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Le quattro stagioni di Giovanni Gourdon. | «» |
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I.
Quel giorno, verso le cinque del mattino, il sole entrò con impeto giocondo nella cameretta che occupavo presso mio zio Lazzaro, curato del villaggio di Dourgues. Un largo raggio dorato cadde sulle mie palpebre chiuse, e mi svegliai in mezzo alla luce.
La mia camera, semplicemente imbiancata, colle pareti e coi mobili di legno bianco, aveva una gaiezza seducente. M'affacciai alla finestra, e guardai la Duranza, che scorreva ampia in mezzo al verde scuro della valle.
Un fresco venticello mi accarezzava il viso, e il fiume e gli alberi sembravano chiamarmi col loro mormorio.
Pian piano, aprii l'uscio. Per uscire dovevo attraversare la camera di mio zio. Camminai sulle punte dei piedi, temendo che lo scricchiolio delle mie grosse scarpe svegliasse il degno uomo che dormiva ancora tutto sorridente; tremai di sentire la campana della chiesa suonare l'Angelus. Mio zio Lazzaro, da qualche tempo, mi seguiva da per tutto, triste e corrucciato. Egli m'avrebbe forse impedito di recarmi laggiù, sulla riva del fiume e di nascondermi sotto i salici per ispiare la venuta di Babet, la giovane grande e bruna che era nata per me colla nuova primavera.
Mio zio dormiva d'un sonno profondo; m'assalì come un rimorso d'ingannarlo e di fuggire a quel modo. Mi fermai un istante a guardare quel viso calmo che il riposo rendeva più dolce; mi ricordai con tenerezza del giorno ch'egli era venuto a prendermi nella casa fredda e deserta, dalla quale era partito il convoglio funebre di mia madre. Da quel giorno, quanta tenerezza, quanta abnegazione, quante savie parole! Egli m'aveva dato la sua scienza e la sua bontà, tutta la sua intelligenza e tutto il suo cuore.
Per un momento fui tentato di gridargli:
– Alzatevi, zio Lazzaro! andiamo a passeggiare un poco insieme in quel viale che voi amate sulla riva della Duranza. L'aria fresca e il sole appena sorto vi rallegreranno. Vedrete che appetito avremo al ritorno!
E Babet, che sarebbe discesa fra poco al fiume e io non avrei potuta vederla, vestita delle sue gonnelle chiare da mattina! Collo zio allato, avrei dovuto abbassare gli occhi. E si doveva star tanto bene sotto i salici, stesi boccone sull'erbetta! Un certo languore mi ricercò le vene, e lentamente, a piccoli passi, trattenendo il respiro, guadagnai la porta. Scesi le scale e mi misi a correre come un pazzo all'aria tiepida di quella gioconda mattina di maggio.
Il cielo era tutto bianco all'orizzonte, con certe sfumature azzurre e rosee d'una delicatezza squisita. Il sole pallido sembrava una gran lampada d'argento, i cui raggi dardeggiavano sulla Duranza come una pioggia di luce. E il fiume, largo e pigro, scorreva mollemente sulla sabbia rossa, e andava da un punto all'altro della valle, pari allo scorrere d'un metallo in fusione. All'occidente una linea di colline basse e dentellate disegnava sul fondo scialbo del cielo leggiere macchie violette.
Io abitava, da dieci anni, quel cantuccio di terra perduto. Quante volte mio zio Lazzaro mi aveva aspettato per darmi lezione di latino! Il degno uomo voleva fare di me un sapiente. Ma io era dalla parte opposta della Duranza, e vi snidavo le gazze e vi scoprivo una collina sulla quale non m'ero ancora arrampicato. Al ritorno, mi attendevano le riprensioni; e il latino era dimenticato. Il mio povero zio mi sgridava perchè avevo stracciato i calzoni, e rabbrividiva, vedendo attraverso gli strappi qualche graffiatura nella pelle. – La valle era mia, affatto mia; l'avevo conquistata colle mie gambe, e per diritto d'amicizia n'ero il vero proprietario. E quanto amavo quel tratto di riviera, quelle due leghe di Duranza! come c'intendevamo bene insieme! Io conoscevo tutt'i capricci di quel caro fiume, le sue collere, le sue grazie, la sua fisonomia, che variava ad ogni ora del giorno.
Quella mattina, quando giunsi in riva all'acqua, rimasi abbagliato nel vederla sì tranquilla e sì bianca. Non l'avevo mai veduta con un aspetto sì gaio. Scivolai lesto sotto i salici, fino ad un sito nel cui terreno, nudo d'alberi e coperto d'erba scura, il sole pioveva i suoi raggi. Mi coricai boccone, coll'orecchia tesa, guardando fra i rami il sentiero per la quale Babet doveva discendere.
Pensai: – Oh come lo zio Lazzaro deve dormire!
E m'allungai vie più sul musco. Il sole mi penetrava nel dorso con un calore tiepido, mentre il petto, a contatto coll'erba, ne sentiva tutta la freschezza.
Non avete mai guardato l'erba davvicino, cogli occhi fissi su ciascuno dei suoi fili? Aspettando Babet, ne frugai indiscretamente collo sguardo un cespo ch'era proprio tutto un mondo. Nel mio cespo d'erba vi erano strade, crocicchi, piazze pubbliche, città intere. Distinguevo, in fondo, un gran mucchio d'ombra, dove le foglie dell'ultima primavera imputridivano di tristezza; poi gli steli leggeri si alzavano, s'allungavano, si curvavano in mille leggiadre maniere, rappresentando eleganti colonne, chiese, foreste vergini. Vidi due magri insetti passeggiare in mezzo a quella immensità; s'erano certamente smarriti, i poveri fanciulli, perchè andavano di colonna in colonna, di sentiero in sentiero, con aria spaventata ed inquieta.
Fu proprio in quel momento che, alzando gli occhi, vidi sulla sommità della strada le gonnelle di Babet che spiccavano sulla terra bruna. Riconobbi la sua veste d'indiana grigia a fiorellini azzurri. Mi sprofondai vieppiù nell'erba e sentii il mio cuore che batteva contro la terra e mi sollevava quasi con piccole scosse. In quel punto il mio petto ardeva: non sentivo più la freschezza della rugiada.
La ragazza discendeva lesta. Gli ondeggiamenti delle sue gonnelle che radevano il suolo, mi rapivano; la vedevo dal basso in alto, diritta, colla sua grazia altiera e beata. Ella non sapeva che io fossi lì, dietro i salici, ella camminava con passo libero, correva, senza badare al vento che sollevava un lembo della sua veste. Io distinguevo i suoi piedi che trottavano veloci e una piccola parte delle sue calze bianche, che mi faceva arrossire in modo dolce e penoso ad un tempo.
Oh! allora io non vidi più nulla, nè la Duranza, nè i salici, nè la purezza del cielo. Me ne ridevo io della vallata; essa non era più la mia buona amica; le sue gioie, le sue tristezze mi lasciavano perfettamente freddo. Non mi curavo dei miei camerati, i sassi e gli alberi delle colline. Il fiume poteva andarsene d'un tratto, dove meglio gli piaceva; io non l'avrei certo rimpianto.
E la primavera? Non me ne importava proprio nulla della primavera! Avesse ella portato con sè anche il sole che mi scaldava le reni, il suo fogliame, i suoi raggi, tutta la sua mattina di maggio, io sarei rimasto là, in estasi, a guardare Babet, che correva sulla strada, facendo ondeggiare deliziosamente le sue gonnelle. Babet aveva preso nel mio cuore il posto della valle; Babet era la primavera. – Io non le aveva mai parlato; arrossivamo ambidue quando c'incontravamo nella chiesa di mio zio Lazzaro; eppure avrei giurato ch'ella mi detestava!
Quel giorno, ella si fermò qualche minuto a discorrere colle lavandaie. Il suo riso argentino giungeva fino a me, confuso colla gran voce della Duranza. Poi, ella s'abbassò per prendere un poco d'acqua nel cavo della mano; ma la riva era alta, e Babet, essendo sdrucciolata, si attaccò alle erbe. Non so qual brivido mi gelò il sangue. M'alzai bruscamente, e, senza vergogna, senza rossore, corsi presso la giovinetta. Ella mi guardò spaventata; poi sorrise. M'inchinai col pericolo di scivolare e riuscii a riempir d'acqua la mia mano destra, stringendone le dita. E porsi a Babet questa coppa di nuova foggia, invitandola a bere.
Le lavandaie ridevano, Babet, confusa, non osava accettare, esitava, volgeva il capo a metà. Finalmente si decise, appoggiò delicatamente le labbra sulla cima delle mie dita; ma era troppo tardi, l'acqua se n'era ita. Ella diede allora in uno scoppio di risa, ritornò bambina, e capii che ella si prendeva gioco di me.
Ma io ch'ero scioccone, m'abbassai di nuovo. Questa volta presi dell'acqua in tutt'e due le mani e m'affrettai a portare alle labbra di Babet. Ella bevette, ed io sentii il bacio tiepido della sua bocca, che mi serpeggiò lungo le braccia fino al petto e lo riempì di calore.
– Oh! come mio zio deve dormire! – ripetevo fra me.
Ma, proprio in quel momento, scopersi un'ombra nera accanto a me, ed essendomi rivolto, vidi mio zio Lazzaro in persona, a poca distanza, che guardava Babet e me, con aria corrucciata. Il suo abito, al sole, pareva affatto bianco; nei suoi occhi c'erano rimproveri che mi fecero venir voglia di piangere.
Babet ebbe gran paura; diventò rossa e fuggì balbettando:
– Grazie, signor Giovanni, grazie tante.
Io restai confuso e immobile, davanti mio zio Lazzaro, asciugandomi le mani.
Il degno uomo, colle braccia conserte, traendosi dietro un lembo della sottana, guardò Babet che risaliva il sentiero correndo senza volgere il capo. Poi, quand'ella sparve dietro le siepi, egli abbassò lo sguardo verso di me; e io vidi un triste sorriso sfiorare quella faccia di solito serena.
– Giovanni, – mi diss'egli, – vieni nel viale grande. La colazione non è pronta; abbiamo una mezz'ora da perdere.
E si rimise a camminare col suo passo un po' pesante, evitando i cespi d'erba bagnati dalla rugiada. La sua sottana, un lembo della quale strascicava sulle ghiaie, mandava un sordo stridio. Teneva il breviario sotto il braccio; ma aveva dimenticata la lettura del mattino e andava innanzi colla testa bassa pensoso e taciturno.
Il suo silenzio mi opprimeva, tanto più che di solito egli era ciarliero. La mia inquietudine cresceva ad ogni passo. Non c'era dubbio; egli mi aveva veduto dar da bere a Babet. Quale spettacolo, Signor Iddio! La ragazza che rideva, arrossiva e mi baciava la punta delle dita, mentre io, ritto in piedi e tendendo le braccia, m'inchinavo per abbracciarla. L'audacia della mia azione mi parve allora spaventevole e ritornai timido. Domandai a me stesso come avevo potuto osare di farmi così dolcemente baciar le dita.
E mio zio Lazzaro, che non diceva niente, che camminava sempre a piccoli passi dinanzi a me senza gettare un solo sguardo sui vecchi alberi che tanto amava! Egli preparava certo una predica e non mi conduceva nel gran viale, che per sgridarmi a suo agio. Ce n'era almeno per un'ora! La colazione si sarebbe raffreddata e io non avrei potuto ritornare in riva al fiume a pensare alla dolce emozione che provai quando le labbra di Babet mi baciarono le dita.
Ma eccoci nel gran viale, largo e corto, che si stende lungo il fiume, ed è fiancheggiato da enormi quercie, da' cui tronchi a fenditure s'elevavano potentemente lunghi rami. L'erba fina stendeva un tappeto sotto gli alberi, e il sole, crivellando le foglie, ricamava questo tappeto di rosoni d'oro. Da lontano, tutt'intorno, s'allargavano praterie d'un verde crudo.
