IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXXV. I. Bonifazio papa chiama Carlo di Valois, che prende Termini e tenta varie altre città. — II. Argomenti per la pace. Pace conchiusa ed eseguita. Il papa la consente. — III. Spedizione in Levante. Nuovi principii di guerra. Rottura del trattato di pace. Tregua — IV. Nuove ostilità. Trattative di pace. Moti in Genova. — V. Pietro associato dal padre al regno. — VI. Nuova invasione in Sicilia. Assedio di Palermo. — VII. Fazioni d’Italia secondate da’ Siciliani. — VIII. Tentativi di nuova invasione. Ambasceria a papa Benedetto XII fallita. — IX. Ribellione dell’isole delle Gerbe. — X. Morte di Federigo. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Arrovellava intanto papa Bonifazio al vedere che tutti gli sforzi suoi erano stati fino allora inutili a vincere la longanimità de’ Siciliani; però mosse contro la Sicilia un nuovo nemico. Era in Francia Carlo conte di Valois, fratello del re Filippo il Bello, il quale avea nome di gran guerriero. A costui si rivolse, mettendo avanti il solito zimbello di una spedizione per Terra Santa: e chiamatolo a se con tal pretesto, gli promise di dare a lui il governo di quella guerra e di farlo re dei Romani, dopo d’aver deposto Alberto di Habsbourg: e per maggiormente indurlo gli fe’ menare in moglie la stessa Catarina di Courtenay che avea proposto a re Federigo per uccellarlo, assicurandolo che avrebbe levato in armi l’Europa tutta per metterlo sul trono di Costantinopoli. Ma tutto ciò a patto che domasse prima i ribelli della Chiesa in Italia.
Il conte di Valois, adescato da tante lusinghe, tutto promise, e, raccolto in Francia un grosso esercito, a cui si unirono come venturieri altri principi e baroni di gran nome, venne in Roma, e quindi unitosi in Napoli colla gente raccolta da Carlo II d’Angiò, comandata dal duca Roberto suo figliuolo si diresse per la Sicilia.
Addì 28 di agosto del 1302 il conte di Valois prese terra presso Termini ed ebbe senza trar la spada quella città per opera di un Simone Alderisio, il quale sia per tradimento, sia perchè preso da timore, gliene aprì le porte, appena viste giunger le navi. Devastati i campi termitani, si diressero i Francesi a Caccamo. Difendea la terra il conte di Modica Giovanni Chiaramonte, mandatovi dal re, il quale al primo annunzio dello sbarco de’ nemici erasi ritirato colle sue forze in Polizzi, città forte di sito ed abbondevole, onde potea sorvegliare i movimenti del nemico.
Caccamo era così munita di sito e d’arte che si fe’ beffe d’ogni sforzo de’ Francesi; perchè il Valois levatosene, accennò di volersi accostare a Polizzi e mandò a sfidare il re a battaglia campale. Il re gli rispose che stesse ad aspettarlo alquanto: ma quello si rivolse ad assediar Corleone. Ivi erano occorsi in tutta fretta Ugone de Empuriis e Berengario de Intenziis colle loro bande, e tanto fecero che i Francesi vi perderono invano diciotto giorni. Assai di loro vi perderon la vita, tra’ quali il fratello del duca di Brabante morì pesto le tempia da un sasso scagliato da una donna.
Il conte di Valois, il quale tutt’altro avea in animo che spendere il tempo e la gente in Sicilia, lasciato Corleone si diresse a Sciacca. Venne colà a raggiungerlo l’ammiraglio Loria, al quale, costeggiando da quella parte la Sicilia, era venuto fatto di soprapprendere Castell’a mare del golfo; e così venne la città stretta per mare e per terra. Ma Federigo d’Incisa, che comandava la città, preparossi ad ostinata resistenza; e ’l re da Polizzi erasi trasferito in Caltabellotta.
II. — Tale era lo stato delle cose in Sicilia quando la duchessa Giolanda, la quale tanto avea travagliato per pacificare lo sposo col fratello e forse con tale intendimento avea seguito il marito, lasciata da lui in Termini, vi finì nel fior degli anni i giorni suoi. Il fratello e lo sposo, i Siciliani e i francesi trambasciaron del pari per la morte di questa virtuosa principessa.
Ma più grave calamità venne presto ad affliggere l’esercito nemico. Una pestilenza cominciò a manifestarsi nel campo, tanto fiera che ne morivano a migliaia, non che gli uomini, i cavalli. Perdita gravissima, perchè in quell’età la cavalleria era il nerbo principale dell’esercito, e, quel ch’era peggio, irreparabile.
Il re, saputo ciò, volle coglier quel momento, in cui i Francesi già stanchi di un’assedio di quaranta giorni, oppressi dal male, diminuiti, con pochi e mal sani cavalli, poca resistenza poteano opporre, per iscagliarsi loro addosso e finire in un colpo la guerra; e però scrisse da per tutto per riunire presso di se tutte le forze del regno.
Ben lo previde il conte di Valois, il quale, vistosi nella necessità o di fuggire vergognosamente o di cader nelle mani de’ Siciliani con tutto il suo esercito, volse l’animo a pensieri di pace. Era egli congiunto di sangue, nel grado stesso, del re e del duca, ed altronde sperava, che pacificandoli, avrebbe potuto avere le forze d’entrambi per ajutarlo ad ottenere l’impero di Costantinopoli, cui agognava. E tanto fece che indusse il duca a venire all’accordo. Spedì allora due messi al re, che trovavasi in Castronuovo. Se la pace era necessaria a’ Francesi, non lo era meno ai Siciliani, già stanchi di venti anni di guerra, nella quale la sola Sicilia avea dovuto resistere a tanti e sì potenti nemici. Onde il re rispose se esser pronto a venire a patti, e per trattar più da vicino ritornò in Caltabellotta. In un campo intermedio tra quella terra e Sciacca convennero il re ed il conte di Valois, ognuno accompagnato da cento soldati, nè i due principi ebbero altro alloggio, che due capanne di bifolchi, che a caso colà trovaronsi. Accordati i preliminari, furon chiamati prima il duca di Calabria e poi Rugieri di Loria da un lato, Vinciguerra Palici dall’altro, e la pace si conchiuse.
