Niccolò Palmeri
Calendario dello agricoltore siciliano

XXX. sulla coltivazione degli ulivi in sicilia.

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XXX.
sulla coltivazione degli ulivi in sicilia.

Sin dall’età più remota l’ulivo è cresciuto nei campi nostri in tale copia, che dice taluno essere stato dato dai primi Greci che qui stanziarono il nome di Sikelia a quest’isola pel fico e per l’ulivo, che da per tutto trovavano: e nei felicissimi tempi di appresso, Diodoro narra che tutto il tenere di Agrigento era piantato ad ulivi, onde traea la principale ricchezza quella opulentissima città. Anche ai nostri da per tutto è ulivi: ma in poche contrade si coltiva in modo da trarne gran profitto, anzi questa ricca produzione è spesso vergognosamente trascurata.

Non è raro il caso di vedere in Sicilia vasti poderi gremiti di oleastri così grandi, che ulivi sembrano a chi non è da presso, i quali servono solo ad aduggiare il suolo, che però non altro profitto che un po’ di pascolo. Vi ha in alcuna contrada boschi d’ulivi, i quali, pei rovi e per gli arbusti selvatici d’ogni maniera. son divenuti impenetrabili all’uomo; la maggior parte delle ulive, che sopravanzano al pasto degli uccelli e dei topi, si riproducono, e rendono sempre più folta la macchia, divenuta covile di lupi sicurissimo; onde quelle fiere si son moltiplicate a segno che, nelle mandre dei dintorni, si calcola da rio in buono un trenta per cento la perdita delle pecore divorate in ogni anno. In tutti i miglioramenti che potrebbero farsi nell’agricoltura siciliana, e non si fanno, i proprietarii sono scusabili per la mancanza di capitali: in questo però la loro incuria è proprio mellonagine; dacchè, lungi dall’esser necessario alcun capitale, un gran guadagno potrebbero avere dal miglioramento stesso; tanta copia di legno potrebbero essi trarre dall’innestare e diradare quei boschi.

Diradati ed innestati tali uliveti, non hanno mestieri di coltivazione: gli ulivi nati spontanei in terreno sodo, vi vengon bene, purchè distassero l’un dall’altro, in modo che le radici potessero spandersi, e liberamente vi circolasse l’aria, la quale serve quanto la terra al nutrimento degli alberi, e più di essa alla loro fruttificazione. La mano dell’uomo non deve impiegarvisi in altro, che a ripulirli dai seccumi e dai polloni selvatici che vengono su dal pedale, e potarli quando fa d’uopo.

Non è lodevole il seminar frumento od altra biada in tali uliveti: si perde del frutto degli alberi più che non si guadagna nel prodotto della terra. Assai più rea è la pratica di bruciar la seccia dopo segate quelle biade; la fiamma inaridisce le radici superficiali degli alberi, e ne dissecca in modo la corteccia, che presto screpola, ond’essi intristiscono.

Gli ulivi poi da porsi in terren coltivo ricercano altre cure. Non accade far parola del modo di aver polloni in copia e di buona specie, avendone fatto cenno l’anno scorso: è bene solo avvertire, che gli ulivini si pongano alla distanza d’un sessanta palmi l’un dall’altro, in file regolari, in modo che in tutte le direzioni formano linee rette, ciò che i Francesi dicono a quinconce. Perchè poi gli ulivi presto e bene attecchiscano, si pianti con essi (e meglio prima) il suolo a vigna: la coltivazione di questa serve al rapido crescer di quelli; il podere non lascia di dare un prodotto, finchè cominciando a fruttificare gli ulivi, la vigna di per vien meno.

Columella riferisce l’antico adagio degli agricoltori romani: Qui arat olivetum, rogat fructum; qui stercorat, exorat; qui caedit, cogit. In queste poche parole è compreso quanto può dirsi intorno alla coltivazione degli ulivi: zapponare, concimare, potare: ecco tutto.

