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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXXVII. I. Morte di Pietro II e reggenza del duca d’Atene. Tumulto in Messina. Principii di pace. — II. Morte del duca d’Atene, ritorno dei Palici, che si adoprano contro Blasco di Alagona. Guerra rotta. — III. Fazione dei Latini e dei Catalani. Guerra intestina. — IV. Pace delle due fazioni non durevole. — V. Si ritorna alla guerra. — VI. Nuova pace senza fondamento. — VII. Fatti d’armi dei due partiti. — VIII. Trattato cogli Angioini. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Ma più gravi sciagure soprastavano alla Sicilia. Nell’agosto di quell’anno era venuta a morte la virtuosa regina Eleonora madre del re, e fu sepolta una col marito nel duomo di Catania. L’anno appresso il re stesso finì i giorni suoi in Calascibetta. Il suo cadavere trasportato in Palermo fu tumulato in quel duomo. Lasciò egli, oltre le femine, tre figliuoli, Ludovico, Giovanni, Federigo. Prima di morire dispose del regno in favor di Ludovico allora di presso a cinque anni, e lasciò il duca d’Atene suo fratello vicario generale del regno e bailo del re minore, il quale nel settembre di quell’anno fu solennemente coronato in Palermo.
Avea il duca Giovanni tutte le grandi abilità del padre, e certo era tale da restituire la pace e l’interna forza del regno: ma era scritto negli eterni decreti, che al regno gloriosissimo di Federigo dovesse succedere un seguito non interrotto di calamità. Era il duca in Siracusa nello ottobre del 1342, ove fu lievemente ammalato. Colse quel destro un Giovanni Manna giudice, il quale, comechè si mostrasse amico del duca e fosse suo confidente, pure era in cuore caldo partigiano dei Palici. Costui trovandosi in Catania, cominciò a sparger d’esser il duca morto di quel male, e venne assicurandolo in tutte le città tra Catania e Messina. Erano in queste città molti amici de’ Palici, i quali a quell’annunzio si diedero a tumultuare, misero a morte il luogotenente dello stratigoto, cambiarono i magistrati della città, uccisero molti degli amici del duca e ne saccheggiarono le case, e finalmente venne lor fatto d’insignorirsi del castello del Salvadore, ma furono respinti dalle altre fortezze.
Avuto il duca notizia di tale sommossa, corse con armata mano in Messina. Al suo avvicinarsi i sediziosi si trassero nel castello del Salvadore, ove cercarono d’afforzarsi con gente venuta da Calabria in loro soccorso: ma strettamente assediati dal duca, i capi fuggirono in Calabria, gli altri fur presi, ed alcuni di essi furon puniti di morte, fra’ quali il traditore Manna ed un suo fratello.
In quell’anno stesso finì di vivere in Napoli il re Roberto, lasciando il trono a Giovanna nata da Carlo III suo figliuolo a lui premorto e maritata ad Andrea, figliuolo del re d’Ungheria. Volendo la nuova regina segnalare il principio del suo regno, apprestate grandi forze, le mandò nel 1335, sotto il comando di Goffredo di Marzano conte di Squillaci ad assediar Messina. Comandava in quella città don Orlando d’Aragona, il quale malgrado il gran numero degli assalitori, si difese con gran cuore. Nè lasciarono i Palermitani di scrivere una lettera ai messinesi per animarli a resistere: e questi risposero con senzi del pari generosi. Intanto il duca si diede a raccor tutte le forze di mare e di terra del regno per soccorrer Messina; ciò venuto a notizia del conte di Squillaci, temendo non fosse tolto in mezzo dai messinesi e dall’esercito, che il duca menava, e non essergli impedita la ritirata dalle navi siciliane, decampò e passò in Calabria.
Era allora la regina Giovanna con suo marito in Aversa, ove Andrea si morì, e si sparse voce d’essere stato messo a morte dalla moglie e dai baroni, dai quali era odiato. Il re d’Ungheria scese in Italia con grandi forze per vendicare la morte del figliuolo. Distolte così le forze della regina, venne facile ai Siciliani di ricoperare nel 1346 Milazzo, e l’anno oppresso l’isola di Lipari. Anzi come il conte Raimondo Peralta, fornita l’impresa di Lipari, accostossi a Napoli e danneggiava quelle campagne, il popolo tumultuando cominciò a chieder pace. La regina chiamò a se lo stesso conte Peralta, e saputo da lui che anche il duca d’Atene era inclinato alla pace, spedì a lui su quelle stesse galee suoi ambasciatori a trattarla e fu conchiusa nel novembre del 1347 a tali patti. Che il re dovesse titolarsi re di Trinacria e non di Sicilia; che in caso d’invasione de’ dominii della regina dovesse darle il soccorso di quindici galee e cencinquanta militi per tre mesi; che dovesse pagare alla regina ogni anno il giorno dei Ss. Apostoli tremila once per pagarle per censo ai pontefici. Dall’altra parte la regina rinunziava per se e suoi successori a qualunque diritto sulla Sicilia e le isole aggiacenti; promettea di far opera presso la romana corte, perchè fosse levato l’interdetto della Sicilia; contentavasi che per lo debito arretrato del censo sudetto il re pagasse nove mila once, metà tostochè sarebbe ratificato il trattato dal papa, e metà l’anno appresso. E finalmente sì convenne che quel trattato dovea aver vigore dopo d’essere stato approvato dal papa; ed intanto si conchiuse una tregua sino all’imminente giorno di S. Giovanni Battista. Il re die’ conto di quella pace a tutti i comuni di Sicilia (536).