Il partito fu che re Federigo dovesse sposare la principessa Eleonora sorella del duca Roberto; dovesse egli tener la Sicilia e le isole aggiacenti sua vita durante, e titolarsi re, ma senza dirsi di qual regno; che tutti gli stranieri dovessero abbandonar la Sicilia con tutte le terre e castella da essi prese; che il re dovesse ugualmente cedere tutto il paese da lui sino allora tenuto di là dal faro; che i prigionieri di ambe le parti avessero libertà; e finalmente che tutti i baroni e conti dell’una e dell’altra parte, che avean preso le armi contro il loro signore, perdessero le possessioni da essi tenute nel dominio di lui. Furono solo eccettuati Rugieri di Loria, cui fu conservato il castello d’Aci, e Vinciguerra Palici che ritenne parecchie terre in Calabria.
Conchiuso tal accordo, il re ne die’ notizia al comune di Palermo, ordinando al tempo stesso di sospendere l’armamento che era disposto (529). Il conte di Valois e il duca di Calabria, imbarcatisi, vennero in Catania per aspettarvi i prigionieri, che dovean liberarsi. Una galea fu spedita in Termini a levarne le spoglie della duchessa Giolanda e portarle in Napoli. Il re si diresse a Lentini passando per Sutera, nel cui erto castello era stato trasferito il principe di Taranto. Levatonelo, in sua compagnia venne a Lentini, ove da altre parti si ridussero il conte di Brienne e tutti gli altri prigionieri. Vi venne anche il duca di Calabria e vi stette col re con tanta dimestichezza e familiarità, che, recatisi a diporto in una villa ivi presso, che chiamavasi il Silvestro, senza aversi alcun sospetto, giacevano nello stesso letto.
Passati poi tutti in Catania, quindi si dipartirono. L’ammiraglio Loria, prestato prima l’omaggio al re pel castello d’Aci, si diresse coll’armata in Messina. Il duca, il conte e gli altri vi si recaron per terra. Ivi giunti, il conte di Valois diede un lauto desinare a’ baroni siciliani, che colà erano, fra’ quali fu invitato Nicolò Palici, che comandava nell’ultimo assedio. Alla fine del pranzo, parlando familiarmente, il conte gli domandò qual’era la disposizione degli animi dei messinesi, quando in quell’assedio furono ridotti affatto stremi di vivere. «Quando» rispose Palici «non avremmo più trovato nè un topo da mangiare, anzi che renderci, avremmo dato foco alla città, e poi saliti sul castello e sul real palazzo, quindi giù ci saremmo buttati in mare.» A tal risposta il conte crollando la testa guardò il duca di Calabria, dicendogli «Siamo stati ingannati dalla vana speranza di acquistare questo regno. Ne abbiamo trovato inespugnabili le città e le castella; ed anche più inespugnabili gli animali degli abitanti.»
Il domani furon partiti. Re Carlo II approvò la pace conchiusa. Papa Bonifazio ne fu indispettito: ma non potea negarsi a confermare il trattato. Era egli allora in aperta guerra con Filippo re di Francia, il quale preparavasi a scendere in Italia con grosso esercito per deporlo dalla sede pontificia; però era a temere che negandosi a ratificare il trattato, quei principi non si fossero collegati al suo nemico. Pure, nel confermarlo, vi aggiunse che re Federigo quindi innanzi dovesse avere il titolo di re di Trinacria e non più di Sicilia, e dovesse pagare alla camera apostolica quindicimila fiorini l’anno per ricognizione del preteso supremo dominio dei papi sulla Sicilia e le isole aggiacenti. Il re piegossi a tali condizioni come erasi piegato alla pace, coll’intenzione di cancellare l’une e l’altra a miglior tempo. Intanto per dar piena esecuzione al trattato, sul cadere di quell’anno stesso venne in Messina con isplendido corteo la principessa Eleonora, ed ivi seguirono le reali sponsalizie.
III. — Ma i mali d’una lunga guerra non cessano in un momento. Un gran numero di venturieri aragonesi, catalani, calabresi, venuti in Sicilia per la guerra; moltissimi siciliani, i quali non conosceano più altro mestiere che le armi, fatta la pace, formavano una marmaglia indisciplinata, più infesta al paese amico che non lo era stata al nemico. Il re per disfarsene ne formò una banda comandata dal valoroso Rugieri da Brindisi, e dato loro navi, munizioni e quanto loro abbisognava, li mandò all’imperatore Andronico di Costantinopoli, che lo avea richiesto d’ajuto contro i turchi, che invadeano l’impero. Giunti costoro in numero di ottomila in levante, vennero contro i turchi in Morea. Trentamila ne uccisero in due battaglie: la provincia fu liberata dai turchi, ma tosto fu maggiormente oppressa dai suoi liberatori. Rugieri ebbe il titolo di Megaduca di Romania ed una nipote dello imperatore in moglie. Ma bentosto i soldi eccedenti ch’essi pretendeano, le depredazioni e violenze da loro commesse, li resero odiosi allo imperatore ed al popolo più degli stessi ottomani. Andronico, non avendo altra via di disfarsene, invitò un giorno il Megaduca di Romania a venirlo a trovare in Adrianopoli, ed ivi lo fe’ con un tradimento mettere a morte.
