupito da quel grande strepito d'ali, che scaricai a caso il fucile e il colpo cadde sur un palo telegrafico.
D'altra parte, confesso d'essere stato sempre un tiratore detestabile. In vita mia, ho ucciso un buon numero di passeri, ma non ho potuto mai colpire una rondinella.
*
È senza dubbio per questo che io preferisco la caccia più tranquilla ch'esista. Immaginate una specie di costruzione rotonda, sprofondata nel terreno, e che si eleva appena un metro sopra il suolo. Questo capannotto, fatto di pietre asciutte, è ricoperto di tegoli, quasi del tutto nascosti sotto rami d'edera. Pare un avanzo di torre rasa presso le fondamenta e perduta fra l'erba.
Nell'interno, l'angusta stanza è rischiarata da feritoie, chiuse con vetri mobili. Il capannotto ha, il più sovente, un caminetto e armi gentilizie; ne ho conosciuto uno che aveva anche un divano. Intorno ad esso sono piantati alcuni alberi morti, appiè dei quali si appendono i richiami, gli uccelli prigionieri destinati a chiamare gli uccelli liberi.
La tattica è semplice. Il cacciatore chiuso attende tranquillamente fumando la sua pipa. Egli vigila dalle feritoie. Poi, quando un uccello si posa su qualche ramo secco, egli prende metodicamente il fucile, ne appoggia la canna sull'orlo della feritoia e fulmina la disgraziata bestia, quasi a bruciapelo.
È così che i Provenzali dànno la caccia agli uccelli di passaggio, agli ortolani in agosto, ai tordi in novembre.
*
Nelle glaciali mattine di novembre, io me ne partiva a tre ore. Avevo una lega da fare di notte, carico conce un mulo, poichè bisogna portare i richiami e vi so dire che una trentina di gabbie non si trasportano facilmente in un paese di collina lungo sentieri appena segnati. Le gabbie si pongono su lunghi legni, legandole insieme con funicelle.
Quando arrivavo, faceva ancora scuro: la collina si stendeva all'infinito, lontana, selvaggia, pari a un mare d'ombra, colle sue grigie boscaglie. Sentivo intorno a me, nelle tenebre, il muoversi dei pini, gran voce confusa che somiglia al lamento delle onde. Contavo allora quindici anni e qualche volta avevo paura. Ed era già per me un'emozione; notate; – era un acre piacere.
Bisogna affrettarsi; i tordi sono mattinieri. Io appendeva le gabbie, mi chiudevo nel capannotto venatorio; ma era troppo presto, non distinguevo ancora i siti di richiamo. Però sentivo al disopra della mia testa il rude fischio dei tordi. Questi vagabondi viaggiano di notte. Io accendeva il fuoco brontolando e facevo il possibile per ottenere presto una quantità di bragie che, sulla cenere, risplendevano d'un bel rosa. Appena cominciata la caccia, neppure un filo di fumo doveva uscire dal posto, per non ispaventare la selvaggina; ed intanto io aspettava il giorno arrostendo sulle brage delle costolette.
E io passavo di feritoia in feritoia spiando l'apparire dell'alba. Nulla ancora! Gli alberi levavano vagamente i loro rami desolati. I miei occhi s'ingannavano; temevo di sparare, come m'era accaduto talvolta, su qualche cima di ramo annerito.
Non mi fidavo soltanto della mia vista; ascoltavo. Mille susurrii, quasi brividi, s'udivano nel silenzio; erano bisbigli, sospiri profondi della terra nel suo svegliarsi. Lo stormire dei pini aumentava e mi pareva talvolta che il volo d'innumerevoli tordi si gettasse accanto a me fischiando furiosamente.
*
Ma le nuvole diventavano di latte. Gli alberi si staccavano neri, sul cielo chiaro, con una singolare nettezza. Allora tutte le mie facoltà si tendevano; io era là curvo per ansietà.
Che battito, quando, bruscamente, scorgevo il lungo profilo d'un tordo sopra un albero! Il tordo s'allungava, s'abbelliva ai primi raggi della luce mattutina. Io prendevo il fucile con precauzioni infinite, per non urtarne il calcio o la canna. Tiravo; l'uccello cadeva. Io non lo raccoglievo subito, per timore di allontanare altre vittime.
E tornavo ad aspettare, scosso dalla stessa emozione che prova il giocatore quando ha già un colpo di fortuna, e ignora ciò che lo aspetta. Tutto il piacere di tal caccia sta nell'imprevisto, nella buona volontà che mette la selvaggina a farsi uccidere. Verrà un altro tordo a posarsi sugli alberi? Ecco una questione che ci turba.
D'altra parte, io non ne restavo imbarazzato; se non venivano i tordi, uccidevo i fringuelli.
*
Rivedo oggi il luogo della caccia d'una volta sull'orlo del gran colle deserto. Le colline mandano un fresco profumo di timo e di lavanda. I richiami, fra il muoversi dei pini, fischiano dolcemente. Il sole mostra all'orizzonte un riccio de' suoi capelli fiammeggianti, e là, sopra un ramo, in mezzo alla luce bianca, v'è un tordo immobile.
Andate ad inseguire le lepri e non ridete; fareste fuggire il mio tordo.
Ho due gatte. L'una, Francesca, è bianca come una mattina di maggio; l'altra, Caterina, è nera come una notte d'uragano.
Francesca ha la testa rotonda e allegra d'una figlia d'Europa. I suoi grandi occhi, d'un verde pallido, occupano tutto il suo viso. Il suo naso e le sue labbra sono tinte di carminio. La si direbbe una vergine innamorata del suo corpo.
Essa è grassa, affusolata, parigina fino alle punte degli artigli. Si ferma camminando, assume pose seducenti, ritirando la coda col fremito brusco d'una signora, che rialza lo strascico del vestito.
Caterina ha la testa appuntita e fina d'una dea egiziana. I suoi occhi gialli come lume d'oro, hanno la durezza impenetrabile delle pupille d'un idolo barbaro. Agli angoli delle sue labbra sottili ride l'eterna e muta ironia delle sfingi. Quando si accocola sulle zampe posteriori, colla testa alta ed immobile, è una divinità di marmo nero, la gran Pacht jeratica dei templi di Tebe.
*
Passano ambedue le loro giornate sulla sabbia gialla del giardino. Francesca si avvoltola col ventre all'aria, tutta occupata della sua toeletta, leccandosi le zampe colla cura delicata d'una civetta, che s'imbianca le mani coll'olio di mandorla dolce. Non ha tre idee in capo e la s'indovina dal suo folle aspetto di gran mondana.
Caterina pensa, pensa, guardando senza vedere, penetrando collo sguardo nel mondo sconosciuto degli déi. Ella resta, per ore intere, dritta, implacabile, sorridente del suo strano sorriso di bestia sacra.
*
Quando accarezzo Francesca colla mano, essa arrotonda il dorso, emettendo un leggero miagolìo di contentezza. È sì felice quando qualcuno si occupa di lei! Alza la testa con un movimento blando e mi rende la carezza; fregando il suo naso contro la mia guancia. I suoi peli fremono, la sua coda ha lente ondulazioni, e finisce col cadere in deliquio cogli occhi chiusi, facendo dolcemente le fusa.
Quando voglio accarezzare Caterina, essa evita la mia mano. Preferisce vivere solitaria, immersa nel suo sogno religioso. Ha il pudore d'una déa, cui ogni contatto umano punge ed irrita. Se arrivo a prenderla sulle ginocchia, ella si stende colla testa allungata, cogli occhi fissi, pronta a scappare d'un salto. Le sue membra nervose, il suo corpo magro resta inerte sotto le mie dita che lo accarezzano. Essa non degna discendere alle gioie amorose d'una mortale.
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È così che Francesca è una figlia di Parigi, orette o marchesa, creatura leggera ed incantevole che si venderebbe per un complimento fatto alla sua veste bianca; è così che Caterina è una figlia di qualche città rovinata, di non so qual paese lontano, dalla parte del sole. Esse sono di due civiltà; bambola moderna l'una, idolo d'una nazione morta l'altra.
Ah! se potessi leggere ne' loro occhi! Le prendo in grembo, le guardo attentamente, perchè mi confidino i loro segreti; ma non abbassano le palpebre, anzi son esse che studiano me. Io non leggo nulla nella vitrea trasparenza de' loro occhi, che si aprono come buchi senza fondo, come pozzi di pallida luce in cui nuotano scintille ardenti.
E Francesca fa le fusa più teneramente, mentre gli sguardi gialli di Caterina penetrano in me come spilli d'ottone.
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Ultimamente, Francesca è divenuta madre. Questa cervellina ha un cuore eccellente. Essa cura con un'infinita tenerezza il piccino che le venne lasciato. Lo prende delicatamente per la pelle del collo affine di condurlo in tutti gli armadi della casa.
Caterina la guarda immersa in profonde riflessioni. Il piccino la interessa; essa assume in sua presenza atteggiamenti di filosofo antico, che pensa alla vita e alla morte delle creature, fabbricando in sogno tutto un sistema filosofico.
