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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXXVI I. Principii del regno di Pietro II. Dissidii de’ baroni. — II. Bando del conte di Modica. — III. Congiura contro il conte di Geraci: sua morte. — IV. Breve letizia e nuove disgrazie. Invasione del regno. — V. Nuovi intrighi de’ Palici. Napolitani cacciati. — VI. Legati del papa per la pace. Impresa di Lipari. — VII. Agitazioni del Regno. Macchinazioni de’ Palici rivolte in loro danno. Altra invasione. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Re Pietro, accaduta appena la morte del padre, ne diede avviso al comune di Palermo, e due giorni dopo con seconda lettera rispose alla istanza fatta da’ Palermitani di seppellirsi in Palermo il morto re, dicendo che la distanza, le cattive strade, le gravi cure del regno in quel momento nol comportavano: che intanto era stato sepolto in Catania finchè lo stato del regno avesse consentito ad eseguirsi in ciò la volontà di lui. Ma le gravi perturbazioni accadute in appresso non fecero mai più pensare a ciò; da che, non sì tosto ebbe il re chiusi gli occhi, che la bilancia dello stato, non più tenuta in bilico dal saldo suo braccio, cominciò rapidamente a trabboccare da quel lato, cui naturalmente inclinava. I baroni eran divenuti trapossenti. Grandi in vero erano stati i servizî da loro resi allo stato in tutta quella guerra; ma grandi del pari ne erano state le ricompense di feudi e baronie, e più grande ancora la loro ambizione: intantochè nessun di loro pativa uguali, ognuno anzi a mal’istento teneasi minore dello stesso re. E comechè tutte le istituzioni e la politica del morto re fossero state dirette a dare forza alle leggi, a frenare i soprusi e ad elevare il popolo a maggior dignità ed importanza; pure lo stato di guerra era ben favorevole a’ baroni, nelle cui mani era la forza pubblica. Il solo grand’animo di Federigo potea tenere a freno la stemperata loro ambizione: ma in quel regno gloriosissimo, mentre la Sicilia tanto rispettata divenne al di fuori, covava nel l’interno il foco delle intestine discordie, che vennero a lacerarla, cognita appena la sua morte; anzi la prima scintilla ne fu suscitata negli ultimi anni dello stesso Federigo.
Era allora in grande stato appo quel re Francesco Ventimiglia conte di Geraci, il quale avea menato in moglie la Costanza sorella di Giovanni Chiaramonte conte di Modica: ma poi preso da violento amore per una Margherita Consolo, dalla quale avea avuto più figliuoli, cui volea lasciare le vastissime sue possessioni, fatto divorzio colla moglie ottenne dal pontefice la legitimazione dei figliuoli avuti dall’adultera, comechè vivente fosse il marito di lei. Il conte di Modica si tenne gravemente offeso dell’affronto fatto alla sorella: ma non osando trarne vendetta per timore del re, nè volendo star presso al suo nemico, andò all’imperator Ludovico, dal quale fu ben accolto e tanto gli venne caro che lo promosse a principe dello impero. Dopo alcuni anni, con animo più che mai inteso a vendetta tornò in Sicilia, menando seco una schiera di tedeschi. Intanto le più nobili e potenti famiglie aveano preso parte all’inimicizia dei due conti, quale per l’uno, quale per l’altro. Il re, per ispegner l’incendio, cominciò a trattare la pace tra le due famiglie, ed a tale oggetto chiamò a se in Palermo il conte di Geraci e Giovanni Chiaramonte, zio del conte di Modica; ma questi, nulla curando le trattative incominciate dal re, e forse per non lasciarsi scappare dalle mani la vendetta, venne in Palermo accompagnato dai suoi tedeschi. Mentre un giorno ambi i conti cavalcavano per la città, con gran codazzo d’armati, come portavano i tempi, incontratisi, il conte di Modica ordinò a’ suoi di assalire il nemico, il quale, abbandonato da’ suoi, vi restò ferito la testa, ed ebbe a gran ventura campar la morte dando di sproni al cavallo, mentre quello del conte di Modica, che volea eseguirlo inciampicò.