II. — La sospensione d’armi ebbe luogo, ma il trattato restò sospeso per esser il duca d’Atene morto nell’aprile del 1348 per la peste che s’introdusse in Sicilia e fece strage in molte città e particolarmente in Messina, e pe’ gravissimi disturbi che quindi ebbero luogo.
Venuto a morte il duca, di consenso di tutti i baroni, per opera principalmente del conte Blasco Alagona, il quale perchè gran giustiziere era rimasto vicario del re, fu l’infante Federigo figliuolo di quello investito dal re in Messina del ducato d’Atene e di Neopatria, del marchesato di Randazzo e di tutti gli stati già posseduti dal padre. Tutto allora parea lieto e tranquillo: ma la tempesta scoppiò all’arrivo in Sicilia del conte Matteo Palici (Damiano era morto) e degli altri fuorusciti, chiamati secretamente dalla regina vedova di Pisa ov’eransi ritratti. E ben trovarono eglino tutti i materiali pronti per una conflagrazione universale.
Sia dalla conquista eran venute a stabilirsi in Sicilia molte famiglie straniere. Ogni dinastia avea menato seco i suoi ed investitili dei feudi, di baronie, di contee. Indi naturalmente avvenia che i primi venuti guardavano di mal occhio i più recenti, e però a malincuore soffrivano gli altri baroni l’ingrandimento e il predominio acquistato dagli Aragonesi e Catalani. Primo fra questi era il conte Blasco Alagona. I segnalati servizii dell’avo, del padre e di lui stesso, il gran favore, che avea goduto, dei re Federigo e Pietro II e del duca d’Atene, avean fatto tacere l’invidia: ma questa s’accrebbe quando, passato lo scettro ad un re minore, nelle sue mani per la carica, che indossava, venne il governo. Nè il piccolo duca d’Atene potea dargli altro appoggio che del suo nome. Però la maggior parte de’ baroni aspettava il destro di levare all’Alagona ogni sua autorità.
Tale era lo stato del regno quando nel giugno del 1348 venne il conte Matteo Palici. Tentò egli sbarcare in Messina, ove avea molte dipendenze, ma ne fu impedito dall’Alagona che colà trovavasi, onde secretamente avvertito dalla regina, si diresse a Palermo. Intanto l’Alagona, visto che il popolo di Messina era quasi per tumultuare contro di lui, volle ritrarsi in Catania menando seco il re: ma lasciò al governo della città don Orlando d’Aragona. La regina mostrò d’aderirvi: si mise in via, ma, fatto poco cammino, ordinò al conte di precederla per preparare gli alloggi. Allontanatolo così, chiamò a se il Turtoreto gran protonotaro, il quale avanti sentiva in medicina, e chiese il suo parere sulla salubrità dell’aria di Catania pel re in que’ tempi estivi. Colui che avea avuta la carica per essere stato nemico dei Palici, e per conservarla avea mestieri del favore della regina, rispose che veramente l’aria di Catania non era in quella stagione salutare pel re; onde la regina si recò a Montalbano e quindi fe’ ritorno in Messina.
I Palici intanto vennero in Palermo, ove si riunirono ai due fratelli Enrico e Federigo Chiaramonte figliuoli d’una sorella del conte Matteo, e per loro opera ribellarono la città al dominio dell’Alagona. Venutine fuori con gran comitiva, si diedero a percorrere il regno e da per tutto furono ben accolti. Loro principale impegno era di ribellar le terre soggette al piccolo duca di Atene, e ben lor venne fatto; chè solo Aci, Paternò e Mineo a lui restaron fedeli. Fra le terre sottratte al dominio del gran giustiziere era Naro, che a don Artale suo figliuolo si appartenea, recatagli in dote dalla moglie figliuola di Pietro Lanza. V’accorse il gran giustiziere, e trovatala ben munita, la cinse d’assedio, ed i soldati suoi si diedero a sperperarne le campagne, a rapire e scannare tutto il bestiame che vi trovarono, e questo fu in tal quantità, che il fetore di migliaja d’animali morti sparsi intorno al campo produsse gravi malattie nell’esercito; onde l’Alagona fu costretto a decampare e far ritorno in Catania.
Intanto i Palici con grandi forze avvicinavansi a Messina. Don Orlando d’Aragona, che vi comandava, conosciuto il gran numero de’ loro amici in quella città e soprattutto l’animo della regina, che apertamente li favoriva, venutone fuori, si ridusse in Catania colla gente sua e con tutti i messinesi nemici de’ Palici. Nè questi tardarono ad entrar trionfanti in città: e fattisi così padroni della persona del re, cominciarono ad ordinare in suo nome ciò, che loro tornava a grado.
Il gran giustiziere intanto, chiuso in Catania con tutti i Catalani, la munì di fortificazioni in modo da non temere l’attacco dei nemici. Corse al castello d’Aci e ne trasse il tesoro ripostovi dal morto duca d’Atene, e con esso (oltre ai cavalieri che seco avea in gran numero) assoldò molte bande di pedoni toscane, lombardi e di altre nazioni, che chiamavansi allora briganti.