Ieri, intanto che la madre era uscita, venne ad accoccolarsi presso al piccino. Ella lo ha toccato, lo ha rivoltato colla zampa. Poi, bruscamente, l'ha portato in un angolo oscuro, ove credendosi ben nascosta, si è posta davanti al piccino, cogli occhi lucenti, colla schiena fremente, come una sacerdotessa che si prepara a un sacrifizio. E credo ch'ella fosse sul punto di stritolare coi denti la testa della vittima, quando intervenni e la scacciai. Ella gettò sguardi diabolici, mentre fuggiva sottile, silenziosa senza una protesta.
*
Ebbene, io amo sempre Caterina; l'amo perchè è perfida e crudele come una bestia dell'inferno. Che m'importano le grazie leggere di Francesca, le sue smorfie deliziose, il suo portamento di vergine folle? Tutte le nostre figlie d'Eva hanno la sua bianchezza. Ma io non ho potuto ancora trovare una sorella a Caterina, una creatura perversa e fredda, un idolo nero, che viva nel sogno eterno del male.
VI.
Nei rosai, nei cimiteri, sbocciano fiori larghi, d'una bianchezza lattea, d'un rosso scuro. Le radici vanno a prendere in fondo alle bare il pallore dei petti verginali, lo splendore sanguinoso de' cuori affranti. Questa rosa bianca è la fioritura d'una fanciulla morta a sedici anni; questa rosa rossa è l'ultima goccia di sangue d'un uomo caduto lottando. O fiori splendidi, fiori viventi, c'è in voi qualche cosa de' nostri morti!
*
In campagna, i pruni e gli albicocchi crescono gagliardemente dietro la chiesa, lungo i muri crollanti del vecchio cimitero. I frutti sono indorati dal sole pieno; l'aria aperta dà loro un sapore squisito. E la governante del curato ne fa conserve che sono rinomate a più di dieci leghe di distanza. Io ne mangiai. Si direbbe, secondo la felice espressione dei contadini, che s'inghiottano «le brache di velluto del buon Dio!»
In un angusto cimitero di villaggio, che io conosco, vi sono piante superbe d'uva spina, alte come alberi. Il frutto rosso sotto le paglie verdi, somiglia a grappoli di ciliege. E ho veduto lo scaccino venir la mattina, con un pane sotto il braccio, a merendare, tranquillamente seduto su d'un canto d'una vecchia pietra sepolcrale. Una truppa di passeri lo circondava. Egli coglieva l'uva spina, gettava briciole di pane ai passeri; quel piccolo mondo mangiava con grande appetito sulla testa dei morti.
È una festa per il cimitero. L'erba cresce rigogliosa. Dei ceppi di papaveri selvatici stendono da un lato una tovaglia rossa. L'aria spira largamente dalla pianura, portando tutti i buoni odori dei fieni segati. A mezzodì le api ronzano al sole, le lucertole grigie svengono sull'orlo della loro tana, colla gola aperta, bevendo il calore. I morti hanno caldo; non è più un cimitero, è un cantuccio della vita universale, dove l'anima dei morti passa nei tronchi degli alberi, dove non vi ha più che un vasto bacio di ciò ch'era ieri e di ciò che sarà domani. I fiori sono il sorriso delle fanciulle; i frutti sono il bisogno dell'uomo.
Là, è permesso cogliere i fioralisi e i papaveri; i fanciulli vengono a farne dei mazzi. Il curato non si adira che quando ascendono sui prugni, perchè questi sono suoi, mentre i fiori sono di tutti. Talvolta bisogna falciare l'erba del cimitero, perchè diventa sì alta, che le croci di legno nero restano nascoste: Quel fieno viene mangiato dalla mucca del curato. Il villaggio non ci vede un male al mondo, e nessun parrocchiano pensa ad accusare la giumenta di mordere l'anima dei morti.
Maturina aveva piantato un rosaio sulla tomba del suo fidanzato, e tutte le domeniche di maggio Maturina andava a cogliere una rosa, che metteva fra i veli del suo seno. Passava così la domenica col profumo del suo amore scomparso. Quando abbassava gli occhi su quel velo, le pareva che il suo amante le sorridesse.
Quando il cielo è azzurro i cimiteri mi piacciono. Ci vado a capo scoperto dimenticando i miei odii, come in una città santa, dove si è tutt'amore e tutto perdono.
Ultimamente, andai una mattina al Père-Lachaise. Il cimitero stendeva sul limpido azzurro dell'orizzonte le sue file di tombe bianche. Massi d'alberi si elevavano sulla collina, mostrando sotto il merlo ancora tenero delle loro foglie, gli splendidi angoli delle grandi tombe. La primavera è dolce pei campi deserti, ove riposano i nostri morti diletti; essa semina di erbetta i viali che le giovani vedove percorrono a passo lento; imbianca i marmi dando loro una gaiezza infantile e serena. Da lungi il cimitero somiglia a un enorme mazzo di verzura, sparso qua e là d'un cespo di biancospino. Le tombe sono come i fiori verginali delle erbe e del fogliame.
*
Percorsi lentamente i viali. Quel glaciale silenzio, que' profumi penetranti, que' soffi tiepidi venuti non si sa donde, come il respiro carezzevole di donne che non si vedono! Si sente che tutto un popolo dorme in questa terra, che si commuove dolorosamente sotto il piede dei passanti. Da ogni arbusto dei massi, da ogni fenditura dei mattoni sfugge una respirazione regolare e dolce, come quella d'un fanciullo, che si strascina per terra.... Nuovi inverni passarono sul marmo di Alfredo De Musset. Lo ritrovai più bianco, più intenerito. Le ultime pioggie gli hanno messo una veste nuova. Un raggio, cadente da un albero vicino, rischiarava di luce viva il profilo fino e nervoso del poeta. Quel medaglione, col suo eterno sorriso, ha una grazia che rattrista.
Donde viene dunque la strana potenza del De Musset sulla mia generazione? Vi sono pochi uomini che, dopo averlo letto, non abbiano conservato nel cuore una dolcezza eterna. E tuttavia il De Musset non ha insegnato a vivere, nè a morire; egli è caduto ad ogni passo; nella sua agonia, non ha potuto che rialzarsi sui ginocchi per piangere come un fanciullo. Non importa; noi l'amiamo; l'amiamo d'amore come un amante che, calpestando il nostro cuore, lo feconderebbe.
Egli è che il poeta ha gettato il grido di disperazione del secolo, ch'egli è stato, di tutti noi, il più giovane, il più sanguinante.
Il salice piantato da mani pietose dinanzi la sua tomba è sempre languente. Questo salice, all'ombra del quale egli ha voluto dormire, non è mai cresciuto vigoroso e libero in tutta la forza della sua linfa. Le sue giovani frondi pendono tristamente, i suoi steli ricadono come lagrime pesanti e stanche. Le sue radici bevono forse nel cuore del morto tutte le amarezze della sua vita sciupata.
Io rimasi lungamente pensieroso. Là, a' miei piedi, romoreggiava Parigi; qui un grido d'uccello, un ronzio d'insetto, lo scricchiolare improvviso d'un ramo. Poi, silenzio profondo; e si sentiva più forte il respiro delle tombe. Solamente percorreva pian piano il viale un abitante del quartiere, forse un piccolo possidente, in pantofole, colle mani dietro la schiena, come un buon borghese che aspira i primi tepori dell'aria.
*
Le mie rimembranze si risvegliavano e mi parlavano della mia giovinezza, di quell'epoca felice, in cui percorrevo i sentieri della mia cara Provenza. Il De Musset era allora mio compagno.
Io lo portava nel mio carniere; e dietro il primo cespuglio dimenticavo il mio fucile sull'erba e leggevo il poeta, in quell'ombra calda del mezzogiorno profumata di salvia e di lavanda.
Io gli devo i miei primi dolori e le mie prime gioie. Nella passione d'analisi esatta che mi domina, quando sento salirmi al viso improvvise vampe di gioventù, io penso, oggi ancora, a quel disperato, e lo ringrazio d'avermi insegnato a piangere.
VII.
Maggio, il mese dei fiori, il mese dei nidi! Questa mattina il sole sorride discretamente, e io voglio credere al sole. Me ne vado per le strade, in questo diafano mattino, attento alla sola allegria dei passeri.
Se questa sera pioverà, che il cielo mi perdoni il mio canto di gioia che saluta la primavera.
*
Questa mattina al parco Monceau, una donna giovane, una sposa prossima a divenir madre, era seduta davanti un prato. Portava una veste di seta grigia. Le sue piccole mani inguantate, i merletti della gonna e del corsetto, il delicato pallore del viso, attestavano che la sua vita scorreva in un ozio ricco ed elegante. Era una felice di questo mondo.
La giovane signora guardava due passeri che saltavano gagliardamente, a' suoi piedi, sull'erba. Essi venivano a vicenda a rubare fili di fieno e scappavano sopra un albero vicino. Costruivano il loro nido; la femmina prendeva delicatamente ogni fuscellino, lo intrecciava cogli altri materiali già portati, lo eguagliava sotto il peso tiepido e fremente del suo petto. Era un va e vieni furtivo, occupazione amorosa in cui la tenerezza suppliva alla forza.
La sconosciuta, vestita di seta grigia, contemplava i due amanti che preparavano in tutta fretta la culla. Ella imparava la scienza della povera gente, che ha solo qualche filo di fieno e il calore delle proprie carezze per proteggere i suoi piccoli contro le notti fredde.
