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Le notizie che ella mi chiede sul raccolto di quest’anno non sono certamente quelle che il suo cuore desidera. La ruggine ha devastate queste campagne, e per quanto mi sappia, questo male è stato molto esteso nell’Isola.
È veramente strano che gli uomini abbiano sempre sentito i micidiali effetti di questa malattia delle biade, e non ne abbiano mai conosciuta la natura. Gli antichi annoverano questa, fra le altre malattie del frumento, ma nulla briga si dànno per investigarne la causa. I moderni han creduto superare gli antichi mettendo avanti delle teorie sulla natura di questo male, ma gli scritti loro per lo più ci dànno ardite immagini e concetti brillanti, ma pochi fatti ed osservazioni. Il Conte Re, che senza contrasto è uno dei più dotti agronomi dell’età nostra, dopo d’avere esposte tutte le teorie degli autori che ei conoscea, conchiude che la cagione di questo male è tuttora ignota.
Il signor Giuseppe Bankf, Presidente dell’Accademia Reale di Londra. pubblicò nel 1805 una memoria sulla ruggine, inserita poi nel numero XII del secondo volume della Biblioteca fisico-economica, nella quale si studia di provare che la ruggine sia un ammasso di funghi che nascono sullo stelo della pianta. È questa anche l’opinione del Cav. Fontana e del Targioni. Ma ciò che deve maggiormente sorprenderci si è che il signor Davy parli di ciò, come di un fatto già dimostrato e che non ammette dubbio: «la ruggine, dice egli, la quale spesso ha prodotto gran guasto nelle nostre sementi del grano, e che in particolare fu distruggitrice nel 1804, è una specie di fungo così piccolo che abbisognano le lenti microscopiche per veder distinta la sua forma, e che si propaga rapidamente con i suoi semi.
«Ciò è stato dimostrato da varii botanici, e questo fatto ha ricevuto una perfetta illustrazione dalle luminose e raffinate ricerche del Presidente della Società reale.
«Il fungo prestissimo si stende da un fusto all’altro, si fissa nelle cellule unite ai tubi comuni, e porta via e consuma il nutrimento che sarebbe stato appropriato al seme.
«Nessun rimedio è stato scoperto finora su questa malattia; ma siccome il fungo cresce per la diffusione dei suoi semi, si deve aver gran cura che punto della paglia rugginosa sia portata nei conci che si adoperano per le biade, e se nei cesti più avanzati si vedesse della ruggine nei fusti delle biade, si dovrebbero togliere con diligenza e trattarli come l’erbacce.»
Il solo rispetto dovuto a tanto scrittore può far mettere ad esame una opinione, appo me, più risibile che disputabile. Noi abbiamo avuto quest’anno la ruggine; la avemmo dieci o dodici anni fa; ed i nostri vecchi agricoltori si ricordavano allora di avere altre volte sofferto questa micidiale sciagura. Se questo male si comincia per seme, come il sig. Davy con tanta fidanza asserisce, quale meteora, qual vento, qual torma di uccelli recò per la prima volta tanta copia di semi e li sparse regolarmente per tutta l’Isola nostra? Come poi vennero meno istantaneamente? Come si perde questa malnata razza? Come torna poi a comparire? Onde avviene che sul campo stesso in cui l’agricoltore ha abbandonato al bestiame le biade rugginose ritragga l’anno appresso un’ubertosa raccolta? Come si farebbero eglino questi scrittori a spiegare il fenomeno che sempre osservasi, che in una stessa contrada, anzi in uno stesso podere, si veggono delle tenute esenti di ruggine circondate dai campi attaccati dal male?
Si ricorda ella, o Signore, che noi tempo fa avemmo a soffrire per più anni di seguito la ruggine. Balsamo scrisse allora su questo soggetto. Prima di scrivere egli consultò la maggior parte degli agricoltori dell’Isola, i quali rapportarono ciò che aveano osservato, onde i loro rapporti meritano certamente maggior peso delle osservazioni fatte col microscopio.