Mancato il capo, la magior parte dei suoi compagni si sbandò e si die’ ad infestare le coste del mediterraneo. Una banda di millecinquecento più arditi degli altri si afforzarono in Gallipoli sull’Ellesponto, quindi infestavano le sponde d’Europa e d’Asia. L’imperadore v’accorse con grandi forze per isnidarneli: ma quel pugno di bravi disperse due volte quel numeroso stuolo di greci imbelli. Finalmente, abbandonata Gallipoli vennero a conquistare Atene. Per avere un capo ne offrirono la sovranità al re Federigo, il quale vi mandò un governatore. D’allora in poi il ducato d’Atene fu considerato come annesso al regno di Sicilia, ed uno dei figli del re ebbe titolo di duca d’Atene.
Mentre tali cose accadevano in oriente, la Sicilia era stata tranquilla. Correa il duodicesimo anno dalla conchiusione della pace di Caltabellotta. Roberto era già re per la morte del padre, e comechè il re Federigo avesse sempre agguatato il destro di venire alla guerra per rifarsi di ciò che avea perduto colla pace, pure non gli era venuto fatto: avea però careggiato sempre i ghibellini d’Italia per averne, quando che fosse, alcuno ajuto: e Roberto per la ragione stessa teneasi amici i guelfi.
Era in quest’anno 1313 venuto a coronarsi in Roma l’imperatore Errigo VII. Re Roberto nulla avea lasciato intentato per frastornar quella funzione, a segno che la coronazione non potè aver luogo nel vaticano, ma ebbe a farsi in San Giovanni Laterano. Per vendicarsene l’imperatore con formale sentenza lo dichiarò decaduto dal trono (erano in moda allora tali sentenze) e si strinse in lega col re Federigo, cui die’ il titolo di gran maresciallo ed ammiraglio dello impero.
Forte di tale appoggio il re, invase la Calabria. Reggio, Catania, Mottamoro, Scilla, Bagnara, eran venute in suo potere, quando l’imperatore lo invitò a recarsi con tutte le sue forze in Gaeta, ove verrebbe egli stesso col suo essercito, e con lui Lambo Doria colle galee dei genovesi, per invader quindi colle forze unite quelle provincie. Il re imbarcatosi coll’esercito, si diresse a quella volta, ma giunto a Stromboli ricevè l’infausta notizia d’esser morto l’imperatore. Corse a Pisa, ove Arrigo avea riunito lo esercito, per cercare di trarne alcun ajuto: ma vi trovò scuorati i ghibellini, sbandati già i soldati. Riprese la via di Sicilia: sofferta in mare una furiosa tempesta, che l’obbligò a salvarsi in Sardegna, venne finalmente in Trapani.
Giunto in Sicilia il re, convocò nel giugno del 1314 il parlamento in Messina e vi fece prestare omaggio all’infante don Pietro suo primogenito; e bandì per tutta Sicilia ch’egli da quel momento ripigliava il primiero titolo di re di Sicilia (530): venendo così a cancellare l’articolo del trattato di Caltabellotta, per cui il regno era a lui conservato per la sola sua vita.
In questo, re Roberto con grandi forze sbarcò nella spiaggia presso Castell’a mare del golfo, e, corrotto con doni Raimondo Bianco, che tenea il castello pel re, ebbe la terra. Il Bianco credendo d’essere a tutti ignoto il suo tradimento, presentossi al re, il quale lo fe’ tosto impiccare con tre dei suoi.
Re Roberto, ottenuto quel vantaggio, passò a cinger d’assedio Trapani. Il re da Castrogiovanni, ove trovavasi allora passò in Castronovo, e quindi spedì una forte banda di soldati sotto il comando di suo nipote Ferrando, figliuolo del re di Majorca, a stanziare a San Giuliano, onde impedire ai nemici di spandersi per quelle campagne e devastarle. E si die’ al tempo stesso a raccorre gente da tutte le parti, scrivendo per ciò lettere premurose a tutti i comuni del regno.
Intanto sopraggiunto l’inverno, l’esercito nemico senz’altro ricovero che i pochi tuguri, che erano in quei campi, cominciò oltremodo a soffrirne i mali, ai quali s’aggiungea la scarsezza dei viveri; che per le strade rotte, per l’animo contrario della nazione, per la presenza delle truppe siciliane non poteano aversene. Il re in questo, riunito già l’esercito, presta l’armata, fe’ dirigere a Trapani il grand’ammiraglio Giovanni Chiaramonte con sessantacinque galee; ed egli stesso vi si accostò coll’esercito, per assalire in mare e in terra il nemico. Re Roberto per prepararsi all’attacco delle galee siciliane avea costrutto un ponte, per cui dal lido potea passarsi sulle sue navi e rinfrescar la battaglia navale. L’armata siciliana era già presso Trapani a Bonagìa, quando un furioso vento l’obbligò a tornare in Palermo. Il re, che giunto a S. Giuliano, potea vedere i movimenti dell’armata, soprastette. La stagione non permettea di tornar tosto all’impresa. Per la scarsezza dell’erario non poterono pagarsi puntualmente i soldi ai galeotti; onde questi si sbandarono. Dall’altro lato l’esercito di re Roberto struggeasi senza speranza d’aver Trapani; onde nel dicembre di quell’anno fu conchiusa tra’ due re una tregua sino al marzo dell’anno appresso: di che il re diè conto al comune di Palermo con sua lettera.