II. — Tutto ferito, com’era, il conte di Geraci, presentossi al re chiedendo giustizia. Non era Federigo uomo da tollerare simili soprammani; però di presente bandì dal regno il conte di Modica: ma questi ritrattosi alla sua contea ed ivi afforzatosi, preparossi a resistere a qualunque attacco. Il tribunale della gran Corte allora ed i baroni lo condannarono alla perdita degli stati e della vita, come ribelle. Ma egli consigliato dagli amici suoi e dalla stessa regina Eleonora, che secretamente lo favoriva, senza aspettare l’esercito, che il re accogliea per assalirlo, cesse di queto gli stati suoi e tornò a rifuggirsi presso l’imperatore Lodovigo, il quale fece ogni opera per rimetterlo in grazia del re, cui scrisse pressanti lettere, nelle quali pretendea di avocare a se la decisione delle contese fra i due conti, per essere il Chiaramonte principe dell’impero: ma il re, comechè gran bisogno allora avesse avuto dell’amicizia di quello imperatore, non lasciossi piegare. Erasi allora conchiuso un matrimonio tra il figliuolo dell’imperatore ed una figliuola del re. Parve all’imperatore quello un bel destro di fare ritornare in Sicilia il Chiaramonte, destinandolo suo ambasciatore, per isposare per parte del figlio la principessa e menarla in Germania: ma avutone lingua il re, istigato dal conte di Geraci, ordinò di non riceverlo in qualunque spiaggia di Sicilia fosse per approdare.
Perduto ogni speranza di riavere alle buone i suoi stati, tentò allora il Chiaramonte di riacquistarli colla forza, dandosi a servire il re Roberto; il quale, apprestato un grande armamento, lo spedì in Sicilia sotto il comando del conte di Corigliano e del Chiaramonte, sperando che per le costui dipendenze grandi progressi vi avrebbero fatti le sue armi. Sbarcarono poco di lungi da Termini presso la foce del fiume di Siniscalco, che oggi dicesi di Roccella, e corsero ad assediare il castello di Brucato. Non venutogli fatto d’espugnarlo, l’esercito innoltrossi nel Val di Mazzara, e l’armata venne costeggiando l’isola fino ad Alicata, che strinsero di assedio: ma gli Alicatesi capitanati da Pietro Lanza e Marino Capece si difesero sì che fu forza ai nemici allontanarsi. Allora vennero devastando le campagne di Girgenti, Sciacca, Mazzara, Marsala e Trapani, e quindi si diressero a Palermo; ma, incontrata quivi una armata aragonese, non osarono metter piede in terra e fecero ritorno in Napoli. Il Chiaramonte, riuscitogli vano il tentativo, lasciato il servizio dell’Angioino, ritornò in corte dell’imperatore ad aspettarvi miglior ventura.
Venuto a morte il re Federigo, re Pietro sin dalle prime mostrossi poco favorevole al conte di Geraci ed alla sua parte; da che morto appena il padre, promosse Rosso de’ Rossi a conte di Cerami, Matteo Palici a conte di Noara, Guglielmo Raimondo Moncada a conte di Adernò e Scaloro degli Uberti a conte d’Asaro, tutti della fazion chiaramontana. E particolarmente eran sempre vicini al re i due fratelli Palici, de’ quali Damiano fu fatto poi gran cancelliere del regno e ’l conte Matteo maestro razionale. Costoro cominciarono allora a dare libero sfogo all’odio antico contro il conte di Geraci, che fin’allora era stato represso dall’autorità del morto re. Il conte di Geraci, visto che tutto era a lui contrario, ritirossi nei suoi feudi, nè più si fece vedere in corte. Lo stesso fece Federigo d’Antiochia conte di Capizzi, amico e partigiano del Ventimiglia.