Ella sorrise con triste dolcezza e io credetti leggere l'idea che passava ne' suoi occhi pensosi.
– «Ahimè! io sono ricca, io devo ignorare la gioia di questi uccelli. Un ebanista fa la piccola culla di legno di rosa, nella quale una nutrice normanna o piccarda cullerà il mio bambino. In altro luogo, un telaio fabbrica i tessuti di lana o di filo che scalderanno le sue membra delicate. Un'operaia cuce il corredo, una mammana prodigherà le prime cure al neonato. Io, del caro piccino, non sarò madre che a metà. Lo metterò nudo al mondo e non avrà tutto da me. E questi passeri costruiscono il nido, tessono e cuciscono le stoffe; essi non hanno nulla; creano tutto per un miracolo d'amore; essi cambiano in culla tiepida il primo buco che trovano nel muro. Sono teneri operai, sussidiati dalle giovani madri.
*
Nei campi, nelle aie e sugli alberi, i nidi crescono naturalmente come fiori viventi. Si aprono, sbocciano al primo raggio di sole. All'ora che il biancospino esala i suoi profumi, que' nidi lasciano scappare dei gorgheggi.
I cardellini, i fringuelli, i fringuelli marini scelgono gli arbusti per alcova; i corvi e le gazze ascendono fino ai più alti rami dei pioppi; le allodole, le capinere rimangono a terra fra i grani e nei cespugli. Questi amanti, gelosi delle loro tenerezze, hanno bisogno del gran silenzio della campagna. Lo so ch'esistono dei miserabili, i quali violano i nidi per ispennare gli uccelli e mangiarne le uova in frittata. Gli uccelli perciò, ad ogni stagione, si nascondono meglio: vanno al deserto.
I passeri e le rondinelle sono i soli che osano confidare i loro amori ai muri e agli alberi di Parigi. Essi vivono, amano fra noi. Noi abbiamo molti canarini che fanno e covano le uova nelle gabbie. Ma che tristi amanti! Si direbbe che i nostri canarini sono maritati davanti il signor sindaco. La loro unione forzata, custodita tra i ferri, è stupida come un matrimonio. Essi hanno pensieri gravi e zotici, che non permettono mai loro i liberi colpi d'ale dei figli dell'amore.
Bisogna vedere i passeri liberi nelle cavità dei vecchi muri e le rondinelle libere sulla cima dei camini. Questi sì s'amano, concepiscono sotto aperto cielo; non v'ha fra essi che matrimoni d'inclinazione.
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Le rondinelle fanno di Parigi la loro città estiva. Appena giunte, le viaggiatrici visitano le culle vuote che hanno dovuto abbandonare ai primi freddi. Riparano la casetta gentile, la consolidano, la imbottiscono di peluria. E i poeti, gli amanti che passano colle orecchie e col cuore aperti, sentono, tutta l'estate, i loro piccoli gridi di tenerezza che dominano lo strepito delle vetture.
Ma il vero figlio di Parigi, il monello dell'aria, è il passero franco, che porta la giacca grigia dell'abitante dei sobborghi. Esso è partigiano del basso popolo, cantatore strillante, sfrontato. Il suo grido sembra uno scherno; il battere delle sue ali un gesto beffardo; i movimenti della sua testa hanno una specie di noncuranza burlesca e aggressiva.
È certo ch'esso preferisce i viali grigi di polvere, i boulevards ardenti, alle fresche ombre di Meudon e di Montmorency. Ama lo strepito delle ruote, beve al ruscello, mangia pane, passeggia tranquillamente sui marciapiedi. Ha lasciato i campi dove s'annoiava in compagnia di bestie sciocche e retrograde, per venir a stare fra noi, abitando sui nostri tetti, godendo la notte della luce del gas e facendo le sue faccenduole al giorno, nelle nostre strade, come un passante o un uomo d'affari.
Il passero grigio è un parigino che non paga imposte.
Esso è il titì della nazione alata ed ha una debolezza pel pane pepato e per la civiltà moderna.
*
Egli è sopratutto nei pubblici giardini e in maggio, che bisogna studiare le mosse leste e tenere dei passeri grigi. Alcuni vanno al Giardino delle Piante per mettersi davanti alle cancellate e guardare le bestie chiuse. Se visiterete un giorno il serraglio guardate le bestie libere, i passeri grigi, che volano in pieno sole. – Circuiscono le cancellate cantando trionfanti la loro canzone. Inneggiano altamente all'aria libera. Entrano impunemente nelle gabbie, le riempiono della loro libertà; sono l'eterna disperazione degl'infelici prigionieri. Rubano le briciole di pane alle scimmie e agli orsi; le scimmie li minacciano col pugno; gli orsi protestano scuotendo la testa con disdegnosa impazienza. Ma essi scappano; in quell'arca essi rappresentano la creatura libera e gaia, dove l'uomo cerca di rinchiudere la creazione.
In maggio, i passeri grigi del Giardino delle Piante costruiscono il loro nido sotto i tegoli delle case vicine. Essi diventano più carezzevoli, cercano di rubare qualche filo di lana o di crine al pelo degli animali. Un giorno vidi un gran leone allungare la testa possente sulle sue zampe tese, guardando un passero che saltava gagliardamente fra le spranghe della gabbia. Una contemplazione dolce e pungente faceva socchiudere gli occhi alla bestia feroce. Il leone pensava agli orizzonti liberi. Egli lasciò che il passero gli rubasse un pelo rosso delle sue zampe.
VIII.
In una delle ultime notti, mi recai al pubblico mercato. Parigi è tetro nelle ore mattutine; non gli hanno fatto fare ancora un po' di toilette. Somiglia a un vasto tinello tiepido e unto dal pasto della vigilia; ossa sparse, ed immondizie ingombrano la tovaglia sucida e il pavimento. I padroni si sono coricati prima che fosse sparecchiata la mensa; e, solo il mattino, la domestica spazza e mette la biancheria netta per la colazione.
Al mercato, si fa gran chiasso. È l'ufficio colossale dove s'ingolfano gli alimenti di Parigi addormentata. Quando Parigi aprirà gli occhi, avrà pieno il ventre. Nella luce tremante del mattino, in mezzo al brulichio della folla, s'amniucchiano quarti di carne rossa, panieri di pesci che brillano e mandano baleni d'argento, montagne di legumi che formano di tratto in tratto, nell'ombra, macchie bianche e verdi. È un franamento di cibi: carrette vuotate sul lastrico, casse sventrate, sacchi aperti che lasciano cadere il contenuto, un'onda ascendente d'insalate, d'uova, di frutti, di pollame, che minacciano di guadagnare le strade vicine, d'inondare tutta Parigi.
Camminavo con curiosità in mezzo a questo diavolìo, quando scorsi alcune donne che frugavano a piene mani in larghi mucchi nerastri sparsi sul suolo. I lumi delle lanterne danzavano; distinguevo con difficoltà, e credetti dapprima che fossero resti di carne, che si vendesse a poco prezzo.
M'avvicinai, I mucchi, ch'io credeva di carne, erano mucchi di rose.
*
Tutta la primavera parigina si trascina su questo suolo fangoso, fra i cibi. – Nei giorni di gran festa, la vendita comincia a due ore del mattino.
I giardinieri del distretto portano i loro fiori in fastelli. I fastelli, secondo la stagione, hanno un prezzo fatto, come le pere e le rape. Questa vendita è opera della notte. Le rivenditrici, le mercantesse al minuto, che immergono le braccia fino al gomito nelle carrettate di rose, pare che tuffino le mani in fondo a qualche cosa di sanguinoso.
*
Veniamo alla toilette. – I buoi sventrati che sanguinano saranno lavati, screziati di ghirlande, ornati di fiori artificiali. Le rose che si calpestano saranno disposte su fuscelli di giunco, e avranno allora un discreto profumo in mezzo alle loro collanuccie di foglie verdi.
Io m'ero fermato davanti a que' poveri fiori spiranti. Erano umidi ancora, stretti brutalmente da legami che ne tagliavano gli steli delicati. Esalavano l'odore acuto dei cavoli, in compagnia dei quali erano venuti. E nei rigagnoli si vedevano caduti alcuni fastelli di fiori che agonizzavano.
Raccolsi uno di que' fastelli e lo trovai da un lato tutto pieno di fango. Lo si laverà in una secchia d'acqua, e ritroverà il suo profumo dolce e delicato. Un po' di fango nel fondo dei petali, resterà solo a far fede della sua caduta nel rigagnolo. Le labbra, che lo baceranno alla sera, saranno forse meno pure di lui.
*
In mezzo a codesta abbominevole confusione, mi ricordai di quella passeggiata che feci dieci anni fa, con te, Ninetta. La primavera nasceva e le giovani frondi brillavano al bianco sole d'aprile. Il sentieruolo, che seguiva la costa, era orlato di larghi campi di violette. Quando si passava, si sentiva esalare d'intorno un odor dolce che penetrava nell'anima e la illanguidiva.
Ti appoggiavi sul mio braccio quasi svenuta, addormentata d'amore per così dolce profumo. La campagna era chiara e alcuni moscerini volavano al sole. Un gran silenzio scendeva dal cielo, e il nostro bacio fu sì discreto, che neppur i fringuelli dei ciliegi in fiore se ne spaventarono.