Il lungo assedio di Trapani valse pel re meglio di una vittoria: tanto le forze nemiche ne furon diminuite. La maggior parte de’ legni o eran naufragati o furono abbandonati sulla spiaggia, perchè inabili a tenere più il mare. De’ cavalieri e de’ fanti assai ne eran morti di disagio, assai ne erano passati al servizio del re; de’ cavalli, tra morti e venduti da’ cavalieri stessi, non ne restava alcuno nell’esercito.
IV. — Coll’avanzo delle sue forze re Roberto fe’ ritorno la Napoli. Re Federigo venne in Palermo. Spirata appena la tregua, corse ad assediare Castell’a mare del golfo e l’ebbe. Mandò Roberto un’armata di trentadue galee per soccorrerlo; ma questa giunta alle spiagge di Milazzo, saputo la caduta della piazza, ritornò in Napoli. Nell’agosto di quello stesso anno 1316 venne ad invader la Sicilia Tommaso Marziano conte di Squillaci con grand’oste. Assediò prima Marsala, e per la valida difesa di Francesco Ventimiglia conte di Geraci non fe’ frutto. L’armata allora andò ad ancorarsi nella spiaggia di Castellamare, e il conte coll’esercito, avanzatosi entro terra, venne sino a Salemi; recidendo da per tutto gli alberi, dando fuoco alle biade, demolendo i molini e le case, che gli si paravano innanzi, e sì facendo, accostossi a Castelvetrano, a Borgetto e quindi giunto a Castellamare, imbarcato l’esercito, scese nella spiaggia di Palermo e diede il guasto a tutte le campagne nei dintorni di S. Giovanni dei Leprosi, ove recise i celebri palmizi, ch’erano stati la delizia degli emiri saracini, pei quali tanta cura avea l’imperator Federigo. Partitosi quindi, venne per mare a Messina, e fatto lo stesso guasto in quelle campagne, andò via.
Convocato nel dicembre di quell’anno il parlamento in Palermo, il re espose la necessità di apprestare un’armata di ottanta galee, per impedire simili correrie. Il parlamento vi aderì; anzi il conte di Geraci e gli altri baroni si offrirono d’armarne trenta a spese loro. Ma non guari andò che, prima d’esser presta l’armata siciliana, i nemici tornarono ad infestare le spiagge di Sicilia. Nove galee vennero nel maggio del 1317 e tagliarono le reti delle tonnare lungo il lido di Termini, Palermo e Trapani. I Palermitani corsero loro contro con tre altre galee e poche galeotte messinesi che in Palermo erano, ma quelli in vederli scapparono.
Mentre, allestita già l’armata, il re preparavasi a cominciare una guerra offensiva, vennero in Messina gli ambasciatori di papa Giovanni XXII, del re Giacomo suo fratello e della regina di Portogallo loro sorella, i quali cominciarono a sollecitarlo per venire alla pace con re Roberto.
Ma, come quell’accordo richiedea alcun tempo a conchiudersi, gli ambasciatori del papa proposero di conchiudersi per allora una tregua da durare da quel giorno sino a tre anni dopo lo imminente natale, durante la quale i due re converrebbero in Avignone, ove il papa trovatasi, per istabilire una solida pace; ed intanto proposero che Regio e le altre città tenute dal re in Calabria fossero consegnate al papa, per restituirle poi a quello de’ due re cui sarebbero toccate.
Rispose il re: sè essere sempre stato desideroso della pace: ma «a quali patti pensa il papa di conchiuderla?» chiese all’ambasciatore: e quello, additando il faro «questo è» disse «il confine posto dalla natura fra voi e re Roberto.» Il re, che forse a tal patto era contento di pacificarsi, mal grado il contrario parere d’alcuni de’ suoi consiglieri, accettò quei preliminari; e la tregua fu conchiusa. In adempimento di che il re die’ le città di Calabria in mano dei messi pontificî: ma questi indettati prima con Roberto, appena avutele, a lui le consegnarono.
Ciò non di manco il re, che sinceramente volea la pace, spedì in Avignone, ove quel papa avea trasferita la sede, l’arcivescovo di Palermo e Francesco Ventimiglia conte di Geraci, per trattare la pace col papa e gli ambasciatori di re Roberto. Questi all’arrivo de’ messi siciliani non erano ancora giunti. Il papa accolse onorevolmente i due Siciliani, e spesso con essi usava. Un dì mostrò piacere di conoscere la genealogia materna del re, ond’egli derivava il diritto al trono. Il conte di Geraci venne allora narrandogli fil filo la successione de’ re di Sicilia da Rugieri sino alla seconda Costanza, madre del re. Papa Giovanni, che francese era e cresciuto in corte di Carlo d’Angiò, a lui rispose che l’imperatore Federigo per essere stato dalla Chiesa scomunicato e decaduto dal trono, non potea tramandare alcun dritto ai suoi successori. «Tali sentenze» rispose il conte «possono esser fallaci, perchè dettate dalla fragilità umana, e spesso l’eterno giudice delle umane azioni le cancella. E che abbia da lung’ora cancellata questa, si vede dall’avere fin’ora i romani pontefici sollevata invano l’Europa per ispogliare il re del suo retaggio.» Il papa sgozzò la risposta del siciliano e tacque. Intanto gli ambasciatori di re Roberto non vennero, e l’arcivescovo e il conte, accomiatatisi dal papa, fecero ritorno in Sicilia.