III. — Il regno tutto fu allora diviso in due parti. Latini diceasi i Palici e’ loro, Catalani gli altri. Nell’urto di quelle fazioni l’ordine sociale fu sciolto; l’autorità del re vilipesa, non che frenasse, divenne strumento delle fazioni; le leggi furono da per tutto od obbliate od apertamente violate; furti, incendii, assassinii, stupri, violenze d’ogni maniera si commettevano impunemente; comunicatasi la scissura non che alle città, alle private famiglie, più non si conobbero i sociali doveri, più non si sentì la voce stessa della natura; le città vicine pugnavan tra esse, e nella città stessa pugnavano cittadini contro cittadini, amici contro amici, fratelli contro fratelli. Nè maggior sicurezza era in mare, chè tutte le spiagge dell’isola erano infestate da pirati aragonesi, genovesi, siciliani, stipendiati dall’una o dall’altra fazione.
La regina stessa cercò spegner quel foco da lei suscitato; venne in Taormina e vi chiamò il gran giustiziere per trattare una pace. Il conte vi si recò con molti dei suoi per sicurezza della sua persona, ed attendossi fuori della città. Un cantore della real cappella portava e riportava le ambasciate dall’una all’altra parte, quando un giorno un cavaliere, domestico della regina, recandosi di suo ordine al campo de’ catalani, assalito da Francesco Valguarnera, maliscalco dell’esercito catalano, che forse nol conoscea od ignorava il motivo della sua gita, ne fu messo a morte; di che l’Alagona forte se ne rincrebbe e ne die’ mala voce al Valguarnera. Ma la regina ne fu accuorata in modo che, rotta la trattativa, fe’ ritorno in Messina e si die’ a riunire tutte le forze del regno, per avere in ogni conto Catania ed esterminare la nazione de’ catalani.
L’esercito regio numerosissimo si riunì in Lentini. La regina stessa col re vi si recò nel maggio del 1349, e salita su di una galea col re, accompagnata da’ maggiorenti della sua parte, si diresse a Catania. Avvicinatasi alle mura della città, la gente sua cominciò a gridare «Viva re Ludovico» sulla speranza, che a quel grido i catanesi non avrebbero avuto cuore di negar lo ingresso al re. «Viva re Ludovico» rispondeasi dall’altra parte, ma non però la regina fu ammessa in città; per che maggiormente stizzita tornò in Lentini, e fatto ogni appresto per l’assedio, spinse contro Catania l’esercito, restando essa col re e il conte Matteo Palici in Lentini. I Catalani erano ben preparati a ciò. Francesco Valguarnera e il conte Raimondo Peralta, saputo l’avvicinarsi dei nemici, vennero fuori colla gente loro con animo di coglierli alla sprovveduta, ma coloro accortisine, lor vennero incontro. Ne seguì sanguinosissima battaglia. Il numero la vinse. Il conte Peralta fu morto; il figliuolo del conte di Malta fu preso; il Valguarnera con pochi compagni si salvò colla fuga e corse verso la città per rientrarvi: ma non fu ammesso, che d’in sulle mura a lui gridavasi «Traditore! torna alla battaglia.» I regii, credendo aver disfatto tutto lo esercito nemico, corsero alla città sicuri di trovarla senza difesa, ma restaron sorpresi al vederne chiuse le porte e gremite di difensori le mura e le fortezze. Il gran giustiziere intanto venne fuori da un’altra porta colla più numerosa e scelta banda de’ suoi. I regii, comechè sorpresi del loro apparire e stanchi del primo attacco, si prepararono animosamente alla battaglia: ma la sorte non fu loro propizia, molti ne perirono al primo scontro, molti, che eransi dilungati credendo d’entrare i primi in Catania, nel volere tornare indietro al campo colti dai catalani fur volti in fuga. I Catalani avuto quel vantaggio, a lento passo e in buon ordine rientrarono in città.
Erasi sparsa voce in Catania d’esser morto in quella battaglia il conte Matteo Palici, di che fu la città tanto lieta che la sera fece gran luminaria: visto ciò i regii, per darsi anch’essi aria di vincitori, fuochi di gioja accesero nel campo loro. Ma eran novelle; l’attacco seguito avea fatto conoscere che potente in armi era la fazione catalana ed inespugnabile Catania; però i regii, lasciato ogni pensiere d’assedio, si diedero ad incendiare le biade già mature, talmentechè i catanesi a mal’istento poteron far la ricolta nei campi assai vicini alla città; di che grave danno sarebbe stato per averne quel popolo, se il gran giustiziere non avesse fatto una gran provvista di frumenti dell’antecedente anno. Finalmente addì 20 luglio i regii, perduta ogni speranza di aver Catania fecero ritorno in Lentini.
