Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXXIV. I. Re Giacomo arma contro il fratello. Invasione in Sicilia. — II. Guerra intestina. I nemici abbandonano la Sicilia. I ribelli castigati. Nuovi apparecchi di guerra. — III. Battaglia di Capo d’Orlando. Conseguenze di essa. — IV. Provvisioni per arrestare i mali. Vittoria. — V. Fatto di Gagliano. Braveria di alcuni Toscani. — VI. Nuovi fatti d’armi. — VII. Nuovi maneggi e nuove armi. — VIII. Congiura contro il re scoperta. — IX. Fame. — X. Messina assediata da Roberto invano. Tregua.

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CAPITOLO XXXIV.

I. Re Giacomo arma contro il fratello. Invasione in Sicilia. — II. Guerra intestina. I nemici abbandonano la Sicilia. I ribelli castigati. Nuovi apparecchi di guerra. — III. Battaglia di Capo d’Orlando. Conseguenze di essa. — IV. Provvisioni per arrestare i mali. Vittoria. — V. Fatto di Gagliano. Braveria di alcuni Toscani. — VI. Nuovi fatti d’armi. — VII. Nuovi maneggi e nuove armi. — VIII. Congiura contro il re scoperta. — IX. Fame. — X. Messina assediata da Roberto invano. Tregua.

I. — guari andò che in quell’anno stesso 1298 il re d’Aragona giunse con ottanta galee alle spiagge romane, ove da papa Bonifazio, già pago d’esser finalmente venuto a capo di metter le armi alle mani di due fratelli, fu accolto con giubilo e colmo di benedizioni, d’indulgenze e di promesse.

Il re intanto, riunita un’armata di oltre a sessanta galee capitanate da Corrado Doria da Genova suo nuovo grand’ammiraglio, montatovi su egli stesso, si die’ a percorrere tutte le spiagge napolitane, sfidando da per tutto il nemico, ma invano. E finalmente sulla speranza d’intraprendere l’armata aragonese, fermossi all’isola d’Ischia. Re Giacomo intanto, che a mal in corpo portava le armi contro il fratello, segretamente facealo avvertire non esser sano consiglio esporsi a’ dubbî eventi della guerra lungi del proprio regno, ed egli seguendo tale avviso fe’ ritorno in Sicilia.

Recatosi quindi il re d’Aragona in Napoli, conferito con re Carlo sulla guerra che in comune eran per imprendcre, si diresse coll’armata in Sicilia. E perchè le castella già possedute da Rugieri di Loria eran per lo più vicine alla città di Patti, e per tal modo avrebbero potuto di leggieri estendersi entro terra, fu seguito il consiglio di lui di attaccare prima d’ogni altra quella città; la quale, colta alla sprovvista, spaventata dalle prepotenti forze dell’invasore, senza resistere s’arrese, e lo stesso fecero Milazzo, Noara, Monforte, S. Pietro sopra Patti ed altre terre di que’ dintorni. Quindi per dare un sicuro ricovero dell’armata nell’imminente inverno, si diresse re Giacomo a Siracusa, il cui vastissimo porto era ben da ciò. Ivi giunto, sbarcato l’esercito, la città fu cinta d’assedio. Comandava la guarnigione Giovanni Chiaramonte, il cui rese sempre vani tutti gli sforzi dei nemici. Invitato ad un colloquio dal re Giacomo, negossi. Scoperto che alcuni preti congiuravano per consegnare una delle torri al nemico, li fe’ impiccare. Ciò non per tanto Buscemi, Sortino, Palazzolo, Ferla e Buccheri terre senza difesa, popolate per lo più di contadini, volontariamente s’arresero: ma que’ di Buccheri ivi a pochi giorni tornarono all’obbedienza del re. Vi fu spedito per sottometterli il conte di Urgel con iscelta mano di fanti e cavalieri. I terrazzani, traendo vantaggio dall’esser la terra posta sur una ripida altura, a furia di soli sassi respinsero con grave perdita gli assalitori; ma poi quella plebe senza capi, che ne avessero diretti i movimenti, presa da timore che il nemico fosse per tornare con maggiori forze, la notte stessa abbandonò la terra, senza che il nemico avesse pensato più a riprenderla.

Il re, per trovarsi più da presso della città assediata, erasi fermato in Catania. Intanto Giovanni Barresi, comechè di antica famiglia siciliana, tradì la causa comune, unissi agl’invasori e seco trasse le sue terre di Petraperzia, Naso e Capo d’Orlando. La ribellione della prima parve di gran momento, per esser posta nel cuore del regno. Vi accorse una banda di Catalani per depredare la terra (giusta pena del suo delitto), carichi di bottino ritornavano all’esercito, quando assaliti da Blasco Alagona nel cuor della notte, presso Giarratana, caddero tutti in suo potere. Vi fur presi Alvaro, fratello del conte d’Urgel, Berengario e Raimondo Caprera che guidavan quella masnada, i quali furon dall’Alagona menati in Catania.

In questo il popolo di Patti, non più compresso dal timore, tornò all’obbedienza di re Federigo e assediò il castello, ove erasi ritirata la guarnigione lasciatavi da re Giacomo, il quale, avutone avviso, vi spedì tosto per mare Giovanni Loria con venti galee cariche delle munizioni, di cui quel castello potea abbisognare; e per terra Rugieri suo zio con trecento soldati. Il primo vi giunse felicemente e sbarcata la roba, di che era apportatore, voltò le prore senza aspettar lo zio: questi giuntovi trovò che i cittadini al suo avvicinarsi eran fuggiti; onde scambiata la guarnigione coi soldati, che seco avea condotto, fe’ ritorno in Siracusa.

In questo il re, saputo il viaggio del giovane Loria, sicuro che dovea ritornare pel faro, corse a Messina ed animò quel popolo ad andargli contro. Sedici galee messinesi vennero fuori, e lor venne fatto d’intraprendere l’armata nemica con tal furia che quattro sole ne camparono, le altre una per una fur prese. Giovanni Loria con altri nobili che vi stavan sopra furon chiusi nel castello di Messina, i gregarî in altre prigioni.

II. — Ribellò in questo tempo la terra di Gangi e vi accorsero Giovanni Barresi e Bertrando di Cannellis per difenderla, e dall’altra parte Errigo Ventimiglia conte di Geraci e Matteo di Termini gran giustiziere del regno per sottometterla. Non venne lor fatto per la fortezza del sito, ma dato il guasto alle campagne e portatone via tutto il bestiame, si posero ad oste rimpetto alla terra per custodire i vicini luoghi.