III. — In questo il re convocò il parlamento in Catania, ed in suo nome i due fratelli Palici scrissero al conte di Geraci di recarvisi di persona. Egli si mosse a quella volta, ma giunto in Motta Sant’Anastasia, da persone della corte fu secretamente avvertito a guardarsi dalle insidie, che i Palici contro lui tramavano: per lo che fingendo, che il conte di Collesano suo figliuolo, soprappreso di grave malattia, era per morire, fe’ ritorno in Geraci: quindi scrisse al re palesandogli l’avviso avuto. Forse sperava egli che per tal modo i suoi nemici ne sarebbero disgraziati. Ma il re contentossi di scusarlo dell’assenza e continuò ad aver cari i Palici. Intanto per comporre quelle briglie fra baroni di sì gran nome, chiamò il conte in Catania; ma quello ricusò di recarvisi, comechè il re glielo avesse due volte ordinato. Passato il re in Nicosia, ve lo chiamò; ma stette più giorni ad aspettarlo invano: della qual pervicacia si tenne, com’era di ragione, gravemente offeso. Tornato il re in Catania nel dicembre del 1337, venne ivi a trovarlo il conte di Collesano, per iscusare la renitenza del conte di Geraci suo padre; ma il re inciprignito lo fe carcerare una con tutte le persone del suo seguito fra le quali era un Ribaldo Rosso, maggiordomo e secretario del conte, il quale, messo più giorni alla tortura, finalmente disse di sapere, che il conte suo signore ed il conte di Capizzi teneano secrete pratiche col re Roberto. Avuta quella confessione, il re convocò il tribunale della gran corte ed i baroni del regno, e fece citare i due conti a comparire avanti quella corte per giustificarsi. Ma essi invece di comparire levaronsi in armi; anzi il conte di Geraci, per estendere gli stati suoi, usurpò di viva forza il castello di Regiovanni a quelli contermine. Onde la Corte addì 29 dicembre del 1338 bandì contro il conte di Geraci la sentenza di morte e della perdita dei beni. E contemporaneamente la stessa corte cancellò la sentenza profferita contro il conte di Modica, lo dichiarò fedele e lo rimise nel possesso dei suoi, tranne Caccamo e Pettorano. Il delitto del conte di Geraci d’essersi per vendetta secretamente unito ai nemici, se non era vero, era affacente a’ tempi. Ma è da considerare che l’essersi dalla stessa corte condannato il conte di Geraci come ribelle, ed assoluto e rimesso in grazia il suo nemico, mostra il trionfo d’una fazione più che un’atto di giustizia. Il ragguaglio di questi fatti, pubblicato dal re dopo d’avere occupato gli stati del conte, non è del tutto uniforme a ciò che narrano gli storici contemporanei; e particolarmente vi si dice che il secretario del conte volontariamente rivelò le trame di lui, ovechè tutti gli storici dicono, che messo alla tortura più giorni, disse non saper nulla, finalmente confessò. I fatti posteriori infine mostrano che i Palici cercaron sempre di calunniare le persone più distinte, per tema di esser soppiantati nel favor del re.
Che che ne fosse stato, il re da Nicosia innoltrossi con grandi forze ad invadere gli stati del conte di Geraci, i quali tutti contigui formavano come una provincia. Possedea egli Geraci, Pollina, Castelbuono, Collesano, Gratteri, Tusa, Caronia, Castelluccio, Santo-Mauro, Petralia superiore, Petralia inferiore, Gangi, Sperlinga, Pettineo e le baronie di Monte Sant’angelo, Malvicino, Bellici, Fisauli, Lauristia e Regiovanni. Avute senza resistenza Gangi le due Petralie e Collesano, il re accostossi a Geraci ove il conte erasi ritratto coi suoi figliuoli e il vescovo di Cefalù, e spedì a lui messi per chiedergli d’ammetterlo di queto nella terra, ed a tal patto era pronto a perdonarlo. Rispose il conte essere egli pronto ad aprir le porte al re, perchè suo signore, purchè seco non venissero i Palici e la gente loro, suoi aperti nemici. Era per mettere la risposta in iscritto, come i reali messi chiedeano; ma sopravvenuto il vescovo di Cefalù, ne lo distolse, dicendogli aver egli forze bastanti da resistere. Tornati i messi al campo, il re accerchiata la terra, le intimò a suon di tromba la resa. Gli abitanti allora lungi di accingersi alla difesa, come il conte si confidava, temendo non i loro bestiami fossero predati da’ regii, cominciarono a tumultuare; il conte con suo figliuolo scesero dal castello per sedar la sommossa, ma non fecero frutto. Volea il conte tornare al castello, ma ne trovò impedita la via con tronchi, macigni e sarmenti; disperato di salvezza, fatta aprire una delle porte, si die’ precipitosamente a fuggire; ma in quei precipizii, inciampicato il cavallo, cadde giù e morì. Francesco Valguarnera, che da lungi lo inseguiva, sopraggiuntolo, lo denudò,lo trafisse colla lancia, per far credere al re d’averlo egli morto, e legato il cadavere alla coda del suo cavallo, lo trasse sotto le mura della terra, ove fu esposto alle più vili sevizie dei soldati: altri ne tagliava le dita, altri ne traea le interiora e davale ai cani, altri ne svellava i denti, ed altri ne strappava i peli della barba, finchè il conte di Garsiliato, rispettando in quel cadavere la sventura e la nobiltà del sangue, lo fece seppellire nella chiesa di S. Bartolomeo ivi presso. I Geracesi, saputa la morte del conte, apriron le porte al re. Lo stesso fecero le altre terre di quel conte. Tutte le figlie ed i figli di lui ivi presi furon chiusi in varii castelli. Immensi tesori furon trovati nel castello di Geraci.