IV. — La guerra continuavasi con vantaggio or dell’una or dell’altra parte. Sconfitti furono i catalani nel cercar di ricuperar Troina; e vi lasciò la vita fra gli altri don Giovanni d’Aragona figlio dell’infante don Sancio, fratello, benchè di diversa madre, del re Federigo. Ebbero la peggio i latini nel tentare d’aver Paternò. Noto si die’ ai catalani per opera di don Orlando d’Aragona e di Landolina. In questo il conte Matteo Palici stanco della guerra spedì messaggieri in Catania al gran giustiziere un Filippo di Chipiro messinese, giudice della gran corte, con proposizioni di pace: ma mentre trattavasi, alcuni fuorusciti di Piazza, che per la fazione catalana teneansi; indettatisi con altri dei loro terrazzani, che parteggiavano pe’ Palici, ribellarono la città. Creduto ciò un tradimento, i catanesi volean mettere a morte il messo; il gran giustiziere conosciuto che ned egli, nè il conte Palici aveano avuto parte all’accaduto, salvollo, e continuò la trattativa. La pace fu conchiusa a tali condizioni; che fossero restituite al duca d’Atene Randazzo, Francavilla, Vizzini e Troina, al conte Alagona Mistretta, Naso e Capo d’Orlando, e come non potea restituirsi al conte Palici la terra di Caronia, tenne in quella vece Montalbano e Butera che all’Alagona prima apparteneano. Si convenne inoltre che il conte Alagona continuasse nella carica di gran giustiziere sino alla maggiorità del re, ma da esercitarne la giurisdizione solo nelle terre di suo dominio, come i Palici ed i Chiaramonti la stessa giurisdizione aver doveano nelle terre loro. Tutto ciò fu confermato da lettere regie: tanto l’autorità sovrana era divenuta nulla.
Ma appunto per questo la tranquillità non potea esser durevole. La pace era stata conchiusa nel novembre del 1350, e nel marzo dello stesso anno don Artale Alagona, figliuolo del gran giustiziere, prese e saccheggiò Alicata, ove trovò riposte oltre a tremila salme di frumento di Federigo Chiaramonte, che ritenne in suo potere; e volendolo trasportare in Catania, che ne abbisognava, scrisse al padre di mandare quante barche potea a levarlo. Il tragitto era mal sicuro dalla terra, come dal mare. Il gran giustiziere scrisse a Manfredi Chiaramonte, che capitano era di Lentini e di Siracusa, chiedendogli se, attesa la pace che fra loro era, potea con sicurezza far venire certo frumento da Alicata; quello gli rispose del sì. Onde mandate molte barche in Alicata, ne levarono il frumento; e nel ritorno con tutta sicurezza, fidando dell’assicurazione del Chiaramonte, entrarono nel porto di Siracusa; i marinari scesero a terra: ma tosto si videro arrestati e carcerati; pochi ne fuggirono in Catania; il frumento fu preso. Il conte Alagona saputo il fatto, spedì due messi in Lentini al Chiaramonte, per dolersi del tradimento: ma quello rispose che dopo aver fatta egli la lettera di sicurezza, il re avea mandato ordine d’intraprender quelle barche, se accadea che passassero da Siracusa; nè potea il conte dolersi del re dopo avere presa e saccheggiata in piena pace una città del regio demanio.
V. — Rotta così la pace, ricominciarono le ostilità da per tutto, e si ritornò in sul depredare i bestiami, sperperar le campagne e far simili danni tra città vicine. E però, annichilita del tutto la sovrana autorità, le città, per potere almeno far le ricolte, stabilivan tregue fra esse. Grandi vantaggi avea in quella guerra la fazione de’ Palici e de’ Chiaramonti. Per loro era l’autorità e ’l nome del re; e la maggior parte del regno era loro sommessa: pure fallita l’impresa di Catania, non poterono essi più riunire le forze loro; dachè il partito loro nemico, che in ogni città era, accresceasi di giorno in giorno, per essere divenuta odiosa l’autorità da essi usurpata, della quale facean tale abuso, che le città stesse demaniali eran da essi governate come terre di lor vassalaggio; e però era loro mestieri tenere in ogni città una gran forza per comprimere il popolo. Ciò non però di manco il popolo in più di un luogo facea sforzi per iscuotere il giogo. Quei di Castrogiovanni chiamarono don Artale d’Alagona, cui venne fatto di penetrare in città; ma poi ne fu respinto dalla contraria fazione. Il conte d’Asaro Scaloro degli Uberti fu messo a morte e fatto in pezzi dagli Asaresi. I Palermitani non potendo più tollerare la dura servitù, cui aveali ridotto Manfredi Chiaramonte, levaronsi a tumulto, obbligarono il Chiaramonte a chiudersi nel real palazzo, e cercarono soccorso dal gran giustiziere, da Matteo Sclafani signore di Ciminna e dal conte Francesco Ventimiglia, il quale in quel generale trambusto avea riacquistata la libertà una co’ suoi fratelli, e parte degli stati paterni. E certo il Chiaramonte sarebbe giunto a mal termine, se Simone suo figliuolo e tutti gli altri della sua famiglia accorsi da tutte le parti del regno non fossero arrivati a tempo per liberarlo e riprendere il dominio della città, ove trassero aspra vendetta di tutti coloro che aveano avuto parte alla rivolta; e mal ne sarebbe incolto al conte Ventimiglia ed a’ fratelli suoi, se non si fossero salvati colla fuga. In Messina il conte Matteo Palici, crudele, vendicativo, rapace, sleale, era divenuto l’oggetto dell’odio universale.
Forse per tali ragioni, credendo il Palici di raffermare la sua autorità con far dichiarare il re maggiore, gli fece scrivere una lettera ai giurati di Catania, nella quale dicea loro che essendo egli di già arrivato al quindicesimo anno dell’età sua, e però in istato di governare da se, volea ch’eglino spedissero a lui in Messina, per provvedere al buono stato ed alla tranquillità del regno, due o tre di loro (537).
