Niccolò Palmeri
Calendario dello agricoltore siciliano

XIII. sulla manifattura de’ buoni caci.

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XIII.
sulla manifattura de’ buoni caci.

Egli è un fenomeno straordinario fra noi, che mentre si osserva che i caci di Lombardia, di Svizzera, d’Olanda, d’Inghilterra e d’altri paesi d’Europa sono da noi stessi più ricercati e meglio pagati de’ nostri, nessuno abbia pur tentato di ricomprare questo tributo vergognoso che la Sicilia paga all’industria straniera, ingegnandosi di portare i caci siciliani alla stessa perfezione degli esteri. Ma è ciò possibile? dirà taluno; E perchè no? rispondiamo noi. Anzi siamo noi perfettamente convinti, che i nostri caci potrebbero essere tanto più superiori a quelli d’alcune parti d’Europa, quanto le nostre terre sono generalmente più feraci di quelle. ad altre cagioni può attribuirsi l’inferior condizione de’ nostri caci, che alla diversità de’ foraggi ed alla poca diligenza nella manifattura.

Da pertutto, ove si fanno caci pregevoli, le vacche sono tenute alle stalle(14), riparate dal freddo, dalle pioggie, dall’eccessivo caldo; nutrite quasi in tutto l’anno con foraggi verdi, e questi scelti tra quell’erbe che una lunga esperienza ha dimostrato di produrre maggior copia di latte. Da noi le vacche non hanno altro ricovero che la volta del cielo, e poste all’intemperie di tutte le stagioni, ed obbligate a correre almeno due volte all’anno da un estremo all’altro dell’isola in cerca di pascolo, spesso senza trovare che sterpi, erbe secche, e sino delle dise; che latte può sperarsi da animali così mantenuti? Pure se questa sola fosse la cagione dell’inferiorità de’ nostri caci in paragone della maggior parte degli esteri, noi ci asterremmo di farne parola, essendo ciò dipendente da tutto il sistema agrario che non può cambiarsi di leggieri; ma noi manchiamo nella preparazione: 1. perchè non si usa dai nostri caciai quella nettezza che è necessaria nella manifattura per far buoni caci, essendo il latte una sostanza che facilissimamente attrae e conserva qualunque odore, o sapore; 2. il presame che da noi si usa non è il più efficace ben preparato; 3. non si fanno perfettamente segregare le parti caciose dalle sostanze estranee, o col fuoco o col torchio; 4. non si mette il presame nel latte quando esso ha il giusto grado di calore, e spesso non gli si il tempo opportuno per farsi una perfetta congelazione.

Per essere convinti di ciò basta paragonare il metodo da noi seguito nel fare il cacio-cavallo, che è il più pregevole dei nostri caci, con quello tenuto per la formazione de’ più accreditati caci di Europa. I Lombardi, munto il latte, lo ripongono nella caldaja, e non vi mettono il presame se esso non sia caldo tra 21 e 24 R.; essi usano di fare un solo formaggio di tutto il latte di 60 sino a 100 vacche; il presame che adibiscono è di ventricolo di vitello da latte, pesto e misto a sale e pepe; nel metter nel latte il presame lo struggono entro con pulito pannolino, ed intanto si agita tutta la massa del latte, per far che il presame si diffonda egualmente; quindi si lascia il latte in riposo per due o tre ore; dicono essi saggiamente che non fa verun male al cacio il lasciarlo dimorare in quello stato qualche tempo più del dovere, ma è dannosissimo il levarnelo prima che la coagulazione sia perfetta; coagulato perfettamente il latte, cominciano a romperlo collo spino, che è un bastone munito all’estremità di piccioli piuoli della lunghezza di un palmo circa; intanto si ripone la caldaja al fuoco, non desistendo di agitare il latte sino a che sia giunto a 40° circa di calore; quando si vede che le particelle caciose compresse colla mano pigliano quella forma che loro vuol darsi, si versa entro la caldaja lo zafferano nella dose di un quarto d’oncia per ogni sette brente, agitando sempre il fluido, perchè il calore si sparga ugualmente; allora si estingue il fuoco, e la grana del cacio si precipita al fondo della caldaja, ed acquista una certa solidità; raffreddata che sia la caldaja si passa al di sotto del cacio una tela per estrarnelo, e si mette nella forma, ch’è un cerchio di legno, ben legato, ponendola in un piano inclinato, e mettendovi sopra una tavola con un sasso pesante, onde colla compressione ne sgoccioli tutto il siero; dopo ciò si mette il formaggio colla forma sopra un tessuto di cordicelle collo stesso peso di sopra, e dopo un’ora si rivolta lasciandogli il peso, e così si continua per il primo giorno; quindi si mette nella stanza del sale, e vi si lascia circa otto giorni, finchè mostri la muffa alla superficie, allora si comincia a salarlo fino a tanto che non attira più sale.

