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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Mirando sempre al bene dell’agricoltura siciliana, col procurare ai nostri contadini delle notizie che i loro scarsi mezzi non permettono altronde acquistare, non si mancò far nota ai medesimi nel calendario del 1824 la pregevole cognizione del riso della Cina, che si coltiva a secco; onde evitare quel grave danno che la coltura del nostro reca alla sanità degli uomini.
Siamo ora a farli consapevoli, per quell’utile che da tali notizie ricavar se ne possa, mancando d’ogni incoraggiamento, che acquistati da noi pochi acini del mentovato riso si sono praticati ai Colli i seguenti procedimenti agrarii:
In una aiuola di palmi due e mezzo di quadro si concimò la terra, ed il giorno 5 aprile 1825 si seminarono 70 acini di riso secco. Si adacquò e si proseguì a dar dell’acqua due volte la settimana a modo degli ortaggi, avendolo sarchiato soltanto due fiate nel tempo della coltura. Ai 17 di agosto si svelsero 435 spighe, le quali mazzicate produssero una quantità di riso 239 volte maggiore della semenza.
Siffatto sperimento dimostra che al bene che si recherebbe alla umanità coll’abolizione della coltura del riso indigeno, andrebbe anche unita la feracità del prodotto; ma considerando che non sarebbe agevole a tutti il provvedersi di tale specie di cereale, si è voluto anche tentare, se il nostro potrebbe coltivarsi a secco, cioè colla irrigazione soltanto e senza la inondazione, ossia senza la residenza dell’acqua, ed avendolo eseguito nella stessa contrada dei Colli, ne diamo il risultato:
Si concimò la terra di una aiuola di palmi 4 di quadro, come la precedente, e nel mese di marzo vi si seminarono 130 acini di riso umido, che fu inaffiato nello stesso modo che quello della Cina. Le sarchiature però si facevano secondo il bisogno. Ai 7 ottobre si svelsero 680 spighe, e se n’ebbe tanto riso che superò 291 volte la semenza.
Che se mai, con sì fatto modo di coltura, non ne ritrarrebbe l’agricoltore siciliano giusto quel lucro che il metodo ordinario suole apprestare, dovrebbe tuttavia adottarlo, se per poco ei si fa a riflettere quanto bene ne verrà ai suoi compatriotti, e di quale gratitudine ei si renderebbe meritevole.
Carlo Cottone
Principe di Castelnuovo
Due quistioni possono farsi intorno al maggese. È questo un buon preparamento per la seminagione de’ cereali? il vantaggio che arreca rifà l’agricoltore del capitale impiegato? A ciò deve aggiungersi un terzo esame: posto che il maggese non sia profittevole, qual altro preparamento potrebbe sostituirvi l’agricoltore siciliano con suo maggior profitto?
Tutti coloro i quali, nel disapprovare l’uso del maggese, tengono solo presenti i principii della fisica vegetale si fondano sulla ragione che l’azione del sole volatilizza quelle particelle contenute nelle viscere della terra che principalmente servono al nutrimento de’ vegetabili. È nota l’esperienza fatta da un agricoltore inglese, riferita da Young; costui seminò un campo sopra maggese; l’anno appresso ne seminò un secondo sopra maggese di due anni; un terzo maggesato tre anni di seguito, e così via via fino ad un settimo, che avea senza interruzione fatto maggese sette anni. Dal primo al settimo anno i prodotti vennero sempre decrescendo fino a che nel settimo anno la terra si ridusse tanto povera, che pochi granelli di frumento poterono germogliare, e questi presto perirono.