Si zapponano gli uliveti verso il solstizio d’inverno; e questo lavorio dev’essere assai profondo, perchè le pioggie iemali penetrino a saziare le più profonde radici degli alberi.

Sarebbe da imitarsi la pratica degli antichi Romani, i quali scavavano come una fogna al pedale dell’ulivo, e dalla parte più elevata del suolo vi facevano uno o più solchi di scolo. Per tal modo, non solo le acque piovane erano tutte assorbite, ma trasportavano in quelle fogne tutto il fiore della terra, misto alle sostanze animali e vegetabili sparse nella superficie del suolo; e cumulavasi però nel pedale degli alberi una pinguissima belletta; onde ne venian concimati con poca spesa.

Ciò e’ lo chiamavano oblaqueare oleas. Il secondo lavoro è poi da farsi, avanzata la primavera, per estirpare e far sovescio di tutte l’erbacce.

Utile poi oltremodo è il seminare a civaie ben concimate l’uliveto. Gli alberi si giovano così della coltivazione e del concio; e l’agricoltore si rifà d’una spesa, che senza di ciò sarebbe perduta. Ma come raccettare tanta quantità di concime? È questa la difficoltà di coloro che per concimi intendono il solo fimo; e questo stesso poco studiano a raccorlo e niente a curarlo, onde accrescerne l’attività e la quantità. In tali non vasti oliveti, in cui non è bestiame, l’agricoltore deve in altra guisa procurarsi il letame. Spazzando le strade di alcuna città o villaggio vicino, può ogni giorno raccogliersene gran copia: la melma lungo le strade di campagna più frequentate è ingrasso efficace: la morchia stessa delle ulive è un concio così potente, che sparsa sola ne’ campi, l’inaridisce come l’urina; ma postovi entro a macerare strame, tritume di paglia o di fieno, le frondi stesse dell’ulivo e d’altri alberi, e mista a terra calcare, può usarsi con sommo profitto.

I Romani dicendo che col potare gli ulivi si forzavano a dar frutto, intendevan mostrare che, malgrado lo zappare e il concimare, può ben accadere che l’ulivo non fruttifichi; ma è impossibile che sterile rimanga, ove sia ben potato. Da noi si pecca intorno a ciò in due modi: o si trascura affatto questa interessantissima operazione, o gli alberi si potano all’impazzata, tagliando spesso i rami madornali, che dovrebbero lasciarsi, e lasciando quelli che sarebbero da recidere. «L’arte di ben potare gli ulivi, dice savissimamente il Gandolfi, non consiste in altro che nel tenere sgombrato l’ulivo di qualunque siasi specie, da’ rami o mal cresciuti, o languidi, o quasi secchi; e nel diradar l’albero in maniera da poter essere ben dominato dal sole e dall’aria in ogni sua parte interna ed esterna, affinchè non vi sia neppure un ramo, il quale nel decorso del giorno non goda i benefici influssi dei raggi solari diretti o riflessi.» (Saggio teorico-pratico sopra gli ulivi. Sez. 1a cap. 7, § 116). Nell’eseguire poi la potazione, deve il potatore avvertire a fare il taglio sempre perpendicolare, a ben affacciarlo, e poi coprirlo con argilla stemperata colla bovina, che i Francesi chiamano unguento di S. Fiacre. Queste precauzioni sono del massimo rilievo; perchè tendono ad impedire che, l’acqua ristagnando sulla ferita, vi formi un principio di putrefazione, che in men non si crede, renderebbe cavernoso il tronco. Avverta poi il potatore a recidere tutti i polloni che vengon su dalla ceppaja; e ovunque vede sugli alberi alcun principio di carie, lo ripulisca, tagliando sino al vivo, e poi vi soprapponga l’unguento.