Pure tali piccoli vantaggi ottenuti da re Giacomo non compensavano le gravissime perdite sofferte nell’assedio di Siracusa, che andava sempre in lungo senza alcuna apparenza di buon successo, e molto meno il disastro dell’armata. Talmentechè, giuntane la notizia al campo per una delle galee scampate, quel re chiamò a consiglio tutti i capitani e ’l cardinale Landolfo Buliano, legato pontificio. Pietro Cornel uno dei più prudenti disse, non esser mai avvenuto che un re di Aragona, quali nemici, che avesse avuto a fronte, non ne fosse uscito vincitore. Ma non però esser da tentare Dio e stancare oltre il dovere la fortuna. Per la disfatta dell’armata e le perdite sofferte in quel lungo assedio diciottomila uomini esser mancati; ned essere da dubitare che re Federigo ed i Siciliani, resi oramai superiori in forze navali ed insuperabili dalla vittoria, non venissero loro addosso, per opprimerli in battaglia campale, o per obbligarli a vergognosa fuga. Però, soggiunse, è mio avviso abbandonar questa città che per maneggi, per guerra, per fame abbiam potuto sottomettere e ritirarci, mentre ne abbiamo il tempo. Se poi è fitto in mente del re il pensiero di soggiogar la Sicilia, terra nutrice del suoi maggiori, e cacciare un diletto fratello del patrio regno, per darlo ad un nemico comune, possiamo, ristorate le perdite, tornarvi.

Tutti aderirono. Rimbarcato l’esercito, re Giacomo si partì. Fermatosi all’altura di Milazzo, spedì ambasciatori al fratello chiedendogli le galee prese ed i prigionieri: ed a tal patto promettea di non più tornare ad attaccar la Sicilia. Discusso l’affare nel consiglio del re, Vinciguerra Palici era d’avviso d’aderire alla proposta, ma oppostoglisi Corrado Lanza, il re al costui parere s’attenne. Giovanni di Loria e un Giacomo la Rocca, furon condannati dalla gran corte a perder la testa: ed il re stesso ad onta che il mare fosse stato tempestoso, venne fuori coll’armata per battersi col fratello: ma questo, vistolo, sciolse le ancore e s’allontanò.

Tornato il re in Messina si die’ a ricuperare le città ch’erano ribellate, e tutte, tranne Milazzo, Monforte e poche altre del Val Demone, furon sommesse. Chiamato poi il parlamento in Messina, ivi palesò che re Giacomo, dopo d’essere stato in Aragona a far nuovi appresti di guerra, era ritornato in Napoli, e quindi dovea al più presto venire ad attaccar la Sicilia in compagnia di Roberto duca di Calabria e di Filippo principe di Taranto, figliuoli di re Carlo, i quali menavan con loro numeroso esercito di gente collettizzia di ogni nazione. «Se noi» disse «lor lasceremo metter piedi nel regno, tutte nostre sostanze saranno lor preda; che non con altro animo che con quello di predare si sono accozzati uomini d’abito e di lingue diverse. Imprendiamo a difenderci mentre sono intere le forze nostre. I Francesi, i Provenzali, i Napolitani non oseranno starci a fronte, i nostri tempî sono parati di mille bandiere tolte loro e le nostre carceri sono zeppe de’ loro prigioni.» Ma, figlio di un re d’Aragona, nato aragonese anch’egli, soggiunse «Per gli Aragonesi e peCatalani Iddio ci ajuterà

Un plauso guerresco fu la risposta del parlamento, e di presente furon date tutte le disposizioni per un armamento generale. Divulgatosene appena la nuova, conti, baroni, feudatari, militi ed ogni altra maniera di gente armigera, cominciarono a concorrere in folla a Messina. Quaranta galee vi furono preste in pochi giorni. Il fiore della nobiltà siciliana vi salì sopra, ogni conte od altro distinto personaggio comandava la sua. Il re, salito sulla capitana, fe’ scioglier le vele. Giunto all’altura di Milazzo, gli venne incontro una barca precedentemente mandata ad esplorare i movimenti del nemico, la quale gli dieavviso d’aver lasciata l’armata nemica all’isole Eolie. A tal notizia fece il re forzar di remi sulla speranza d’incontrarla prima che fosse giunta in Sicilia. Ma, oltrepassato appena il capo d’Orlando vide i nemici già sbarcati nella pianura di S. Marco e le navi legate al lido.

Tale era l’ardore de’ Siciliani, che nulla curando il numero a gran pezza maggiore delle navi nemiche, e la posizione loro, per cui erano inespugnabili, senzachè era sul cader del giorno, voleano correre allora stesso ad attaccar la battaglia, ed altamente querelavansi del re, che dieordine di soprassedere sino al domane.

Re Giacomo all’apparire l’armata siciliana, per prepararsi alla battaglia, scaricò le sue navi dei cavalli, delle macchine e d’ogni altro ingombro. Poi, chiamati a consesso i suoi capitani, disse loro: «Non s’è mai inteso che alcuno del mio sangue avesse mai trasgredito i comandi della santa chiesa romana. Che se mio padre tenne alcun tempo questo regno di Sicilia, ed io seguendone l’esempio credei avervi alcun dritto, quando rinunziai a qualunque ragione poteva avere su tal regno, e ’l romano pontefice mi elesse a gonfaloniere della chiesa, dichiarò nel pubblico concistoro che l’anima del re mio padre sarebbe restata a penare, finchè non fosse restituito il regno al re Carlo d’Angiò. Qui l’animo mio stette lunga pezza in pendente. Duro era per me il cacciar dal regno un fratello, duro di lasciar ne’ tormenti il genitore. Finalmente l’amor di figlio prevalse e m’accinsi all’impresa. Voi ben sapete, che, lungi di sbaldanzire, più audaci ne divennero i Siciliani. Il parlamento vietò a mio fratello di venire ad un colloquio, cui io avealo invitato; la nostra armata fu distrutta nel faro; Giovanni di Loria, che la comandava, fu condannato a perder la testa; e l’arroganza di mio fratello giunse a tale che nel ritirarmi, sfidando fin la tempesta, venne fuori colla sua armata da Messina, m’inseguì sino a Milazzo, per soprapprendermi e darmi battaglia. Ora vengono arditi a sfidarci. È tempo di vendicar tante ingiurie. Pugniamo da forti

men di lui impazienti erano di venire alle mani re Federigo ed i Siciliani: anzi tale era la fidanza loro, che non vollero soprastare di poche ore per aspettare altre otto galee del val di Mazzara che Matteo di Termini conducea da Cefalù.