Noi non neghiamo che la diuturna azione de’ raggi solari debba disseccare ed impoverire la terra. E di ciò chiunque può persuadersi dall’osservare che nel fendere le terre sode al cader delle piogge autunnali, la terra tramanda un odore più forte che nell’arare un suolo maggesato nella precedente stagione; ma ciò malgrado siamo convinti che ciò è di gran lunga compensato da altri vantaggi, che le replicate arature arrecano alla terra; cotali vantaggi però non si otterranno mai ove il maggese non sia ben fatto. Il gran Columella ci ha lasciati aurei precetti intorno a ciò. Vuole egli, che non si arino mai le argille quando sono sopraccariche d’acqua, perchè allora la terra verrebbe intrisa e non rotta, nè quando sono affatto secche, perchè allora l’aratro leva grosse zolle durissime, le quali impediscono che si faccino bene le seguenti arature; i buoi per l’eccessiva fatica vanno presto a male, ed i continui rimbalzi dell’aratro fanno che la terra non venga rotta ugualmente. Molto meno vuole che si ari il suolo in cui le piogge non sian penetrate a molta profondità, in guisa che l’aratro venga a svolgere la terra in parte secca, ed umida in parte, che i Romani chiamavano varia et cariosa. Quel sommo agronomo asserisce, che un suolo arato in tale stato sterilisce per tre anni. Fa mestieri che una delle arature fosse fatta in tempo che l’erba sia cresciuta, ma prima di semenzire. I solchi devono essere così vicini l’uno all’altro, che non possan distinguersi; onde la terra ne venga rotta in tutti i sensi in modo che ficcando una pertica orizzontalmente nel suolo maggesato, questo deve correre da per tutto senza incontrare ostacoli. Gli antichi Romani dicevano di esser mal fatto quel maggese, in cui restavano zolle tali che nel seminarlo era necessario erpicarlo: ciò può solo ottenersi con molte arature. Noi chiamiamo diligentissimi quegli agricoltori che fanno i loro maggesi di tre arature, questi sono ben pochi in Sicilia; ma che dovremmo noi dire nel leggere le opere del giovane Plinio, il quale ci assicura che nel suo podere, posto alle falde degli Appennini in Toscana, il suolo era così tenace che: nono demum sulco perdometur? E ciò vien confermato dal vecchio Plinio che ci dice: plerumque in Italia quinto sulco seri melius est; in Tuscis vero nono.
Mancano forse argille tenaci in Sicilia? non è anzi manifesto che di tal natura sono in gran parte le terre di quelle contrade, nelle quali si producono i migliori frumenti?
Non è da dubitare che il maggese fatto in tal modo sia un buon preparamento per le seguenti produzioni, perchè la terra ne vien resa permeabile alle radici delle nuove piante; l’erbe parassite non hanno avuto tempo di semenzire onde riprodursi a danno delle utili produzioni; queste stesse soversciate accrescono la fertilità del suolo; finalmente la terra, resa dalle frequenti arature come spugnosa, assorbisce meglio le piogge, le rugiade e tutte le sostanze che l’atmosfera depone. Ma perchè ciò si ottenga, fa mestieri che il maggese fosse veramente ben fatto. Le sconce graffiature, che per lo più da noi si fanno alla terra, non meritano il nome di maggese, e molto meno possono arrecare alcuno degli accennati vantaggi. Per consuetudine e per antico stabilimento noi cominciamo a far maggese in gennajo, quando le arature sono fatali alla terra, che allora si stempera, non si prepara; stretti dalla necessità, continuiamo i nostri lavori senza verun riguardo allo stato dell’atmosfera e del suolo; il cardo selvatico, cynara silvestris, la cannuccia arundo vulgaris, ed ogni maniera d’erbacce e cespi, lungi di perire vengono più rigogliosi, e meglio semenziscono negli ordinarii nostri maggesi; finalmente, per l’imperfezione del nostro aratro, la terra da noi non può rompersi mai in tutti i sensi. L’aratro siciliano, essendo un cono irregolare senza coltro e senza orecchio, scassina e non isvolge la terra, ed invece di fare un solco piano, lascia una scanalatura: se in fatti si toglie via ne’ nostri maggesi la terra, smossa, resterà un fondo pien di bitorzi mascherati della terra laterale; onde la friabilità, in che consiste il primo vantaggio del maggese, è tutta apparente, e nulla reale. Per tali ragioni noi non esitiamo ad asserire che è meno male seminare in terra soda, a tirrozzu, che in un maggese malfatto.
Ma conviene agl’interessi dell’agricoltore fare un maggese secondo i precetti di sopra esposti? certo che no: se un agricoltore siciliano coltiva oggi un podere di 300 salme di terra, secondo l’avvicendamento che usasi dai più diligenti nostri agricoltori, dovrà in ogni anno lasciarne una terza parte a prato, una terza la farà a maggese, e l’ultima la seminerà a frumento. La prima può calcolarsi di non dargli nè guadagno, nè perdita; nella seconda deve oggi impiegare un capitale di once quattro a salma per lo meno, di cui dovrà rifarsi col prodotto dell’ultima parte. Ma per avere questo, compreso il prezzo del frumento per semenza e le spese di coltura e raccolto, dovrà spendere un vent’once la salma, onde in tutto avrà impiegato un capitale di once 2400. Ne trarrà sette od al più ottocento salme di frumento, che nello stato attuale può valere 1400 o 1600 once, ogni anno adunque la sua perdita sarà da 800 a 1000 once. Potrà parere a taluno che un tal calcolo: nimis probat, ma coloro che conoscono lo stato, cui sono ridotti gli agricoltori siciliani, sanno che satis probat.