Malgrado lo zapponare, il concimare e il potare gli ulivi, le speranze dell’agricoltore possono andar fallite per la cattiva maniera di raccorre le ulive. Il metodo più comune intorno a ciò in Sicilia è quello di far flagellare l’uliveto da una mano di manigoldi, i quali con lunghe pertiche danno colpi da ciechi sugli alberi, ne fanno cadere gli ulivi. Non possono esprimersi a parole le tristi conseguenze di questa barbara pratica. L’ulivo è un di quegli alberi che producono il frutto in sulle messe vecchie. La pipita che spunta in sui rami madornali mignola l’anno appresso. Ora il violento perticare fa necessariamente cadere tutta quella pipita; onde l’albero nell’anno seguente, in vece di migliorare, deve riprodurre la pipita, e però resta per quell’anno infruttifero. Da Columella sino a noi non v’ha scrittore d’agricoltura, che non attribuisca principalmente a ciò l’alternativo fruttificare degli ulivi.

Ma il male non si arresta . Le tante percosse fanno cadere tutte le fronde esterne dell’albero, e troncano le parti estreme dei rami; onde l’albero, invece di vestirsi di lunghe e copiose vermene, le quali portano la maggior copia d’ulivi, si para d’ogni intorno di seccumi, cagionati dall’esserne state sfrondate e maltrattate le parti più delicate, e diventa arsiccio, intristito, cagionevole.

Gandolfi raccomanda la pratica comune, com’ei dice, nel Genovesato ed altrove, di raccorre le ulive, scuotendo fortemente i rami dell’albero, ed in ciò siam d’accordo. Ma non so quanto sia da prestargli fede, ove dice che in quei paesi si lascian le ulive sugli alberi sino al principio della primavera, e si comincia a raccorle dal 1 aprile per tutto giugno ed anche luglio: ed assai fatti adduce per provare che, più tardi si colgon le ulive, più si guadagna nella quantità e qualità dell’olio. Senza porre ad esame la verità o il sano criterio di questo scrittore, altronde di gran peso, possiamo francamente dire che in Sicilia, passato dicembre, le ulive sono in maggior parte cadute, per la scossa de’ venti, che in autunno non mancano mai. In Cefalù e nel vicino paese si costuma di non coglier le ulive, ma raggranellarle in terra come via via vengon cadendo: ma esse non durano sugli alberi al di di febbrajo. Ora è da considerare che questo sistema porta seco due gravi inconvenienti: 1. Gli uliveti bisognano zapponarsi dal marzo in poi; che se si zapponassero e letamassero in gennaio, le ulive cadendo in un suolo coltivato, concimato, acquitrinoso, sarebbero perdute; 2. Siccome da gennaio in poi poche ulive restan sull’albero, pochissime diariamente se ne trovano cadute, le quali non pagherebbero certo la spesa degli animali e degli uomini impiegati al frattoio ed al torchio; onde bisogna conservarle lungo tempo, e poi trarne l’olio o a dir meglio la sentina. Il lasciar poi le ulive sugli alberi sino al principio della primavera è nocevole alla ventura produzione. Qualunque frutto finchè resta sull’albero ne trae nutrimento: ora se gli ulivi devono nutrire ancora i frutti dell’anno antecedente nella stagione in cui si dispongono già a preparare la nuova generazione, questa dev’essere imperfetta, essi non possono ben mignolare, per la ragione stessa per cui negli animali le madri che allattano ingravidano men facilmente delle altre.

Per tali ragioni noi crediamo non esservi pratica più lodevole intorno a ciò di quella tenuta da quei pochi che in Sicilia coltivano con diligenza gli uliveti e studiano a trarre olio perfetto.

Essi da settembre a dicembre impiegano ragazzi per raggranellare le ulive che cadono, e come in quella stagione i venti sono impetuosi e le ulive mature, alla fine di dicembre poche ne restano sugli alberi, le quali si fanno cadere da uomini che salgono o s’inerpicano sull’ulivo, o scoccolandole, o scotendo i rami, o picchiando con una canna su di quelli, cui non giunge la mano.

Raccolte poi le ulive, per qua’ modi può ottenersene l’olio di ottima qualità? Il gran segreto intorno a ciò si riduce a due cose: 1. Non fare che le ulive soffrano alcun principio di fermentazione, onde nasce il rancido; 2. Usare la massima nettezza in tutto ciò che serve alla manifattura e conservazione dell’olio; onde esso non contragga (e facilissimamente può contraerlo) alcun cattivo odore.