Il conte di Capizzi, fatto senno della disgrazia del conte di Geraci, volontariamente dimise al re gli stati suoi, ed ottenne così d’andare immune. Venuto alle spiagge di Termini, vi si imbarcò e si ridusse in Napoli.
IV. — Lieto re Pietro d’avere in poco d’ora disfatti due così potenti baroni, ritornò come in trionfo in Catania, ove per colmo di gioja addì 4 febbraro di quello stesso anno 1338 gli nacque il primogenito Luigi, che fu battezzato in quel duomo. In quella lieta circostanza quel re concesse a Catania il privilegio di fare immuni i cittadini di essa del dovere di somministrare allogio, letti ed arredi al re ed a tutto il suo seguito (535): peso in cui in quell’età andavan soggetti i popoli in tutte le monarchie d’Europa, grave in se stesso e reso poi intollerabile dai soprusi di coloro che stavan sopra ciò.
Ma breve fu la durata di quella letizia. L’anno appresso venne a morte l’infante Guglielmo duca d’Atene fratello del re, lasciando erede di quelle provincie e di tutti gli stati posseduti in Sicilia Giovanni suo fratello, marchese di Randazzo. Fu il suo cadavere trasportato in Palermo e chiuso nello stesso avello dell’imperator Federigo.
A questa disgrazia tenne dietro una invasione del regno. Federigo d’Antiochia ed Alduino Ventimiglia figliuolo dell’estinto conte di Geraci, rifuggiti presso re Roberto, lo animarono a fare un grand’armamento contro la Sicilia, e quello, fattolo e datone il comando a Carlo di Artois suo figliuolo naturale, in cui compagnia erano, oltre a molti nobili napolitani, l’Antiochia e il Ventimiglia, lo diresse in Sicilia. Erano cinquanta legni con sopra mille dugento cavalieri, l’armata, preso terra nella spiaggia di Roccella, che diceasi allora Siniscalco, sbarcatovi la gente addì 6 maggio nel 1338, fe’ ritorno in Napoli per levarne altri soldati e le macchine e i viveri necessarii all’esercito. Vennero presto i nemici padroni di Collesano e Gratteri per le dipendenze che aveavi il Ventimiglia. Indi la terra e il castello di Brucato loro s’arrese: Ivi afforzatisi e ricevuto il nuovo soccorso da Napoli, addì 19 giugno strinsero d’assedio Termini. Grande fu la resistenza de’ terminesi, grande la violenza dell’attacco; intantochè, distrutte dalla violenza de’ sassi che si scagliavano dagli assalitori quasi tutte le case della città, i cittadini erano obbligati a dormire alla aperta campagna: ma pure si difendevano con gran cuore. Finalmente addì 22 agosto, vinti dalla mancanza d’acqua, convennero col nemico che se ivi a quattro giorni non avessero ricevuto soccorso da re Pietro, avrebbero data la terra. Il giorno 25 in effetto la città fu resa, i cittadini ne furono trasportati dai nemici stessi in Palermo, il castello si tenne pel re Pietro. La circostanza d’essersi la città resa per mancanza di acqua deve farci credere che in quell’assedio ebbe ad essere dagli assalitori demolito l’acquidotto Cornelio, che da Brucato ov’essi stanziavano, menava quella copiosissima sorgente in città, ed era una delle più belle opere dei romani in Sicilia; chè se prima fosse stato demolito, la città non avrebbe potuto reggere a due mesi d’assedio.