L’essere stata quella lettera recata come di furto da un Taormina, l’esser diretta ai soli giurati e non al capitano, al bailo, ai giurati ed ai giudici, che allora formavano il corpo municipale, cui dirigeansi tali lettere nel convocare il parlamento e simili casi; il non esservi chiamato alcuno dei baroni della fazion catalana, e particolarmente il gran giustiziere del regno; fecero conoscere ai Catanesi d’esser quella lettera un tranello della contraria fazione. Però risposero al re, che avendo posto mente a quella lettera, conosceano ch’egli, lungi di governare, era governato da pubblici nemici. «Se V. M.» soggiungeano «è libera ed in istato di governare da se, ond’avviene, che i principali autori di tanti disturbi usurpano una autorità anche superiore a quella della M. V.? Che non gli allontanate dalla vostra presenza? Se siete veramente libero, venite in questa città, sull’esempio dei vostri maggiori, mettetevi allato uomini pacifici e probi, ed allora tutti i vostri fedeli sudditi con gioja e sicurezza verrano ai vostri piedi (538).» Tal coraggiosa risposta fe’ svanire il progetto.
Fallito quel colpo, il re spedì messi al gran giustiziere per trattare una tregua per tutto il regno; e questa fu conchiusa addì 25 maggio del 1353, da durare sino alla fine d’agosto dello stesso anno. Era per ispirare quella tregua, quando il re per altri messi spediti all’Alagona aprì la trattativa di una pace generale. Se la pace desideravasi dal re e dai Palici, non meno necessaria era al gran giustiziere ed alla sua fazione. Catania, ov’essi stavano era ridotta tanto strema di viveri, che il frumento, recatovi per lo più a grande rischio da’ negozianti aragonesi, giunse tal volta al prezzo di due once la salma, mentre dalle mete di quell’età si vede che il prezzo ordinario ne era da otto a nove tarì la salma. Ben è vero che ciò non era solo effetto della scarsezza delle derrate, ma dell’essere affollati in quella città tanti facoltosi baroni e tanti stipendiari, fra’ quali eran divisi i tesori del duca di Atene tratti dal gran giustiziere dal castello d’Aci: ed essendo la città circondata da nemici, quella moneta circolava ivi solo; onde venne a perder di valore in modo, che lo storico fra Michele da Piazza assicura, che in Catania in que’ dì il prezzo delle cose non più per carlini, come per lo passato, ma per fiorini calcolavasi.
Per tali ragioni la pace fu presto conchiusa. Il re ne mandò i capitoli al gran giustiziere per suoi messi, i quali dovean per parte sua ricevere il giuramento di lui e di tutti gli altri della sua fazione. L’Alagona, prima di giurar l’osservanza della pace, volle un’espressa assicurazione del re per la restituzione degli stati suoi a lui promessa in quel trattato, quando il re sarebbe giunto all’età sua, e l’ottenne. Giurata allora la osservanza della pace, questa fu da per tutto pubblicata nell’ottobre del 1353.
Il conte Matteo Palici prevedendo che tale pace non era per esser durevole, volle stringere maggiormente i suoi legami colla famiglia dei Chiaramonti, e trarre anche alla sua fazione alcun potente barone della parte catalana. Con tale intendimento die’ una sua figliuola in moglie a Simone Chiaramonte, ed una figliuola di Federigo Chiaramonte fu maritata ad Arrigo Rosso conte di Cerami. Era costui messinese; esule dalla patria, perchè nemico dei Palici, era stato uno de’ primai della fazione catalana: nè per quel matrimonio cambiò sentimenti; anzi sempre più agognava a trar vendetta del conte Palici, la cui rapacità gliene offrì il destro.
Molti cavalieri del seguito de’ Chiaramonti inaspriti dalle continue vessazioni di quel conte, congiurarono contro di lui. Scoperta la congiura, fuggirono in Girgenti, ove dimorava Federigo Chiaramonte, e lor venne facile aizzarlo contro il Palici; intantochè messosi tosto in via, recossi in Motta santa Anastasia, ov’era il conte di Cerami suo genero, ed una con tutti i fuorusciti messinesi vennero in Taormina, ove venne a trovarli Simone Chiaramonte, e tutti di accordo stabilirono ciò ch’era da fare: e quindi i Chiaramonti, celando il loro mal’animo, vennero in Messina. Nel maggio di quell’anno il re venne a Taormina, accompagnato dalla principessa Costanza sua sorella maggiore, badessa del monastero di Santa Chiara di Messina, e dagl’infanti don Giovanni e don Federigo suoi fratelli, il primo de’ quali ivi venne a morte, e corse voce di essere stato avvelenato dal conte Palici, che lo trovava sempre avverso a quanto egli proponea. Stando ivi il re, la badessa volle parlare al gran giustiziere. Unironsi nella spiaggia di Mascali, e molti discorsi tennero sullo stato del regno. Desiderava essa far seguire un abboccamento tra ’l re e ’l gran giustiziere: ne scrisse ai Chiaramonti per indurre il re a recarsi in Mascali. Risposero non opporsi a ciò, purchè ognuna delle due parti non avesse più che otto persone di seguito, e ’l colloquio fosse pubblico. Tanto audaci e diffidenti eran costoro, e tanto era avvilita la sovrana autorità. Il gran giustiziere rise a quella proposizione e fe’ ritorno in Catania, e ’l re in Messina.