Mio zio, senza voltarsi, senza mutar di passo, giunse fino all'estremità del viale. Là si fermò, e io gli rimasi a fianco comprendendo che il momento terribile era venuto.
Il fiume si voltava bruscamente: un piccolo parapetto formava all'estremità del viale una specie di terrazzo. Quella vôlta d'ombra dava sopra una valle di luce; la campagna si stendeva parecchie leghe dinanzi a noi. Il sole s'alzava nel cielo, dove i raggi d'argento del mattino si erano cambiati in ruscelli d'oro; splendori abbaglianti piovevano dall'orizzonte lungo i colli, stendendosi nella pianura con bagliori d'incendio.
Dopo un istante di silenzio, mio zio Lazzaro si rivolse a me.
– Dio mio! la predica! – pensai.
E abbassai la testa. Mio zio mi mostrò d'un gesto tutta l'ampiezza della valle, poi raddrizzandosi:
– Guarda, Giovanni, – mi diss'egli con voce lenta, – ecco la primavera. La terra è in festa, ragazzo mio, io t'ho condotto qui, in faccia a questa pianura di luce, per mostrarti i primi sorrisi della giovane stagione. Vedi che splendore e che dolcezza! Dalla campagna emanano tiepidi profumi che passano sul nostro viso, come soffi di vita.
Egli tacque: pareva cogitabondo. Io aveva rialzata la fronte, stupito, respirando liberamente. Mio zio non predicava.
– È una bella mattina, – riprese egli, – una mattina di gioventù. I tuoi diciott'anni vivono riccamente in mezzo a questa verzura che ha appena diciotto giorni. Tutto è splendore e profumo non è vero? La gran valle ti sembra un luogo di delizie, il fiume è là per regalarti la sua freschezza, gli alberi per prestarti la loro ombra, la campagna intera per parlarti di tenerezza, il cielo stesso per infiammare questi orizzonti che tu interroghi con desiderio e speranza. La primavera appartiene ai monelli della tua età; è lei che insegna ai giovani la maniera di dar da bere alle donzelle....
Abbassai di nuovo la testa: mio zio Lazzaro mi aveva veduto senz'altro.
– Un vecchio bonario, come me, – continuò egli, – sa disgraziatamente tenere, nel giusto loro pregio, le grazie della primavera. Io, mio povero Giovanni, amo la Duranza, perchè bagna queste praterie e fa vivere tutta la valle; amo queste giovani frondi perchè m'annunciano i frutti dell'estate e dell'autunno; amo questo cielo perchè è buono con noi, perchè il suo calore affretta la fecondità della terra. Avrei dovuto dirti tutto ciò un giorno o l'altro; preferisco dirtelo oggi, a quest'ora mattutina. È la primavera stessa che ti dà lezione. La terra è un vasto laboratorio dove l'uomo non riposa mai. Guarda questo fiore, ai nostri piedi; per te esso è un profumo; per me è un lavoro; egli compie l'opera sua producendo la sua parte di vita, cioè un piccolo granello nero che, alla sua volta, lavorerà la prossima primavera. Interroga ora il vasto orizzonte. Tutta questa gioia non è che una produzione. Se la campagna sorride è perchè ricomincia l'eterno lavoro. La senti tu adesso a respirar fortemente, attiva e sollecita? Le foglie sospirano, i fiori s'affrettano, il grano cresce senza tregua; tutte le piante, tutte l'erbe gareggiano per crescere più presto, e l'acqua vivente, il fiume viene ad aiutare il lavoro di tutti, e il nuovo sole che ascende nel cielo ha l'incarico di rallegrare l'opera eterna dei lavoratori.
A questo punto, mio zio mi obbligò a guardarlo in faccia. Egli terminò così:
– Giovanni, intendi tu ciò che ti dice la tua amica, la primavera. Essa è la giovinezza, ma prepara l'età matura; il suo sorriso sereno non è che l'allegria del lavoro. L'estate sarà possente, l'autunno sarà fecondo, poichè la primavera canta a quest'ora, compiendo bravamente l'opera sua.
Io rimasi istupidito. Comprendevo mio zio Lazzaro. Egli mi faceva una predica bell'e buona, colla quale mi diceva ch'ero un ozioso e che il momento di lavorare era venuto.
Mio zio pareva imbarazzato non meno di me. Dopo aver esitato qualche momento:
– Giovanni, – diss'egli balbettando un poco – tu hai avuto torto di non venire a me, di non raccontarmi tutto.... Poichè tu ami Babet e Babet t'ama....
Mio zio fece un gesto di malumore.
– Eh! lasciami dire. Non ho bisogno d'altre confessioni.... Me l'ha detto lei stessa.
– Ella vi ha detto ciò: ella vi ha detto ciò!
E saltai d'improvviso al collo di mio zio Lazzaro.
– Oh che gioia! – soggiunsi.... – Io non le avevo mai parlato, in verità.... Ella vi ha detto ciò in confessione, n'è vero? Oh quanto vi ringrazio!
Mio zio Lazzaro era tutto rosso. Egli sentiva d'essere stato malaccorto. Non aveva potuto pensare che quello fosse stato il mio primo incontro colla giovanetta, ed ecco ch'egli mi dava un'assicurazione quando non osavo ancora sognare una speranza. Ora egli taceva; ed ero io che parlavo con volubilità.
– Io comprendo tutto, – continuai. – Avete ragione; bisogna che io lavori per guadagnare Babet. Ma vedrete come sarò coraggioso.... Ah quanto siete buono, zio Lazzaro. E come parlate bene! Capisco ciò che dice la primavera; voglio avere anch'io un'estate possente, un autunno fecondo. Qui si sta bene, si domina tutta la valle; com'essa io sono giovane, e sento in me che questa giovinezza domanda di adempiere il suo còmpito.
– Va bene, Giovanni, – mi diss'egli. – Per lungo tempo ho sperato di fare di te un prete; non t'aveva data la mia scienza che a questo scopo. Ma ciò che ho veduto questa mattina in riva all'acqua, mi obbliga a rinunciare definitivamente al mio sogno più caro. È il cielo che dispone di noi. Tu amerai Dio in altro modo.... Tu non puoi restare adesso in questo villaggio; nè voglio che tu vi ritorni se non maturato dall'età e dal lavoro. Ho scelto per te il mestiere di tipografo: l'istruzione, che t'ho dato, ti gioverà. Un mio amico, uno stampatore di Grenoble, ti attende lunedì prossimo.
Fui preso da inquietudine.
– E ritornerò a sposare Babet? – domandai.
Mio zio fece un sorriso impercettibile. E senza rispondere direttamente:
– Rimettiamo il resto alla volontà del cielo, – rispos'egli.
– Siete voi il cielo! e io ho fede nella vostra bontà. Oh! mio zio, fate che Babet non mi dimentichi. Io lavorerò per lei.
Allora mio zio Lazzaro mi mostrò nuovamente la valle inondata sempre più dalla luce calda e dorata.
– Ecco la speranza, – mi diss'egli. – Non esser vecchio come me, Giovanni. Dimentica la mia predica e conserva l'ignoranza di questa campagna. Essa non pensa all'autunno; non sente che la gioia del suo sorriso; essa lavora noncurante e coraggiosa. Essa spera.
E ritornammo al presbiterio, camminando lesti sull'erba, ormai asciutta, parlando con tenerezza della nostra separazione.
La colazione era fredda, come lo avevo preveduto, ma ciò m'importava poco. Gli occhi mi si riempivano di lacrime ogni volta che guardavo mio zio Lazzaro. E ricordando Babet, il mio cuore batteva tanto, che mi pareva di soffocare.
Non mi ricordo ciò che facessi il resto del giorno. Andai, credo, a coricarmi sotto i salici, in riva all'acqua. Mio zio aveva ragione: la terra lavorava. Applicando l'orecchio contro terra, mi pareva sentire un mormorìo continuo. Allora sognai la mia vita. Sprofondato nell'erba fino alla sera, mi proposi un'esistenza tutta di lavoro fra Babet e mio zio Lazzaro. La giovinezza energica della terra era penetrata nel mio cuore, che io premeva fortemente contro questa madre comune, e, in certi momenti, fantasticavo di essere uno dei salici vigorosi che vivevano intorno a me. La sera non potei desinare. Mio zio comprese senza dubbio i pensieri che mi soffocavano, perch'egli finse di non accorgersi del mio poco appetito. Appena mi fu permesso d'alzarmi, m'affrettai di tornare a respirare l'aria libera della campagna.
Un vento fresco veniva dal fiume, del quale sentivo da lungi il sordo mareggiare. Una luce vellutata scendeva dal cielo. La valle si stendeva come un mare d'ombra senza rive, dolce e trasparente. Si sentivano nell'aria dolci mormorii, un certo fremito appassionato simile ad un largo starnazzare d'ali, che fosse passato sulla mia testa. Odori piccanti si sprigionavano dalla freschezza dell'erba.
Io era uscito per vedere Babet; sapevo che la sera ella veniva al presbiterio e andai ad imboscarmi dietro una siepe. Non avevo più la timidezza del mattino, e trovai naturalissimo d'attenderla là, poich'essa m'amava e io doveva annunciarle la mia partenza.
Quando scorsi le sue gonnelle, nella notte limpida, m'avanzai senza strepito. Poi mormorai a voce bassa:
Ella, che non m'aveva riconosciuto, fece un movimento di terrore. Ma quando s'accorse che ero io, parve ancora più spaventata, ed io ne stupii profondamente.
– Siete voi, signor Giovanni! – mi diss'ella. – Che fate là? Che volete?
Ero presso di lei, e le presi la mano.
– Io? chi ve l'ha detto?
Ella rimase atterrita. Sentii la sua mano tremare nella mia. Mentre stava per fuggire, le presi l'altra mano. Eravamo l'uno in faccia all'altro, dentro una specie d'incavo che formava la siepe e sentivo il suo respiro affannoso scorrere caldo sul mio viso. La freschezza e il silenzio pieno di fremiti della notte, ci circondavano.
– Non so, – balbettò la giovanetta, – non ho mai detto questo.... Il signor curato ha inteso male.... Di grazia, lasciatemi, ho fretta.
– No, no, – ripresi, – voglio che sappiate che parto domani, e che mi promettiate di amarmi sempre.
Oh! che dolce grido e quanta tenerezza ci mise Babet! Mi par ancora di udire la sua voce affannosa, piena di desolazione e d'amore.
– Vedete bene, – esclamai alla mia volta, – che mio zio Lazzaro ha detto la verità. D'altra parte egli non mente mai. Voi mi amate, voi mi amate, Babet! Le vostre labbra questa mattina l'avevano confidato a voce bassa alle mie dita.
E la feci sedere a piedi della siepe. – Le mie memorie m'hanno conservato la mia prima conversazione d'amore nella sua religiosa innocenza. – Babet mi ascoltò come una sorella. Ella non aveva più paura, e mi confidò la storia del suo amore. Ci facemmo giuramenti solenni, confessioni ingenue, progetti infiniti. Ella giurò di non sposare che me, io giurai di meritarmi la sua mano a forza di lavoro e di tenerezza. Un grillo dietro la siepe accompagnava i nostri discorsi, col suo ronzio di speranza, e tutta la valle, bisbigliando nell'ombra, godeva di sentirci ragionare sì dolcemente.
Noi ci separavamo obbliando d'abbracciarci.
Quando ritornai nella mia cameretta, mi parve d'averla abbandonata da un anno almeno. Quella giornata sì corta mi parve eterna di felicità. Era dessa la mia giornata di primavera, la più tiepida, la più profumata della mia vita, quella la cui memoria è oggi la voce lontana e commossa della mia giovane età.
II.