III. — Spuntava il sole del 4 luglio 1299, quando le due armate s’affrontarono. La capitana, sulla quale era il re, tenea il centro della linea: vi comandava sulla poppa Bernardo Raimondo de Rebellis conte di Garsiliato, sulla prora Ugone de Empuriis, conte di Squillaci: nel centro Garzia Sanchez, paggio del re tenea la bandiera: il re stesso andava di qua e di per dar gli ordini ch’eran del caso. Lung’ora si combattè da lontano con saettare e frombare dall’una parte e dall’altra. Gombaldo de Intenziis, giovane avido di gloria, impaziente di segnalarsi, tagliata la fune che legava la sua alle altre galee per tenerle tutte in linea, si spinse fra le galee nemiche. Molte di queste gli si affollarono intorno, molte delle Siciliane si affollarono intorno alle nemiche. Rotto così l’ordine generale, combattevasi alla ventura, ma combattevasi con rabbia estrema. Il valoroso Gombaldo e la sua gente vi faceano mirabili prove. Attaccati alla poppa, alla prora, sui fianchi, da per tutto respingevano i nemici; mai venne lor fatto metter piede su quella galea. con minor valore si combatteva altrove. Vedeansi da per tutto i combattenti o schiacciati dai sassi o trafitti dal ferro o spinti in mare nell’attentarsi a saltare sulla galea nemica. Ardea re Federigo di voglia di affrontarsi col fratello: ma l’onde e le galee tramezzate, non permisero che si rinnovasse in quel giorno l’esempio atrocissimo e forse favoloso di Eteocle e Polinice. La natura accrebbe in altro modo l’orrore di quella battaglia. Era uno di quei giorni distinti nell’està di Sicilia, in cui non è comportabile il calore del sole. Pugnavasi nella fitta caldana. Il sole cocente avea riscaldato in modo l’acqua e ’l vino ch’eran sulle navi, che o non valeano ad ammorzare l’interna arsura od anche l’accrescevano. L’ira dei combattenti era divenuta furore. Era già oltre vespro, e la battaglia durava, senza che alcuna delle parti, inviperite del pari per la non aspettata resistenza, mostrasse di cedere. In questo il prode Gombaldo, coperto di ferite, grondante di sangue pur combatteva: finalmente stanco ed oppresso dal caldo, mentre stavasi adagiando sullo scudo per respirare alquanto, anelando spirò. Mancato lui, la sua galea fu presa. In quell’istante sei galee, staccate dall’ammiraglio Loria, assalirono da retro i Siciliani, alcuni dei quali sopraffatti da tale attacco, intimoriti dalla presa della prima galea, si volsero in fuga. Avvistosene il re gridò «Dachè quei codardi ci abbandonano, accostiamo la nostra alla galea di Blasco Alagona; diam dentro all’armata nemica, per cercarvi una morte gloriosa: non morremo invendicati.» Ma proferito appena quelle parole, cadde tramortito; e con lui cadde l’animo de’ suoi. In quella confusione il conte di Garsiliato propose di andare a piedi di re Giacomo e presentargli la spada del fratello, anzi che correre il rischio di vederlo morto o prigione per mani plebee. Ma il conte di Squillaci no ’l consentì. Volle piuttosto tentar di sottrarlo colla fuga: e ben gli venne fatto. La capitana con dodici altre galee forzando di remi camparono, sei ne eran fuggite prima, le altre vennero tutte in poter del nemico.

Il feroce ammiraglio Loria, die’ allora libero sfogo alla sua rabbia di vendicare il nipote: passando d’una in una delle prese galee, particolarmente delle messinesi, vi facea alla sua presenza mettere a morte crudelissima que’ nobili che vi trovava: intantochè gli stessi esecutori ne piansero.

Intanto il re, tornato in se stesso, visto tutto perduto e se tratto fuori dalla mischia, volea tornarvi, dicendo esser meglio morire colle armi alla mano che tornare vinto e fuggitivo. Quei nobili, che gli erano a fianco ne lo distolsero, e lo persuasero a serbarsi alla vendetta; che per quella disfatta non erano spente le forze della Sicilia. Giunto in Messina, la sola sua presenza fe’ rinascere il coraggio de’ Siciliani. Fece scrivere in suo nome a tutti i comuni una lettera, nella quale descrivea la disgrazia accaduta, e raccomandava loro a serbarsi fedeli ed a non lasciarsi sopraffare da quel sinistro, che nulla era a fronte di tanti trionfi da loro ottenuti (527).

Per provvedere poi all’ordine ed alla difesa del regno, promosse a gran cancelliere Vinciguerra Palici invece di Corrado Lanza già morto. Niccolò e Damiano suoi figlioli ebbero affidata la difesa di Messina. Parecchi capitani furon destinati in varî luoghi del regno. Ed egli stesso con quante forze potè raccorre, stabilì di recarsi in Castrogiovanni per accorrere ove fosse mestieri.

Dall’altro lato re Giacomo non avea ragione d’esser lieto della sua vittoria. Passata in rassegna la sua gente, trovò tal numero esserne mancato, massime degli uomini più distinti, che disse «Nulla ho vintoConobbe allora la follia di abbandonare i proprî regni e sprecar le sue forze e i suoi tesori per ispogliar del regno il fratello e darlo ad altri. Però fe’ ritorno in Aragona, detestato da’ Siciliani che con tanta ingiustizia ed ingratitudine avea aggredito; inviso ai Francesi che abbandonava; mal contento di papa Bonifazio, dal quale dopo essere stato ingolfato in quella guerra, nulla avea ottenuto delle tante promesse.

Ciò non però di manco la perdita della battaglia di Capo-dOrlando, portò seco gravissime conseguenze. Per essa fu rotto quel prestigio, per cui i Siciliani teneansi invincibili; onde molti presi da paura cominciarono a pigliar quel partito che credean più sicuro; molti si lasciaron sopraffare dalle minacce; e molti ancora furon sedotti da Rugieri di Loria che tante dipendenze avea in quelle parti. Però, comechè Randazzo, ove diresse le sue forze Roberto duca di Calabria, avesse con fermezza resistito, Castiglione, Roccella ed altre delle terre prima possedute da Rugieri a lui volontariamente si resero, e lo stesso avrebbe anche fatto Francavilla, se non fosse stata tenuta in freno dal castello, che stavale a cavaliere e da Corrado Doria teneasi.