Alla svolta d'un sentiero vedemmo in un campo delle vecchie, curve, che coglievano violette gettandole in grandi panieri. Chiamai una di quelle femmine.
– Volete violette? – essa mi domandò... – Quante?... una libbra?
Ella vendeva i fiori a libbra! – Noi scappammo, desolati tutti e due, perchè ci parve di vedere la Primavera aprire nell'amorosa campagna una bottega di droghe. Guizzai lungo le siepi, rubai qualche magra violetta, ch'ebbe per te un profumo di più. Ma ecco nel bosco, in alto, sulla collina, spuntavano delle violette piccine piccine che, piene di terribile paura erano ricorse a mille astuzie per nascondersi sotto le foglie.
Tu gettasti subito le violette rubate, quelle stupide violette che crescevano nella terra coltivata e che si vendevano a libbra. Tu volevi fiori liberi, figli della rugiada e del sole del mattino. Durante due lunghe ore frugai fra l'erba; e quando avevo trovato un fiore correvo a vendertelo e tu me lo comperavi con un bacio.
*
Nello strepito assordante del verziere, fra gli odori di grasso, davanti a que' poveri fiori morti sul lastrico, io pensavo a queste cose lontane. Ricordavo la mia amante e quel mazzo di violette secche che conservo in fondo d'un cassetto. Tornato a casa, contai quegli steli disseccati: erano venti, e sentii sulle mie labbra il dolce ardore di venti baci.
IX.
Ho visitato un accampamento di zingari stabiliti in faccia alla caserma della porta Saint-Ouen. Quei selvaggi devono ben ridere di questa stupida città che s'incomoda per loro. Mi bastò seguire la folla; tutto il sobborgo si recava intorno alle loro tende, ed ebbi perfino la vergogna di veder persone, che non parevano affatto imbecilli, giungere in vettura scoperta coi domestici in livrea.
Quando questa povera Parigi ha una curiosità non la mette a prezzo. Ecco qua il caso di questi zingari. Essi erano venuti a ristagnare le casseruole e a rappezzare le caldaie del sobborgo. Ma fino dal primo giorno, vedendo la frotta di monelli che li osservava, compresero con che genere di città incivilita avevano a fare. E quando si videro considerati come un serraglio curioso, si affrettarono ad abbandonare caldaie casseruole, e con una bonomia beffarda consentivano a lasciarsi vedere per due soldi. Uno steccato circonda l'accampamento; due uomini, collocati a due aperture strettissime, raccolgono le offerte dei signori e delle dame che vogliono visitare il canile. Si sospingono, si schiacciano; si dovette anche ricorrere alle guardie municipali. Gli zingari rivolgono talvolta la testa per non ridere in faccia alle buone persone, che dimenticano sè stesse fino a gettar loro monete d'argento. Me li figuro la sera, mentre contano ciò che hanno riscosso, senza curiosi che li guardino. Come devono riderne! Essi hanno attraversato la Francia fra i rabbuffi dei contadini e la diffidenza delle guardie campestri. Arrivano a Parigi col timore d'esser gettati in fondo a qualche segreta e si svegliano in mezzo a questo sogno dorato di un popolo di signori e signore in estasi davanti ai loro cenci. Essi, essi, cacciati di città in città! Mi sembra di vederli ritti sulla scarpa delle fortificazioni, maestosamente avvolti ne' loro brandelli, e gettanti un gran riso di disprezzo a Parigi che dorme.
*
Lo steccato circonda sette od otto tende, che conservano in mezzo a loro una specie di sentiero. Cavalli etici, piccoli e nervosi, pascolano l'erba dietro le tende. Sotto i brandelli di vecchie coperte si scorgono le ruote basse di alcune vetture.
Nell'interno, regna un puzzo insopportabile di sudiciume e di miseria. Il suolo è già pesto, sgretolato, purulento. All'estremità dello steccato si vedono all'aria attrezzi da letto, sacconi, coperte scolorite, materassi quadrati sui quali due famiglie possono dormire con comodo: tutta la suppellettile di un ospedale di lebbrosi, che si asciuga al sole. Nelle tende costruite secondo il costume arabo, altissime, e aprentisi come le cortine d'un letto, s'ammucchiano stracci, selle, bardature, un'accozzaglia d'anticaglie senza nome, oggetti senza colore, senza forma, che riposano là, in un letto di untume artistico, di tono caldo, fatto per rapire in estasi un pittore.
Ho creduto scoprire la cucina all'estremità dell'accampamento, in una tenda più angusta delle altre. Vi era qualche marmitta di ferro e alcuni treppiedi: ci vidi anche un tondo; ma non c'era la minima apparenza di pentole al fuoco. Le marmitte servono forse a preparare la pappa del sabato.
Gli uomini son grandi, forti: hanno faccia rotonda, capelli lunghissimi, inanellati, d'un nero liscio e oleoso. Essi sono vestiti di tutte le spoglie raccolte per viaggio. Uno d'essi passeggiava, ravvolto in una cortina di tela a grandi ornati gialli. Un altro aveva una veste che doveva provenire da qualche abito nero dal quale si fosse strappata la coda. Parecchi avevano gonnelle da donna. Essi sorridevano sotto la loro barba lunga, rada e morbida.
Pare che la loro acconciatura prediletta consista in fondi di vecchi cappelli di feltro, di cui fanno callotte, tagliandone la tesa.
Le donne sono anch'esse grandi e forti. Le vecchie, secche schifose, colla loro magrezza nuda e co' capelli sciolti, somigliano a streghe cotte nel fuoco dell'inferno. – Fra le giovani ve n'ha di bellissime: sotto al loro strato di unto, hanno la pelle color del rame, e grandi occhi neri d'una dolcezza squisita. Son civette, e portano i capelli bipartiti e raccolti dietro le orecchie in due grosse treccie cadenti, annodate di tratto in tratto con nastri di stracci rossi. Vestite d'una sottana colorata, colle spalle coperte d'uno scialle annodato alla cintura, e colla testa coperta d'un fazzoletto che stringe loro la fronte, hanno l'aria di regine barbare cadute fra la canaglia.
E i fanciulli! Un intero esercito di fanciulli che brulicano. Ne vidi uno in camicia con un immenso farsetto d'uomo che gli scendeva ai polpacci; teneva in mano un bel cervo-volante azzurro. Un altro, piccino piccino, di due anni al più, camminava nudo, affatto nudo, grave, in mezzo al ridere sgangherato delle ragazze curiose del quartiere. E quel caro piccino era sì sudicio, sì verde e sì rosso, che si poteva prenderlo per un bronzo fiorentino, una delle leggiadre figurine del Rinascimento.
*
Tutta la banda resta impassibile davanti alla curiosità romorosa della folla. Uomini e donne dormono sotto le tende. Una madre col seno nudo e nero come una zucca annerita, allatta un marmocchio giallo che pare d'ottone. Altre donne accoccolate, guardano seriamente questi strani Parigini che frugano nel sudiciume. Domandai ad una di esse che cosa pensava di noi; ed ella sorrise debolmente senza rispondere.
Una bella ragazza d'una ventina d'anni passeggia in mezzo agl'imbecilli e tenta le signore in cappello e in vesta di seta, alle quali ella si offre di dire la buona ventura. La vidi agire. Ella prese la mano d'una giovane, e la tenne fra le sue in modo tanto carezzevole che sentì quella mano abbandonarsi a lei. Allora, ella fece capire che bisognava metterci dentro una moneta; ma un pezzo da dieci soldi non bastò, ce ne vollero due, ed ella giunse persino a parlare di cinque lire. Trascorso qualche istante e dopo aver promessa lunga vita, bambini, molta felicità, ella prese le due monete da dieci soldi, fece con esse dei segni di croce sull'orlo del cappello della giovane, e alla parola Amen, le fece sparire in un'enorme saccoccia nella quale intravvidi alcune monete d'argento.
Ella vende pure un talismano. Rompe, fra i denti, un pezzettino d'una materia rossastra, che pare buccia secca d'arancio; lo annoda nell'angolo del fazzoletto della persona ch'ebbe da lei la buona ventura; poi raccomanda di aggiungere al talismano del pane, sale e zucchero. Con ciò, si allontana ogni malattia e si scongiura lo spirito maligno.
E la diavolessa fa il suo mestiere con una gravità ammiranda. Se le si toglie una delle monete che si è fatta mettere in mano, giura che i suoi buoni augurii si muteranno in mali spaventevoli. Tutto ciò è ingenuo, ma il suo gesto e il suo accento sono superbi.
*
Nella piccola città provenzale dove io sono cresciuto, gli zingari sono tollerati; ma non eccitano una tanto stupida curiosità. Anzi, i borghesi li guardano di traverso, perchè si dice che mangino i cani e i gatti smarriti. Le persone dabbene voltano il capo quand'essi passano loro vicino.
Essi arrivano in un carrozzone che a loro serve di casa; e s'installano nell'angolo di qualche terreno abbandonato dei sobborghi. Dal principio alla fine dell'anno, certi luoghi sono abitati da tribù di fanciulli cenciosi, da uomini e da donne che, per terra, si avvoltolano al sole. Vi vidi creature di bellezza incantevole. – Noi altri, che non provavamo il disgusto della gente ammodo, andavamo a guardare il fondo delle vetture, dove quella gente dorme l'inverno. E mi ricordo che un giorno, afflitto da un grave dispiacere di scuola, sognai di salire in una di quelle vetture; mi sognai di partire con quelle grandi e belle ragazze, i cui occhi neri mi facevano paura, e di andarmene lontano, agli ultimi confini del mondo.