Quando mi svegliai quel giorno, verso le tre del mattino, io era steso sulla nuda terra, rotto dalla stanchezza, col viso madido di sudore.
Una notte di luglio, calda e affannosa, mi pesava sul petto.
Intorno a me, i miei compagni dormivano ravvolti nei loro cappotti; parevano macchie nere sulla terra grigia. La pianura buia ansava; mi sembrava sentire la respirazione anelante d'una moltitudine addormentata. Rumori vaghi, nitriti di cavalli, urto d'armi, si levavano nel silenzio pieno di fremiti.
Verso mezzanotte, l'esercito aveva fatto alto, e noi avevamo ricevuto l'ordine di coricarci per dormire. Marciavamo da tre giorni, arsi dal sole e accecati dalla polvere. Il nemico era finalmente dinanzi a noi, in fondo, sui colli dell'orizzonte. Allo spuntar del giorno, si doveva dar battaglia decisiva.
Ero sfinito. Da tre ore mi sentivo come schiacciato, senza respiro e senza sogni. Risvegliato dall'eccesso stesso della fatica, stavo coricato sulle reni, cogli occhi spalancati; e, contemplando la notte, pensavo alla battaglia, a questa carnificina che il sole, fra poco, avrebbe rischiarato. Erano già più di sei anni che al primo colpo di fucile di ogni combattimento io davo un addio alle mie care affezioni, a Babet, allo zio Lazzaro. E un mese appena prima della mia liberazione, mi conveniva dir loro addio un'altra volta e forse per sempre.
Poi i miei pensieri s'addolcirono. Cogli occhi chiusi, vidi Babet e lo zio Lazzaro. Quanto tempo che io non li avevo abbracciati!
Mi ricordavo del giorno della nostra separazione. Mio zio piangeva perch'era povero, perchè doveva lasciarmi partire così, e Babet, la sera, m'aveva giurato di attendermi, di non amare che me. Avevo dovuto abbandonar tutto, il mio padrone di Grenoble, i miei amici di Dourgnes. Di tanto in tanto, qualche lettera veniva ad assicurarmi ch'ero sempre amato, che la felicità m'attendeva nella mia valle prediletta. E frattanto io andava a battermi, a farmi uccidere.
Cominciai a pensare al ritorno. Vidi il mio povero vecchio zio sulla soglia del presbiterio, che mi tendeva le braccia tremanti; e, dietro a lui, Babet, tutta rossa, in lacrime e sorridente.
Io mi gettavo nelle loro braccia, li baciavo balbettando....
Un rullo di tamburo mi ricondusse bruscamente alla terribile realtà. Era spuntata l'alba, e la pianura grigia sembrava allargarsi fra i vapori del mattino. Il suolo s'animò, e forme vaghe sorsero da ogni parte. Uno strepito crescente riempiva l'aria: era l'appello delle trombe, il galoppo dei cavalli, il ruotare dell'artiglieria, il grido del comando. La guerra si ergeva, minacciosa, in mezzo a' miei sogni di tenerezza.
M'alzai a fatica; mi pareva d'avere le ossa rotte, e la testa che mi si fendesse. Riunii in fretta i miei uomini; poichè bisogna che sappiate che avevo raggiunto il grado di sergente.
Ricevemmo ben presto l'ordine di portarci sulla sinistra ed occupare un poggetto che dominava la pianura.
Mentre eravamo per partire, un ufficiale passò correndo e gridò:
– «Una lettera per il sergente Gourdon.»
E mi consegnò una lettera stazzonata, macchiata, che si trascinava da forse otto giorni nei sacchi di cuoio dell'amministrazione delle poste. Non ebbi che il tempo di riconoscere la scrittura di mio zio Lazzaro.
– Avanti, marche! – gridò il comandante.
Convenne marciare. Durante qualche secondo, tenni la mia povera lettera in mano divorandola cogli occhi: essa mi scottava le dita; avrei dato tutto il mondo per sedermi, per piangere a mio agio leggendola. Dovetti decidermi a nasconderla sotto la tunica, presso il cuore.
Non avevo mai provato una simile angoscia. Dicevo a me stesso, per consolarmi, ciò che mio zio Lazzaro m'aveva spesso ripetuto: io ero all'estate della vita, all'ora della lotta ardente, e dovevo compiere bravamente il mio dovere, se volevo avere un autunno pacifico e fecondo. Ma questi ragionamenti mi esasperavano vieppiù; quella lettera, che mi parlava certo di felicità, mi faceva ardere il cuore, che si ribellava contro la follia della guerra. E non potevo leggerla neppure! Sarei morto forse senza sapere ciò ch'essa conteneva, senza sentire un'ultima volta le buone parole di mio zio Lazzaro.
Eravamo giunti sul colle. Là, dovevamo attendere l'ordine di avanzarci.
Il campo di battaglia era scelto meravigliosamente per sgozzarci. L'immensa pianura si stendeva nuda per parecchie leghe, senza un albero, senza una casa. Siepi e cespugli macchiavano qua e là la bianchezza del suolo. Non rividi mai una campagna simile, un simile mare di polvere, un suolo di creta, rotto ad ogni tratto e che mostrava dalle sue fenditure le viscere nere. E non rividi nemmeno un cielo d'una purezza sì ardente, una giornata di luglio sì calda e sì bella; a ott'ore l'aria infiammata bruciava già i nostri visi. Oh che splendida mattina, e che pianura sterile per uccidere e morire!
Da lungo tempo le fucilate scoppiavano producendo uno strepito secco e irregolare, accompagnato dalla voce grave del cannone. I nemici austriaci, dai vestimenti scoloriti, avevano abbandonato le alture, e la pianura era solcata da lunghe file d'uomini che parevano piccoli come insetti. Si sarebbe detto un formicaio insorto. Nuvoli di fumo si levavano dal campo di battaglia.
Quando que' nuvoli si diradavano, scorgevo soldati che fuggivano presi dal terrore. Correnti di spavento trasportavano gli uomini; slanci di vergogna e di coraggio li conducevano sotto le palle.
Io non potevo sentire i lamenti dei feriti, nè veder a scorrere il sangue. Distinguevo solamente, come punti neri, i morti che i battaglioni si lasciavano dietro. Mi posi a guardare con curiosità i movimenti delle truppe, irritandomi contro il fumo che mi nascondeva una buona metà dello spettacolo, e trovando un certo piacere egoista a sapermi in sicuro, mentre gli altri morivano.
Verso le nove, ci fecero avanzare. Discendemmo la collina a passo di ginnastica, dirigendoci verso il centro che piegava. Lo strepito regolare dei nostri passi mi parve funebre. I più prodi fra noi ansavano, pallidi, contraffatti.
Promisi a me stesso di dire la verità. Al primo fischiare delle palle il battaglione si fermò bruscamente, colla voglia di fuggire.
– Avanti, avanti! – gridarono i capi.
Ma noi eravamo inchiodati al suolo; abbassando la testa, quando una palla ci fischiava nell'orecchio. Questo movimento è istintivo: se la vergogna non m'avesse trattenuto, mi sarei gettato boccone nella polvere.
Avevamo davanti una densa cortina di fumo che non osavamo oltrepassare. Lampi rossi l'attraversavano; frementi, noi non ci avanzavamo punto. Ma le palle giungevano fino a noi; i soldati cadevano con un urlo. I capi gridavano più forte:
– Avanti, avanti!
Le file di dietro, spinte da essi, ci obbligavano a marciare.
Allora, chiudendo gli occhi, prendemmo un nuovo slancio e penetrammo nel fumo.
Una rabbia furiosa s'era impadronita di noi. Quando risuonò il grido di: Alt! ci fermammo a fatica. Ma, ritornati appena all'immobilità, ritorna anche la paura e vien voglia di fuggire. Le fucilate ricominciarono. Sparavamo dinanzi a noi senza prender la mira, trovando qualche sollievo nel mandar palle nel fumo.
Mi ricordo che tirai macchinalmente, colle labbra chiuse e cogli occhi dilatati; non avevo più paura, perchè, a dir la verità, non sapevo più di esistere. La sola idea che mi restava, era che sparerei finchè tutto fosse finito. Il mio compagno di sinistra ricevette una palla in mezzo alla faccia e cadde sopra di me: lo respinsi brutalmente asciugandomi la guancia, ch'egli aveva inondata di sangue. E tornai a sparare.
Mi ricordo ancora d'aver veduto il nostro colonnello, il signor di Montrevert, fermo e dritto sul cavallo, che guardava tranquillamente dalla parte del nemico. Quell'uomo mi parve gigantesco. Egli non aveva il fucile per distrarsi, e il suo petto si mostrava in tutta la sua larghezza al disopra di noi. Di tratto in tratto, abbassava lo sguardo e ci gridava con voce secca:
– Serrate le file, serrate le file!
Noi serravamo le file come pecore, camminando sui morti, attoniti, sparando sempre. Fino allora il nemico non ci aveva mandato che fucilate: uno scoppio sordo si fece sentire, una cannonata ci ammazzò cinque uomini. Una batteria, che doveva essere in faccia a noi, e che non potevamo vedere, aveva aperto il fuoco. Le cannonate colpivano in pieno le file, quasi nello stesso punto, facendo un buco sanguinoso, che noi turavamo incessantemente con un'ostinazione da bestie feroci.
– Serrate le file, serrate le file! – ripeteva freddamente il colonnello.
Noi davano al cannone carne umana. Ad ogni soldato che cadeva, io facevo un passo di più verso la morte, m'avvicinavo al sito dove le cannonate rimbombavano sordamente, schiacciando gli uomini, che la sorte destinava a morire. Colà i cadaveri s'ammonticchiavano, e ben presto le palle non colpirono più che un mucchio di carne informe; brandelli di membra volavano ad ogni nuovo colpo di cannone. Non potevamo più serrare le file. I soldati urlavano, i capi stessi furono trasportati dall'impeto.
– Alla baionetta, alla baionetta!
E sotto una pioggia di palle, il battaglione corse rabbiosamente davanti ai cannoni. La cortina di fumo fu squarciata, sur un monticello scorgemmo la batteria nemica, rossa di fiamme, che faceva fuoco sopra di noi da tutte le gole dei suoi pezzi.
Ma lo slancio era preso, le palle non fermavano che i morti.
Io correvo accanto al colonnello Montrevert, che avendo avuto il cavallo ucciso, si batteva come un semplice soldato. All'improvviso mi sentii fulminato; mi parve che il petto mi si aprisse e che mi portassero via una spalla. Un vento terribile mi passò sul viso.
E caddi. Il colonnello stramazzò al mio fianco. Io mi sentii morire, pensai alle mie care affezioni e svenni cercando con mano incerta la lettera di mio zio Lazzaro.
Quando risensai, io era coricato sul fianco, nella polvere. Uno stupore profondo m'annientava. Cogli occhi spalancati guardavo davanti a me senza veder nulla; mi sembrava di non aver più membra e che il mio cervello fosse vuoto. Non soffrivo, perchè pareva che la vita se ne fosse andata dalla mia carne.
Un sole pesante, implacabile, cadeva come piombo fuso sulla mia faccia; ma io non lo sentivo. A poco a poco, mi ritornò la vita. Le membra mi divennero più leggere; solo la mia spalla rimase come stritolata da un peso enorme. Allora, coll'istinto d'una bestia ferita, volli mettermi a sedere, ma mandai un grido di dolore e ricaddi al suolo.
Ma in quel punto io vivevo, vedevo, comprendevo. La pianura si allargava vuota e deserta, tutta bianca, sotto il sole cocente. Essa spiegava la sua desolazione sotto la serenità ardente del cielo, mucchi di cadaveri dormivano in quel calore e gli alberi abbattuti sembravano altrettanti morti che si asciugassero. Non spirava un soffio d'aria.
