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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXXVIII. I. — Principii del regno di Federigo III. Nuove fazioni. Tradimenti di Nicolò Cesareo. — II. Estremità in cui trovossi Federigo: ne è un poco sollevato. — III. Calamità grandi della Sicilia. — IV. Carattere del re Federigo. Suo matrimonio. — V. Condizioni del regno. Disgrazie in corte. — VI. Pace con la regina Giovanna. — VII. Errico Rosso occupa Messina. — VIII. Morte di Federigo. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Tale era lo stato delle cose in Sicilia, quando addì 16 ottobre del 1355 venne a morte il re. Federigo ultimo de’ suoi fratelli gli successe nel regno. Era egli stato non guari prima, per la morte di suo cugino il duca d’Atene e Neopatria, investito, non che degli stati da quello posseduti in Sicilia, ma di que’ ducati, i quali, ridotti già al solo titolo, indi in poi restarono addetti alla corona di Sicilia. Non guari andò che venne a morire il gran giustiziere Blasco Alagona.
Il nuovo re convocò il parlamento in Messina dal quale fu solennemente riconosciuto; e prestatogli il giuramento di fedeltà da tutti i baroni e dai sindaci de’ comuni ivi presenti, per essere il re ancora minore, vi venne scelta vicaria del re la principessa Eufemia, sua maggior sorella, addì 22 novembre di quello stesso anno.
Quì nuovo campo di civili discordie s’aprì. Aperta nimicizia dichiarossi tra ’l conte di Cerami Enrico Rosso e don Artale Alagona. Al Rosso si unirono la principessa vicaria e ’l conte di Geraci Francesco Ventimiglia. Il re colla sorella e il conte di Cerami vennero a Taormina per quindi passare in Catania, come la vicaria e lo stesso conte di Cerami eran convenuti coll’Alagona; ma colà giunti, volean piuttosto recarsi a Randazzo; il popolo levossi in capo contro il conte Errico, che di nascosto ebbe a fuggire. Il re si recò in Catania, la vicaria andò in Randazzo ad unirsi col conte Errigo e col conte di Geraci; e quindi vennero ribellando molte delle città del regno. Per accrescer le loro forze bandirono un indulto per tutti i malfattori che fossero venuti a servire nell’esercito loro. Con tali commilitoni vennero in Motta-Santa-Anastasia, e quindi accostaronsi in Catania, e trovatavi forte resistenza, ne incesero tutti i campi. Era di giugno, le biade eran, non che mature, mietute, onde la ricolta di quell’anno fu affatto perduta.
Da Catania vennero a Milazzo, che allora teneasi da’ Napolitani. Vi comandavano Niccolò Cesareo e Giacomo di Aloisio cavalieri messinesi ai quali la vicaria promise grandi doni, il perdono della loro passata ribellione e la restituzione di tutti i loro beni, se tornavano all’obbedienza del re ed a lui restituivano la città. Coloro accettarono il partito, abbatterono la bandiera napolitana, inalberarono la siciliana, coloro della guarnigione che voleano opporsi furon morti o fatti prigionieri. La città venne in potere della vicaria, la quale in compagnia dei due conti, menando seco i prigioni venne trionfante in Messina e fece stratigoto di quella città il conte di Geraci.
Intanto il Cesareo, nemico in cuore del conte Enrico Rosso, congiurò contro di lui, e ben gli venne facile trovar compagni, chè il Rosso non era nè men tiranno nè men rapace del conte Palici. Il popolo tumultuando si die’ a gridare. «Viva lu re di Sicilia e mora la casa Russa.» Tutti gli amici, aderenti e congiunti di quel conte o fuggirono o furon morti o corsero a chiudersi ne’ castelli di Mattagrifone e del Salvatore. Lo stesso conte di Geraci fuggì. Restato il Cesareo a comandar la città, vi chiamò don Artale Alagona; e questi accorsovi, vi fu accolto con gran trionfo. Trovatavi la vicaria, seco ne la menò in Catania, ove trovandosi a passare avanti una bottega in cui vendeasi pane, uno del popolo disse alla principessa «Signora, questo pane è fatto del frumento che d’ordine vostro fu bruciato: grazie a Dio è bianco ed abbondante. Viva il re che non ci fa mancar nulla.»