Si ripara al primo inconveniente con macinare le ulive senza conservarle a lungo, e molto meno ammonticchiarle. Ove accada che si raccolgano tal quantità di ulive, che non possono macinarsi in un giorno, si mettano in un tavolato ben ventilato e vi si stendano in modo che l’altezza dello strato non oltrepassi le tre once. In tale stato possono dimorare da una settimana senza danno. La pulitezza poi deve cominciare dall’anno antecedente. Appena terminata la raccolta dell’olio, si lavino con ranno il torchio, il frattoio, le gabbie, le tinozze, tutte le stoviglie, e fino il pavimento della stanza, e il tavolato ove sono state le ulive. Nel corso del raccolto si lavino ogni sabato sera le gabbie e le stoviglie. Per la ragione stessa gli orci si lavino appena cavatone l’olio, e poi si tornino a lavare prima di riporvene del nuovo: meglio è poi averne de’ nuovi almeno ogni due anni.

Questi pochi cenni mostrano agli agricoltori il mezzo di trarre il massimo profitto dell’uliveto: ma l’uliveto ben posto e ben coltivato è un oggetto di delizia, come lo è qualunque podere, la cui coltivazione sia ben diretta: Agro bene culto, disse Cicerone, nihil potest esse nec usu uberius, nec specie ornatius.

 

XXXI.
sulle pecore.

È già qualche anno, si cennò da noi la maniera onde migliorare la razza delle nostre pecore. Noi lo ripetiamo: se prima cotesta razza grossolana, magra ed infiacchita non cederà il campo al nobile, al robusto, al vigoroso merino; è un volere sognare il darsi a credere che le bestie lanute formino, come lo possono e come lo sono oltremonti, uno del primi fondi della ricchezza nazionale; ma rimarranno sempre in uno stato d’avvilimento, atto piuttosto a portare partita di scapito, che di rendita ai possidenti. Eppure, dopo la bella spinta avutane dalla introduzione dei merini nella greggia di S. M., nessuno si diede a seguirne l’esempio; e nessuno o pochi hanno messo a profitto i montoni che facilmente avrebbero potuto acquistarne per coprire le proprie pecore. — Crediamo noi dunque che una minuta istruzione sul governo di questi animali tornerebbe immatura all’epoca presente; e riuscirebbe soltanto di qualche interesse, quando la loro condizione divenisse di qualche conto ancor essa, quando la vecchia razza si verrà generalmente smettendo, e da per tutto si farà luogo alla nuova. Ma coteste mandre medesime, che i nostri proprietari durano a mantenere, e che costituiscono uno dei primi rami nella nostra, qualunque siasi, industria agraria, sono poi allevate alla meglio? Non hanno poi dei bisogni, a cui si trascuri di provvedere? Consideriamola un poco la condizione di questo infelice animale, ridotto oramai in istato da eccitare vera compassione; e toccando i sommi capi d’una materiavasta, cerchiamo, non già d’istruire i mandriani in tutto ciò che fa parte del loro mestiere, ma di additare, ora quelle nuove pratiche che si potrebbero con vantaggio sostituire alle vecchie, ora quelle attenzioni che il pecorajo potrebbe usare e non usa per l’esatto custodimento della sua greggia.

Vadasi dunque in uno di questi ovili destinati ad accogliere parecchie centinaia di pecore in tempo di notte: lasciando stare che la mandra allo spesso si adagia al dosso di un poggio, o di un fracido casolare, ove la notte la coglie, od ove torna più acconcio al guardiano. — La loro volta è quella stessa del cielo; e rovescino pure le più terribili piogge, ciò nulla rileva; quello è l’asilo del gregge, bisogna che pigli sonno. Quattro sfatte muraglie ne chiudono il recinto (e non sempre), per guardarlo, se pure è vero, dagli assalti dei lupi. Il che poco sarebbe, se il suolo ineguale, e zeppo di tante sporcizie, non fosse un fango eterno, che consuma la salute delle bestiuole, le quali perdon così buona parte della lana, o meglio direbbesi del pelo, onde vanno rivestite.