V. — Mentre tali cose seguivano da questa parte di Sicilia, eran le armi del re occupate all’assedio di Lentini. I Palici diedero ad intendere al re, che Rugieri di Passaneto, conte di Garsiliato e signore di Lentini, avendo saputo per mezzo del figliuolo del conte di Geraci e del secretario di lui, che in Lentini erano carcerati, di un gran tesoro appartenente a quel conte, eraselo appropriato; ovechè, essendo esso appartenuto ad un ribelle, al re s’aspettava. Il credulo Pietro senza altro esaminare spedì ordini al conte di venire a lui per dar conto di ciò. Il conte invece di obbedire, si chiuse in Lentini, che guernì d’armi, di munizioni e d’armati. Innalberò bensì le bandiere reali, ma strettamente vietò l’ingresso della città a chicchesia e fino respinse la regina madre del re; che vi s’era recata per trattare la pace. Intanto secretamente scrisse al conte d’Artois in Termini per invitarlo a venire in suo ajuto. Il re in questo spedì da Castrogiovanni per assediar Lentini, un grosso corpo di gente sotto il comando del gran giustiziere Blasco Alagona, il quale, per esser genero del figliuolo del conte, cercò sulle prime di indurlo a tornar di queto all’obbedienza del re: ma il conte fidato nelle sue forze e nel soccorso, che aspettava da Termini, fu tenace. Quando poi seppe che l’Angioino, temendo un agguato, non volea innoltrarsi fin là, e le macchine poste in uso dai regii tempestavano le mura della città e il castello, venne a patti. Il castello e la città di Lentini furon dal conte cessi al re; e il gran giustiziere, come vicario del re in quella guerra, lo assolvè del debito di ribellione, il re, malgrado le contrarie insinuazioni de’ Palici, approvò quel trattato, il conte di Garsiliato ritornò nella sua grazia, ed unite le sue forze a quelle del re venne verso Termini collo esercito comandato dallo stesso Blasco Alagona. Al loro avvicinarsi, i napolitani, cui non era venuto fatto d’avere il castello, lasciatone l’assedio, corsero alla spiaggia per rimbarcarsi; ma soprappresi da don Orlando d’Aragona fratello naturale del re, dal conte Raimondo Peralta e da Francesco Valguarnera, molti ne perirono e gli altri fuggirono, lasciando sul lido tende munizioni, e quanto aveano. Accorsi in ajuto di loro coloro ch’eran di guarnigione a Brucato, ne seguì aspra battaglia; nella quale i napolitani ebbero la peggio e tornarono a chiudersi in quel castello. Ivi a pochi giorni il conte di Modica Giovanni Chiaramonte e Pietro Lanza ripresero prima Gratteri, ove perdè la vita il Lanza, poi Collesano e finalmente anche Brucato.
VI. — Mentre eran le forze di re Pietro occupate in questi assedii, giunsero in Messina il patriarca di Costantinopoli ed il vescovo di Besanzone, spediti da papa Benedetto XII a trattar la pace fra’ due re; ma come entrarono nel porto di Messina sopra tre galee, che portavano la bandiera napolitana, i messinesi non vollero riceverli. Essi dichiararono che sarebbero iti in Terracina ad aspettarvi i messi de re. Questi vi spedì Berengario Sordo catalano e il notaro Bartolomeo Nisi da Palermo per iscusarsi del non essere stati ricevuti i messi pontificii; ma il tempo lunga pezza contrario vietò che gli ambasciatori del re potessero giungere in Terracina il giorno posto. I messi del papa partironsi. La Sicilia fu sottoposta all’interdetto.
Intanto re Roberto avea assediato il castello di Lipari. Vi mandò re Pietro un soccorso di navi e di gente, ma l’une e le altre erano a gran pezza inferiori in numero alle nemiche: pure i Siciliani animosi le attaccarono, ma circondati da tutte le parti, l’armata loro cadde tutta in potere del nemico: il grand’ammiraglio Giovanni Chiaramonte conte di Modica, don Orlando d’Aragona, tutti i nobili Siciliani ch’erano su quei legni, furon fatti prigionieri. Solo sette galee, mentre erano trasportate in Napoli, col favore d’una tempesta poterono fuggire e salvarsi in Sardegna. Il re nel dar conto di tale disgrazia ai comuni dl Sicilia procurò di scusare l’imprudenza di coloro che avventurarono la battaglia ed ivi a pochi giorni ricattò il conte di Modica.
VII. — Non minori calamità travagliavano lo interno del regno. La plebe palermitana nel dicembre del 1339, levatasi in capo per la carestia del frumento, si die’ a saccheggiare i magazzini e le case de’ ricchi mercanti. Il re in quel momento avvicinavasi alla città, le persone incaricate di provvedere all’alloggio della corte cominciarono a chiedere secondo il costume ai cittadini letti e quant’altro era del caso. Ciò fece crescere il tumulto. Giunto il re in città, venne a capo di sedare il subuglio e punirne i capi. Ma Aligerio di Aligerio pretore di Palermo, i giurati ed i giudici della città ottennero che i palermitani andassero esenti dal dritto di posata.