Gravi commozioni erano in questo accadute in Genova, e presto tal foco venne a riaccender la guerra in Sicilia. I Grimaldi, i Fieschi, i Salvaggi, i Malucelli e tutte le famiglie guelfe avean cacciato dalla città i Doria, gli Spinola e tutti coloro che ghibellini erano. Questi corsero a cercar ajuto dai ghibellini lombardi e tornarono ad assediar la città; quelli chiesero soccorso a Roberto e lo fecero signore della repubblica; gli altri chiesero ajuto al re Federigo, il quale volentieri entrò nella lizza, perchè conoscea, che la signoria di Genova veniva ad accrescer le forze marittime del suo rivale. E però convocato nel luglio del 1320 il parlamento in Messina, vi fu determinato di mandare in soccorso de’ fuorusciti genovesi quaranta galee, le quali, unitesi ad undici navi di que’ ghibellini, vennero fuori. Dato, cammin facendo, il sacco ad Ischia e Policastro e devastata la riviera di Genova, ove atroci furono le crudeltà usate dai ghibellini, quell’armata strinse Genova dalla via del mare. Ma la città si difese lunga pezza; onde l’armata siciliana ritornò in Sicilia per ristorarsi da’ danni sofferti per la lunga navigazione.
Per sovvenire alle spese di quella guerra era stato imposto un dazio del tre per cento su tutte le derrate che venivano o andavan fuori, ed un balzello sui beni degli ecclesiastici (531). Grandi querele levaronsi per questo. Papa Giovanni, volendo favorire in tutto l’Angioino, colto il destro di quella tassa, scomunicò il re e sottopose il regno all’interdetto. Il re, per non venire agli estremi col pontefice, ordinò l’esecuzione dell’interdetto.
Intanto re Giacomo, visto che il papa lungi di impegnarsi a pacificare il re suo fratello con Roberto, come avea promesso, favoriva in tutti i modi l’Angioino, gli scrisse pregandolo ad interporsi come padre comune de’ fedeli a dar la pace ai due re, altrimenti protestavasi di non potere negarsi a dare al fratello ogni maniera d’ajuto (532).
V. — Dall’altra parte il re a richiesta di tutti i baroni, de’ prelati e dei comuni del regno fece coronare in Palermo addì 19 aprile 1322 il suo primogenito Pietro nato nella real villa del Parco addì 14 luglio del 1305, e per cancellare col fatto il trattato di Caltabellotta non solo lo associò al governo e bandì, che quindi innanzi tutti gli atti publici portassero il titolo d’ambidue (533); ma per assicurare la successione, fece menare in moglie a re Pietro II la Elisabetta, figliuola del duca di Carinzia re di Boemia.
Re Roberto in questo apparecchiava in Genova una grande armata, e messala in punto, la diresse contro Palermo. Eran centotredici galee fra le quali trenta genovesi, oltre i legni da trasporto. Vi era imbarcato il duca di Calabria, che da prima avea avuto nome Luigi ed ora diceasi Carlo, e con lui il fior dei baroni Napolitani.
VI. — Addì 26 maggio del 1325 l’armata nemica prese terra presso Palermo, e l’esercito accampossi sotto le mura della città dalla parte di oriente, che allora diceasi la contrada dei Cassari, e tosto si diedero i guastatori a desertare quelle belle campagne. Distrussero il sontuoso verziere della Cuba, che era allora villa reale, e si estesero fino a Misilmeri e Trabia, tagliando da per tutto gli alberi, depredando il bestiame, dando fuoco alle case, e fino sterpando le biade ove non erano mature per poterle affocare.
Comandava in Palermo il vecchio Giovanni Chiaramonte e con lui erano Matteo Sclafani, Niccolò ed Enrigo Abate, Simone Escolo, Giovanni Calvello ed assai altri nobili e plebei di gran cuore; pure il re che in Messina trovavasi, avuto già lingua dell’intenzione del nemico, vi avea mandato seicento cavalieri, comandati da Blasco Alagona, nipote del ricantato Pietro d’Antiochia gran cancelliere, Giovanni Chiaramonte il giovane, conte di Modica, Pietro Lanza e Simone Valguarnera. Il vecchio Chiaramonte assegnò ad ognuno di quei baroni un tratto delle mura a difendere, provvedendoli di gente, d’armi e di quanto era del caso. Ed egli stesso, carico di anni e gottoso com’era andava attorno sorvegliando e facendo cuore a tutti. E perchè fragile è la pietra di Palermo, fece disfare il selciato di tutte le piazze e ne trasse i ciottoli per iscagliarsi contro i nemici.
Malgrado il contrario parere dei nuovi baroni, il duca di Calabria lasciossi indurre a dar l’assalto alla città dai genovesi, i quali volendo vendicarsi de’ Siciliani, che quarant’anni prima erano iti ad assalire Genova, lo persuasero che vecchie erano e mal costrutte le mure della città, ch’egli colle loro macchine, nella costruzione delle quali erano molto pratichi, le avrebbero presto demolite, onde dar l’ingresso all’esercito. Con tale intendimento, tratto il legname dei tetti delle case e delle chiese dei dintorni di Palermo, scale, gatti, testudini, torri ambulanti ed altre macchine furon costruite. Ma i Palermitani non poltrivano. Non meno esperti dei genovesi ben altre macchine costruivano entro le mura; intantochè ovunque i nemici diressero l’assalto, trovaron le mura gremite di difensori, dietro i quali sorgeano istantaneamente briccole, baliste ed altre torri, dalle quali si scagliavano a furia sassi e faci accese, mentre dalle mura versavasi a ribocco acqua ed olio bollente, pece e zolfo liquefatti, onde ne venivano pesti, scottati, feriti ed accecati gli assalitori, distrutte od incese le macchine loro. Tre giorni in tre diversi punti si rinnovò l’assalto, e sempre respinti furono con grave perdita loro gli assalitori. Finalmente, per divertire le forze dei difensori, il duca di Calabria tentò di fare rompere con varî argomenti la catena, che chiudea il porto: ma anche quest’impresa gli venne fallita. Allora per non isprecare invano la gente, cinse ogn’intorno la città colla speranza d’affamarla.