In questo il conte di Cerami, unitosi a Corrado Spadafora, con gran seguito d’armati accostossi a Messina. Al loro apparire il popolo die’ alcun segno di mal talento: ma il conte Palici, facendo cavalcare il re per la città, venne a capo di sedare quel lieve subuglio. Il re mandò ordine al conte di Cerami di non molestar la città, essendo egli sempre pronto a render giustizia a qualunque dei suoi sudditi, perchè la pubblica pace non fosse turbata. Il conte, per mostrarsi obbediente, si trasse indietro presso a due miglia sulla fiumara detta di S. Filippo il piccolo. Ivi vennero ad unirsi a lui il conte Simone Chiaramonte, genero del conte Palici, il conte Francesco Palici, suo cognato, e la badessa. Varî messi cominciarono allora ad andare e venire dalla città al campo per trattare un accordo. Un di essi fu lo stesso Corrado Spadafora. Il conte Palici appostò in una via, per cui quello dovea passare nel far ritorno al campo, alcuni sgherri, per assalirlo ad un segno posto e metterlo a morte. Fu infatti assalito lo Spadafora: ma egli nel difendersi chiamò l’ajuto del popolo, e il popolo mise in fuga gli assassini. Il tumulto divenne allora universale in città. Una turba di donne, tolta una bandiera reale, gridando «Viva il re e ’l popolo, e muoja il conte Matteo» corse ad aprire una delle porte della città, per la quale entrarono senza ostacolo i congiurati. Il conte Palici, inabile a frenare il popolo infuriato, corse colla moglie e i figliuoli a chiudersi nel real palazzo: ma le donne stesse armate in gran numero accorsero a quel palazzo gridando di voler consegnato il conte. Invano il re stesso, fattosi ad una delle finestre, ordinava loro di ritrarsi; chè anzi più furiose misero fuoco alle porte. Il re, vistosi in tal pericolo, venuto fuori secretamente, corse a darsi in braccio dei congiurati, da’ quali fu accolto con ogni dimostrazione di rispetto. Cadute in cenere le porte del real palazzo, il conte di Cerami v’entrò per avere nelle mani il suo nemico, il quale fu rinvenuto in una camera sotterranea fatta fabbricare dalla regina Eleonora pei timore dei tuoni. Trattonelo, fu portato alla presenza del conte, cui cominciò a chieder perdono; ma quello, senz’altro ascoltare, lo fe’ mettere a morte una colla moglie e i figliuoli. Il popolo furioso ne fece in pezzi il cadavere. Dice lo storico ricantato «Se volessi narrare i vituperî fatti al cadavere della contessa, farei vitupero a tutte le donne.» Vi fu chi portò in Catania la testa ed un braccio del conte e presentolli al gran giustiziere, il quale ebbe la grandezza d’animo di non mostrarsene lieto, e fece anzi dare onorata sepoltura a que’ resti del nemico. E mandò al tempo stesso una galea in Messina, per invitare il re a recarsi in Catania.
Era il re dolentissimo dell’accaduto e particolarmente della morte della contessa Palici, la quale era congiunta di sangue colla regina sua madre ed era stata a lui molto cara. Vedova di Martino Santo Stefano, maggiordomo del re Pietro II, la regina stessa aveala data in moglie al conte Palici, ed aveale affidata l’educazione del re suo figliuolo, il quale, cresciuto nelle sue braccia, teneramente l’amava. E però acremente si die’ a rimproverare il conte Simone Chiaramonte di aver congiurato contro il suocero. Ricevuto l’invito del gran giustiziere, accettollo con lieto animo, e senza farne motto ad alcuno, salito su quella galea coll’infante don Federigo suo fratello, venne in Catania, ove fu accolto con gioja straordinaria. La badessa e le altre sorelle del re accompagnate dal conte di Cerami e dal conte Simone Chiaramonte vi si recarono anch’esse.
Il conte Chiaramente, giunto in Catania, conoscendo il mal’animo del re verso di lui, senza farglisi vedere ne partì e venne a Motta-Santa-Anastasia; di che inteso il re, mandogli ordine di venire a lui: ma quello rispose, che vi verrebbe semprechè il re gli perdonasse qualunque colpa. Il re maggiormente adirossi a tal risposta; e quello da Motta passò in Lentini, ove era capitano il suo congiunto Manfredi, e prepararonsi ivi a vigorosa difesa.
Intanto il re, per levare ogni cagione di contesa, dichiarò sua vicaria la badessa sua sorella maggiore, e per farla riconoscere convocò un parlamento in Catania. Tutti i sindaci de’ comuni e tutti i baroni vi accorsero, tranne i Chiaramonti, comechè il re gli avesse replicatamente chiamati: anzi la badessa stessa acchinossi ad andare incontro al conte Simone sino al fiume di Catania, per indurlo a venire co’ suoi in presenza del re: ma quello ostinavasi a pretendere che fosse prima allontanato il gran giustiziere, dicendo che la nobiltà del loro sangue non pativa d’esser sottomessi alla giurisdizione di lui. A tale arroganza crebbe sì l’odio del re verso questa famiglia, che trovandosi un giorno a cavalcare per le campagne di Catania con gran seguito di nobili, gli venne veduto un branco di buoi, un de’ quali erasi sbandato, ed il boaro correagli appresso chiamandolo per nome. Disgraziatamente per quella povera bestia, le avean dato nome Chiaramonte; il re sentendolo a nominare, gli corse appresso, e raggiuntolo, tratta la spada, l’uccise dicendo «Questo nome non dee mai proferirsi in mia presenza.» Puerilità ridicola che serviva solo a mostrare la sua debolezza. Ritornato poi in Catania, riunita in sua presenza la gran corte, i Chiaramonti, il conte Francesco Palici e i loro consorti furono banditi dal regno.