Non istiamo già noi per coloro che amerebbero tenere al chiuso continuamente le pecore. Sa tutto il mondo che lasciarle a cielo libero, per una gran parte dell’anno, è loro, se non utile, anche menomamente dannoso. Ma tutti sanno ancora, o dovrebbero sapere, che sebbene esse paiano dalla natura fatte a non patire disagio da’ freddi più sottili; pure ricevono non picciolo danno dall’umido e dalle brinate: e che quando i loro velli s’insuppano d’acqua, il freddo le soprappiglia, e reprime l’ordinaria loro traspirazione, e lor procaccia delle malattie il più delle volte incurabili.

Qui dunque si desidera che facciansi ricoverare dalle piogge smodate, ed anche con delle sole tettoie: ma in luogo a sufficienza spazioso, perchè non vi si trovino troppo fitte: in luogo al più che si possa eminente, perchè non vi respirino un aere guasto; e chiuso almeno da un lato con forte ed alto muro, perchè le bestie vi si riparino, quando il vento trasportando la pioggia rende inutile le sole tettoie, e perchè intanto si dia libero tragitto alle correnti dell’aria: si desidera finalmente che il suolo di questi ricoveri sia ben asciutto, e coverto di conveniente lettiera, la quale si rifaccia di tanto in tanto. — Ed ecco a che poi si riduce il più sicuro, il più agiato ed il più salubre ricovero, che possa bastare alle pecore in tutti i luoghi ed in tutti i tempi.

Sappiamo noi bene che nell’attuale posizione delle nostre mandre, questa che pure sembra una piccola ed utile novità, si rende oltremodo difficile. Generalmente in Sicilia s’aderba il gregge di ciò che la natura concede in un tratto di terreno, sia proprio, sia preso a fitto. E poichè la germinazione delle piante spontanee è tutta affidata al caso, ne segue che il pascolo, oltrechè non vi si trova mai quando quanto lo desidera il mandriano, a poco tempo vien meno, e la greggia è costretta di passarsene altrove. Come dunque, dirà taluno, pretendere che le si dia un ricovero di questa fatta? Bisognerebbe averne tanti apparecchiati, quanti sono i varii campi ov’essa è condotta a pascere.

E noi rispondiamo, che bisognerebbe soltanto aver la fortuna di convincere i proprietarii ed i fittaiuoli dei vantaggi che potrebbero ricavare dal mutare questa maniera di pascoli. Per qual ragione l’agricoltore, padrone insieme di terreno e di pecore, dee farsi schiavo della natura, ed aspettare da essa un nutrimento scarso e mal sicuro per la sua mandra; quando con poca spesa, e molto utile, potrebbe forzarla ad apprestarglielo abbondante e sicuro?

Non occorre metter parola della maniera di formare le così dette praterie naturali, occorre dilungarci a mostrarne i vantaggi. Diremo piuttosto, che tutti coloro i quali, o per incuria, per calcoli mal fondati, ne vogliono sconoscere l’utilità, non hanno poi che ridire intorno ai prati artifiziali. Che costa il gittare insieme all’orzo o al frumento il seme di un buon foraggio, per esempio la sulla, come altri ha saggiamente proposto? La quale, lungi dal disservire la vegetazione delle biade, con cui si semina, germoglierà lentamente, difesa dai forti calori, e come quelle verranno segate, si leverà in maniera da tornare floridissima in autunno. Frattanto s’avrà così una pastura, senza paragone più rigogliosa, più nutrichevole, più digeribile di quella che viene spontaneamente per li semi lasciati cadere sulla terra dagli uccelli, da’ venti e da simili cause accidentali: ed assai ne guadagnerà lo stesso terreno, essendo i prati artificiali un bel modo di prepararlo a ricevere il frumento. Si aggiunga che potrebbe esser questa una speculazione utilissima a coloro che hanno terre e non mandre, e che usano allogarla a pascolo dopo la raccolta: giacchè il pascolo così formato si terrebbe in più pregio, ed il fitto sarebbe maggiore. Così verrebbero anche a giovarsi delle praterie artifiziali i piccioli pecorai che pascono le loro pecore ne’ poderi altrui. — Ottimo è poi sempre compartire una larga tenuta in diverse parti, chiuse da siepi od altro, sulle quali vada successivamente passando la greggia: sicchè mentre l’erba d’una parte si pascola, quella di un’altra risalga in vigore, e l’animale non consumi, calpestando, in un giorno quello che mangiato avrebbe in una settimana.