X.
Un giovane chimico, amico mio, mi disse una mattina:
– Conosco un vecchio sapiente che si è ritirato in una casetta del boulevard d'Enfer per istudiarvi in pace la cristallizzazione dei diamanti. Vuoi che ti conduca da lui?
Accettai, ma con un secreto terrore. Uno stregone non m'avrebbe spaventato tanto; poichè io non ho una gran paura del diavolo ma temo il denaro; e confesso che l'uomo che troverà uno di questi giorni la pietra filosofale, mi colpirà d'un rispettoso spavento.
*
Durante il cammino, il mio amico mi fornì qualche particolare sulla fabbricazione delle pietre preziose, della quale i nostri chimici si occupano da lungo tempo. Ma sono sì piccoli i cristalli ottenuti (fin qui, egli mi disse) e sì gravi le spese di fabbricazione, che gli esperimenti hanno dovuto restare allo stato di semplici curiosità scientifiche. La questione consiste unicamente nel trovare agenti più potenti e processi più economici per poter fabbricare diamanti a basso prezzo. – Intanto eravamo arrivati. Il mio amico, prima di suonare, mi avvisò che il mio vecchio sapiente, non amando i curiosi, mi avrebbe ricevuto malissimo. Io era il primo profano che penetrava nel santuario.
Il chimico ci aperse, e devo confessare ch'ei mi parve a primo aspetto uno stupido; un calzolaio macilento ed abbrutito. Egli accolse affettuosamente il mio amico, accettando me con un sordo grugnito, come un cane che avesse appartenuto al suo giovane discepolo. Noi attraversammo un giardino incolto. In fondo era la casa, una fabbrica in rovina. Il locatario ne aveva abbattute tutte le pareti per farne una sola stanza vasta e alta. Vi erano tutti gli utensili del laboratorio, apparecchi bizzarri dei quali non cercai neppure di spiegarmi l'uso.
Tutto il lusso della mobilia consisteva in un banco e in una tavola di legno nero.
In quel bugigattolo provai un abbagliamento accecante; uno dei più vivi della mia vita. Lungo i muri, sul pavimento, eran messe in fila delle ceste, il fondo di giunco delle quali si rompeva sotto il peso delle pietre preziose che le riempivano. Ogni mucchio era fatto di una speciale qualità di pietre preziose. I rubini, le ametiste, gli smeraldi, gli zaffiri, le opali, le turchine, gettate negli angoli come palate di luci vive e rischiaravano la stanza collo sfavillar de' loro fuochi.
Erano bracieri di carboni ardenti, rossi, violetti, verdi, azzurri, rosei. Sembravano milioni d'occhi di fate, che ridessero nell'ombra, a fior di terra. Nessuna novella araba ha sfoggiato di tali tesori, nessuna donna ha sognato un tal paradiso.
*
Non potei trattenere un grido d'ammirazione.
– Quante ricchezze! – esclamai. – Qui ci sono dei miliardi.
Il vecchio sapiente alzò le spalle. Mi parve ch'egli mi guardasse con aria di profonda pietà. – Ciascuno di que' mucchi può valere qualche lira, mi diss'egli colla sua voce lenta e sorda. Essi m'imbarazzano. Li seminerò domani nei viali del giardino, come ghiaja.
Poi, volgendosi verso il suo amico, continuò, prendendo le pietre a manate:
– Guardate questi rubini: sono i più belli che io abbia ottenuti finora.... Non sono soddisfatto di questi smeraldi: sono troppo puri; i naturali hanno tutti qualche macchia, e io non voglio far meglio della natura.... Ciò che mi fa disperare è che non ho 'potuto ottenere ancora il diamante bianco. Ho incominciato già i miei esperimenti. Appena sarò riescito, l'opera della mia vita sarà coronata, e morrò felice.
Quest'uomo era ingrandito a' miei occhi; non m'aveva più l'aria d'uno stupido. Cominciai a rabbrividire davanti a quel vecchio livido che poteva far cadere su Parigi una pioggia miracolosa.
– Ma voi dovete aver paura dei ladri, – gli domandai. – Vedo alla porta e alle finestre solide spranghe di ferro: e questa è una precauzione.
– Sì, talvolta ho paura, – egli mormorò: – ho paura che qualche imbecille mi uccida prima che io abbia trovato il diamante bianco.... Questi sassi che domani non avranno più alcun valore, potrebbero oggi tentare i miei eredi. Sono essi che mi spaventano, perchè sanno che facendomi sparire, seppellirebbero con me i segreti della mia fabbricazione e conserverebbero tutto il prezzo a questo preteso tesoro.
Egli rimase pensoso e triste. Noi ci eravamo seduti sui mucchi di diamanti ed io lo guardava. La sua mano sinistra si perdeva nel paniere dei rubini, e colla destra egli faceva cadere macchinalmente una pioggia di smeraldi, come i fanciulli che si fanno scorrere la sabbia fra le dita.
*
Dopo un silenzio prolungato gli dissi:
– Voi dovete condurre una vita intollerabile. Vivete solo, voi odiate gli uomini.... Non avete qualche gioia?
– Io lavoro, – mi rispose semplicemente, – e non mi annoio mai. Quando sono allegro, nei miei giorni di follia, metto in tasca qualcuna di queste pietre; vado a sedermi in fondo al giardino, dietro una feritoia che dà sul boulevard. Là, di quando in quando, lancio un diamante in mezzo alla strada....
Egli rideva al ricordo di quest'ottimo scherzo.
– Non potreste immaginare le smorfie di coloro che trovano le mie pietre. Essi rabbrividiscono, guardano dietro di sè, poi scappano pallidi come morti. Ah, povera gente! che bella commedia mi hanno fatto godere! Ho passato così delle ore gaie.
La sua voce secca produceva in me un malessere inesprimibile. Evidentemente, egli si faceva beffe di me.
– Hem! giovanotto, – riprese egli, – io ho di che comperare di molte donne; ma io sono un diavolo vecchio.... Voi comprendete che se avessi la minima ambizione, sarei da lungo tempo re di qualche paese.... Bah! Io non ucciderei una mosca, sono buono io, ed è perciò che lascio vivere gli uomini.
Egli non poteva dirmi con più gentilezza che, se gli fosse saltato il ticchio, m'avrebbe mandato al patibolo.
*
Pensieri ardenti si succedevano in me e tutte le campane della vertigine suonavano alle mie orecchie. Gli occhi di fata delle pietre fissavano su di me i loro sguardi acuti, rossi, violetti, verdi, azzurri, rosei. Senza saperlo avevo chiuso le mani, tenendo nella sinistra un pugno di rubini, nella destra un pugno di smeraldi. E se devo dir tutto, una voglia irresistibile mi spingeva a farmeli scivolare in tasca.
Gettai quelle pietre maledette, e me ne andai sentendomi galoppar nel cranio i gendarmi.
XI.
Ero a Versaglia, e montavo sul vasto cortile dei Marescialli, solitudine di pietre che mi ha sovente ricordato la landa deserta della Crau, il cui mare di sassi verdeggia ai raggi cocenti del sole.
L'ultimo inverno io vidi, in giorno di neve, il castello, col suo tetto azzurrastro, maestoso e triste, sul grigio del cielo: e sembrava il palazzo reale del freddo. Anche in estate esso è triste: e, anzi, fra i tepori dell'aria e la vegetazione rigogliosa degli alberi del parco par più melanconico e più abbandonato. Al rinnovarsi della bella stagione, i vecchi tronchi si rifanno una giovinezza di foglie; ma il castello agonizza. Il succo vitale non ascende più nelle sue pietre che cascano a bricioli; la rovina continua implacabile, rodendo gli angoli, staccando le pietre, proseguendo ad ogni ora il suo letale lavoro.
Le abitazioni, bugigattoli o palazzi, hanno le loro malattie di cui languiscono e muoiono. Sono come grandi corpi viventi, persone che hanno infanzia e vecchiezza, gli uni robusti fino alla morte, gli altri stanchi e vacillanti prima del tempo. Mi ricordo di case viste dallo sportello d'un vagone, sull'orlo delle strade; fabbricati nuovi, padiglioni discreti, castelli deserti, torri rovinate. E tutti questi esseri di pietra mi parlavano, mi raccontavano la salute di cui vivevano, il male di cui agonizzavano. Quando l'uomo chiude porte e finestre e parte, il sangue della casa se ne va. Ella trascina alcuni anni al sole; poi, in una notte d'inverno, un colpo di vento la porta via.
Di questo abbandono muore il castello di Versaglia. L'hanno costruito troppo vasto per la vita che l'uomo può mettervi. Ci vorrebbe una popolazione di abitanti, perchè il sangue potesse scorrere in que' corridoi senza fine, in quelle file di stanze immense. Fu l'errore colossale dell'orgoglio di un re, che, volendolo troppo grande, lo votava alla rovina fin dall'infanzia. La gloria di Luigi XIV non riempie più neppure la camera dov'egli dormiva, camera fredda, nella quale la sua cenere reale non mette oggi che un po' di polvere di più.