Allora, non che fossero ricominciati, s’accrebbero a più doppi tutti gli orrori della guerra civile. Tale era la potenza dei Chiaramonti che oltre la vasta contea di Modica e tanti altri stati da loro posseduti, Palermo, Girgenti, Siracusa e quasi tutte le città dei Val di Mazzara eran da essi tenute come in vassallaggio: ma soprattutto Lentini era loro piazza d’armi; talmentechè vani furono gli sforzi del re per averla di forza.
Ciò non però di manco venne fatto al re di trarre alla sua obbedienza molte delle città sottomesse ai Chiaramonti. Vistisi costoro a mal partito, chiamarono in loro ajuto le armi napolitane: e tanto aveano eglino resa loro soggetta la città di Palermo, che i palermitani stessi offrirono alla regina Giovanna ed al re Lodovico suo marito di render loro la città; e quelli vistasi così aperta la strada al riacquisto del regno, vi mandarono il gran siniscalco di quel re, il quale giunse in Palermo nell’aprile del 1354, ed in breve la gran parte di Sicilia che seguiva il partito de’ Chiaramonti, riconobbe il dominio di Napoli. Così la città di Palermo, che prima era stata ad alzar la voce e il pugnale contro gli Angioini, fu del pari la prima a richiamarli, a dar loro ricetto ed offrir loro il destro di rimettere in servitù la Sicilia: tanto le interne perturbazioni aveano spento lo spirito pubblico dei Siciliani e fatto perdere alla nazione quell’unanimità che ne’ regni precedenti avea fatto la sua forza e la sua gloria.
Spedì il re un suo ambasciadore in Napoli, per dolersi di quel re che in piena pace senza alcuna provocazione dalla parte sua avea invaso il regno. Gli rispose non avere re Ludovico di che dolersi, se la regina Giovanna ripigliava un regno a lei dovuto, di cui possedea già la maggior parte senza effusione di sangue. Avuta tale risposta, si diresse il re al suo congiunto re di Aragona, che allora era a guerreggiare in Sardegna, per aver soccorsi: ma quello rispose, che sarebbe venuto in suo ajuto dopo preso un forte castello, che stava assediando.
Grave perdita in questo soffrirono i Chiaramonti per la ribellione di Siracusa, ove furon messi a morte coloro che maggiormente teneano dalla parte loro. Il re che allora avea preparato un grand’esercito per assediare Lentini, avuta quella notizia, ne mandò la miglior parte in Siracusa sotto il comando di don Artale Alagona per tema che la città avesse potuto essere ripresa da’ Chiaramonti. Giuntovi l’Alagona, trovò che don Orlando d’Aragona e ’l barone di Sciortino erano già entrati nella città con dugento cavalieri; onde, tenendola sicura, mosse per fare ritorno in Catania.
Manfredi Chiaramonte in questo, saputo la ribellione di Siracusa e l’esercito che quindi tornava, venne fuori da Lentini e mandò avanti sessanta cavalieri ad appiattarsi in un sito detto li grutti di li Rigitani, onde credea che i regî dovessero passare, per assalirli alla sprovveduta e disordinargli; onde sopraggiunto egli col resto delle sue forze, ne avrebbe fatto macello. Ma gli venne fallito il colpo. Gli esploratori, che don Artale mandava avanti, avvistisi di quella truppa nascosta, tornarono indietro a dargliene avviso. Era lo esercito regio sulla vetta d’un erto colle, onde scoprivasi una pianura e i nemici che a gran passi colà s’avviavano. L’Alagona soprastette e chiamò i suoi capitani a consiglio. Rugieri Tedesco disse, che non era tempo da perdere, che il nemico avviavasi alla pianura; bisognava correre a lui per avere il vantaggio del terreno. Senz’altro discutere, l’esercito scese al piano. I Chiaramonti si preparono alla battaglia con divider l’esercito loro in due schiere. La prima di dugento cavalieri era comandata da Malatesta Toscano, da Giovanni di Settimo da Ragusa, da Matteo di Vaccaria e Matteo Gioeni profughi di Catania. La seconda di quattrocento cavalli era comandata dallo stesso Manfredi e dal conte Simone Chiaramonte. Anche lo Alagona dispose la gente sua in due schiere. Distingueansi nella prima di cencinquanta cavalli Bernardo Spadafora, Giovanni Landolina, Rugieri Tedesco e Guglielmo Spadafora, barone di Roccella, tutti prodi capitani. La seconda di dugentocinquanta cavalieri tenne sotto di se.