Il coraggio de’ Palermitani venne allora accresciuto dalle lettere loro dirette dai comuni di Messina e di Catania per animarli a difendersi da forti. I messinesi in particolare, i quali ultimi erano stati nel 1282 a cacciare i Francesi, ma primi eransi poi mostrati in ogni incontro, con molto sale venivano nella lettera rammentando le forti espressioni di quella scritta loro dai Palermitani per animarli a seguire l’esempio loro e levarsi in capo contro i francesi (534).
Pure, malgrado il coraggio de’ cittadini, presto la città fu minacciata da pericolo maggiore, la fame. Una gran popolazione stretta da per tutto venne presto strema di viveri. Giovanni Chiaramonte aprì i suoi magazzini, lo stesso fecero tutti gli altri, e il frumento e quant’altro in quelli era riposto si distribuiva ogni giorno con economia fra’ cittadini. Ma ben si prevedea che ciò dovea presto finire. Però i baroni, che ivi erano, scrissero al re per fargli conoscere il caso urgente. Il messo, che dovea portar la lettera travestito da accattone, uscì dalla città, e confuso fra tanti altri paltonieri che s’aggiravan per lo campo, veniva traversandolo come se non paresse suo fatto. Un soldato insospettito da una certa aria timida di lui, lo prese, e frugatolo nelle vesti e nelle scarpe, trovò la lettera e la portò al duca di Calabria, il quale tutto lieto mandò la lettera al padre. Fortunatamente venne in pensiere a re Roberto esser quello un tratto di astuzia de’ Siciliani, i quali a bella posta avean fatto cader quella lettera nelle mani del figlio, per farlo trattenere sotto le mura di Palermo, finchè sopraggiunto il re coll’esercito dall’interno, tolto in mezzo i napolitani, ne avessero fatto macello. E altronde il piano da lui concepito contro la Sicilia era quello dì non far più una guerra regolare, nè impegnarsi a sottomettere alcune delle città siciliane; ma fare ogni anno nella stagione delle ricolte una correria, devastar le campagne, danneggiar le città, onde i Siciliani, vinti finalmente dalla fame, a lui si arrendessero. E però ordinò al figlio di decampare. E questi suo malgrado obbedì. Sciolto così l’assedio di Palermo, il re scrisse ai Palermitani una lettera per lodare il loro coraggio e ringraziarli della fedeltà loro. Il duca di Calabria direttosi per Corleone, Salemi, Castelvetrano, Marsala e Mazzara, dato fuoco per tutto alle biade o mietute o vicine a mietersi, e demolendo le case campestri, andò a fermarsi alla foce del fiume di Caltabellotta, ove rimbarcatosi prese terra di nuovo presso Messina. La regina Eleonora venne fuori con animo di abboccarsi col nipote per mediarsi alla pace: ma il nipote non volle vederla, e scorrazzato la contrada, fe’ ritorno in Napoli.
L’anno appresso, giusta il piano concepito da re Roberto, venne in Sicilia Bertrando del Balzo conte di Montescaglioso cognato di re Roberto, cui chiamavano il conte Novello. Addì 4 giugno del 1326 sbarcò alle spiaggie di Solanto, venne a Termini, ne devastò le campagne, ne distrusse il borgo e quella parte della città che diceasi terra vecchia, e quindi imbarcatosi, passato lo stretto, venne sino alla marina di Lentini. Fermatosi ivi alquanto senza venire in terra, lentamente costeggiando tornava verso il faro. I cittadini Aci all’appressarsi di quell’armata cominciarono a provocare i nemici con ogni maniera di contumelia; perchè quelli lor corsero sopra. Gli Acitani si ripararono nel castello colla robba loro più preziosa. I napolitani, trovata la città deserta, trattone le ciarpe che vi trovarono, vi misero fuoco. Come tal danno era avvenuto a coloro dal non sapere frenar la lingua, venne in uso in quei tempi di rammentar l’incendio d’Aci agl’importuni ciarlieri. I Napolitani, ciò fatto tornarono in Termini, corsero sino a Ciminna, che misero a ferro ed a fuoco, e danneggiate al ritorno le campagne di Palermo, si partirono.
Un’altra incursione fu fatta l’anno appresso da Rugieri di Sangineto Conte di Coriolano. Anche ai Genovesi saltò allora il grillo in capo di venire a danneggiar la Sicilia. Un Barbanaria di quella città venne in quell’anno a sorprendere Agosta: coltala alla sprovveduta, se ne fece padrone e tosto si mise in punto di assediarne il castello: ma Blasco Alagona, che in Catania era, saputo, non si sa come, il disegno di costoro, erasi posto colla sua gente in agguato, e corso loro sopra senza dar loro tempo di rifuggirsi alle navi, ne fe’ macello. Il Barbanaria ferito in più luoghi, restò prigione, di coloro fra i suoi, che avean preso terra, nessun campò, le navi fuggirono.
V. — Mentre in Sicilia tali cose accadevano, la Germania era lacerata da due contrarie fazioni. Lodovico duca di Baviera e Federigo di Austria contendeano per l’impero. Ognun dei due vantava una elezione. Patteggiavan pel Bavaro i ghibellini, eran per l’Austriaco i guelfi e con essi papa Giovanni e Roberto di Napoli. Il re, com’era di ragione, s’era stretto in lega col primo, il quale dopo lungo contrasto superò e diresse le sue armi in Italia per sottomettere i guelfi e trar vendetta del papa e di Roberto.