Un silenzio spaventevole usciva da que' monti; poi, di tratto in tratto, sordi lamenti traversavano quel silenzio e gli comunicavano un lungo fremito. Sottili nuvolette di fumo vagavano lentamente sull'orizzonte, sui poggi e, sole, tingevano di grigio lo splendido azzurro del cielo. La carnificina continuava su quelle alture.
M'accorsi che noi eravamo vincitori, e provai un piacere egoista, nel pensare che potevo morire in pace in quella pianura deserta.
Intorno a me la terra era nera. Alzando la testa vidi, a qualche metro da me, la batteria nemica sulla quale ci eravamo scagliati. La lotta doveva essere stata orribile; il monticello era coperto di corpi tagliali a pezzi e sfigurati; il sangue era sgorgato in tanta abbondanza che la polvere sembrava un largo tappeto rosso. Al disopra dei cadaveri, i cannoni allungavano le loro gole oscure. Io rabbrividivo ascoltando il silenzio di que' cannoni. Allora, adagio adagio, con precauzioni infinite, giunsi a mettermi col ventre in giù. Appoggiai la testa sur una grossa pietra, tutta chiazzata di sangue, e trassi dal petto la lettera di mio zio Lazzaro. Me la posi davanti gli occhi; ma le lacrime m'impedivano di leggerla.
E il sole mi scottava le reni e l'acre odore del sangue mi stringeva la gola. Sentivo intorno a me la pianura straziante: ero come pietrificato dalla rigidezza dei morti. Il mio povero cuore piangeva nel silenzio caldo e nauseabondo dell'assassinio.
«Sento che la guerra è dichiarata, e spero che tu riceverai il congedo prima dell'aprirsi della campagna. Ogni mattina prego Dio di risparmiarti nuovi pericoli. Egli mi esaudirà, egli vorrà che tu possa un giorno chiudermi gli occhi.
«Ah! mio povero Giovanni: io divento vecchio e ho gran bisogno del tuo braccio. Dopo la tua partenza, non mi sento più allato la tua giovinezza che mi ritornava a' miei vent'anni. Ricordi le nostre passeggiate del mattino nel viale delle quercie? Io non oso più, adesso, andar sotto quegli alberi; sono solo e ho paura. La Duranza piange. Vieni presto a consolarmi, a calmare le mie inquietudini....»
I singhiozzi mi soffocavano: non potei continuare. A questo punto, intesi un grido straziante a qualche passo da me, e vidi un soldato rizzarsi bruscamente col viso contraffatto; egli alzò il braccio con angoscia, e stramazzò al suolo contorcendosi in convulsioni spaventevoli; poi, non si mosse più.
«Misi le mie speranze in Dio, continuava mio zio, egli ti ricondurrà a Dourgnes sano e salvo, e noi ricominceremo la nostra dolce vita. Lasciami sognare ad occhi aperti, lascia che ti dica i miei progetti d'avvenire.
«Tu non andrai più a Grenoble, tu resterai presso di me; io farò del mio fanciullo un figlio della terra, un contadino che vivrà allegramente in mezzo ai lavori della campagna.
«Ed io mi ritirerò nel tuo podere. Le mie mani tremanti ben presto non potranno più tener l'ostia. Io non domando al cielo che due anni d'una tale esistenza. Sarà la ricompensa delle poche buone opere che ho potuto fare. Allora, mi condurrai qualche volta nei sentieri della nostra cara vallata, dove ogni roccia, ogni siepe mi ricorderà la tua giovinezza che ho tanto amata....»
Dovetti fermarmi di nuovo. Provai un dolore sì vivo alla spalla, che mi fece quasi perdere i sensi una seconda volta.
Fui preso da una tremenda inquietudine; mi parve che lo strepito delle fucilate si avvicinasse, e dicevo a me stesso con terrore che il nostro esercito forse retrocedeva, e che nella sua fuga stava per discendere e passarmi sul corpo. Ma io continuavo a non veder che le nuvole sottili di fumo che si distendevano sui colli.
Mio zio Lazzaro aggiungeva:
«E noi saremo in tre ad amarci. Ah! mio diletto Giovanni, tu hai ben avuto ragione di darle a bere, una mattina, sulla riva della Duranza. Io temevo Babet: ero di cattivo umore: ed ora sono geloso, perchè vedo che non potrò mai amarti quanto ella ti ama.
«Ditegli, mi ripeteva ieri arrossendo, che s'egli si fa uccidere, io mi getterò nel fiume, nel sito dove mi ha dato a bere.
«Per amor di Dio! risparmia la tua vita. Vi sono cose che non posso comprendere, ma sento bene che la felicità ti attende qui. Babet, io la chiamo già mia figlia; la vedo al tuo fianco nella chiesa, quando benedirò la vostra unione. Voglio che quella sia l'ultima messa da me celebrata.
«Babet è adesso una grande e bella ragazza. Ella t'aiuterà ne' tuoi lavori....»
Lo strepito delle fucilate s'era allontanato. Lacrime dolcissime mi cadevano dagli occhi, mentre sordi gemiti partivano dai soldati che agonizzavano fra le ruote dei cannoni. Ne scorgevo uno che s'affannava a sbarazzarsi di un camerata, ferito come lui, che gli schiacciava il petto col suo peso; e siccome quel ferito si dibatteva lagnandosi, il soldato lo respinse brutalmente e lo fece rotolare sul pendio del poggetto dove lo sciagurato urlò di dolore. A quel gemito, un rumore salì dal cumulo dei cadaveri. Il sole, che declinava, mandava raggi d'un biondo fulvo. L'azzurro del cielo era più pallido.
Terminai la lettera di mio zio Lazzaro.
«Voleva semplicemente darti nostre notizie, diceva egli ancora, supplicarti di venire al più presto a renderci felici. Ed ecco che io piango, che ciarlo come un bambino. Io spero, mio povero Giovanni; io prego, e Dio è buono.
«Rispondimi presto, stabilisci, s'è possibile, il giorno del tuo ritorno. Babet ed io contiamo le settimane. A rivederci presto! Buone speranze!»
Il giorno del mio ritorno!... Io baciavo la lettera singhiozzando; credetti un istante di abbracciare Babet e mio zio; poi pensai che non li avrei più riveduti. Sarei morto come un cane, nella polvere, sotto il sole di piombo. Ed era in quella pianura desolata, in mezzo ai gemiti dell'agonia, che le mie care affezioni mi dicevano addio. Avevo un ronzìo nelle orecchie; guardavo la terra macchiata di sangue, che si stendeva deserta fino alle linee grigie dell'orizzonte. E ripetevo: «Bisogna morire». Allora chiusi gli occhi evocando la memoria di Babet e di mio zio Lazzaro.
Non so quanto tempo passassi in una specie di sonnolenza dolorosa. Il mio cuore soffriva quanto il mio corpo. Lacrime lente e calde mi scorrevano sulle guancie. In mezzo all'incubo della febbre, udivo un singhiozzo pari al lagno continuo d'un fanciullo che soffre. Mi risvegliavo di quando in quando e guardavo il cielo con meraviglia. – Compresi finalmente ch'era il signore di Montrevert, che giaceva a qualche passo da me e che singhiozzava così. Io l'avevo creduto morto. Era coricato colla faccia contro terra e le braccia aperte. Quell'uomo era stato buono con me, sentivo di non poter lasciarlo morire così col viso in terra, e mi posi a strisciare adagio adagio verso di lui.
Due cadaveri ci separavano. Mi venne per un momento il pensiero di passare sul ventre di quei morti per abbreviare il cammino, poichè, ad ogni movimento, la mia spalla mi faceva soffrire orribilmente; ma non osai. Mi trascinai sulle ginocchia, aiutandomi con una mano. Quando giunsi presso il colonnello, mandai un sospiro di sollievo; mi parve d'essere meno solo; stavamo per morire insieme, e questa morte divisa non mi paventava più.
Volevo ch'egli vedesse il sole e lo voltai colla maggior delicatezza possibile. Quando i raggi gli caddero sul viso, respirò forte e aperse gli occhi. Chinato sopra di lui, mi provai a sorridergli. Egli chiuse di nuovo le palpebre e, dal tremito delle sue labbra, compresi ch'egli aveva coscienza delle sue sofferenze.
– Siete voi, Gourdon, – diss'egli finalmente con voce debole; – è vinta la battaglia?
– Credo di sì, colonnello, – gli risposi.
Egli tacque un istante. Poi, aprendo gli occhi e guardandomi:
– Dove siete ferito? – mi domandò.
– Ad una spalla.... E voi, colonnello?
– Io devo avere il gomito in ischeggie.... Mi ricordo.... è la stessa palla, ragazzo mio, che ci ha conciati così.
Egli fece uno sforzo per rimettersi a sedere.
– E dunque, – diss'egli con ruvida gaiezza, – dobbiamo noi addormentarci qui?
Non si potrebbe credere quanto quella coraggiosa bonomia mi desse forza e speranza. Io mi sentivo un altro dacchè eravamo in due a lottare contro la morte.
– Aspettate, – esclamai, – io fascerò il vostro braccio col mio fazzoletto; poi procureremo di sostenerci l'un l'altro fino alla prossima ambulanza.
– Va bene, ragazzo mio.... non stringete troppo forte.... Adesso, prendiamoci ciascuno per la mano sana e procuriamo di alzarci.
E ci alzammo brancolando. Avevamo perduto molto sangue: la testa girava, ci mancavano le gambe. Chi ci avesse veduti ad inciampare, a sorreggerci, a spingerci, a far cento giri per evitare i morti, ci avrebbe presi per ubriachi. Il sole, tramontando, mandava una luce rosea, e le nostre ombre gigantesche danzavano stranamente sul campo di battaglia. Era la fine d'un bel giorno.
Il colonnello scherzava; ma le sue labbra erano increspate dai brividi, il suo riso somigliava ad un singhiozzo. Io prevedevo che presto saremmo caduti per non rialzarci più. Di quando in quando la vertigine ci coglieva, ed allora eravamo obbligati a fermarci chiudendo gli occhi. In fondo alla pianura si vedevano le ambulanze, che apparivano come piccole macchie grigie sulla terra scura.
Urtammo contro un grosso sasso, e fummo rovesciati l'uno sull'altro.
Il colonnello bestemmiò come un turco. Ci provammo a camminare carponi, aggrappandoci ai rovi. Facemmo così un centinaio di metri. Ma il sangue ci usciva dalle ginocchia.
– Basta, – disse il colonnello, stendendosi a terra. – Verranno a raccoglierci, se vorranno. Dormiamo.
Ebbi ancora la forza di rizzarmi a mezzo, e di gridare con tutto il fiato che mi restava. Alcuni uomini passavano da lontano, raccogliendo i feriti; essi accorsero, e ci posero uno accanto all'altro sur una barella.
– Camerata, – mi disse il colonnello durante il tragitto, – la morte non ci vuole. Io vi devo la vita e pagherò il mio debito il giorno che avrete bisogno di me.... Datemi la mano.
Misi la mia mano nella sua, e giunsi così all'ambulanza. Si accesero delle torcie; i chirurghi tagliavano e segavano in mezzo ad urli spaventevoli: la biancheria insanguinata esalava un odore nauseante, mentre le torcie gettavano nelle catinelle dei riflessi d'un rosso cupo.
Il colonnello sopportò coraggiosamente l'amputazione del braccio; solo le sue labbra impallidirono e gli si velarono gli occhi. Quando venne la mia volta, un chirurgo mi visitò la spalla.
– È una cannonata che vi ha fatto questo. – diss'egli; – due centimetri più basso e la spalla se ne sarebbe ita. La carne sola è stata ferita.
E siccome io domandavo all'aiutante, che mi fasciava, se la mia ferita era grave:
– Grave! – mi rispose ridendo, – ci vorranno tre settimane di letto per rifarvi il sangue.
Mi volsi verso il muro per non lasciar vedere le mie lacrime, e scorsi cogli occhi del cuore Babet e lo zio Lazzaro che mi tendevano le braccia.