Ben è vero che se un tal agricoltore facesse il suo maggese giusta i principii di sopra stabiliti, il suo prodotto sarebbe maggiore: ma allora il maggese costerebbe assai più, poichè prima di sopraccaricarsi d’acqua le terre, la prima aratura dovrebbe essere compita ed in conseguenza dovrebbe aversi il doppio di bovi e di bifolchi per seminare contemporaneamente, altrimenti verrebbe a perdersi il gran vantaggio dell’opportuna semente. Nel corso dell’anno cresce la necessità di avere aratri in gran numero, perchè dovendo arare solo quando l’atmosfera e la terra il permettono, deve farsi in una settimana quel lavorio che altri fa in un mese, oltrecchè prima della metà di giugno devono esser compite almeno quattro perfettissime arature. Ora un cotal maggese non può costar meno di 10 once la salma, onde per quanto maggiore ne sia il prodotto, sempre più grave ne sarà la perdita dell’agricoltore.
È certo disgustosa l’idea, che per l’uso dei maggesi l’agricoltore siciliano sia condannato ad una perdita quasi certa, ma è anche più disgustoso il pensare, che siffatto male sia poco suscettibile di rimedio; conciossiachè la brevità dei nostri fitti, l’estensione dei fondi che noi prendiamo a coltivare, l’ignoranza della maggior parte dei nostri agricoltori, e più che tutto la mancanza dei necessarii capitali, impediscono che l’agricoltore siciliano possa adottare in un istante un avvicendamento più lungo e meglio inteso, che sarebbe il vero rimedio del male. E se pure cotali ostacoli non esistessero, sarebbe sempre follia lo sperare che un popolo per colto che sia, rinunzii di primo lancio alle consuetudini ed ai pregiudizii tramandati per lunga serie di generazioni. Tutto ciò che noi possiamo desiderare si è che gli agricoltori siciliani contassero più sulla pastorizia e meno seminassero. Nè farebbe mestieri pigliare a fitto maggior quantità di terre per accrescere le loro mandre; che allora poco o nulla migliorerebbe la loro condizione; ma noi vorremmo che eglino non aspettassero dal caso il pascolo del loro bestiame, ma seguendo l’esempio delle colte nazioni si procurassero un prato artificiale. Ed uno eccellente ne offrirebbe il nostro suolo nella sulla, hedysarum coronarium, la quale non esige veruna spesa. Essa si semina assieme col frumento prima di maggio; non nasce, e nata resta appena visibile, ma segato il grano e cadute le prime piogge, viene in pochi giorni così rigogliosa come lo è ordinariamente di aprile: può falciarsi la prima volta in febbraio o marzo, e poi in giugno. Seminata una volta può durare cinque ed anche sei anni senza altra cultura, che una sarchiatura in autunno, e se si volesse dopo in un tal prato seminar frumento, vi verrebbe assai meglio che sopra maggese, ed anche favate.
Per tal modo in quella stessa superficie, in cui l’agricoltore mantiene oggi dieci animali, trenta potrebbe mantenerne: e se potesse far uso di stalla, se più attenzione mettesse a raccorre, a crescere e curare i concimi, potrebbe egli seminare maggior quantità di fave ed altre piante baccelline, talchè pochissima sarebbe la quantità dei maggesi, che del tutto sarebbe assai difficile il bandirli nelle circostanze attuali.
È questo il solo compenso, cui a creder nostro, potrebbero oggi ricorrere gli agricoltori siciliani, senza aver bisogno di maggiori capitali e senza ingolfarsi in nuove pratiche sempre di dubbio evento. La riforma è in sè stessa di poco momento, ma essa è di sommo rilievo, ove si consideri che per tal modo avrebbero i nostri coltivatori un ottimo avviamento per adottare più profittevoli metodi, sperando al tempo stesso di venir non solo a ciò incoraggiti, ma anche protetti.