Addì 17 gennaro del 1327 fu Ludovico coronato in Roma, e dopo la sua coronazione, a dì 18 di aprile del 1328, congregato tutto il popolo romano, coll’intervento di tutti i prelati e baroni di quelle parti dichiarò papa Giovanni decaduto dalla dignità pontificia, come simoniaco, eretico ed usurpatore dell’autorità temporale, contro l’espresse parole di Gesù Cristo, che disse «Regnum meum non est de hoc mundo.» E, come quel pontefice avea trasferita in Avignone la sede pontificia, stanziò, che quindi innanzi i papi non potessero oltre a due mesi dilungarsi da Roma. Ivi a pochi giorni fece scegliere al popolo romano un’altro pontefice, e questo fu un Pietro Corbara abbruzzese dell’ordine de’ minori osservanti, che fece chiamarsi Niccolò V.
Volea l’imperatore che re Federigo riconoscesse quel suo antipapa: ma il re rispose essere a lui collegato nelle cose temporali, non nelle spirituali; avere assai da dolersi di papa Giovanni, ma ciò non di manco, tenerlo leggittimamente eletto. Per adempir poi alla promessa di temporali soccorsi per quella guerra, riunì in Milazzo cinquanta galee, alle quali se ne aggiunsero trenta de’ ghibellini genovesi, e salitovi sopra re Pietro con molti de’ baroni siciliani, quell’armata levò le ancore, e danneggiate prima alcune spiagge nemiche, si ridusse in Asturi. Alcuni di que’ cittadini, come le galee radevano il lido, colle balestre ferirono uno de’ galeotti ed un altro ne uccisero. Si risovvennero allora i Siciliani di essere stato in quella terra tradito l’infelice Corradino e vollero farne vendetta; però preso terra, la città fu presa, saccheggiata e poi ridotta in cenere. Si sparse allora voce di esser l’imperatore partito da Roma e che i Romani eran tornati all’obbedienza di papa Giovanni; per lo che pensava re Pietro di fare ritorno: ma sopraggiunto Pietro d’Antiochia, gran cancelliere del regno, e Giovanni Chiaramonte, che il re avea prima spediti a portare un soccorso di danaro all’imperatore, dissero essere l’imperatore diretto a Corneto; per questo re Pietro a lui rimandò il gran cancelliere e il Chiaramonte per dargli notizia del suo arrivo in quelle parti, egli andò ad aspettarli alla foce del Tevere. Dai contrarî venti fu obbligato a riparar coll’armata in porto Ercole ed ivi ridusse all’obbedienza del re quelle isolette. Tornati i due messi, dissero che l’imperatore volea abboccarsi col re in Corneto. Ivi si ridusse l’armata siciliana. Accozzatisi tentarono invano l’assedio di Grosseto, poi vennero in Pisa e dopo pochi dì l’uno fe’ ritorno in Germania, l’altro in Sicilia.
Per tal modo quel tanto minaccevole apparato di guerra, che parea dover sottomettere l’Italia tutta, tornò in fumo. Ma così portavano i tempi. Gli eserciti e le armate erano allora una congrega di gente e di navi obbligate a servire per un tempo determinato, al di là del quale i re non aveano nè diritto nè forza di far loro tenere la campagna. Indi avveniva che ove di primo lancio non si veniva alle mani col nemico, i guerrieri si sbandavano.
VIII. — Passati dopo ciò pochi anni, se non in pace, in un certo riposo, poco mancò che nel 1333 il castell’a mare di Palermo non fosse caduto in mani di re Roberto. Erano allora in Palermo due fratelli, il cui padre, chiamato Galeotto Floriac, francese, era stato al servizio di re Carlo lo zoppo. Mentre i due eserciti erano a fronte sotto Catanzaro, il Floriac (caso insolito nei francesi in quella guerra) desertò. Blasco Alagona lo accolse con lieto animo: il re per adescarne degli altri, avealo colmato di beneficii, e fattolo stanziare in Palermo, ivi avealo ammogliato. De’ due figli l’uno per un delitto commesso era carcerato nel castellammare, l’altro andava spesso a vederlo. Costoro cospirarono cogli altri prigioni e con alcuni de’ soldati di rendere il castello al nemico. Il lunedì 8 marzo 1333 sul far della sera, assalito il castellano, lo legarono, ed uccisero un suo familiare, che volea difenderlo. Fatto indi segnale con faci accese a due galee, che mandate da re Roberto stavano appiattate dietro Monte Pellegrino, queste s’accostarono e recarono loro soccorso di viveri e di gente. Sparsasi al far del giorno in città tale notizia tutto il popolo v’accorse in arme. Per impedire che i sollevati avessero potuto estendersi in città, il castello fu chiuso da un nuovo muro, ed intanto apprestaronsi le macchine per demolire gli antichi bastioni, i quali per esser di creta, cominciarono ad andar giù. I congiurati, visto di non poter tenere a lungo quel castello, comechè altre galee fossero sopraggiunte per recar loro ajuti, vennero a patti, e fu loro dato di andarne liberi.
Quelle galee sulle quali imbarcaronsi, venute all’altra spiaggia di Sicilia, presero terra fra Terranova ed Alicata. La gente che sopra vi era corse di notte sino a Butera, saccheggiò la terra, e, fatto subito ritorno alle navi si partì.