Da Randazzo passò il duca ad assediare Adernò, e l’ebbe senza resistenza. Quindi si diresse a Paternò. Vi comandava il conte Manfredi Maletta gran camerario del regno. Era stato costui iniziato nella prima sua gioventù dall’imperator Federigo, cui era caro, negli ameni studî e nelle filosofiche discipline. Il Re Manfredi avealo altamente onorato e promosso. La regina Costanza ed i figliuoli di lei, non che tenerlo caro, rispettavanlo qual padre. Vecchio erasi ritirato nella sua terra di Paternò e vi filava giorni tranquilli tra gli agi e gli studî, quando ivi accostossi il duca di Calabria coll’esercito. Non sarebbe stato da maravigliare, se in quella età e svezzato da gran tempo dalle armi avesse reso senza resistenza la terra: ma fece orrore la ingratitudine di unirsi ai nemici, di che ebbe poi il dovuto merito, con finire gli ultimi giorni suoi nell’estrema indigenza.

Vizzini e Buccheri vennero ugualmente nelle mani del nemico. La prima per opera di Giovanni Callaro che da Vizzini era, e fatto prigione non guari prima nella battaglia navale, volle ricattarsi con quel tradimento; l’altra di per se. Espugnate furono Chiaramonte ed Aidone: ma Piazza difesa da Guglielmo Calcerando e Palmeri Abate, rese vano ogni sforzo del nemico. In questo un Virgilio Scordia da Catania, da una mano indettavasi col duca di Calabria per ribellare quella città, dall’altra mostravasi tutto pronto a spargere il sangue pel re, il quale tanta fede ebbe in lui, che, avendo una volta Blasco Alagona, che comandava nella città ed era entrato in sospetto del tradimento, avvertito il re a non fidarsene, n’ebbe risposta «Amo meglio perder la città, che macchiar l’onore di Virgilio sospettandolo traditore.» Per che l’Alagona lasciò il comando della città, e in di lui vece l’ebbe Ugone de Empuriis. Ma non guari andò che il traditore Scordia, unitosi ad un Napoleone Caputo, ribellarono la città, il cui esempio seguirono Noto, Buscemi, Palazzolo, Ferla e finalmente Ragusa.

Papa Bonifazio si tenne allora tanto sicuro che la Sicilia sarebbe in breve ritornata sotto il dominio di re Carlo, che spedì suo legato in Catania il cardinal Gerardo di Parma per cooperare colle sue insinuazioni all’impresa, e scioglier la Sicilia dall’interdetto, tosto che fosse sommessa. Al tempo stesso re Carlo, venuto in poter suo la maggior parte della città e terre del Val di Noto, volle compir l’imprcsa con una nuova invasione del Val di Mazzara. A tale oggetto spedì per quelle parti un’armata di quaranta galee, sulle quali imbarcossi Filippo principe di Taranto suo secondo figliuolo, con settecento cavalieri, e, navigando senza disastro presero terra presso Trapani ne’ primi giorni di novembre del 1299.

IV. — Il re in questo, visitate prima e provveduto alla difesa di Siracusa, Lentini e quelle poche città che gli rimaneano nel Val di Noto, erasi ridotto con tutte le sue forze in Castrogiovanni. Quivi gli giunse la nuova dello sbarco del principe di Taranto. Chiamati i capitani a consiglio, Blasco Alagona fu di avviso non esser convenevole che il re lasciasse Castrogiovanni per andare di persona ad affrontare il principe dachè il duca di Calabria, già padrone della maggior parte del Val di Noto, e che poco di lungi era, saputa la sua mossa, potrebbe tenergli dietro e torlo in mezzo, quando lo vedesse a fronte del fratello: e propose in quella vece di andarvi egli stesso con buon nerbo di gente, restando il re a tenere a freno da quest’altra parte i nemici. Tutti assentirono, tranne un Sancio della Scala, il quale stava silenzioso a piedi del re. Chiesto il suo parere, disse «I re di Aragona, progenitori vostri, non sarebbero mai venuti a capo di conquistar tanti regni, se non fossero stati i primi a pigliar le armi. Ciò che si propone, in altri tempi sarebbe forse sano consiglio: oggi potrebbe ascriversi a vostra pusillanimità; e basterebbe il solo dubbio di ciò per far venir meno del tutto il cuore dei Siciliani. Un passo ardito può rivelare il coraggio della nazione. A tale siamo, che bisogna o rimetter le cose nostre con una clamorosa vittoria, o abbandonar la terra ai nemiciAttenutosi il re a tale avviso, che più affacente era all’età sua e al suo gran cuore, lasciato Guglielmo Calcerando alla custodia Castrogiovanni, mosse con tutte le sue forze. Un corpo di Castrogiovannesi lo seguì: una mano di Palermitani lo raggiunse. Di da Marsala, in una pianura detta della Falconara, i due eserciti furono a fronte il 1 dicembre. Il principe divise la sua gente in tre schiere. La prima comandata da Broglio de’ Bonzi suo maliscalco era destinata ad assalire i fanti siciliani. L’altra sotto gli ordini suoi dovea dirigersi contro Blasco Alagona. La terza era guidata da Rugieri Sanseverino conte di Marsico, il quale dovea attaccare la schiera, in cui erano il conte Chiaramonte, Vinciguerra Palici, Matteo di Termini e molti altri nobili siciliani.