Non meno agitata era la corte. Erano collegati Matteo Palici conte di Noara, Damiano suo fratello gran cancelliere del regno, Scaloro degli Uberti conte d’Asaro protonotaro e Francesco Palici loro nipoti, i quali resi affatto padroni dell’animo del re, non altro erano intesi che ad arricchirsi delle spoglie altrui, accagionando i più distinti baroni di essere stati in lega col conte di Geraci, per farli dichiarare rubelli e farsi dal re concedere i loro feudi. E tanto crebbe la loro arroganza, che temendo non il duca Giovanni avesse fatto finalmente aprire gli occhi al re suo fratello, saputo che egli dirigeasi in Palermo, indussero il buon re a spedire a lui l’arcivescovo di Palermo, il conte Raimondo Peralta, per ordinargli in suo nome di tenersene lontano. Incontrarono costoro il duca in Piazza. Per essere già caduto il giorno, non poterono a lui presentarsi: ma fatto notte, il Peralta a lui recossi secretamente ed avvertirlo a non curare l’ordine ed avansarsi anzi sino a Palermo, chè il re ne sarebbe stato lieto. Il domani presentato in compagnia dell’arcivescovo l’ordine, il duca rispose «I traditori non devono presentarsi al re: ai traditori può esser diretto tal ordine, non a me che son fedele al re e dello stesso sangue. Ditegli, ch’io a mal dispetto di coloro, che diedero tal consiglio, verrò in Palermo: vedremo chi avrà cuore di vietarmi l’ingresso della reggia.» Tornati i messi in Palermo e riferita tale risposta, il re ne sorrise, e volendo i Palici aizzarlo contro il duca, loro disse «Se nostro fratello vuol venire a noi, possiam noi vietarlo? È fors’egli traditore o nemico? Non osate parlarmi più oltre.» E voltatogli le spalle, ritirossi nella sua camera; di che coloro turbaronsi forte. Ma assai più ebbero ragion di temere allorchè ivi a pochi giorni il duca, accresciute le sue forze, venne in Palermo. Il re corse ad incontrarlo sino al ponte dell’Ammiraglio. Abbracciatisi ivi i due fratelli, presisi amorevolmente per mano vennero al real palazzo.
Il popolo, cui increscea il dispotismo de’ Palici ed a malincuore vedea una guerra fraterna da loro suscitata, che era per iscoppiare, ne fu oltremodo lieto. I Palici corsero a nascondersi in un palazzo, che diceasi allora lu palazzu di li scavi: ma il popolo, levatosi in armi, volea in tutti i conti metterli a morte. Assalito quel palazzo, ne sfondò le porte, e sarebbe venuto a capo del reo disegno, se il re a preghiere della regina, che li proteggea, e dello stesso duca, non avesse interposta la sua autorità per salvar loro la vita a patto che sgombrassero il paese. Su di una nave genovese si furon partiti. Il re pubblicò il loro bando e ne confiscò i beni. La carica di gran cancelliere, che avea Damiano, fu data al conte Raimondo Peralta. Tommaso Turtureto fu fatto gran protonotaro invece del conte d’Asaro.
Respiravasi appena in Sicilia per esserne stati cacciati costoro, quando una numerosa armata napolitana venne ad invadere il regno; e sbarcò da mille cavalli e gran numero di pedoni presso Milazzo nel giugno del 1341, e tosto la città fu per essi cinta di bastioni e dì mura, per obbligarla alla resa, e difendervisi da qualunque aggressione de’ Siciliani. Capo di quella spedizione era Federigo d’Antiochia. Avutone avviso il duca Giovanni, raccolte grandi forze nel dicembre di quell’anno, accostossi alla piazza per soccorrerla; ma trovò gli assalitori così ben fortificati, che per le dirotte piogge il suo esercito non potè durar nell’assedio, onde gli fu forza ritrarsi. Nè miglior prova fece nel marzo seguente lo stesso re; intantochè la città ed il castello, disperando d’ogni soccorso, finalmente nel settembre di quell’anno s’arresero. In quell’assedio fu morto Federigo d’Antiochia, il cui cadavere, per essere egli congiunto del re, ebbe onorevol sepoltura.