Le lotte sanguinose della mia giornata d'estate erano finite.
III.
Erano quasi quindici anni che io avevo sposato Babet nella chiesetta dello zio Lazzaro. Noi avevamo domandato la felicità alla nostra cara valle. M'ero fatto coltivatore; la Duranza, mia prima amante, era adesso per me una buona madre che pareva si compiacesse a rendere i miei campi grassi e fertili. A poco a poco, applicando i nuovi metodi di coltura, io divenni uno dei più ricchi proprietari del paese.
Alla morte dei genitori di mia moglie, noi avevamo comperato il viale di quercie e le praterie che si stendevano lungo il fiume. Avevo fatto costruire su quel terreno una casa modesta, che dovemmo ben presto allargare, Trovai il mezzo, ogni anno, di arrotondare le nostre terre con qualche campo vicino. I granai erano troppo angusti per le nostre messi.
Quei quindici primi anni furono semplici e felici. Passarono in una gioia serena, non lasciarono in me che il vago ricordo di una felicità calma e continua. Mio zio Lazzaro aveva effettuato il suo sogno ritirandosi presso di noi; la tarda età non gli permetteva più neppur di leggere ogni mattina il suo breviario; rimpiangeva qualche volta la sua cara chiesa, e si consolava andando a visitare il giovane vicario che l'aveva sostituito. Appena sorto il sole, egli discendeva dalla cameretta che occupava, e mi accompagnava sovente ai campi, godendo dell'aria aperta e trovando la giovinezza in mezzo ai profumi acuti della campagna.
Una sola tristezza ci faceva qualche volta sospirare. In mezzo alla fecondità che ne circondava, Babet era sterile. Benchè fossimo in tre ad amarci, v'erano giorni in cui ci trovavamo troppo soli; avremmo voluto avere fra le gambe una testa bionda, che ci avesse tormentati e accarezzati ad un tempo.
Lo zio Lazzaro aveva una paura terribile di morire prima di essere prozio. Egli era ritornato fanciullo, e si desolava che Babet non gli desse un camerata che giocasse con lui. Il giorno che mia moglie ci confidò, esitando, che ben presto saremmo stati in quattro, vidi il caro zio, tutto pallido, che tratteneva a stento le lacrime. Egli ci abbracciò pensando di già al battesimo, parlando del bambino come se avesse avuto tre o quattro anni.
E i miei passarono in un tenero raccoglimento. Parlavamo tra noi a voce bassa, aspettando qualcuno. Io non amavo più, adoravo Babet a mani giunte, l'adoravo per due, per lei e per il piccino.
Il gran giorno si avvicinava. Avevo fatto venire da Grenoble una levatrice che non abbandonava più il podere. Mio zio viveva fra orribili angoscie; egli non capiva nulla a una simile avventura: giunse persino a dirmi che egli aveva avuto torto di farsi prete e che gli dispiaceva assai di non essere medico.
Un mattino di settembre, verso le sei, entrai in camera della mia cara Babet, che sonnecchiava ancora. Il suo viso sorridente riposava tranquillo sulla tela bianca del guanciale. Mi chinai trattenendo il respiro. Il cielo mi colmava de' suoi beni. Io pensava nello stesso tempo a quella giornata d'estate, in cui agonizzavo nella polvere, e sentivo intorno a me il benessere del lavoro, la pace della felicità. La mia brava moglie dormiva, colla faccia rosea in mezzo al suo gran letto, mentre la camera intiera mi ricordava i nostri quindici anni di tenerezza. Baciai dolcemente Babet sulle labbra. Ella aprì gli occhi e mi sorrise senza parlare. Avevo una voglia matta di prenderla fra le braccia, di stringermela al seno; ma, da qualche tempo, osavo appena premerle la mano, tanto ella mi pareva fragile e sacra.
M'assisi sulla sponda del letto, e le domandai a voce bassa:
– Che sia per oggi?
– No, non credo, – mi rispose ella. – Sognavo di avere un ragazzo; egli era già grande e portava dei superbi mustacchi neri.... Lo zio Lazzaro mi diceva ieri che anch'egli l'aveva veduto in sogno.
Io commisi una grande sciocchezza dicendo:
– Conosco il fanciullo meglio di voi. Lo vedo ogni notte. È una bambina....
Ma vedendo che Babet si volgeva verso il muro quasi piangente, compresi la mia stupidaggine, e mi affrettai ad aggiungere:
– Quando dico una bambina.... non ne sono ben sicuro. Io vedo il fanciullo piccino, piccino, con una lunga veste bianca.... è senza dubbio un maschio.
Babet mi baciò per questa buona parola.
– Va a sorvegliare la vendemmia, – riprese. – Io mi sento tranquilla stamattina.
– Tu mi farai avvisare se avviene qualche cosa?
– Sì, sì.... Io sono stanchissima: dormirò ancora. Non vai mica in collera per la mia pigrizia?
E Babet chiuse gli occhi languente e intenerita. Restai chino su di lei, ricevendo sul viso il soffio tiepido delle sue labbra. Ella s'addormentò a poco a poco senza cessar di sorridere. Sciolsi allora la mia mano dalla sua con precauzioni infinite: lavorai cinque minuti per condurre a bene un'operazione sì delicata. Poi, deposi sulla sua fronte un bacio, ch'ella non sentì, e mi ritirai palpitante, col cuore riboccante d'amore.
Giù nel cortile, trovai in mio zio Lazzaro che guardava con inquietudine la finestra della camera di Babet. Scortomi appena:
– Ebbene? – mi domandò, – che sia per oggi?
Era un mese che ogni mattina egli mi faceva regolarmente la stessa domanda.
– Pare di no, – gli risposi. – Volete venir meco a vedere la vendemmia?
Egli andò a cercare la sua canna, e discendemmo il viale di quercie. Giunti all'estremità, su quel terrazzo che dominava il fiume, ci fermammo ambidue guardando la valle.
Nel cielo pallido, vagavano alcune nuvolette bianche. Il sole co' suoi raggi biondi gettava come una polvere d'oro sulla campagna, che stendendosi tutta ingiallita per la maturità, non aveva più gli splendori nè le ombre energiche dell'estate. Il fogliame indorava, a larghi tratti, la terra nera. Il fiume scorreva più lento, stanco d'aver fecondato i campi durante una stagione. E la valle restava quieta e forte. Essa portava già le prime rughe dell'inverno, ma conservava nei fianchi il calore de' suoi ultimi parti, spiegando le sue forme ampie, spogliata dalle erbacce della primavera, più superbamente bella di questa seconda giovinezza della donna, che ha usato della vita.
Lo zio Lazzaro rimase silenzioso; poi, volgendosi verso di me.
– Ti ricordi, Giovanni? – mi diss'egli. – Più di vent'anni fa, ti condussi qui in una fresca mattina di maggio. Quel giorno ti mostrai la valle che, presa da una folle attività, lavorava intorno ai frutti dell'autunno. Guarda: anche adesso la valle ha finito un'altra volta il suo lavoro.
– Mi ricordo, caro zio, – gli risposi. – Quel giorno avevo una gran paura; ma voi eravate buono e la vostra lezione fu convincente. Io vi devo tutte le mie gioie.
– Sì, tu sei giunto all'autunno, tu hai lavorato ed ora raccogli. L'uomo, figlio mio, è stato creato ad immagine della terra. E, come la madre comune, noi siamo eterni: le foglie verdi rinascono ogni anno dalle foglie secche; io, io rinasco in te, e tu rinascerai ne' tuoi figli. Ti dico ciò perchè la vecchiezza non ti spaventi, perchè tu sappia morire in pace come questa verzura che rinascerà da' suoi proprî germi la prossima primavera.
Ascoltai mio zio, e pensai a Babet, che dormiva nel suo gran letto in mezzo alla tela bianca. La cara creatura stava per partorire ad immagine di questo suolo possente, che ci aveva dato la fortuna. Anch'essa era all'autunno: ella aveva il forte sorriso, l'ampiezza serena della vallata. Mi pareva di vederla sotto il sole biondo, stanca e felice, trovando una generosa voluttà ad esser madre. E io non sapevo più se mio zio Lazzaro mi parlasse della mia cara valle o della mia cara Babet.
Ascendemmo lentamente sui colli. Abbasso, lungo la Duranza, v'erano praterie, larghi tappeti d'un verde fresco; poi venivano terre gialle cui gli ulivi grigi e i magri mandorli tagliavano qua e là in larghi viali; poi, sulle alture, c'erano i vigneti, e i tronchi possenti i cui ceppi cadevano fino a terra. Nel mezzodì della Francia, la vite vien trattata da rozza comare e non da signorina delicata, come nel Nord. Essa cresce un po' a caso, secondo che piace alla pioggia ed al sole. I tronchi, allineati in due ordini, in lunghe file e gettano intorno a sè germogli d'un verde scuro. Negli intervalli, si semina grano e avena. Un vigneto somiglia ad un immenso pezzo di stoffa rigata formata dalla lista verde dei pampini e dal nastro giallo della stoppia. Uomini e donne, accoccolati fra le viti, tagliavano i grappoli d'uva che gettavano subito in fondo a grandi panieri. Noi camminavamo lentamente lungo i viali di stoppia. Quando passavamo, i vendemmiatori, voltando la testa, ci salutavano. Mio zio si fermava talvolta a discorrere coi più vecchi.
– Eh! padre Andrea, – diceva egli, – è matura l'uva, e il vino sarà egli buono quest'anno?
I contadini, levando le braccia nude, mostravano al sole lunghi grappoli neri come l'inchiostro, i cui acini fitti sembravano scoppiare d'abbondanza e di forza.
–Vedete, signor curato, – esclamavano essi, – questi sono i piccoli. Ve n'ha che pesano parecchie libbre. Son dieci anni che non si è veduta una cosa simile.
E si nascondevano di nuovo tra le foglie. Le loro vesti brune si staccavano qua e là sulla verzura, e le donne, col capo coperto e con una sottile pezzuola azzurra al collo, si curvavano cantando. V'erano fanciulli che si rotolavano al sole, fra le stoppie, rallegrando, col loro riso argentino e colla loro turbolenza, quel lavoro all'aria libera. All'estremità del campo grandi carrette immobili aspettavano l'uva; esse si staccavano sul cielo limpido, mentre gli uomini andavano e venivano di continuo, portando i panieri pieni e riportandone i vuoti.
Confesso che, in mezzo a quel campo, fui preso da pensieri d'orgoglio. Sentivo la terra produrre sotto a' miei passi; e la vita matura e onnipotente scorrere nelle vene della vite, ed empiere l'aria del suo libero alito. Un sangue caldo animava la mia carne, mi sentivo come sollevato dalla fecondazione che traboccava dal suolo ed ascendeva in me. Il lavoro di quel popolo di vendemmiatori era opera mia, quelle viti erano mie figlie, quella campagna intiera diventava la mia famiglia copiosa e obbediente. Provavo piacere a sentir i miei piedi sprofondarsi nella terra grassa.
Abbracciai allora collo sguardo i terreni che discendevano fino al fiume: erano miei quei vigneti, quei prati, quelle stoppie, quegli olivi. Vedevo la mia casa bianca presso il viale di quercie; il fiume sembrava una frangia d'argento sull'orlo del gran mantello verde de' miei pascoli. Mi parve, per un momento, che la mia statura si elevasse, che, stendendo le braccia, avrei potuto stringere al seno la proprietà intiera, gli alberi e le praterie, la casa e le terre coltivate.
Ma intanto che continuavo a guardare, vidi nello stretto sentiero che conduceva al poggio, una delle nostre domestiche che correva in modo da perdere il fiato. Ella urtava contro i sassi, trasportata dalla corsa, agitando le braccia, chiamandoci con gesti smarriti. Fui preso da una emozione inesprimibile.