Il re per ingannare il nemico avea fatto tenere ravvolta la sua bandiera; tripartì anch’egli la gente sua. Blasco Alagona cogli Almogaveri tenea la sinistra, egli il centro, gli altri la manca. Blasco avanzavasi a lento passo verso i nemici: il principe, non veduto in verun luogo lo stendardo reale, non venne pure in sospetto d’avere a fronte il re colla più scelta gente del regno; anzi creduto esser quello un piccol corpo comandato dal solo Alagona, lasciata la sua posizione, corse ad assalirlo. Fu duro l’incontro. La bandiera dell’Alagona vedeasi di qua e di tratta dall’impeto de’ combattenti. Il conte di Marsico affrontò la schiera de’ baroni siciliani, in cui trovò tale intoppo che il principe, lasciato l’Alagona e gli Almogaveri, di cui facea poco caso, corse in ajuto di lui. Vi fu in quel momento uno che preso da paura consigliava il re a ritirarsi; il re gli rispose «Io ho giurato di spender la vita in questa guerra. Se voi od altro traditore volete ritrarvi, la via è aperta.» Ed in questo dire fatto spiegare il suo stendardo, spronò il cavallo ed entrò nella mischia colla sua schiera. Rinfrescata così la battaglia, i nemici sorpresi dal vedersi circondati dai Siciliani, in maggior numero che e’ non credevano e comandati dal re stesso, cominciarono a disordinarsi. Il re ferito nel volto e nella mano, combatteva con animo così risoluto che accresceva il coraggio dei suoi, la confusione dei nemici. In questo, Alagona ordinò agli Almogaveri di avventarsi ai nemici e metterne a morte i cavalli: ed eglino eseguirono l’ordine con tal furia che nella confusione uccidevano anche alcuni de’ cavalli siciliani. Il principe di Taranto scontrossi con Martino Perez-de-Ros, e senza conoscersi l’un l’altro vennero alle mani. Dopo lungo pugnare, venne fatto al Perez di abbracciare il nemico e dargli un urto, onde cadde, e gli restò sotto; e già, tratto il pugnale, era per ferirlo. Il principe allora temendo, non la morte, ma il morir per mano plebea, si palesò. Sorpreso Perez tenne il colpo e chiamò Alagona, che presso era, il quale ordinò a due Almogaveri di metterlo a morte per vendicare il sangue di Corradino: ma in quel momento apparve, su d’una vicina altura un’altra banda nemica, e accennava di venire in soccorso dei suoi. Alagona sovvenendosi che per un caso simile era tornata in rotta la battaglia già guadagnata da Corradino sopra Carlo d’Angiò, senza più curare del principe corse a quella volta. Era quello un corpo di Napolitani, che la città di Napoli avea dato e ’l principe avea posto in riserba. Ma costoro visti appena i Siciliani muovere alla volta loro, senza aspettarne l’incontro, spulezzarono.

In questo, il re, saputo il caso del principe, gridò di non molestarlo e corse a lui, e quello gli si arrese. Il conte Marsico che colla sua banda tenea ancora la puntaglia, visto l’esercito rotto, perduto ogni speranza di scampo, che il mare agitato tenea i legni lontani, s’arrese anch’egli coll’avanzo de’ suoi. In somma in tutto l’esercito nemico niuno restò se non morto o preso. Il principe fu mandato nello stesso castello di Cefalù, ove era stato chiuso il padre, gli altri in castelli diversi.

Fra que’ Napolitani, ch’eran fuggiti e che tutti poi furon presi, era quel Pietro Salvacoscia, che era stato ammiraglio di re Federigo e governadore dell’isola d’Ischia. Costui nella battaglia di Capo d’Orlando era con vil tradimento passato ai nemici, ed avea poi ribellato Ischia e datala in mano del re Carlo. Preso ora da un Giletto, gli offriva mille once per liberarlo. «Molto tempo, colui rispose, è necessario per numerar quel danaro; serbalo piuttosto a’ tuoi successori: tu intanto abbiti il merito del tuo tradimento.» E in questo dire gli tagliò la testa.

Se in quella congiuntura ammirevole fu il coraggio del re, anche più fu ammirevole la sua modestia dopo la vittoria e la previdenza sua. Il giorno stesso ne diede parte al comune di Palermo con sua lettera, nella quale, nulla a se, tutto attribuisce all’ajuto divino, ed ordina ai Palermitani di mandar tosto le loro galee a soprapprendere l’armata nemica, che danneggiata riparava nel porto di Trapani (528).

Il duca di Calabria intanto, saputo lo sbarco del fratello, tutto lieto ne diede notizia a’ suoi capitani ed al cardinale, e tutti ne gioivano, e teneansi da ciò sicuri dell’intero acquisto del regno. Solo Rugiero di Loria non ne fu lieto, e disse che il re ed i Siciliani avrebbero offerta la battaglia al principe, egli animoso l’avrebbe accettata, ed in tal caso la sua morte o la prigionia sarebbero inevitabili. alcun soccorso potrebbe sperare dall’armata; che quella spiaggia mal sicura non permetterebbe alle navi di tenersi vicine alla terra. Il solo rimedio, soggiunse, sarebbe quello di correr tutti noi in quelle parti e tentare o di congiungerci al principe o di metter in mezzo i Siciliani, per impedir loro di venire alle mani. Fu accettato il parere. Il duca colla sua gente si mise in via: ma non s’era molto dilungato da Catania, che ebbe avviso di esser l’affare accaduto per punto come Loria lo avea preveduto. Fatto ritorno in Catania, per riparare la perdita sofferta; fu spedito il Loria in Napoli a levar nuova gente. Egli prima di partire raccomandò a tutti, e più che altri al cardinale, di tenersi in guardia dell’astuzia de’ Siciliani e non tentare impresa, che fosse per accedere prima del suo ritorno.

V.Trovavasi allora chiuso nel castello di Gagliano un barone francese, Carlo Morelletto di nome, fatto prigione nella battaglia di Marsala. Ne era castellano un Montanerio di Sosa assai fido al re, il quale, meditando un gran colpo, cercò di cattivarsi l’animo del francese, usando verso lui riguardo. Fattoselo per tal modo amico, un giorno, come tutto pauroso, guardandosi intorno, con voce sommessa gli disse, essere stufo di vivere staccato dal grembo della Chiesa; desiderare di venire all’obbedienza di re Carlo e fargli prova della sua fedeltà con segnalato servizio di farlo padrone di quel castello, intorno al quale, senza di ciò spenderebbe invano le sue forze. Tutto lieto di ciò il Morelletto, ne scrisse al duca, invitandolo a mandare una mano di gente per riceversi quel castello. Comunicato l’avviso ai capitani suoi ed al cardinale, i primi senz’altro considerare, volean tosto mettersi in via: ma il cardinale imprese a dissuaderneli rammentando loro l’avvertimento del Loria. Ma avea un bel dire; coloro maggiormente ostinavansi, dicendo che Loria avea detto ciò per arrogarsi egli solo l’onore di tutte le imprese; e che in cose di guerra lo avviso di tanti guerrieri dovea prevalere a quello d’un prete. Il cardinale solo potè ottenere di esaminar bene la cosa, prima d’avventurare la gente; onde fu scritto al Morelletto d’indurre il castellano a recarsi in Catania per fare egli stesso la proposta. Il Montanerio indettato con Blasco Alagona, rispose che non potea lasciare il castello senza permesso del re: ma in sua vece mandava un suo nipote. Costui, non meno astuto dello zio, seppe dare tal colore di verità al suo dire che nessuno non prestò piena fede alle sue parole. La spedizione fu decisa senza contrasto; e, come tutti voleano esserne a parte, il duca, per non far torto ad alcuno, disse che tutti ed egli il primo, sarebbero iti. Ma, distoltone dalla moglie, die’ in sua vece il comando al conte di Brienne.