Che se pure vuolsi continuare a riguardare tutto questo come una frivola novità, s’abbiano almeno quelle cure che fa bisogno usare, qualunque fosse il sistema dei pascoli. Guardarsi di non gravare il fondo con un numero d’animali, maggiore che la sua possibilità di nutrirli; non aggreggiare le pecore molto per tempo, e non metterle all’erba che ancora è pregna di guazza: procurare che non s’accostino a’ terreni acquosi, ove s’impinguano prestamente, e si dispongono a vivere attaccate dalla marciaja; e nel tempo che il campo è sparuto, dar loro sempre una manciatella straordinaria, sia di potatura, sia di granella, di radiche, di farinacei, sia anche di quei seccumi e di quelle frasche che si lasciano inutilmente perire nei campi e nelle strade. Infinite sono insomma le attenzioni che si vogliono usare sul fatto della pastura.

«L’uso dei pascoli (dice Tessier, parlando dello stabilimento di Rambouillet) è colà subordinato talmente alla stagione, alla temperatura, all’ora del giorno, agli alimenti che le bestie trovano nelle stalle, ed a varie altre circostanze; che si prevengono tutti i pericoli, necessariamente provvenienti da una poco provvida, poco istruita amministrazione. Vi sono dei pezzi di terreno non mai tocchi dalla mandra all’uscire dell’ovile; degli altri, per cui non fa che passare; in alcuni è condotta soltanto nei giorni umidi, altrove soggiorna in tempo di gran siccità; questo campo può servire di pascolo al mattino, quello soltanto dopo il mezzogiorno

Una pratica di sommo conto, e pure inusitata fra noi, salvo che ne’ poderi reali, è quella dello stabbiare le terre. Così si chiama un’operazione rurale, per la quale racchiudesi di notte una mandra di pecore entro un recinto scoperto, e limitato da reti, vimini, o altro; acciocchè lo fecondi cogli escrementi. Lo stabbiare è non solo proficuo nelle praterie, ma oltremodo pregiabile nelle terre da frumento: perchè la pecorina è preferibile ad ogni altro ingrasso, e lo stabbio è poi da preporsi alla pecorina dell’ovile; essendo l’orina e l’untume della lana più efficaci che il semplice sterco, per acconciare le terre. Infatti i terreni stabbiati si lascian distinguere a primo colpo, fra quelli concimati altrimenti, per la uguaglianza e la bellezza delle loro produzioni.

Sarebbe perciò lodevolissimo far luogo a questa pratica anche fra noi, che risparmia la pena e la spesa del trasportare i letami, e tira direttamente a migliorare i prodotti della terra. Converrebbe usare la diligenza di dare due rivoltature al terreno prima di introdurvi la mandra, e rivoltarlo anche dopo, affinchè lo ingrasso non rimanga intieramente a fior di terra. L’estensione dell’agghiaccio e la durata dello stabbio siano in ragione della quantità delle bestie e dell’ingrasso che al campo fa di bisogno; dimodochè, concimato bene un pezzo di terreno, si passi immantinente in un altro, procurando che il fondo riceva da per tutto ugualmente la stessa quantità di ingrasso. È poi da avvertire che non si dia mano allo stabbio senza esser sicuri di avere una copiosa pastura, giacchè è quella l’epoca in cui le pecore manifestano il doppio dell’appetito ordinario.