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Ascendevo sul cortile dei Marescialli; e vidi a destra, in un punto perduto di quella landa, la vecchia donna, la Sarcleuse leggendaria, che da cinquant'anni strappa l'erba dei mattoni. Dal mattino alla sera, essa è là, in mezzo ai campi di pietre, che lotta contro l'invasione, contro l'onda ascendente di viole selvagge e di papaveri. Ella cammina, si curva, visitando ogni fenditura, spiando i fili verdi, i muschi. Ella impiega quasi un mese a percorrere, da un capo all'altro, il suo deserto. E dietro a lei, l'erba rinasce, vittoriosa, gaia, implacabile, in modo che, quand'ella ricomincia, trova le stesse erbe cresciute di nuovo, gli stessi luoghi del cimitero invasi dai fiori selvaggi.
La Sarcleuse conosce la flora di queste ruine. Ella sa che i papaveri preferiscono il lato sud, che i maceroni prosperano al nord, che le viole amano le fenditure dei piedestalli. Il musco è una lebbra che si stende da per tutto. Vi sono piante ostinate, delle quali ella ha un bel strappar la radice, ricompariscono sempre; forse una goccia di sangue è caduta in quel sito, un'anima cattiva vi è sepolta, ed essa getterà sempre fuori dalla terra le punte rosse de' suoi cardi. In questo cimitero di re, i morti fioriscono stranamente. Ma bisogna sentire la Sarcleuse raccontare la storia di quest'erbe. Esse non sono già cresciute egualmente rigogliose in tutte le epoche. No. Sotto Carlo X erano timide; si stendevano appena come una leggera peluria, un tenero tappeto di verzura che rendeva soffici i sassi sotto i piedi delle signore. La Corte veniva ancora al castello: i talloni dei cortigiani calpestavano il suolo, e facevano in una mattina quello che la Sarcleuse fa ora in un mese. Sotto Luigi Filippo le erbe indurirono; il castello, popolato dai pacifici fantasmi del Museo Storico, cominciava a non esser più che il palazzo delle ombre. Ma fu sotto il secondo Impero che l'erbe trionfarono; esse crebbero con impudenza, presero possesso della lor preda; minacciarono per un momento di invadere le gallerie, e di mettere il loro verde nei grandi e nei piccoli appartamenti.
*
Nel vedere la Sarcleuse andar curva e a passo lento, col grembiale pieno d'erbe, colla vecchia gonnella d'indiana, io pensai: Ell'è l'ultima pietà che impedisce alle ortiche di crescere e di nascondere la tomba della monarchia. Ella cura, la buona donna, questa landa, dove spunta la verzura delle fosse.
Mi sono immaginato ch'ella fosse l'ombra di qualche marchesa, ritornata da uno dei boschetti del parco, e che avesse la religione delle sue rovine. Ella lotta continuamente colle sue povere dita irrigidite, contro il muschio spietato. Ella si ostina nel suo lavoro vano, ben sentendo che se un giorno si fermasse, l'onda delle erbe strariperebbe ed ella stessa ne rimarrebbe annegata. Talvolta, quando si raddrizza, gitta un lungo sguardo sui campi di pietre e ne osserva i punti lontani, dove la vegetazione è più ricca. E resta là, un istante, pallida, comprendendo forse l'inutilità delle sue cure continue, felice della gioia amara d'essere la suprema consolatrice di quei mattoni.
Ma verrà giorno che le dita della Sarcleuse saranno ben più irrigidite. Allora il castello rovinerà con un ultimo singhiozzo del vento. Il campo di pietre diverrà preda delle ortiche, dei cardi, di tutte le erbe selvatiche. Esso diventerà cespuglio enorme, bosco di piante torte ed acri. E la Sarcleuse si smarrirà nelle macchie, allontanando coi pugni steli più alti di lei, aprendosi un passaggio in mezzo ai fusti di gramigna, grandi come giovani betulle, lottando ancora fino al giorno che questi fusti la legheranno da ogni parte, le stringeranno le membra, la vita, il collo, per gettarla morta in quel mare che la trasporterà nell'onda sempre ascendente della verzura.
XII.
La guerra, la guerra infame, la guerra maledetta! Noi non la conoscevamo, noi altri giovani che nel 1859 non avevamo ancora vent'anni. Eravamo ancora sui banchi del collegio. Il suo nome terribile, che fa impallidire le madri, ci veniva alla mente solo nei giorni di vacanza.
E, nelle nostre rimembranze, non vedevamo che sere tiepide, in cui il popolo rideva sui marciapiedi; al mattino, l'annunzio d'una vittoria era passato su Parigi come un soffio di festa; e, al crepuscolo, i bottegai facevano illuminazione e i monelli per le strade facevano scoppiar petardi da un soldo. Sulla porta dei caffè c'erano dei signori che bevevano la birra parlando di politica. Intanto, in qualche angolo perduto dell'Italia e della Russia, i morti, stesi supini, guardavano le stelle nascenti coi loro grandi occhi aperti ma privi di sguardo.
Nel 1859, il giorno che si sparse la nuova della battaglia di Magenta, mi ricordo che, uscendo dal collegio, mi recai in piazza della Sorbona, per vedere, per passeggiare con quella febbre che regnava nelle strade. Vi era un gruppo di fattorini che gridavano: «Vittoria! vittoria!» Noi vedevamo in aria un giorno di vacanza: Ma in mezzo a quelle risate, a que' gridi, intesi dei singhiozzi. Era un vecchio ciabattino che piangeva in fondo alla sua botteguccia. Il povero uomo aveva due figli in Italia.
Dopo quel tempo, la mia fantasia mi fece udire sovente dei singhiozzi. Ad ogni voce di guerra, mi pareva che il vecchio ciabattino, il popolo coi capelli bianchi, piangesse lontano, nei caldi fremiti delle piazze.
*
Ma mi ricordo meglio ancora dell'altra guerra: della campagna di Crimea.
Avevo allora quattordici anni, vivevo in fondo alla provincia, ero tanto indifferente da non veder nella guerra altra cosa che il passaggio continuo delle truppe, il marciare delle quali era divenuto una delle nostre più care ricreazioni.
La piccola città del Mezzogiorno che io abitava, fu, credo, traversata da quasi tutti i soldati che andarono in Oriente. Un giornale del luogo annunziava in anticipazione i reggimenti che dovevano passare. Essi partivano verso le cinque del mattino; e già, dalle quattro, noi eravamo sul corso; non mancava al ritrovo neppure un alunno esterno del collegio.
Ah, che begli uomini! e i corazzieri, e i lancieri e i dragoni e gli ussari! Noi avevamo un debole per i corazzieri. Quando si levava il sole e i suoi raggi obliqui fiammeggiavano sulle corazze, noi indietreggiavamo accecati, rapiti, come se un esercito d'astri a cavallo ci fosse passato dinanzi.
Poi le trombe suonavano; e si partiva.
Noi partivamo coi soldati. Noi li seguivamo sulle grandi strade bianche. La musica suonava per ringraziare la città della sua accoglienza. E in quell'aria serena, in quelle limpide mattine, era una festa.
Mi ricordo d'aver fatto così delle leghe. Marciavamo al passo, coi nostri libri attaccati alla vita, come una giberna, mediante una correggia. Non dovevamo accompagnare i soldati più lungi della Polveriera; poi andavamo fino al ponte; poi risalivamo la costa; finalmente non ci arrestavamo che al prossimo villaggio.
E quando la paura ci obbligava a fermarci, ci arrampicavamo sopra un colle, e da quel punto seguivamo il reggimento lontano lontano, fra gli accidenti del terreno, lungo i gomiti della strada; lo guardavamo perdersi e nascondersi colle sue mille fiammelle, nella luce splendida dell'orizzonte.
Pensavamo proprio al collegio in que' giorni! Si marinava la scuola, e ci divertivamo su tutti i mucchi di sassi. E non era raro che la banda scendesse al fiume e vi si obliasse colà fino a sera.
*
Nel Mezzogiorno, i soldati sono amati poco. Ne ho veduti piangere di stanchezza e di rabbia, seduti sui marciapiedi, col loro biglietto d'alloggio in mano; i borghesi, i piccoli proprietari angolosi, i grossi negozianti non avevano voluto riceverli.
L'autorità dovette immischiarsene.
La nostra casa era la casa di Dio. Mia nonna, ch'era nativa della Beauce, sorrideva a tutti que' figli del Nord che le ricordavano il suo paese. Ella discorreva con loro, domandava il nome del loro villaggio, ed era felice quando quel villaggio si trovava a qualche lega dal suo.
Ci mandavano due uomini per ogni reggimento. Non potevamo tenerli e li mandavamo all'albergo; ma essi non se ne andavano prima che mia nonna non avesse fatto loro subire il suo piccolo interrogatorio.
Mi ricordo che un giorno ne vennero due del suo stesso paese; ed ella non volle lasciarli partire. Li fece pranzare in cucina e fu lei a versar loro da bere. Di ritorno dal collegio, corsi a vedere i due soldati: credo anzi d'aver trincato con essi.
Uno era piccolo e l'altro grande. Mi ricordo che, al momento di partire, gli occhi del grande si empirono di lacrime. Quest'ultimo aveva lasciato al paese una povera vecchia e ringraziava con effusione la nonna che gli richiamava la sua cara Beauce e tutto ciò ch'egli ci aveva lasciato.