– Zio, zio! – esclamai, – vedete come corre la Margherita.... credo che sarà per oggi.
Lo zio Lazzaro divenne pallidissimo. La domestica era finalmente arrivata alla cima; ella ci veniva incontro saltando al disopra delle viti. Quando fu davanti a me, le mancò il fiato; ella soffocava, premendosi il petto colle mani.
– Parlate, presto, – le dissi. – Che c'è?
Ella mandò un gran sospiro, lasciò andare le mani, e potè finalmente pronunciare questa sola parola:
– La signora....
Non attesi di più.
– Venite, venite presto, zio Lazzaro.... Ah! la mia povera e cara Babet!
E discesi il sentiero con impeto tale da rompermi le ossa. I vendemmiatori, che si erano levati in piedi, mi guardavano a correre e sorridevano.
Lo zio Lazzaro, non potendo raggiungermi, agitava, disperato, la sua canna.
– Eh! Giovanni, che diavolo! – esclamò egli, – aspettami, non voglio giunger l'ultimo.
Ma non intendevo più lo zio Lazzaro: correvo sempre.
Arrivai alla masseria ansante, pieno di terrore e di speranza. Ascesi rapidamente la scala, battei col pugno alla porta di Babet, ridendo, piangendo, chè non avevo più testa. La levatrice si affacciò all'uscio semiaperto per dirmi con aria corrucciata che non facessi tanto strepito. Io rimasi disperato e vergognoso.
– Voi non potete entrare, – aggiunse. – Andate ad attendere nella corte.
– Tutto va bene. – continuò ella. – Io vi chiamerò.
L'uscio si richiuse. Restai ritto davanti ad esso, non potendo decidermi a discendere. Sentivo Babet che si lagnava con voce rotta. Ero ancora là, ch'ella mandò un grido straziante, che mi colpì come una palla in mezzo al cuore. Fui preso da una voglia irresistibile di sfondare l'uscio con una spallata. Per non cedere a questa voglia, mi turai colle mani le orecchie, e mi precipitai come un pazzo giù dalla scala.
Trovai nella corte mio zio Lazzaro che arrivava affannato. Il caro uomo fu obbligato a sedersi sulla sponda del pozzo.
– Ebbene! – mi domandò, – dov'è il bambino?
– Non so, – risposi, – fui mandato via!... Babet soffre e piange.
Ci guardammo, non osando pronunciare una parola. Tendevamo l'orecchio con angoscia: i nostri occhi non abbandonavano la finestra di Babet cercando di vedere attraverso le cortinette bianche. Mio zio, immobile, tremante, appoggiava con forza le mani sulla sua canna; io, preso da febbre, camminavo a gran passi davanti a lui.
Di quando in quando, ci scambiavamo dei sorrisi inquieti. Le carrette dei vendemmiatori arrivavano a una a una. I cesti d'uva erano posti contro uno dei muri della corte, e alcuni uomini, colle gambe nude, pigiavano i grappoli sotto i loro piedi, in tini di legno. I muli nitrivano, i carrettieri bestemmiavano, mentre il vino cadeva con sordo rumore in fondo al tino.
Odori acri si spandevano nell'aria tiepida.
Io camminavo sempre, in lungo in largo, come inebbriato da quegli odori. La mia povera testa scoppiava, pensavo a Babet, guardando a scorrere il succo dell'uva. Dicevo a me stesso con una gioia tutta fisica che mio figlio nasceva nel tempo fecondo della vendemmia, tra i profumi del vino nuovo.
L'impazienza mi torturava, ascesi di nuovo. Ma non osai battere, posi l'orecchio all'uscio e intesi i lagni di Babet che singhiozzava sommessamente. Allora il cuore mi mancò e maledissi il dolore. Lo zio Lazzaro, ch'era asceso adagino dietro a me, dovette ricondurmi nella corte. Egli volle distrarmi; mi disse che il vino sarebbe stato eccellente. Ma egli parlava senza neppure ascoltare sè stesso. Di quando in quando tacevamo ambidue, ascoltando solo, ansiosamente, un lamento prolungato di Babet.
A poco a poco le grida s'affievolirono, non si sentì che un mormorìo doloroso, come una voce di bambino che s'addormenta piangendo.
Poi si fece un gran silenzio, che mi cagionò ben presto uno spavento indicibile. Ora che Babet non si lamentava più, mi pareva la casa ancora più vuota. Stavo per ascendere, quando la levatrice aprì pian piano la finestra. Ella si chinò, e, facendomi un segno colla mano:
– Venite, – mi disse.
Salii lentamente, assaporando, ad ogni scalino, gioie più profonde. Mio zio Lazzaro bussava già all'uscio, che io era ancora a metà della scala, prendendo una specie di strano piacere nel ritardare il momento nel quale avrei abbracciato mia moglie.
M'arrestai sulla soglia che il cuore mi batteva a gran colpi. Mio zio era chino sulla culla. Babet pallida, cogli occhi chiusi, pareva dormire. Dimenticai il bambino, e mi recai diritto a Babet; presi la sua cara testa fra le mie mani. Le lacrime non le si erano ancora asciugate sulle guancie e le sue labbra, ancora frementi, sorridevano bagnate di pianto. Ella alzò a stento le palpebre. Non mi parlò, ma l'intesi dirmi: – Ho tanto sofferto, mio bravo Giovanni, ma ero sì contenta di soffrire! Io ti sentivo in me!
Chinatomi, baciai i suoi occhi, e bevetti le sue lacrime. Ella, ridendo dolcemente, s'abbandonava con un languore carezzevole. La fatica la faceva ancora soffrire, e, sbarazzate le mani dal lenzuolo, mi prese pel collo e avvicinando la bocca al mio orecchio:
– È un maschio! – mormorò con voce debole, ma con aria di trionfo.
Queste furono le prime parole che pronunciò dopo la terribile crisi che l'aveva scossa.
– Sapevo bene che sarebbe un maschio, – continuò, – io vedeva il fanciullo ogni notte. Dammelo, coricalo vicino a me. Mi rivolsi e vidi la levatrice e mio zio Lazzaro che si bisticciavano.
La prima s'affaticava in tutti i modi ad impedire che lo zio Lazzaro prendesse il bambino fra le braccia; egli voleva cullarlo.
Guardai il bambino che la madre m'avea fatto obliare. Egli era tutto roseo. Babet diceva con convinzione che somigliava a me; la levatrice trovava ch'egli aveva gli occhi di sua madre; io non sapevo nulla, ero commosso fino alle lacrime e baciai la cara creatura credendo ancora di baciare Babet.
Deposi il bambino sul letto. Egli mandava dei gridi continui che ci sembravano una musica celeste. Mi assisi sulla sponda del letto: mio zio si adagiò in una gran poltrona, e Babet, stanca e serena, coperta fino al mento, rimase cogli occhi aperti e sorridenti.
La finestra era spalancala. L'odore dell'uva entrava coi tepori d'un dolce pomeriggio d'autunno. Si sentiva lo scalpitio dei vendemmiatori, le scosse delle carrette, lo schioccare delle fruste; e, di quando in quando, il canto acuto d'una domestica, che attraversava la corte. Tutti questi strepiti s'addolcivano nella serenità della camera, ancora commossa dai singhiozzi di Babet. E la finestra disegnava in pieno cielo e in piena campagna un largo tratto di paesaggio. Noi scorgevamo il viale di quercie nella sua lunghezza; poi la Duranza, che, come un nastro di raso bianco, passava in mezzo all'oro e alla porpora del fogliame; mentre sopra quell'angolo di terra, un cielo pallido, azzurro e roseo, levavasi in limpida profondità.
E, nella calma di quell'orizzonte, fra le esalazioni dei tini e le gioie del lavoro e del parto, noi ragionavamo tutti e tre, Babet, lo zio Lazzaro e io, guardando il diletto neonato.
– Zio Lazzaro, – diceva Babet, – che nome darete al fanciullo?
– La madre di Giovanni si chiamava Giacomina, – rispose lo zio, – io lo chiamerò Giacomo.
– Giacomo, Giacomo, – ripetè Babet.... – Sì, è un bel nome.... E, ditemi, che faremo di questo piccolo uomo? Un prete o un soldato? Un signore o un contadino?
– Abbiamo tempo di pensare a questo, – le dissi.
– Ma no, – riprese Babet quasi corrucciata, – egli crescerà presto. Vedi com'è forte; i suoi occhi parlano oramai.
Lo zio Lazzaro pensava assolutamente come mia moglie. Egli rispose in tuono grave:
– Non ne fate nè un prete, nè un soldato, a meno che il ragazzo non ne abbia una vocazione irresistibile.... Farne un signore è cosa grave.
Babet mi guardava ansiosa. La cara donna non aveva ombra d'orgoglio per sè; ma, come tutte le madri, avrebbe voluto essere umile ed orgogliosa davanti a suo figlio. Avrei giurato ch'ella lo vedeva già notaio o medico. Io l'abbracciai e le dissi dolcemente:
– Desidero che il fanciullo abiti la nostra cara valle. Egli troverà un giorno sulle rive del fiume una Babet di sedici anni. Ricordati, amica mia, che la campagna ci ha dato la pace: nostro figlio sarà contadino come noi, felice come noi.
Babet, tutta commossa, mi abbracciò alla sua volta. Ella guardò dalla finestra il fogliame e il fiume, le praterie e il cielo; poi sorridendo:
– Hai ragione, Giovanni, – mi diss'ella. – Questo paese è stato buono per noi e lo sarà anche per il nostro piccolo Giacomo.... Zio Lazzaro, voi sarete il padrino d'un contadino.
Lo zio Lazzaro approvò con un segno di testa stanco ed affettuoso.
Io lo guardavo da qualche momento, vedendo velarsi i suoi occhi e le sue labbra impallidire. Rovesciato sulla poltrona, in faccia alla finestra aperta, egli aveva poste le sue mani bianche sulle ginocchia, e guardava fissamente il cielo in atteggiamento d'estasi raccolta.
– Soffrite, zio Lazzaro? – gli domandai. – Che avete?... Rispondete di grazia.
Egli alzò lentamente una mano, come per pregarmi di parlare più sommesso; poi la lasciò ricadere, e con voce debole:
– Io sono affranto, – diss'egli. – Alla mia età, la felicità è mortale.... Non fate rumore.... mi pare che la mia carne sia diventata leggerissima: non mi sento più le gambe nè le braccia.
Babet, spaventata, si sollevò guardando lo zio Lazzaro. Io mi posi in ginocchio davanti a lui, contemplandolo con ansietà. Egli sorrideva.
– Non vi spaventate, – riprese egli: – Io non provo alcuna sofferenza: una gran dolcezza, un sonno giusto e buono discende in me.... Ne sono preso all'improvviso e ne ringrazio Dio.... Ah! mio povero Giovanni, ho corso troppo sul sentiero del poggio, e il bambino m'ha cagionato troppa gioia.
E siccome, comprendendo tutto, noi prorompevamo in singhiozzi, lo zio Lazzaro continuò senza cessare di guardare il cielo:
– Non guastate la mia gioia, io ve ne supplico.... Se sapeste quanto sono felice di addormentarmi per sempre su questa poltrona! Non ho mai osato di sognare una morte sì consolante. Tutte le mie tenerezze sono qui che mi circondano.... E guardate che cielo azzurro! Dio mi manda una bella sera.
Il sole tramontava dietro il viale di quercie: i suoi raggi obliqui gettavano riflessi d'oro sotto gli alberi che acquistavano colore di vecchio rame. La campagna verde si perdeva da lungi in una vaga serenità. Lo zio Lazzaro s'indeboliva sempre più, in faccia a quel silenzio commovente, a quel placido tramonto che entrava per la finestra aperta. Egli si estingueva lentamente come quel fioco lume che impallidiva sugli alti rami.