Era già notte, quando l’esercito avvicinavasi a Gagliano. Tommaso di Procida, temendo sempre un’insidia, propose al conte d’andar egli il primo con poca gente per iscoprire il paese. Ma quello tenne in non cale l’avviso. Nel cuor della notte, essendo già assai presso il castello, il nipote di Montanerio chiese ed ebbe licenza di correre avanti col pretesto di andare ad avvertire lo zio, a scanso che in un subito tumulto i suoi soldati non lo avessero messo a morte. Ma in quella vece corse ad avvertire Alagona dell’arrivo de’ nemici. Ma Alagona per sue scolte poste nelle vicine alture, col chiaror della luna avea contato i passi loro. Laonde, vistili giunti ov’ei volea, fe’ sonare a battaglia: ma generoso, com’era, sdegnò di attaccarli di notte, e spedì un trombetto a gridare a’ Francesi d’esser presso Blasco Alagona, che sfidavali a battaglia per lo dimane. In udir quel nome tutti i Siciliani, che militavano coi Francesi, si ritrassero. Tommaso di Procida propose al conte di Brenna di ritornare ed offrivasi, come colui che per essere stato signore di quel castello, coll’occasione della caccia era pratico de’ sentieri, di ricondurli in Catania senza pericolo, Ma il Francese gli die’ del codardo, dicendogli non esservi esempio che la nobiltà francese accintasi ad una impresa, avesse mai voltato le spalle al nemico. Il Procida allora fatto senno, sbiettò.

Al far del giorno Alagona situò i suoi cavalieri colle spalle al sole nascente, onde i suoi primi raggi abbacinassero i nemici. Dispose poi gli almogaveri e i fanti in due grandi ale, lungo il sentiero che quelli dovean percorrere per venire all’attacco. Tale era la fidanza dei Francesi nel proprio valore, che, lasciata un’altura, ove avrebbero potuto con vantaggio difendersi se fossero attaccati, vollero scendere precipitosamente per attaccare i Siciliani; ma lungo il corso una grandine di sassi lor piovve addosso e lor cadevan sotto i cavalli; chè Alagona avea dato ordine a’ balestrieri di mirare a’ cavalli. Disordinati così e scavalcati i Francesi, non poterono resistere l’urto dei cavalieri siciliani. dubbio, lungo fu il combattimento: nissuno de’ Francesi campò la morte. Solo il conte di Brienna con pochi compagni, disperando di salvarsi, per non cadere in mani ignobili, ascesero su d’un’alta rupe e vi si difendeano; ma sopraggiunto Blasco Alagona, a lui quel conte cesse la spada.

Ottenuta quella vittoria, tornò Blasco colla sua gente in Mineo ond’era partito, menando seco il conte, che fu chiuso in quel castello. L’infelice Morelletto, innocente cagione di quella strage dei suoi, era stato a vedere il combattimento della finestra della prigione; e tanto fu in dolore, da cui fu preso per l’esito lacrimevole della battaglia, che, datosi la testa per le mura, spirò. Montanerio ne venne ricco; che, oltre le ricompense avute dal re, pose ogni studio a raccorre i cadaveri dei nobili francesi e prepararli in modo da conservarli: e poi li vendè a gran prezzo ai loro congiunti che vollero ricattarli.

Mentre tanto alto suonava per tali fatti la fama di Blasco Alagona, vennero in Sicilia quattrocento Toscani capitanati da un Ranieri Buondelmonte per militar coi Francesi. Corse allora voce di aver costoro fatto voto di mettere a morte o di dar tutto vivo in mano a re Carlo il generale siciliano. Giunti in Catania, si diedero a ricercar petrivi e per le piazze ove potessero cogliere l’Alagona. Ma il sentire de’ fatti di lui, cacciò loro quel grillo dal capo; e in poco d’ora, fatti ludibrio de’ Francesi e dei Siciliani, ripartirono.

VI. — In quello stesso anno 1299 i Siciliani, tornati presuntuosi per quelle due vittorie ottenute in terra, vollero tentar la fortuna in mare. Allestita un’armata di ventisette galee, comandata dal grand’ammiraglio Corrado Doria, vennero fuori per tentar d’intraprendere l’ammiraglio Loria, il quale dovea portare in Sicilia nuovo rinforzo di gente e di viveri. Eran sull’armata siciliana assai nobili, fra’ quali Giovanni Chiaramonte, Palmeri Abate, Enrigo d’Incisa, Benincasa di Eustazio e Peregrino di Patti. Quest’ultimo alquanti giorni prima era passato presso le spiagge di Catania ove erano dodici galee napolitane. Sfidatele a battaglia, non aveano osato affrontarlo, ed egli in disprezzo, sotto gli occhi del duca di Calabria, briccolato su d’essa una folata di sassi, continuò il suo viaggio. Cinque galee genovesi della fazione Doria eransi unite alle siciliane.

Venuta fuori l’armata, percorse e poste a sacco in varî luoghi le spiaggie napolitane, fermossi avanti Napoli, ove sorgea sull’ancore l’armata di re Carlo forte di quaranta galee. Fatta la sfida, Loria rispose non esser ancora presto a combattere. Maggiormente ingalluzziti per ciò, i siciliani andarono ad aspettare l’armata nemica nell’isola di Ponza. Mentre che colà erano, sopraggiunsero in Napoli ( per una densa caligine dell’aria poterono avvedersene) le dodici galee ch’erano in Catania, ed otto genovesi della fazione Grimaldi, nemica di Doria.