Al primo scontro un cavaliere della parte chiaramontana, arrestata la lancia, corse addosso a Bernardo Spadafora, e rottagli la gorgiera, lo trasse di sella: ma il ferro strisciò la cute e nol ferì. Un fratello di lui, vistone il cavallo errante, presolo per la briglia lo ricondusse a lui ed ajutollo a rimettersi in sella. Quello risalito a cavallo, ben si rifece del primo affronto, facendo mirabili prove. Ciò non di manco quella prima schiera era per essere rotta, quando don Artale si spinse colla seconda a rinfrescar la battaglia. Il suo valore die’ nuovo coraggio ai suoi. Grande fu la strage dei chiaramontani. Accorsero col resto dell’esercito i due Chiaramonti; ma, come eransi tenuti alquanto lontani, prima ch’e’ fossero giunti, la prima loro schiera era già messa in rotta. Trovossi allora la seconda schiera de’ chiaramontani a fronte di tutto l’esercito regio. Manfredi e ’l conte Simone combattean da disperati: ma non poteano impedire la strage che facean di loro i capitani della parte del re. Cinquanta cavalieri caddero per mano del solo Rugieri Tedesco. In breve tutto quello esercito fu rotto e volto in fuga; dugento ne restarono morti sul campo, cinquanta ne furon presi. In tutta quella guerra non fu battaglia più sanguinosa di questa. Il conte Simone ebbe a gran ventura potersi salvare in Lentini. Manfredi fuggendo con pochi de’ suoi si nascose nella Torre del Pantano, onde, fatta notte, si ridusse poi a Lentini.
Ottenuta quella vittoria, volea il re correre con tutte le sue forze ad assediar Lentini, ma ne era impedito dalla mancanza di denaro per pagare gli stipendiarî. Il comune di Catania, che tanti sacrifizî fece allora, vi supplì con diminuire il peso del pane che vendeasi, onde per ogni salma di frumento aveasi un profitto di dieci tarì, che fu dato al re. Tolta così la difficoltà, il re stesso con tutti i suoi baroni venne fuori di Catania con meglio di secento cavalli ed innumerevole stuolo di pedoni. Era fra gli altri, che accompagnavano il re, Giovanni di Luna vescovo di Catania, che menava seco quindici cavalli. Era egli sceso dagli antichi re d’Aragona, e con animo veramente regio era largo delle sue facoltà a chiunque ne avea mestieri e sopratutto al re stesso.
Cinta d’assedio Lentini, stette il re tre giorni senza recar danno alle campagne, sperando che la sua presenza avesse mosso i Lentinesi a darsi a lui: ma vistili ostinati, die’ mano a devastar le campagne loro. Era la metà di maggio; in quella contrada le biade eran mature: i pedoni le segavano, i cavalli le trebbiavano e le trasportavano. Grande divenne la carestia in Lentini. Manfredi Chiaramonte chiamò a consiglio i maggiorenti della città nel castello. Andativi, ve li ritenne prigioni, come ostaggio, per tenere a freno il popolo. In ogni strada era una ronda di cavalieri; onde era interdetto ai miseri Lentinesi pure il mandar fuori un sospiro. Molte donne e fanciulli ne scappavano per accattar pane altrove, ed assicuravano il re dell’estrema angustia cui era ridotta la città.
In questo Niccolò Lanza, che seguiva l’esercito regio ed andava scorazzando que’ dintorni intraprese una salmeria di argenti, gioje arredi preziosi e danaro che il Conte di Modica Simone Chiaramonte facea venire in Lentini. Quindici cavalieri la scortavano, e fur presi con tutte le some. Lentini era per cadere, quando giunse al re la notizia che in Vizzini erasi levato un tumulto contro i Chiaramonti, e venti dei principali autori di quel subuglio, presa la torre della città ed afforzativisi, chiedevano ajuto. Vi spedì il re don Orlando d’Aragona e il barone di Sciortino: ma questi trovarono entrati in città il barone di Fulfo con molta gente speditavi dai Chiaramonti, e la torre assediata. Volle il re accorrervi egli stesso con tutta la sua gente: ma intanto la torre fu presa, e coloro, che la difendevano, messi a morte. Il re tornò a Catania. I Chiaramonti venuti fuori da Lentini con dugento cavalli corsero a fare sul tenere di Caltagirone, di Noto, di Sortino gli stessi guasti che l’esercito regio avea fatto in Lentini. Così la Sicilia era in ogni punto devastata ed oppressa.
Ma più calamità tentò in quel tempo di attirare sulla Sicilia la famiglia dei Chiaramonti. Furono allora confermati dalla regina Giovanna e dal re Luigi alcuni capitoli chiesti da essi per lo reggimento del regno, nel caso, che com’e’ speravano, ritornasse sotto il dominio angioino. Vi si chiedea fra le altre cose che tutte le cariche del regno solo si dessero a’ magnati della fazione latina; che si confiscassero i beni di coloro, ch’erano della contraria fazione, e si dessero a magnati della parte latina, che val quanto dire a loro; chè poche o nessun’altra famiglia di nome era in quella fazione. Aveano a grave costoro il predominio del gran giustiziere, ed intanto agognavano a ridurre nelle loro sole mani tutte le cariche e quasi tutti i beni del regno. Dicevano esser loro invisi gli Alagona ed altri della contraria fazione: ch’essi diceano stranieri, le famiglie dei quali da più generazioni erano stabilite in Sicilia, vi aveano acquistate grandi possessioni, ne aveano comprata la cittadinanza col sangue sparso in mille incontri; ed intanto faceano ogni lor possa per ricondurre nel regno una dominazione straniera ed odiata per espeller la quale tutti i Siciliani, ed eglino i primi, avean versato fiumi di sangue. Ciò mostra quanto lo spirito di parte acciechi la mente e perverta il cuore dell’uomo.