Ma per venire un po’ più da presso al mandriano, quello che segnatamente lo dee distinguere è la condotta che egli ha da tenere nella gravidanza e nel parto delle sue bestie. Sventuratamente appo noi si suppone che in tal circostanza la pecora non abbisogni neppure di un’occhiata particolare; e non solo si trascura di darle qualche tempo innanzi del parto un po’ d’avena o di piselli, o di fave ec., si usa l’accuratezza di sceverare dal branco le bestie pregne, e menarle a pascolo separato: ma si pone, diremmo, ogni studio per ridurle a sconciarsi. Vero è bene che esse abortono non rare fiate per cause che è impossibile di prevedere; ma è vero altresì che il più delle volte la precipua cagione ne è il pecorajo medesimo. Un andare sforzato, delle percosse, delle sassate che loro si scagliano all’impazzata sul ventre, sui fianchi, sulle reni; un cibo troppo, o troppo scarso; il costringerle a tragittare ammonticchiate per aditi angusti; delle bevande assai fredde, sono tutte cagioni di aborto che accusano la negligenza del guardiano.

Che è a dire de’ parti difficili o contro natura, ne’ quali non è attenzione destrezza che basta? Quante volte per istirare sguaiatamente le gambe, od appianare la groppa di un agnellino, che si presenti fuori della naturale postura, si lascia morire a stento la madre! Quante altre per metterla in salvo, si taglia l’altro a pezzi, che con poca cautela, con alquanta delicatezza si sarebbe potuto salvare ben anche! Basterebbe ungersi le mani di burro o di olio, guardarsi di nulla offendere colle unghia, procedere avvedutamente, ajutare la pecora, andare insomma alla guida della natura, e non cercare di vincerla, perchè i parti non riescano a malespesso, come fanno per isventura.

L’accurato pecorajo inoltre non si stanca già di vegliare alla sua pecora tostochè essa s’è alleggerita del feto. La pecora sopra parto richiede infinita sollecitudine, e l’allattamento è per lui un oggetto di più rilievo che la gravidanza. Se la madre soffre penuria di latte o muoja sopra partorire, ei l’agnello ad un’altra che abbia perduto il suo, o che possa lattarne due; munge quelle che, per ingorgamento al capezzolo, soffrano tale doglia da non volere lasciar le poppe ad alcuno; sgombra la lana che stii d’attorno a’ zezzoli, perchè l’agnello, traendone il latte, non la trangugi con grave suo danno; spreme un po’ la mammella per cavarne le materie che la turano; e cento cure si , perchè crescano in fiore le novelle sue bestiucce, cure che a voler tutte enumerare sarebbe non finirla giammai.

Lungo ancora sarebbe passare tutti a rivista i tanti malori che travagliano il minuto bestiame, e di tutti discorrere largamente. Dall’una parte è certo, che se ci ha specie d’animali, a cui scagliasi addosso gran torma di malattie, le pecore voglionsi mettere in prima riga. Dall’altra è certo certissimo che se ci ha cosa ignorata o mal saputa da’ nostri pecorai, l’è appunto i mali che affliggono tutto giorno la mandra. E non è raro che se ne ignori, non diciamo la qualità, la causa, le apparenze, gli effetti, ma fino l’esistenza ed i nomi.