Mosse allora l’ammiraglio Loria dal porto di Napoli per attaccare con forze doppie i Siciliani, i maggiorenti de’ quali, visto il numero delle galee nemiche, vennero fra loro a consiglio. Palmeri Abate disse non esser prudente avventurar l’armata, sulla quale era appoggiata la speranza del regno; aver fatto a bastanza per l’onor loro, provocando il nemico ed obbligandolo una volta a ricusar la battaglia; esser suo parere ritornare in Sicilia. Il solo Eustazio gli rispose che non s’erano eglino mossi per fuggire, come i delfini, avanti i legni nemici; che il numero maggiore di costoro non facea caso; perocchè i Napolitani non oserebbero venire con essi alla prova: e conchiuse con dire «Se alcun v’ha fra noi, che teme il cimento, è meglio che si ritiri prima della battagliaAbate che in piccolo corpo chiudea un gran cuore, messo in punto da quel detto, rispose «Ebbene; combattiamo e tosto vedrassi quanta ragione hai di dirmi codardo.» E in questo dire saltò sulla sua galea, e l’armata preparossi al combattimento. Ma le cinque galee genovesi amaron meglio goder lo spettacolo da lontano e si ritrassero; onde restaron le ventisette galee siciliane a combattere contro sessanta delle nemiche: pure combattevano lunga pezza con gran cuore. Il solo Eustazio, che tanto avea bravato, visto ogni cosa perduto, fuggì; e sei altre gli tennero dietro. Le restanti vennero tutti in potere del nemico. L’ammiraglio Doria colla sola sua galea resistè gran tempo, finalmente il Loria fece accostare a quella un brulotto acceso. L’ammiraglio siciliano, per non perire tra le fiamme, s’arrese. Loria, che mancava di generosità quanto abbondava di coraggio e di austuzia, salito su quella galea, fece tagliar le mani e cavar gli occhi ai balestrieri genovesi, che sopra vi erano, e con tanta bravura aveano difeso quel legno.

Lieto fu oltremodo re Carlo di quella vittoria. Sperava egli che avendo nelle mani i più illustri fra’ baroni siciliani, avrebbe di leggieri potuto in alcun modo guadagnarli, onde pel mezzo loro a lui si dessero le terre e castella da loro possedute in Sicilia. Ma vane riuscirono le minacce, le preghiere, le offerte: tutti stettero saldi. Finalmente alcuni ne rimandò in Sicilia, sulla speranza che narrando essi le cortesie loro usate da lui, venissero ad attutire l’odio de’ Siciliani. Di tal numero fu Palmeri Abate, il quale, imbarcato su d’una delle galee che Ruggieri Loria dovea ricondurre in Catania, nel viaggio si morì delle riportare ferite. Il suo cadavere fu onorato dagli stessi Francesi, dai quali fu orrevolmente tumulato nel duomo di Catania.

Ben diversa fu la sorte del grand’ammiraglio Corrado Doria. Minacciato da Loria di metterlo a morte, se non gli restituiva il castello di Francavilla, rispondea, non suo, ma del re essere quel castello. Allora, per piegarlo, gli venne negato il vitto. Era per morir crudelmente di fame e di sete. Ma avutane lingua il re, amò meglio perdere il castello, che l’ammiraglio, e per suo ordine Francavilla fu cessa.

VII. — Al tempo stesso per tradimento d’alcuni, che dentro vi erano, ribellarono i castelli di Asaro, Regiovanni, Aci e Delia, ma tornarono alla obbedienza del re prima che i Francesi avessero potuto munirli.

Il duca di Calabria intanto, visto che di poco frutto erano state le armi per sottomettere i Siciliani, volle tentare vie più dolci. Però dispose che l’ammiraglio Loria, portando seco il cardinal di Parma, venisse discorrendo le spiaggie di Sicilia e spargendo per tutto bolle e monitori. Giunto all’altura d’Agosta, rammentossi il Loria di essere in quella spiaggia una grossa terra posseduta da Errigo d’Incisa, il quale, fatto prigione nella battaglia di Ponza, era stato trasportato in Catania, vi rimandò una delle sue galee per portare quel barone e il denaro di che avea mestieri. Ritornava a vele gonfie quella nave col prigione e ’l danaro: ma, incontrata da una galea siciliana fu presa; onde quel barone, acquistò inaspettatamente la libertà e ’l danaro di Loria. Costui, fatto inutilmente gran parte del giro, venne alla spiaggia di Termini; ove, tenendosi sicuro, preso terra con alcuni dei suoi galeotti e soldati, si die’ a vagare per quelle campagne. Soprappresi dai conti Manfredi Chiaramonte ed Ugone de Empuriis tutti vi restoron presi o morti, tranne lui, ch’ebbe la sorte di rincantucciarsi in una casipula, onde sbucato al dilungarsi di quella schiera, tornò alle navi. Per ricattarsi in alcun modo sorprese Taormina e trattone i pochi arredi che trovò nelle case (che i cittadini al suo avvicinarsi erano riparati con quanto aveano di più prezioso nel castello di Mola che sta sopra la città), si ridusse in Catania.

Tornato allora il duca al pensiero delle armi, mandato prima il Loria nelle spiagge di Puglia ad acquistar frumento ed altri viveri, di che abbisognava l’esercito, e provvedutone le città del Val di Noto, ch’erano in poter suo, tolta con se la maggior parte delle sue galee, prese a costeggiare la spiaggia che giace a mezzogiorno di Catania, con animo di venir devastando le campagne, e tentar di soprapprendere alcune delle città littorali. Collo stesso intendimento il Loria con pochi altri legni si diresse alle parti settentrionali.

Il duca, tentato inutilmente l’assalto di Siracusa e di Scicli, era giunto alla spiaggia ove un sorgea Camerina, e Loria trovavasi a Brolo, quando una furiosa tempesta levossi il giorno stesso in quelle due opposte spiaggie. Ventidue delle galee del duca perirono. Egli stesso potè a gran ventura riparare nel porto di Pachino, onde quetato il mare, fe’ ritorno in Catania. Pochi, fra’ quali Guglielmo di Gudur eletto arcivescovo di Salerno, cancelliere del duca, perduto quanto aveano, si ridussero finalmente in Ragusa. Loria, sia per lo minor numero dei legni o la maggior perizia, sia che men furiosa fosse stata la tempesta, perdè solo cinque galee. Quindi navigò verso Palermo, ove secretamente abboccatosi con Blasco Alagona, per indurlo a fare entrambi ogni opera, perchè si venisse alla pace, ritornò anch’egli in Catania.

VIII. — Mentre tali cose accadevano il re stava in Palermo. Una notte, presentossi alla guardia una Toda chiedendo di voler parlare al re. Era costei nota in corte per essere stata collattanea del re e con lui cresciuta fino a tanto che da lui era stata maritata a Pietro Frumentino; onde le fu dato accesso. Venuta in presenza del re, gli disse, aver da palesare cosa di gran momento: ma voler prima il perdono di suo marito. Fattalene dal re la promessa, gli svelò una congiura ordita da Pietro Caltagirone, Gualtieri Ballando e Guido Filangeri nobili palermitani e suo marito, per metterlo a morte. Il re tenne la promessa. Frumentino ne andò immune, Caltagirone forse capo della congiura fu condannato a perder la testa, agli altri due il re fece grazia della vita e li bandì dal regno.