– Ah! mia buona valle, – mormorò egli, – tu mi dai un tenero addio.... Io avevo paura di morire d'inverno quando tu sei tutta nera.
Noi trattenevamo le lacrime, non volevamo turbare quella morte sì santa. Babet pregava a voce bassa. Il bambino gettava sempre dei fievoli gridi.
Mio zio Lazzaro intese que' gridi nel sogno della sua agonia. Egli provò a volgersi verso Babet, e, sorridendo ancora:
– Ho veduto il fanciullo, – diss'egli, – muoio ben felice.
Allora egli guardò il cielo pallido, la campagna bionda, e rovesciando la testa mandò un debole sospiro. Nessun fremito scosse il suo corpo; egli fu colto dalla morte come si è colti dal sonno.
Era discesa in noi una tale dolcezza che restammo muti, senza lacrime. Non provavamo che una tristezza serena in faccia ad una morte tanto semplice. Cadeva il crepuscolo: l'addio dello zio Lazzaro ci lasciava confidenti, come l'addio del sole che muore la sera per risorgere la mattina.
Tale fu la mia giornata d'autunno, che mi diede un figlio e che portò seco mio zio Lazzaro nella pace del crepuscolo.
IV.
Gennaio ha mattine sinistre che agghiacciano il cuore. Quel giorno, nello svegliarmi, fui preso da una vaga inquietudine. Durante la notte era sopravvenuto lo sgelo, e quando guardai la campagna dalla soglia della porta, essa m'apparve come un immenso cencio d'un grigio sporco macchiato di fango, forato da strappi.
Una cortina di nebbia nascondeva l'orizzonte. Le quercie del viale ergevano lugubremente, in mezzo a quella nebbia, i loro bracci neri, simili ad una fila di spettri che stessero a guardare l'abisso di vapori che si apriva dietro ad essi. Le terre erano sfondate, coperte di pozze d'acqua, lungo le quali strisciavano brani di neve sucida.
Da lungi, ingrossava la gran voce della Duranza.
L'inverno è sano e vigoroso, quando si ha il cielo chiaro e dura la terra. L'aria pizzica le orecchie, si cammina gagliardi pei sentieri gelati che risuonano sotto i passi con strepiti argentini.
I campi s'allargano, netti e puliti, imbianchiti dal ghiaccio, indorati dal sole. Ma non v'è nulla di più triste, di più noioso del disgelo: io odio le nebbie, la cui umidità pesa sulle spalle.
Rabbrividii sotto quel cielo di rame; m'affrettai a rientrare, deciso a non vedere più i campi per quel giorno. Non mancava già il lavoro nell'interno della masseria. Giacomo era alzato da lungo tempo. Io lo sentiva zufolare sotto una tettoia aiutando alcuni uomini che asportavano sacchi di grano. Il ragazzo aveva già diciott'anni; era grande, robusto, aveva le braccia forti. Egli non aveva avuto uno zio Lazzaro che lo guastasse e gl'insegnasse il latino, e non andava punto a fantasticare sotto i salici della riva. Giacomo s'era fatto un vero contadino, un lavoratore infaticabile che andava in collera quando mi vedeva a far qualche cosa, dicendomi che diventavo vecchio e che dovevo riposarmi.
E, mentre io lo guardavo da lungi, un essere soave e leggero, che mi saltò sulle spalle, mi pose le sue manine sugli occhi, domandandomi:
– Chi sono?
– Sei – risposi – la piccola Maria, che sua madre ha finito appena di abbigliare.
La cara figliuoletta aveva quasi dieci anni, e, da due anni, ell'era la gioia del podere. Nata ultima, in un tempo in cui non credevamo più d'aver figli, ell'era doppiamente amata. La sua salute malsana ce la rendeva più cara. Era trattata da signorina; sua madre voleva assolutamente farne una signora, ed io non aveva il coraggio di contrariarla, tanto la piccola Maria era graziosa colle sue gonnelline di seta ornate di nastri.
Maria non era discesa dalle mie spalle.
– Mamma, mamma, – ella gridava, – vieni a vedermi; io giuoco al cavallo.
Babet, ch'entrava, sorrise. Ah, mia povera Babet, com'eravamo vecchi! Ricordo che noi tremavamo di stanchezza quel giorno, guardandoci con aria triste, quando eravamo soli. Ma i nostri figli ci rendevano la giovinezza.
La colazione fu silenziosa; e fummo obbligati ad accendere la lampada.
La luce rossastra, che si spandeva nella stanza, era d'una tristezza mortale.
– Bah! – diceva Giacomo, – val meglio questa pioggia tiepida, che un gran freddo, il quale gelerebbe i nostri olivi e le nostre viti.
Egli provava a scherzare, ma era inquieto come noi senza saperne il perchè. Babet aveva fatto cattivi sogni. Noi ne ascoltavamo il racconto, ridendo a fior di labbro, ma col cuore oppresso.
– È il tempo, che ci mette addosso il malumore, – diss'io per rassicurar tutti.
– Sì, sì, è il tempo, – si affrettò a riprendere Giacomo. – Metterò qualche sarmento sul fuoco.
Una gioconda fiammata gettò larghi sprazzi di luce sulle pareti.
I ceppi ardenti scoppiettavano, lasciando delle brage color di rosa.
Noi ci eravamo seduti davanti il fuoco; l'aria al di fuori era tiepida, ma in casa, pioveva dai soffitti un'umidità glaciale.
Babet aveva preso la piccola Maria sulle ginocchia, e si divertiva ascoltando il suo cicaleccio infantile.
– Venite, babbo? – mi domandò Giacomo. – Andiamo a visitare le cantine e i granai.
Uscii con lui. I raccolti, da qualche anno, erano cattivi. Noi subivamo gravi perdite; le viti, gli alberi erano sorpresi dal freddo; la grandine stritolava i grani e le avene. Io diceva talvolta che diventavo vecchio, e che la fortuna, essendo donna, non amava i vecchi. Giacomo rideva, rispondendomi che lui era giovane, e che avrebbe fatto la corte alla fortuna.
Io ero giunto all'inverno, alla stagione fredda. Sentivo bene che tutto moriva intorno a me. Ad ogni gioia che se ne andava, io pensavo allo zio Lazzaro, ch'era rimasto sì calmo in faccia alla morte; e domandavo forze alla sua cara memoria.
Verso le tre, il giorno cadde del tutto e noi discendemmo nella sala comune. Babet cuciva colla testa bassa nell'angolo del camino; la piccola Maria, seduta in terra davanti al fuoco, abbigliava gravemente una bambola. Giacomo ed io eravamo occupati a rivedere i conti, seduti davanti ad una scrivania d'acaiú che ci veniva dallo zio Lazzaro.
La finestra era come murata; la nebbia, incollata sui vetri, formava una vera muraglia di tenebre. Dietro a questa muraglia c'era il vuoto, l'ignoto. Solo si elevava nel silenzio un vago clamore, una voce alta che riempiva l'ombra.
Avevamo licenziati gli operai, non tenendo con noi che la vecchia serva Margherita. Quando alzavo la testa e ascoltavo, mi pareva che il podere si trovasse sospeso in mezzo a un abisso.
Nessuna voce umana veniva dal difuori, non udivo che i clamori dell'abisso. Guardavo allora mia moglie e i miei figli, e avevo la vigliaccheria dei vecchi, che si sentono troppo deboli per proteggere quelli che li circondano contro pericoli sconosciuti.
I clamori divennero più rauchi e ci parve che si urtasse alla porta. Nello stesso momento i cavalli della scuderia si misero a nitrire furiosamente, il bestiame mandò muggiti soffocati.
Noi ci eravamo levati tutti, pallidi d'inquietudine. Giacomo si precipitò verso la porta e la spalancò.
Un'onda d'acqua torbida entrò bruscamente e si sparse nella stanza.
La Duranza straripava. Era essa che mandava quel clamore sempre crescente e che si spandeva lontano fin dal mattino. Le nevi si squagliavano sulle montagne, ogni poggio era diventato un torrente, che gonfiava il fiume. La cortina di nebbia ci aveva nascosto quella piena improvvisa.
Sovente, negl'inverni rigidi, al momento del disgelo, l'acqua era salita fino alla porta della masseria. Ma giammai l'onda era cresciuta così rapidamente. Per la porta aperta scorgevamo la corte trasformata in lago; e noi avevamo già l'acqua fino alla noce del piede.
Babet aveva sollevato la piccola Maria, che piangeva stringendo al seno la bambola. Giacomo voleva andar ad aprire la porta delle scuderie e delle stalle, ma sua madre lo tratteneva per le vesti, supplicandolo di non uscire. L'acqua ascendeva sempre. Io spinsi Babet verso la scala.
– Presto, presto, andiamo nelle camere: – esclamai.
E obbligai Giacomo a passarmi davanti restando ultimo ad abbandonare il piano terreno.
Margherita, in preda al terrore, discese dal granaio dove si trovava. La feci sedere in fondo della stanza, vicina a Babet, che rimaneva silenziosa, pallida, cogli occhi supplichevoli. Avevamo messa a letto la piccola Maria; ella non aveva voluto separarsi dalla sua bambola, e s'addormentava placidamente, stringendola fra le braccia. Il sonno della fanciulla mi sollevava; e quando, rivolgendomi, vidi Babet che ascoltava il respiro regolare della sua figliuoletta, dimenticai il pericolo, non intesi più l'acqua che batteva contro i muri.
Ma nè io nè Giacomo potevamo far a meno di guardare in faccia il pericolo. L'ansietà ne spingeva a renderci conto dei progressi dell'inondazione. Noi avevamo spalancato la finestra e ci chinavamo con pericolo di cadere, interrogando la notte. La nebbia, più fitta, si stendeva sull'acqua, trasudando una pioggia fina che penetrava in noi, facendoci rabbrividire. Vaghi riflessi d'acciaio indicavano soli quel tappeto mobile in fondo alle tenebre. Abbasso, nella corte, il fiotto mareggiava, salendo lungo i muri con dolci ondulazioni. E non si sentiva che la collera della Duranza e lo spavento dei cavalli e del bestiame.
I nitriti, i muggiti di quelle povere bestie mi fendevano l'anima.
Giacomo m'interrogava collo sguardo; egli avrebbe voluto tentare di liberarle. I loro gemiti d'agonia divennero ben presto lamentevoli, e si sentì un grande scricchiolio. I buoi avevano rotte le porte della stalla. Noi li vedemmo passarci davanti, trasportati dall'acqua, rotolandosi nella corrente. E disparvero fra lo strepito del fiume.
Allora mi lasciai dominare dalla collera, divenni come pazzo, e minacciai col pugno la Duranza. In piedi, davanti la finestra, la insultai.
– Cattiva! – gridai in mezzo allo schiamazzo delle acque. – Io t'ho amato d'amore, tu sei stata la mia prima amante, e oggi tu mi rovini; tu vieni a scuotere la mia casa, a rubarmi il bestiame. Ah maledetta! maledetta!... Poi, tu m'hai dato Babet, hai passeggiato dolcemente sull'orlo dei miei prati. E io credeva che tu fossi una buona madre, mi ricordavo che lo zio Lazzaro era tenero delle tue acque chiare, e pensavo di doverti riconoscenza.... Tu sei una matrigna, io non ti devo che odio....
Ma la Duranza colla sua voce tonante soffocava il mio grido, e, vasta, indifferente stendeva e spingeva le sue onde colla tranquilla ostinazione delle cose.
Ritornai in camera, andai ad abbracciare Babet che piangeva. La piccola Maria dormiva sorridendo.
–– Non ispaventarti, – dissi a mia moglie. – L'acqua non può sempre salire.... Fra poco, essa si abbasserà senza dubbio.... Non c'è alcun pericolo.
– No, non c'è alcun pericolo, – ripetè febbrilmente Giacomo. – La casa è solida.