Il vajuolo, per esempio, la falerre, il carbonchio, la vertigine, la rogna, sono elleno cose da trascurare? o sono mali da riparare con una cavata di sangue, che serve solo per cavare alla bestia quel rimasuglio di fiato che sorreggevala in vita? Che se ne metta in parola un guardiano di uno o più migliaia di pecore. Accuserà la stagione, la tale o tal’altra erba, e sino la luna o le stelle, ma è ben lontano dal credere che la sua malcuranza potesse influire assai più di tutte queste cagioni; che i pascoli umidi, le acque putride, la scarsezza o la larghezza del nutrimento, l’aere infetto dell’ovile possono generare la marciaja; che quel terribile mal-di-sangue (meusa) per cui gli animali più vegeti si veggono di repente infiacchiti, enfiandosi loro la milza, e sciogliendosi tutti in escrementi sanguigni non sia già colpa d’influsso, ma vero germoglio di trascurato governo; come a dire di subitaneo cangiamento nel cibo, d’una pioggia eccedente che si faccia loro cadere in dosso, di una stretta astinenza seguita da nutrimento abbondevole ec., e che finalmente curando di allevare la greggia lontana da tutto ciò che può indebolirne vieppiù il tanto fiacco temperamento, non è a temere che di tali malori imperversino frequentemente sopra di essa. Che se vera è questa massima in generale, non ammette poi ombra di dubbio per riguardo alla marciaja, o putrescenza che si vuol dire. Il sig. Backevill, coltivatore inglese, si diede ad allevare un gran numero di bestie lanose; e per impedire che altri profittasse de’ montoni della sua razza, gli faceva ingrassare in paschi preparati a bella posta: sicchè, appena venduti, venivano attaccati da questo male, ed il compratore era costretto ad ucciderli immediatamente. (V. il foglio del Coltivatore, anno 1790, num. 6, pag. 23). — Chi poi volesse una larga prova della ignoranza, in cui vivono i nostri mandriani rispetto alle infermità delle pecore, osservi soltanto che presso noi la marciaja non ha un nome particolare, e che tutti i suoi sintomi si riguardano come tanti varii malori di natura diversa.

Sarebbe oramai desiderabile che ogni padrone di pecore volgasi attentamente a questo importante soggetto. Molti già ne scrissero alla distesa; e con essi, e col lungo uso della pratica facilmente verrebbe a capo d’istruire minutamente il suo pecorajo sui rimedii di quelle infermità, le quali sono o più comuni fra noi, o più ignorate, o più dannevoli; come sarebbero il mal di sangue fra le prime, la marciaja fra le seconde, e da ultimo tutte le malattie di contagio, che mandano a rovina una greggia intiera.

Quanto a noi sarebbe impossibile il trattarne per ora minutamente, attesi i brevi confini di poche pagine a cui siamo costretti. Non potremmo che cennare alla sfuggita, ed il cennare intorno a ciò è sinonimo del tacere.

È vano, dopo il detto fin qui, l’aggiungere qualche cosa ancora sui mezzi di migliorare la razza. Noi siamo ben persuasi che tutti gli ostacoli messi avanti sono puramente imaginarii, e che, con tenue spesa e molta cura, si potrebbero venire sostituendo i merini alle pecore siciliane, anche nelle greggi più numerose. Ma ci si dice prima d’ogni altro, se i merini, governati in tal guisa, potrebbero far altro che deludere le speranze di chi volesse introdurli?

Il mestiere del pecorajo in somma non è quello dell’ozio; ed a scegliere un buon mandriano deve gittarsi l’occhio al più illuminato ed al più spogliato di pregiudizii. Rari, è vero, sono presso noi uomini tali, ma non è impossibile di formarli, e si rende anzi di estrema necessità, perchè alla fin fine tanto vale una greggia quanto il suo pecoraio.

Fu questo che mosse in Francia, non è guari, il ministro dell’interno a decretare l’istituzione d’una scuola da pecorai in ciascuno degli ovili nazionali: splendido esempio dello zelo con cui può un governo prestare la sua valida mano al fiorire dei popoli a lui soggetti.

Ci auguriamo noi dunque che si aprano gli occhi una volta su di un punto, il quale si annoda coprimi cardini dell’agraria ricchezza; e che prima di rifondere, diciamo così, la razza siciliana nella spagnuola, si vengano a porre in sodo i principii, da cui dovrebbe esser guidato il governo di qualunque razza. Ci auguriamo in una parola, che la esperienza non ci debba far dire una volta:

Quante speranze se ne porta il vento!

F. F.

 

 


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