In questo il conte Enrico Rosso si collegò coi Chiaramonti. Ma il conte di Geraci coi fratelli suoi, anzi che unirsi agli antichi nemici delle famiglie loro, tornarono all’obbedienza del re.
Stava allora Messina sotto il dominio del re Federigo, e n’era stratigoto lo stesso Cesareo che l’avea tolta al conte Enrico Rosso, ma i castelli di Mattagrifone e del Salvadore teneansi pel conte. Il Cesareo macchinando un secondo tradimento, scrisse a Federigo Chiaramente, ch’egli, comechè si fosse dato alla parte regia, non lasciava d’essere in cuore della fazione chiaramontana; che volgeva in mente il progetto di fare avere in moglie al conte Simone la principessa Bianca sorella di re Federigo: ma per venirne a capo era mestieri che venissero in sue mani i castelli di Messina; e ciò essere lieve ottenerlo, scrivendone eglino al conte Enrico. Comechè Simone avesse da più anni contratto maritaggio colla figliuola del conte Palici, pure l’avere in moglie la sorella del re assai affaceasi alla sua ambizione, e, come colui che uso era a rompere ogni legge, nulla curando l’ostacolo dei contratti sponsalizi, entrò in quell’impegno e scrisse al Rosso per consegnare i castelli al Cesareo; e quello lo fece. Venuti i castelli in mani di quel traditore, la sera dei 12 dicembre 1336, inalberate le bandiere di Napoli, egli con altri congiurati vennero proclamando la regina Giovanna e ’l re Luigi. Nella sorpresa nessuno osò resistere, e così la città venne in potere de’ nemici addì 16 dicembre 1336. Il gran siniscalco del re Luigi, che teneasi chiuso nel castello del Salvadore, ne venne fuori, ed entrato in città gliene furon consegnate le chiavi. Venuto al real palazzo, vi trovò le due principesse Bianca e Violante, sorelle di re Federigo, che tenne prigioniere.
Non guari dopo giunsero in Messina la regina Giovanna e ’l re Luigi. Il Cesareo in merito del tradimento fu da essi fatto conte di Montalbano ed ebbe concesse Tripi e Naso. Il conte di Modica, saputo l’arrivo in Messina di quei sovrani, venne a presentarsi a loro, nè tardò a far proporre a quel re il suo maritaggio colla principessa. Ma re Luigi mostrossi ben lontano dal volervi aderire. La principessa comechè sua prigioniera, era pure a lui strettamente congiunta di sangue; onde mal pativa che fosse data in moglie a persona men che di regio sangue. Temeva poi che il conte divenuto cognato di re Federigo, con lui si rappacificasse. E però disse che se il conte annullasse il matrimonio contratto colla Palici, gli avrebbe egli procurato nei suoi stati una moglie del suo grado. Il conte non fu lieto di tal risposta, pure non depose l’ambiziosa speranza. Era la sua sposa in Catania; egli, non si sa a qual’oggetto, scrisse al re per pregarlo a mandargliela, dicendogli che il suo matrimonio era stato contratto, ma per le pubbliche vicissitudini non era stato consumato, onde volea la sposa per secolei unirsi. Il re volea contentarlo; ma fattone parola alla dama, essa, che forse era a giorno della pretensione del conte, si die’ a piangere dirottamente, dicendo che lo sposo la volea per farla morire. Ma mentr’essa tanto rammaricavasi, il conte soprappreso da grave infermità venne a morte in Messina.
II. — Re Luigi intanto, raccolti in Messina mille cavalli ed altrettanti pedoni, li mandò ad assediar Catania. Danneggiate, cammin facendo, le campagne di Francavilla, Castiglione e Linguagrossa, presero d’assalto Aci, e qui si fermarono per prepararsi all’assedio di Catania. Parea giungere la estrema ora del regno di Federigo. Un re pupillo, il governo in mano di una donna; il regno, tranne Catania, Siracusa, Nicosia e poche altre città, già in potere del nemico; i baroni che difendeano il re poco concordi; il popolo di Catania già scuorato, male faceano presagire dell’esito della guerra.