In questo tempo venne a morire in Avignone papa Giovanni, e fu esaltato Benedetto XII, di che il re fu assai lieto; perchè il nuovo pontefice erasi fin allora mostrato suo amico. Per lo che, da una mano ordinò che non più si eseguisse l’interdetto in Sicilia, dall’altra spedì ambasciatori al nuovo pontefice Ugieri di Virzoto, Nicolò Loria e lo stesso Nicolò Speciale che lasciò scritta la storia di quest’età. Ma sin dalla morte di re Carlo I d’Angiò la politica della romana corte era tornata alla costante nimicizia co’ re di Sicilia. L’alto animo e la gran potenza di quel re, minacciando l’indipendenza del governo pontificio, avean fatto sorgere fra’ cardinali una fazione a lui avversa. Lui morto, i suoi successori, ridotti al solo possedimento delle provincie napolitane furono necessariamente ligi dei papi. Ma la Sicilia, cui nè le scomuniche e gli interdetti, nè le armi di tanti principi avean potuto sottomettere, era divenuta il punto d’appoggio non che degl’imperatori di Germania, a’ quali gravemente increscea di avere il solo titolo di re de’ romani, mentre i papi ne aveano il dominio, ma di tutti i nemici che il governo pontificio avea in Italia, i quali eransi accresciuti, da che Giovanni XXII avea trasferito la sua sede in Avignone, per cui sin d’allora venivansi cumulando i materiali per la rivoluzione scoppiata in Roma tredici anni dopo, diretta da Cola di Rienzo. Talmentechè quando l’imperator Lodovigo di Baviera fu coronato in Roma, i romani mandarono ambasciatori a papa Giovanni per pregarlo a ritornare in Roma, altrimenti si protestavano innanzi a Dio, che scusati sarebbero i figli, se, privi della presenza del padre, traviavano a destra o a sinistra.
Per tali ragioni molto calea a’ pontefici il torsi quel bruscolo dagli occhi; per lo che papa Benedetto, quali che fossero stati i suoi privati sentimenti, mentre era cardinale, assunto al ponteficato, seguì le pedate del suo predecessore; e comecchè benignamente avesse accolti gli ambasciatori siciliani, pure sordo mostrossi alla proposizione di pace fatta per esso e replicata in appresso per altri.
IX. — Perduta ogni speranza di pace, diedesi il re a preparare ogni difesa per un nuovo attacco, di cui minacciavalo re Roberto. In questo gli venne avviso che i Mori delle Gerbe eransi rivoltati ed assediavano il castello. Quest’isola sulle coste di Affrica era stata conquistata da Rugieri Loria, e d’allora in poi era restata feudo del regno di Sicilia. Gli abitanti stanchi delle vessazioni di quel governatore avean mandato alcuni di loro in Sicilia per chiedere giustizia al re: ma il governatore avea degli amici in corte; onde coloro nulla poterono ottenere: per lo che ebbero ricorso alle armi e chiamarono in ajuto il re di Tunisi. Il re, che poche forze potea in quel momento staccare dalla Sicilia, e forse poco curava un’isola lontana, dalla quale nissun profitto traea, vi mandò con poche navi e poca gente Raimondo Peralta suo congiunto. Venne fatto a Peralta di sconfiggere gli assalitori e penetrar nel castello; e già gl’isolani intimoriti eran per chieder pace e sottomettersi, quando, sopraggiunte dodici galee genovesi e quattro calabresi, s’impadronirono dei pochi legni siciliani, tranne tre galee che erano ite a provveder acqua, e vendute a’ Mori le macchine, le munizioni e le armi che Peralta avea portato ed ancora non erano riposte nel castello, si partirono. Peralta ebbe la sorte di ritornar solo in Sicilia. La guarnigione del castello, abbandonata, tenne quel forte altri due anni e mezzo e finalmente s’arrese.
X. — Correa in questo l’anno 1337. Addì 28 aprile il re venne in Palermo ed il comune presentollo di due grandi vasi d’argento. All’avvicinarsi dell’estate mosse per Castrogiovanni, ove solea passare la calda staggione. Prese la via di Termini: giunto in Resuttano, ove allora non era il villaggio, gli s’infierirono i dolori della podagra e della chiragra, cui andava soggetto. Sentendo vicina l’estrema ora, volle beneficare per l’ultima volta le persone a lui più care e far testamento. Creò l’infante Giovanni suo figlio marchese di Randazzo e della valle di Castiglione e Francavilla, conte di Mineo e signore di Troina. Investì Federigo d’Antiochia della contea di Capizzi e di Mistretta, e Francesco Ventimiglia, primogenito del conte di Geraci, della contea di Collesano. Lasciò il re Pietro II erede, non che del regno, ma dei dritti sullo provincie ch’erano in potere dell’Angioino; e chiamò in caso di estinzione della linea di lui, quella de’ due altri figliuoli Guglielmo e Giovanni; ed estinta anche questa, chiamò alla successione D. Alfonso re d’Aragona, suo nipote, e’ suoi discendenti. Come era a lui premorto il suo secondogenito Manfredi, da lui investito dei ducati d’Atene e di Neopatria, investinne il terzo figliuolo Guglielmo, e volle che li tenesse come feudo della Sicilia, ed oltracciò lasciogli Noto, Avola, Spaccaforno e Calatafimi.
Ridottosi poi in Castrogiovanni ed ivi peggiorato, volle esser trasferito in Catania. Tale era lo amore dei Siciliani per quel re, che uomini accorreano da tutte le parti ed addossavansi la lettiga che lo portava, per rendergli men disagevole il viaggio. Ciò non di manco, giunto presso Paternò nella chiesa di S. Giovanni de’ Gerosolimitani, finì dì vivere addì 25 giugno del 1337. Trasportato il suo cadavere in Catania, fu orrevolmente tumulato in quel duomo, comechè avess’egli disposto d’esser seppellito co’ re suoi predecessori in Palermo.