IX. — Ma cure più gravi vennero presto ad agitare l’animo del re, Erano già venti anni, che i Siciliani eran coll’armi alla mano. Una guerra così lunga era di per se sufficiente a produrre la fame: molto più dovea produrla in quella età. Primieramente perchè gli eserciti componeansi di truppe collettizie, che ogni barone seco portava, e queste eran per lo più una ribaldaglia, la quale, senza guardar a’ nemici più che agli amici, solea metter tutto a sacco ed a ruba. Il modo stesso di condur la guerra era diretto a disertare il paese: si predava il bestiame delle campagne, si recidevano gli alberi fruttiferi e le vigne; si dava fuoco alle biade mature, si demolivano i mulini. Aggiungasi che gli animi dei Siciliani tutti, esaltati dalle novelle istituzioni politiche, per cui tutto il popolo avea parte ne’ grandi affari del regno, eran presi da tale rabbia contro gli Angioini, che gli uomini tutti, lasciata l’agricoltura ed ogni altro mestiere, si rivolsero alle armi. Non è perciò da maravigliare dell’esser sopraggiunta una carestia, ma del non essere accaduta gran tempo prima.

Colse quel destro il duca Roberto per cinger di assedio Messina; onde mosse con quanta gente potè da Catania e si pose ad oste a Roccamadore presso quella città. Il re dall’altro lato, conosciuto quanto importava il tener la città provveduta di viveri, fatto ogni sforzo per raccorne in tutto il Val di Mazzara, ne mandò in Messina una gran salmeria, fattala scortare da Blasco Alagona con cinquecento soldati. Pensò allora il duca che rado e diminuito d’assai potea giungere ai Messinesi ogni soccorso di viveri per la via di terra; onde si rivolse a custodire piuttosto il mare. Con tale intendimento valicato il faro, non potendo stringer d’assedio Reggio, chè Ugone de Empuriis, che comandava in Calabria, lo avrebbe impedito, accampossi poco di lungi da quella città a fronte di Messina: e al tempo stesso l’ammiraglio Loria, riunite tutte le sue navi, le pose fra l’uno e l’altro lido per affamare ad una volta ambe le città.

Ciò non però di manco Messina ebbe un soccorso onde men lo aspettava. Era allora in Sicilia un Ruggieri da Brindisi, già cavaliere dell’ordine de’ tempieri, il quale andava accattando ventura. Costui s’offerse al re d’introdurre per mare in Messina un grosso carico di frumento. Raccoltone ove potè in Sicilia; ne caricò dodici navi, che riunì nel porto di Siracusa. Mentre vi stava aspettando una favorevole congiuntura, levossi un vento impetuoso di mezzogiorno e il mare gonfiossi nella stessa direzione. Colse il momento Ruggieri e levò le ancore. Le sue navi correano verso il faro. Avvistosene Loria, fece ogni sforzo per correr loro sopra, ma il vento e il mare in quello stretto infuriavano in modo, che se si fosse attentato di muoversi, invece di nuocere a’ Siciliani, avrebbe perduto tutte le sue galee; onde, senza poterlo impedire, sotto gli occhi suoi le navi siciliane entrarono a golfo lanciato in Messina.

Ma la morte di Blasco Alagona, accaduta in quei giorni trafisse l’animo del re e dei Siciliani, più che qualunque altra calamità. D’allora in poi di nissun’altro volle il re fidarsi per iscortare le salmerie di frumento che d’ora in ora facea giungere a Messina, e ne prese egli stesso il carico. Anzi per consumare quanto meno potea nel lungo tragitto, era egli il primo a dar l’esempio della massima frugalità nel vitto: a segno che una sera, ch’ebbe a posare in Tripi, non altro ebbe a cena, che due piccoli pani di orzo e poco vino, che uno della comitiva a caso trovavasi avere in un fiasco ordinario.

Volle una volta entrare egli stesso in Messina; ma inorridì al lacrimevole spettacolo, che offriva per tutto quella città. Volti scarni, luridi ed estenuati dalla lunga inedia; nobili matrone, che, dimenticato ogni decoro, andavano attorno accattando il pane, uomini venuti meno di fame sulle pubbliche vie, donne che sostenevano nelle scarne braccia i loro pargoli, che si sforzavano invano a trarre alcuno umore dalle inaridite mammelle delle madri.

Il re, trafitto l’animo, pensò allora di trarne tutta quella gente che non era atta alle armi e trasferirla ne’ luoghi ove il vivere era meno scarso. Egli stesso volle accompagnare quella misera ciurma ed era prodigo a tutti di quei soccorsi, che per lui si poteano. Per alleggerire le madri, pressocchè esinanite, dal peso dei loro pargoli, ne togliea or di questi or di quelli uno avanti ed un’altro in groppa. Ed eglino familiarmente con lui usavano. Godea il re delle loro innocenti carezze; non permettea che fossero respinti; ne’ luoghi di posa li volea tutti intorno a se; nelle sue refezioni facea in pezzi il poco pane che per lui serbavasi e loro ne distribuiva gran parte. Qual maraviglia se i Siciliani eran sempre pronti a dar la vita per tal re?

Trovandosi egli uno di quei giorni tra Castiglione e Francavilla, accostatoglisi un’uomo, come per chiedergli elemosina, gli disse all’orecchio esser egli a giorno che in quel momento il castello di Castiglione era senza presidio. Il re finse non farne caso. Giunto a Randazzo, dopo cena si mise a letto: ma levatosi nel cuor della notte, rimontò a cavallo e si diresse a Castiglione cosoldati che lo accompagnavano. Vi giunse al far del giorno. La terra fu presa; e il popolo tumultuando obbligò il castellano e i pochi soldati, che nel castello erano a rendersi.

Intanto la carestia avea già cominciato ad affligere gli assedianti; e però il duca di Calabria cominciò a pensare come ritirarsi con onore. La duchessa sua moglie spedì messi al re suo fratello proponendogli una tregua. Vi acconsentì egli, e fu stabilito che i due principi convenissero in Siracusa per istabilirne i patti. Allontanossi il duca dall’assedio; Messina respirò; la tregua di sei mesi fu conchiusa tra’ due cognati che stettero insieme tre giorni. Quindi il duca, lasciato in Catania la moglie e ’l neonato principe Luigi suo figliuolo, recossi in Napoli per dar conto al re suo padre dello stato di quella guerra e riportarne nuove forze. Ma nella sua assenza Aidone e Ragusa tornarono all’obbedienza del re.





527 Vedi in fine la nota XLIX.



528 Vedi in fine la nota L.



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