Quasi lo stesso metodo si tiene in Lombardia per fare gli stracchini, detti così perchè fatte col latte di vacche stracche dopo qualche lungo viaggio; la vera differenza però si è che il formaggio parmigiano si fa col latte da cui si è levato prima il butiro, ovechè lo stracchino si cava dal latte vergine, anzi delle volte si aggiunge al latte la panna tolta dal latte munto il giorno precedente, ed allora dicesi stracchino di due panne. Ciò malgrado quel cacio è poco pregevole; un certo nauseante nel suo odore e sapore dispiace a molti, oltre a che facilmente si corrompe e non conservasi a lungo.

Gl’Inglesi differiscono in qualche modo dai Lombardi nella manifattura dei loro caci; i bei formaggi di Gloucester, e Chester si fanno di latte vergine. La superiorità dei pascoli di Lombardia permette ai Lombardi di trarre prima il butiro dal latte, e quindi farne il cacio; ciò che non può farsi altrove senza render pessima la qualità del formaggio.

Oltre a ciò gl’Inglesi adoperano il presame in istato liquido, tagliandolo in minutissimi pezzi, e mettendolo nell’acqua calda, dopo 24 ore si trova perfettamente sciolto, allora ne mettono quanto cape in una tazza da caffè nel latte da cui deve cavarsi un formaggio; fatto ciò lasciano il latte in riposo; congelato il latte lo tagliano da su in giù con un coltello, e lo spingono al fondo della caldaja con un vaglio, e lo lasciano riposare un poco; trattonelo poi lo sottopongono al torchio per 24 ore circa, indi lo salano, e lo rimettono al torchio per un altro giorno.

Per poco che ci facciamo a paragonare le descritte pratiche straniere alla maniera nostra di fare i caci-cavalli conosceremo quanto essa sia imperfetta.

Non si parla della pulitezza, che in questa materia deve essere portata allo scrupolo; i nostri caciai sono il ritratto del sucidume; noi usiamo miglior presame de’ ventricoli di agnelli che sono assai meno efficaci di quelli di vitelli. Compresso il cacio nella caldaja si comincia da noi a premerlo colla rotella, che è un bastone armato in punta di una piccola ruota di legno alquanto convessa esternamente, e tanto si comprime, che diventa come un pezzo di cuojo assai largo, ed alto appena due dita, in questo stato si conserva sino all’indomani; allora dopo fatto il nuovo cacio si versa nel siero ancor caldo il cacio così conservato del giorno antecedente, tagliandolo prima in fette minutissime, indi comincia a dimenarsi lentamente colla rotella, e comprimesi fintantochè quei pezzetti si liquefaccino, e tornino a combinarsi. Cavato il cacio dal siero si comincia a pigliar colle mani su di una tavola, rivoltandolo spesso finchè acquista quella forma di paralellepipedo. Or chi non vede che in quella seconda cottura che si fa fare al cacio le parti più grosse e più delicate di esso devono struggersi, e lascian la parte più dura e men gradevole!

Ad onta di tutto ciò noi siam ben lontani dal concorrere al pregiudizio di coloro che avrebbero a rossore di presentare alla loro tavola un cacio siciliano, e trovano indistintamente squisiti i caci forastieri, anche puzzolenti e verminosi. Quando i nostri caci son prodotti da contrade veramente feraci, e si mette qualche attenzione nella loro manifattura, non che i caci di vacca, ma quelli di pecora sono pregevolissimi, e questi ultimi particolarmente riescono assai delicati quando si preparano al seguente modo. Formato il cacio, e messo nella fascella, si ripone nel siero ancor caldo, e vi si lascia finchè si raffreddi; quindi si tolga, e si metta in una stanza fresca finchè comincia a muffare, allora si metta nella salamoia e vi rimanga tanti giorni quanti rotoli pesa il cacio; dopo uno o due giorni cominci ad ungersi con feccia d’olio; dopo un mese circa è buono a mangiarsi.

In ogni modo non v’ha luogo a dubitare, che se i nostri lattiferi fossero sempre nutriti con ricchi foraggi, che possono dar solamente i prati artificiali, e si mettesse più diligenza in questo ramo d’economia agraria, non avremmo certo da invidiare i caci esteri, a tanti mali della nostra infelice patria si aggiungerebbe quello di fare estraregnare una porzione del nostro numerario per soddisfare la gola de’ nostri Apicii.

 





14   Noi parliamo solamente dei caci di vacca, perchè pensiamo che sarebbe a desiderarsi, per il bene della nostra agricoltura, che gli agricoltori siciliani rinunziassero al profitto che traggono dal latte delle pecore, di cui potrebbero essere con usura compensati dalla maggior copia e miglior qualità di lana, dalla maggior quantità di agnelli, e dalla grande minorazione di spese, che si fanno per erbaggi, custodia ed altro, che sono indispensabili nelle mandre il cui principale oggetto è il cacio. Ciò sembrerà un paradosso a molti, ma noi preghiamo i saggi agricoltori a sovvenirsi, che le pecore non si mungono che ne’ paesi in cui l’agricoltura conserva la semplicità dei tempi patriarcali; e che è una verità conosciuta sin da’ tempi di Columella e di Varrone, che le pecore munte produrranno sempre poca e pessima lana. In somma noi vorremmo che gli agricoltori mettessero in ciò più calcolo e meno pregiudizio.



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