– Basta! – gli disse la buona donna, – voi ritornerete colla vostra croce.
Ma egli scuoteva dolorosamente la testa.
– Ebbene, – ella riprese, – se tornate di qua, venite a rivedermi. Vi serberò una bottiglia di questo vino che avete trovato buono.
I due poveri ragazzi si misero a ridere. Quest'invito fece loro dimenticare il terribile avvenire e s'immaginarono senza dubbio vedersi al ritorno seduti a tavola in quella casetta ospitale, bevendo ai passati pericoli. E s'impegnarono formalmente di ritornare a bere quella bottiglia.
*
Quanti reggimenti ho seguito in quel tempo, e quanti soldati affranti sono venuti a battere alla nostra porta! Mi ricorderò sempre la processione interminabile di quegli uomini, che marciavano alla morte. Talvolta, chiudendo gli occhi, li rivedo ancora, mi rammento di certe sembianze e mi domando: «In qual fosso perduto sono essi coricati?»
Poi, i reggimenti diventarono più rari, e un giorno furono visti ripassare in senso inverso, zoppicanti, sanguinolenti, che si strascinavano per le strade. Certo, noi non andavamo più ad attenderli, non li accompagnavamo più, poichè non erano più i nostri bei soldati. Che potevano valere quegl'infermi?
Quella marcia triste durò a lungo. L'esercito seminava agonizzanti lungo il cammino. Mia nonna diceva talora:
– E i due della Beauce, che tu sai, m'hanno dimenticata?
Ma una sera, al crepuscolo, un soldato venne a battere alla porta. Era il piccolo, ed era solo.
– Il mio camerata è morto, – diss'egli entrando.
– Si, – diss'egli, – berrò solo.
E quando fu seduto a tavola, col bicchiere alzato, cercò il bicchiere del camerata per trincare, e mandò un gran sospiro, mormorando:
– Sono io ch'egli ha incaricato d'andare a consolar la sua vecchia: vorrei piuttosto essere laggiù, al suo posto.
*
Più tardi, ebbi Chauvin per camerata in una amministrazione. Eravamo impiegatucci ambidue, e le nostre scrivanie si toccavano nel fondo di una stanza buia, buco eccellente per far nulla, attendendo l'ora d'uscirne.
Chauvin era stato sergente, e ritornava da Solferino colla febbre che aveva preso nelle risaie del Piemonte. Egli bestemmiava contro i suoi dolori, ma si consolava accusandone gli Austriaci. Erano que' miserabili che l'avevano conciato così per le feste!
Quante ore passate a chiacchierare! Io tenevo il mio antico soldato ed ero proprio deciso a non lasciarmelo scappare senza avergli strappato certe verità. Io non mi appagava punto delle grandi parole: gloria, vittoria, allori, guerrieri, colle quali si gonfiava la bocca. Io lasciavo passare la piena del suo entusiasmo e lo impegnavo a parlarmi delle cose minime. Mi rassegnai ad ascoltare venti volte lo stesso racconto, per indovinarne lo spirito vero. Senza sospettarlo, Chauvin finì col farmi delle belle confidenze.
In fondo, egli era d'un'ingenuità infantile. Non vantava sè stesso; parlava semplicemente una lingua spedita di smargiassate militari; era un ciarlone inconscio, un buon ragazzo che le caserme avevano mutato in uno stupido insopportabile.
Si sentiva ch'egli aveva racconti e parole già preparate. Le frasi fatte in anticipazione ornavano i suoi aneddoti di «soldati invincibili» e «bravi ufficiali salvati dalla strage, dall'eroismo dei loro soldati». Ho subìto, per due lunghi anni, quattro ore al giorno, la campagna d'Italia. E non me ne lagno. Chauvin ha compiuta la mia istruzione.
Mercè sua, mercè le confessioni ch'egli m'ha fatto nel nostro buco nero, io conosco la guerra vera: non quella di cui gli storici ci raccontano gli eroici episodi, ma quella che fa sudare di paura in pieno sole e guizza nel sangue.
*
Io interrogavo Chauvin.
– E i soldati andavano allegramente al fuoco?
– I soldati! Se li spingeva: ecco tutto! Mi ricordo di coscritti che non avevano mai visto il fuoco e che s'impennavano come cavalli ombrosi. Avevano paura. A due riprese pigliarono la fuga; ma furono ricondotti, e una batteria ne uccise la metà. Bisognava vederli allora, coperti di sangue, accecati, gettarsi come lupi sugli Austriaci. Non erano più riconoscibili: piangevano di rabbia, volevano morire.
– È un tirocinio che si fa, – dicevo io per indurlo a continuare.
– Oh! sì, è aspro, – lo dico io. – Vedete: ai più forti, vengono i sudori freddi. Bisogna essere un po' ubriachi per battersi bene. Allora non si vede più niente, si picchia davanti a sè come furiosi.
Ed egli si abbandonava alle sue rimembranze.
– Un giorno, ci avevano collocati cento metri distanti da un villaggio occupato dai nemici, coll'ordine di non muoversi, di non tirare. Ma ecco! quei miserabili Austriaci aprono sul nostro reggimento un fuoco d'inferno. Non c'era mezzo d'andarsene. Ad ogni scarica di fucile, noi abbassavamo la testa; e ci furon di quelli che si stesero a terra. Era una vergogna; ci lasciarono là un quarto d'ora, e due de' miei camerati n'ebbero i capelli incanutiti.
Poi riprendeva:
– Voi non avete la minima idea di tutto ciò; poichè i libri raccontano le cose a loro modo. Per esempio, la sera di Solferino noi non sapevamo neppure se eravamo vincitori. Correva voce che gli Austriaci stavano per massacrarci. Vi assicuro io che non si era a nozze. E il mattino, quando ci si fece levare avanti giorno, noi tremavamo, avevamo una paura terribile che la battaglia s'ingaggiasse di nuovo. Quel giorno saremmo stati vinti, poichè la forza ci aveva abbandonati. E quando ci dissero: «è firmata la pace» tutto il reggimento, invaso da stupida gioia si mise a fare delle capriole. Alcuni soldati si prendevano per mano, e giravano intorno come ragazzette.... E non mento, sapete. Eravamo contentissimi.
Chauvin, che mi vedeva sorridere, s'immaginava che io non potessi credere a un sì grande amore della pace nell'esercito francese. Egli era d'una semplicità adorabile, ed io lo facevo raccontare, raccontare. Gli domandavo:
– E voi? Non avevate paura?
– Oh! io era come gli altri, – rispose egli ridendo modestamente.... – Io non sapevo.... Credete voi che si sappia se si è coraggiosi? La verità è che si trema e si picchia. Una volta, una palla morta mi rovesciò. Io restai per terra, riflettendo che se mi rialzavo, poteva accadermi qualche cosa di peggio.
XIII.
....Egli è morto da cavaliere, come è vissuto.
Voi vi ricordate, amici miei, di quella dolce primavera, quando andavamo a stringergli la mano nella sua casetta a Clamart. Giacomo ci accoglieva col suo bel sorriso. E pranzavamo sotto il pergolato, coperto di vergini viti mentre Parigi, lontana, all'orizzonte, romoreggiava nella notte cadente.
Voi non avete mai conosciuto bene la sua vita. Io, invece, che sono cresciuto nella stessa sua culla, io sì posso dirvi del suo cuore. Egli viveva a Clamart, da due anni, con quella ragazza alta, bionda, che andava lentamente estinguendosi. È una storia delicata e straziante.
*
Giacomo aveva incontrato Maddalena alla festa di Saint-Cloud. Cominciò ad amarla, perch'ella era triste e sofferente. Prima che la povera fanciulla scendesse nella fossa, voleva donarle due stagioni d'amore. E andò a nascondersi con lei, in quel lembo di terra di Clamart, dove le rose sbocciano come erbe selvatiche.
Voi conoscete la casa. Essa era modesta, bianca, perduta come un nido tra le foglie verdi. Fin dalla soglia, vi si respirava un affetto celato. Giacomo, a poco a poco, aveva preso un amore infinito per la morente. Egli guardava con amara tenerezza il male che la faceva impallidire ogni giorno più. Maddalena, come uno di que' lumicini di chiesa che gettano una luce viva prima di estinguersi, sorrideva, illuminava co' suoi occhi azzurri la piccola casa bianca.
Durante due stagioni, la fanciulla uscì appena. Ella riempì il giardino del suo essere incantevole, delle sue vesti chiare, de' suoi passi leggeri. Fu lei che piantò i grandi garofani fulvi, coi quali ci faceva dei mazzi. I geranii, i rododendri, le eliotropie, tutti questi fiori non vivevano che di lei e per lei. Ella era l'anima di quel cantuccio della natura.
Poi, vi ricordate che Giacomo venne una sera a dirci colla sua voce lenta: «Ell'è morta!» – Ella era morta sotto il pergolato come un bambino che s'addormenta nell'ora malinconica del tramonto. Ell'era morta in mezzo alla sua verzura, nella capanna perduta, dove l'amore aveva cullato due anni la sua agonia.