La ruggine non si vede mai limitata ad un solo campo, ad un sol podere, ad un sol territorio, essa attacca sempre delle intiere provincie; dunque è essa prodotta da una causa generale. Essa si è vista apparire contemporaneamente nei punti più distanti dell’isola; dunque non si propaga per contagio. Essa finalmente in certi anni apparisce universalmente, e negli anni appresso non se ne scorge vestigio alcuno; dunque è prodotta da una causa accidentale. Questa Balsamo vuole che sia l’eccesso d’umidità cagionato da piogge soprabbondanti in primavera. Trovandosi in quella stagione la fibra legnosa della pianta ancora tenera, i vasellini non potendo capire quella copia eccedente di umore, si rompono, e si forma uno stravaso. Allora quel fluido, che avrebbe formato il succo nutritivo della pianta, si converte in una materia acre, caustica e corrosiva.
E qui si degni Ella sovvenirsi che lo stesso Davy ha dimostrato che la corteccia delle piante è formata in gran parte di terra silicea, che questa sostanza forma quasi interamente la corteccia del fusto del grano, della vena, della canna, e di tutte le piante a fusto vuoto. Sa Ella bene che la terra silicea, ond’è formata la pietra focaja, si distingue dalle altre terre collo strofinarla nel vetro, in cui lascia le impressioni. Questa terra adunque naturalmente ignea e corrosiva, combinata ad un succo guasto, dovrà struggere tutti gli organi della pianta e fermandosi sull’epidermide della stessa va a formare quelle forfore che guardate col microscopio hanno la forma di uno ammasso di funghi, come la hanno ugualmente le ulceri di certe malattie cutanee degli animali, che perciò i medici chiamano fungose. Ma il dir poi che questi funghi son delle piante viventi, il riguardarli come la causa e non come l’effetto del male, l’asserire che essi si propagano coi loro semi, son tutte ipotesi senza prova, asserzioni gratuite smentite dal fatto, mulini a vento pigliati per giganti.
Interrotte una volta le funzioni del meccanismo organico della vegetazione, la spiga, o non riceve più il nutrimento necessario, o ne riceve uno velenoso; onde la pianta perisce senza maturare, e secca la spiga mentre lo stelo è ancor verde; ove che, quando la biada giunge alla naturale maturità, i succhi si concentrano alla spiga, e questa si mantiene verde dopochè il culmo è già secco.
Se non bastassero i numerosi fatti onde Balsamo trasse la sua teoria, ciò che abbiamo qui osservato in quest’anno ne offrirebbe una pruova dimostrativa.
I mesi di marzo ed aprile furono asciuttissimi; in maggio tutte le biade mostrarono di voler perire: finalmente venne una copiosa pioggia a consolare i nostri agricoltori; più abbondante fu essa nei vicini territorii. Poche tenute sul confine meridionale di questo territorio, e propriamente in San Miceli, Santo Onofrio, e Donigarci non ebbero, nè questa pioggia, nè una che giorni prima era venuta dal lato di Palermo, e si era fermata giusto a quel punto. Al trar dei conti le campagne di Palermo sono state perdute nella ruggine, lo sono state anche queste, maggiormente lo furono i territorii di Alia, Caltavuturo, Montemaggiore, Cerda, Sciara e Villaura ove le piogge erano state più copiose, e quelle tenute che erano allora l’oggetto dell’altrui commiserazione, furono nel raccolto oggetto d’invidia; in esse non si è visto pur vestigio di ruggine: io ho visto i frumenti ivi prodotti, essi sono perfetti quanto quelli degli anni più ubertosi.
Questo fatto prova che Balsamo avrebbe potuto dire con Varrone: Non solum quoad vivam quid fieri oporteat moneam, sed etiam post mortem.
Giova intanto lo sperare che questi maledetti funghi divengano eternamente sterili nel nostro suolo, onde io, interrogato da Lei in avvenire, possa rispondere: ruperunt horrea messes, e combinare la compiacenza per gli ubertosi raccolti e per la proprietà dell’agricoltura di Sicilia a quei sentimenti di profondo rispetto con cui mi vanterò di essere
Suo umil. serv. — Nicolò Palmeri