In quel momento Margherita, che si era avvicinata alla finestra spinta dalla curiosità della paura, si chinò come pazza e cadde mandando un grido. Io balzai davanti alla finestra, ma non potei impedire che Giacomo saltasse nell'acqua. Margherita lo aveva cullato: egli provava per la povera vecchia una tenerezza di figlio. Al tonfo delle due cadute Babet si levò spaventata colle mani giunte. Ella rimase là, in piedi, colla bocca aperta, colle pupille dilatate guardando la finestra.
Io m'ero seduto sul davanzale di legno, colle orecchie piene del romoreggiar delle acque. Non so da quanto tempo eravamo in tale stupore doloroso, quando una voce mi chiamò. Era Giacomo che si aggrappava al muro sotto la finestra. Gli porsi la mano ed egli risalì.
Babet lo prese con forza fra le braccia. Ora ella poteva singhiozzare e ne provava sollievo.
Non si parlò di Margherita. Giacomo non osava dire che non aveva potuto trovarla, e noi non osavamo domandargli l'esito delle sue ricerche.
Egli mi prese a parte, e mi ricondusse alla finestra.
–Padre mio, – mi diss'egli a mezza voce, – vi sono già più di due metri d'acqua nella corte e il fiume cresce sempre. Non possiamo restar più oltre in questa casa.
Giacomo aveva ragione. La casa si dissolveva, le tavole delle tettoie se ne andavano a una a una. Poi, la morte di Margherita pesava sopra di noi. Babet, angosciata, ci supplicava. Sul letto grande, la piccola Maria, sola, dormiva placidamente colla bambola fra le braccia e col suo bel sorriso d'angelo.
Ad ogni minuto, cresceva il pericolo. L'acqua stava per raggiungere il davanzale della finestra e invadere la camera. E pareva che una macchina da guerra scuotesse la masseria a colpi sordi, profondi, regolari. La corrente doveva investire di fronte la facciata. E non potevamo sperare in nessun soccorso umano.
– I minuti sono preziosi, – disse Giacomo con angoscia. – Ben presto resteremo schiacciati sotto le macerie.... cerchiamo delle tavole, costruiamo una zattera.
Egli parlava febbrilmente. Avrei certo preferito mille volte essere in mezzo al fiume, su poche travi legate insieme, che sotto il tetto di quella casa, che stava per rovinare. Ma dove prendere le travi necessarie? Strappai con rabbia i piani degli armadi: Giacomo ruppe i nobili. Levammo le imposte, tutti i pezzi di legno che potemmo trovare. E, sentendo ch'era impossibile di utilizzare que' rottami, li gettavamo furiosi in mezzo alla camera, continuando a cercare.
La nostra ultima speranza se ne andava: comprendevamo la nostra miseria e la nostra impotenza. L'acqua saliva; la voce rauca della Duranza ci chiamava incollerita. Allora, io scoppiai in singhiozzi, presi Babet fra le mie braccia frementi, e supplicai Giacomo di venire presso di noi. Volevo che morissimo tutti in uno stesso abbraccio.
Giacomo era ritornato alla finestra. E all'improvviso:
– Padre! – gridò, – siamo salvi!... Vieni a vedere.
Il cielo ci voleva bene. Il coperto d'una tettoia, strappato dalla corrente, era caduto davanti la finestra. Largo parecchi metri, esso era fatto di travi leggere e di stoppia; restava a galla e doveva formare una zattera eccellente. Giunsi le mani: avrei adorato que' legni e quella paglia.
Giacomo saltò sul tetto dopo averlo fortemente legato. Egli camminò sulla stoppia, rassicurandosi della solidità di ogni sua parte. La stoppia resistè; noi potevamo avventurarci senza timore.
– Oh esso ci porterà tutti benissimo, – disse Giacomo allegramente. – Vedi come affonda poco nell'acqua. Il difficile sarà dirigerlo.
Egli si guardò intorno e afferrò, nel loro passaggio, due pertiche che erano trasportate dalla corrente.
– Ah, ecco i remi, – continuò egli.... – Padre, tu ti metterai di dietro, io davanti, e condurremo facilmente la zattera. Non vi sono neppure tre metri di fondo.... Presto, presto imbarcatevi: non bisogna perdere un minuto.
La mia povera Babet si sforzava di sorridere. Ella avviluppò delicatamente in uno scialle la piccola Maria: la fanciulla s'era svegliata, e, piena di spavento, ella serbava un silenzio interrotto da profondi sospiri. Misi una sedia davanti la finestra e feci montare Babet sulla zattera. E tenendola nelle mie braccia, la baciai con dolorosa emozione, poichè sentivo che quello era un bacio supremo.
L'acqua cominciava a scorrere nella camera, e noi avevamo i piedi bagnati. M'imbarcai l'ultimo; poi slegai la corda. La corrente ci teneva fissi al muro; convenne usare precauzioni e sforzi infiniti per allontanarci dal podere.
A poco a poco la nebbia era sparita. Poteva essere mezzanotte quando partimmo. Le stelle apparivano ancora velate; la luna, quasi all'orlo dell'orizzonte, mandava una luce simile a quella d'una languida aurora.
L'inondazione ci apparve allora in tutto il suo orrore grandioso. La valle era divenuta fiume. Da un colle all'altro, fra le masse oscure della coltivazione, la Duranza passava enorme, sola, vivente nell'orizzonte morto, romoreggiando con voce sovrana, conservando nella sua collera la maestà del suo slancio colossale. In alcuni siti emergevano gruppi d'alberi i quali spargevano di chiazze nere quel pallido tappeto. Riconobbi dinanzi a noi le cime delle quercia del viale; la corrente ci spingeva verso que' rami ch'erano per noi altrettanti scogli. Intorno alla zattera galleggiavano rottami, pezzi di legno, botti vuote, fasci d'erbe: il fiume trascinava le ruine fatte dalla sua collera.
A sinistra, scorgevamo i lumi di Dourgues che splendevano qua e là, nelle tenebre. Non pareva che l'acqua avesse dovuto ascendere fino al villaggio; le sole terre basse n'erano invase. Presto dovevano giungerci soccorsi. Interrogavamo i lumi che si riflettevano nell'acqua; ad ogni istante credevamo udire un tonfo di remi.
Eravamo partiti alla ventura. Appena la zattera fu in mezzo alla corrente, perduta nell'abisso del fiume, l'angoscia ci assalì di nuovo e ci pentimmo quasi d'aver abbandonato il podere. Voltandomi indietro, guardai la casa che restava sempre in piedi, grigia sull'acqua bianca. Babet, accoccolata in mezzo alla zattera, fra le stoppie, colla piccola Maria sui ginocchi, premeva la testa della fanciulla contro il suo petto per nasconderle l'orrore delle acque: tutt'e due ripiegate, curve in un abbraccio, come impicciolite dalla paura. Giacomo, in piedi sul davanti, s'appoggiava con tutta la sua forza sulla pertica; egli ci gettava di quando in quando un rapido sguardo: poi si rimetteva silenziosamente all'opera. Io lo secondava del mio meglio, ma i nostri sforzi per guadagnare la riva, erano inutili.
A poco a poco, e quantunque profondassimo le pertiche nel fango in modo da romperle, noi eravamo tratti in balìa dell'acqua; una forza, che sembrava venire dal fondo, ci spingeva al largo. Lentamente, la Duranza s'impadroniva di noi.
Accaniti nella lotta, bagnati di sudore, esasperati, noi ci battevamo col fiume come con un essere vivente, cercando di vincerlo, di ferirlo, di ucciderlo. Esso ci stringeva fra le sue braccia gigantesche, e le pertiche divenivano, nelle nostre mani, armi che noi gli immergevamo rabbiosamente nel cuore. Esso ruggiva, e ci gittava nel viso la sua bava; esso si contorceva sotto i nostri colpi. Coi denti stretti, noi resistevamo alla sua vittoria; non volevamo esser vinti. Provavamo una voglia pazza d'accoppare il mostro, di calmarlo a forza di pugni. Lentamente, noi andavamo al largo. Eravamo già all'ingresso del viale di quercie: i rami neri fendevano l'acqua e la squarciavano con rumori lamentevoli. La morte ci attendeva forse là, al primo urto. Gridai a Giacomo di entrare nel viale e di seguirlo appoggiandosi ai rami. Ed è così che passai un'ultima volta in mezzo a quel viale di quercie dove s'era rallegrata la mia giovinezza e la mia virilità. In quella notte terribile, sull'abisso che urlava, pensai allo zio Lazzaro e vidi le belle ore della mia vita sorridermi tristamente.
All'estremità del viale, la Duranza trionfò. Le pertiche non toccarono più il fondo e l'acqua ci portò con sè nello slancio furioso della sua vittoria. Ed ora essa poteva fare di noi ciò che più le piaceva. Non lottavamo più: discendevamo con una rapidità spaventevole. Grosse nuvole, simili a cenci sudici e bucati, si trascinavano pel cielo: poi, quando la luna si nascondeva, regnava una lugubre oscurità. Allora precipitavamo nel caos. Flutti enormi, neri come l'inchiostro e somiglianti a dorsi di pesci, ci portavano vorticosamente in giro. Io non vedevo più Babet, nè i miei figli: mi sentivo di già in preda alla morte.
Non so quanto durasse questa corsa suprema. D'improvviso, apparve la luna, l'orizzonte si rischiarò. A quella luce, scorsi in faccia a noi una massa nera che sbarrava il cammino, e verso la quale noi eravamo spinti dalla violenza della corrente. Eravamo perduti; andavamo a rompere su quello scoglio.
Babet s'era levata ritta in piedi e mi porgeva la piccola Maria.
– Prendi la fanciulla, – esclamò.... – Lasciami, lasciami!
Giacomo aveva già afferrata Babet; e, con voce forte:
– Padre, – diss'egli, – salvate la piccina.... io salverò mia madre.
La massa nera ci stava davanti: credetti riconoscere un albero. L'urto fu terribile, e la zattera, spezzata in due, seminò la sua paglia e le sue travi nel turbine dell'acqua.
Caddi, stringendo forte la piccola Maria. L'acqua ghiacciata mi ridonò tutto il mio coraggio. Risalito alla superficie del fiume, tenni salda la fanciulla, me la coricai a mezzo, sul collo, e cominciai a nuotare penosamente. Se la piccina non fosse svenuta, s'ella si fosse mossa, saremmo rimasti ambidue nel fondo dell'abisso.
Ma intanto che nuotavo, un'ansia mi stringeva la gola. Chiamavo Giacomo, cercavo di veder lontano, ma non udivo che il muggire, non vedevo che la superficie pallida della Duranza. Giacomo e Babet erano in fondo. Ella gli si era certo attaccata, l'aveva trascinato in una stretta mortale. Che atroce agonia! Avrei voluto morire; mi sprofondavo lentamente, stavo già per trovarli sotto l'acqua nera; ma quando il flutto toccava la faccia della Maria, lottavo di nuovo con un'energia selvaggia per avvicinarmi alla riva.
È così che abbandonai Babet e Giacomo, disperato di non poter morire com'essi e chiamandoli sempre con voce rauca. Il fiume mi gettò sulla ghiaia, come un fascio d'erbe abbandonato nella sua corsa. Quando ripresi i sensi, strinsi fra le braccia mia figlia che riapriva gli occhi. Nasceva il giorno. Era finita la mia notte d'inverno: terribile notte che era stata complice dell'assassinio di mia moglie e di mio figlio.
A quest'ora, dopo anni di pianto, mi resta un'ultima consolazione. Io sono l'inverno gelato, ma sento trasalire in me la prossima primavera. Mio zio Lazzaro lo diceva: Noi non moriamo mai. Ebbi le quattro stagioni, ed ecco che ritorno alla primavera, ecco che la mia cara Maria ricomincia le gioie eterne e gli eterni dolori.
FINE.
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