*
Non avevo più riveduto Giacomo. Sapevo che viveva sempre a Clamart, sotto il pergolato col ricordo di Maddalena. Dal principio dell'assedio, io ero sì accasciato di fatica che non pensavo più a lui; quando, il mattino del 13, sentendo che si battevano dalla parte di Meudon e di Sèvres, rividi d'improvviso colla memoria la casetta bianca nascosta sotto le foglie verdi. E rividi anche Maddalena, Giacomo, noi tutti a prendere il tè nel giardino, in mezzo alla pace profonda della sera, in faccia a Parigi che russava sordamente là, all'orizzonte.
Allora io uscii per la porta di Vanves e continuai il cammino. Le strade erano ingombre di feriti. Arrivai così ai Moulineaux dove appresi la nostra vittoria; ma quando ebbi percorso il bosco e mi trovai sulla collina, un'emozione terribile mi strinse il cuore.
In faccia a me, nelle terre peste e rovinate, in luogo della casetta bianca, non vidi che un buco nero: la mitraglia e l'incendio l'avevano distrutta. Discesi la collina colle lacrime agli occhi.
*
Ah! amici miei, che cosa spaventevole! La siepe di biancospino fu rasa al suolo dalle palle. I grandi garofani fulvi, i geranii, i rododendri giacevano a terra, pesti, in modo ch'ebbi pietà di essi, come se avessi avuto dinanzi a me i membri sanguinolenti di povere creature un dì conosciute.
La casa, da un lato, era tutta rovinata. Essa lascia vedere, dalla sua piaga semiaperta, la camera di Maddalena, quella camera pudica, tappezzata di tela di Persia color di rosa e della quale, dalla strada, si vedevano sempre le cortine chiuse. Quella camera brutalmente aperta dal cannone prussiano, quell'alcova amorosa, che si scorge adesso da tutta la vallata, m'hanno fatto sanguinar l'anima, e ho detto a me stesso, che mi trovavo in mezzo al cimitero della nostra giovinezza. Il suolo coperto di rovine, solcato dagli obici, somigliava a que' terreni smossi di fresco dal badile del becchino, e nei quali s'indovinano le nuove bare.
Giacomo aveva dovuto abbandonare quella casa crivellata dalla mitraglia. Mi avanzai ancora, entrai sotto il pergolato che, per miracolo, era rimasto intatto. Là, in terra, in una pozza di sangue, Giacomo dormiva col petto lacerato da più di venti ferite. Egli non aveva lasciate le viti vergini, dove aveva tanto amato; egli era morto dov'era morta Maddalena.
Raccolsi a' suoi piedi la sua giberna vuota, il fucile spezzato, e vidi che le mani del povero morto erano nere di polvere. Giacomo per lo spazio di cinque ore, solo colla sua arme, aveva difeso furiosamente il bianco fantasma di Maddalena.
XIV.
Povero Neuilly! Mi ricorderò lungamente della triste passeggiata che feci ieri, venticinque aprile 1871. A nove ore, appena si conobbe l'armistizio concluso fra Parigi e Versaglia, una folla considerevole si portò verso la porta Maillot. Questa porta non esiste più; le batterie della piazzetta di Courbevoie e del monte Valeriano l'hanno ridotta un mucchio di sassi. Quando passai per quella rovina alcune guardie nazionali stavano riparando la porta; fatica sprecata, poichè qualche colpo di cannone basterà a portar via i sacchi di terra e i mattoni ch'esse ammucchiano.
Partendo dalla parte di Maillot, si cammina fra le rovine. Tutte le case circostanti sono sfondate. Per le finestre rotte, scorsi alcuni pezzi di mobili di lusso; una cortina pende cincischiata a un balcone, un canarino vive ancora in una gabbia appesa alla cornice d'una soffitta. Più si procede e più i disastri si accumulano. La strada è seminata di frantumi, solcata dagli obici: la si direbbe una via di dolore, il calvario maledetto della guerra civile.
*
Mi cacciai nei sentieri trasversali, sperando di sottrarmi a quell'orribile strada maestra, lungo la quale, ad ogni passo, s'incontrano pozze di sangue. Ahimè! nei sentieruoli che sboccano nella strada, la strage è ancora più orribile. Là, si son battuti ad ogni passo, coll'arma bianca. Le case sono state prese e riprese dieci volte; i soldati delle due parti hanno scavato i muri per camminarvi nell'interno, ed hanno rovesciato a colpi di badile ciò ch'era stato risparmiato dagli obici. I giardini sopratutto hanno sofferto. Poveri giardini primaverili! I muri di cinta hanno breccie semiaperte; le ceste dei fiori sono sfondate; i viali calpestati, guasti. E sopra questa primavera macchiata di sangue fiorisce solo un mare di lillà. Il mese d'aprile non ha mai veduto una simile fioritura. I curiosi entrano nei giardini dalle breccie aperte, e portano sulle spalle fasci di lillà, mazzi sì pesanti, che qualche stelo sfugge ad ogni passo, e le strade di Neuilly sono ben presto tutte seminate di fiori, come se vi fosse passata una processione.
Le feritoie delle case, i buchi dei muri commuovono la folla. Ma una tristezza ben più grande è lo sgombero del disgraziato villaggio. Vi sono là tre o quattro mila persone che fuggono portando seco gli oggetti preziosi. Vedo gente che ritorna a Parigi con un piccolo paniere di biancheria e un enorme orologio di zinco dorato fra le braccia. Tutti i carri da sgombro sono stati requisiti. Si giunge persino a trasportare sulle barelle degli armadi a specchio, come feriti cui il minimo urto potrebbe uccidere.
Gli abitanti hanno sofferto atrocemente. Io ho parlato con un fuggitivo, ch'era rimasto quindici giorni chiuso in una cantina con altre trenta persone circa. Que' disgraziati morivano di fame. Uno d'essi, avendo offerto di sacrificarsi per procacciar del pane, fu ucciso sulla soglia della cantina, e il suo cadavere durante sei giorni restò sui primi gradini. Non è un vero incubo? Questa guerra che lascia così imputridire i cadaveri in mezzo ai viventi non è una guerra empia? Tosto o tardi, la patria sconterà tali delitti.
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Fino alle ore cinque, la folla camminò sul campo della lotta. Vidi fanciullette venute adagino dai Campi Elisi, giocare al cerchio fra i rottami. E le loro madri, sorridenti, parlavano fra loro, si fermavano talvolta, colpite un istante da un grazioso orrore. Com'è strano questo popolo di Parigi che si obblia fra i cannoni carichi, e che spinge l'imbecillità al punto di voler guardare se le palle fanno bella mostra nelle gole di bronzo!
Alla porta Maillot, alcune guardie nazionali hanno dovuto sgridare delle signore che volevano assolutamente toccare una mitragliatrice per spiegarsene il meccanismo.
Neppure un colpo di cannone era stato tirato alle sette, quando abbandonai Neuilly. La folla ritornava lentamente a Parigi. Ai Campi Elisi, si poteva credere che fossero cittadini ritornanti un po' tardi dalle corse di Longchamps. E per lungo tempo ancora, fino a notte fatta, s'incontravano nelle vie di Parigi persone e famiglie intiere, curve sotto il carico dei lillà. Del villaggio sinistro dove i fratelli si sgozzarono, del viale maledetto, delle case sfondate nel sangue, non v'è a quest'ora che grappoli fioriti e olezzanti, sui nostri caminetti.
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Abbiamo avuto tre giorni di sole. Le strade sono piene di gente. Ciò che mi reca continuo stupore è l'aspetto animato degli squares e dei giardini pubblici. Alle Tuileries, alcune donne ricamano all'ombra dei castagni, alcuni fanciulli giocano, mentre, là, in alto, dalla parte dell'Arco del Trionfo, gli obici scoppiano. Tanto intollerabile strepito d'artiglieria non fa girare neppur più la testa a questo popolino che gioca. Si vedono madri con due marmocchi a mano, le quali vengono ad esaminare davvicino le formidabili barricate costruite sulla piazza della Concordia.
Ma il tratto più caratteristico è la partita di piacere che i parigini sono andati a fare, per otto giorni, alla collina Montmartre. Là, sul lato occidentale, in un terreno ondeggiante, tutta Parigi si è data convegno. È un magnifico anfiteatro per assistere da lungi alla battaglia che si combatte da Neuilly ad Asnières. Vi si portavano seggiole, trespoli, ed alcuni industrianti, vi avevano collocato anche dei banchi; per due soldi si trovava posto come nella platea d'un teatro. Le donne sopratutto, vi andavano in gran numero. E tutta quella folla rideva follemente; ad ogni obice, di cui si scorgeva da lungi l'esplosione, si battevano i piedi di contentezza, e si trovava qualche scherzo che correva tra i gruppi come razzo di gioia. Ho veduto anche taluni portarvi la loro colazione, un po' di salsiccia e pane. Per non perdere il posto, mangiavano in piedi e mandavano a prendere il vino presso un venditore vicino.
La folla ha bisogno di spettacoli; quando si chiudono i teatri e si apre la guerra civile, essa va a veder morire colla stessa curiosità beffarda con cui aspetta il quinto atto d'un melodramma.
– Son tanto lontani, – diceva una graziosa giovane bionda e pallida, – che non mi commuovo affatto nel vederli far le capriole. Quando gli uomini sono tagliati in due, si direbbe che si piegano come matasse.