Quattro galee andavano e venivano da Messina alla spiaggia d’Aci per portar viveri, macchine e quanto abbisognava a’ nemici. Accadde che un di quei giorni vennero in Catania due galee ed un legno minore di pirati catalani, i quali s’offersero a servire il re. Don Artale di Alagona, saputo che il giorno stesso erano venute in Aci le quattro galee nemiche, fatto armare all’infretta due legni che erano in Catania, unitili alla piccola armata catalana, salitovi su, corse alla spiaggia di Aci. Vi giunse prima dell’aurora. Misero i suoi galeotti il grido «Aragona e Sant’Agata» e diedero addosso a’ legni nemici. Coloro, che sopra vi stavano, dormivano ancora quando furon desti dal grido e dall’impreveduto assalto. Tentarono invano difendersi. Molti ne perirono in mare cercando salvarsi a nuoto: anche più ne furon messi a fil di spada e furon fatti prigioni: in somma un solo de’ quattro legni potè fuggire, gli altri vennero in potere di don Artale. Grande fu il bottino; chè su quei legni era riposto tutto il danaro che dovea servire a pagare gli stipendiarî. La stregua che ne toccò a’ catalani fu di quarantamila fiorini.
I Napoletani, che dalla città furon testimonî di tanta perdita, lasciato ogni pensiere d’assedio, si misero tosto in via per fare ritorno in Messina. I Siciliani venuti fuori di Catania si diedero ad inseguirli. Guido Ventimiglia, Corrado Spadafora, Niccolò Lanza, sopraggiunto il retroguardo nemico, cominciarono a molestarlo. Lo Spadafora, dato di sproni al cavallo, si spinse animoso fra le schiere nemiche, quando venne fatto ad un soldato tedesco avventargli un colpo di scure, per cui cadde fesso la testa. I Siciliani allora inabili a raggiungere con tutte le forze loro il nemico, che avea ventiquattro miglia di vantaggio, si fermarono: ma in loro vece accorsero da Taormina, Castiglione, Francavilla, Calatabiano ed altre terre lungo la via contadini e pastori senza numero, e mentre i Napolitani per que’ difficili sentieri eran costretti a marciare disordinati, gli assalivano or di fronte, or di fianco, or da terzo. Quelli, confusi, scuorati, gettato quanto portavano, si davano a fuggire: ma nella fuga erano o presi o morti. Meglio della metà di quella gente restò sul campo, o cadde in potere de’ Siciliani; cavalli, che, perduti i cavalieri, erravan per quei campi formavan come armenti; vesti, armi, danaro, arredi, restarono sparsi per ogni dove. Molti di quei bifolchi ne vennero ricchi. Ridevole era il vedere dopo alquanti giorni taluni di costoro che fin’allora non altra maniera di vestito usato aveano che di albaggio, ned altro animale cavalcato che qualche ciuco, avvolti in manti di seta nobilissimi venir cavalcando generosi destrieri. Ma la più grave perdita che ferì il cuore del re Luigi fu l’esser caduto in mano de’ Siciliani Raimondo del Balzo suo camerlingo, a lui molto caro.
La perdita di quell’esercito fece svanire la speranza concepita dal re Luigi di sottomettere in poco d’ora tutto il regno: anzi, come le provincie napolitane non eran men della Sicilia agitate da intestine discordie, quel re, lasciato al governo di Messina il conte Niccolò Cesareo, fece ritorno in Napoli.
III. — Le città venivansi sottomettendo al dominio del re: ma non per questo lo stato del regno divenne più tranquillo. Le fazioni ardean più che mai. Tregue si conchiudeano e mal si rispettavano, da per tutto era guerra, nè altra maniera di guerra conosceasi che segare le biade immature, dar fuoco alle mature, tagliar le vigne e gli alberi, rubare il bestiame. Erasi in quei tempi dalla fazione, che mostrava aderire al re, creata una nuova carica per la difesa della città, ed era la Capitania a guerra, con la cognizione delle cause criminali, alla quale era addetta la castellania del luogo. Tali capitani erano eretti delle volte per una sola città, delle volte per più. Riuniti così nella stessa persona tre distinti incarichi; il governo delle città, l’amministrazione della giustizia divennero puramente militari. Ma le capitanie spesso usurpavansi di forza dalla fazione contraria, e spesso un capitano per tradimento, consegnava la città alla parte opposta. E non fu raro il caso che un traditore dopo d’avere ricevuta la ricompensa del tradimento, con nuovo tradimento acquistavasi merito dalla parte prima tradita. Nè lo impero delle leggi, nè l’autorità del sovrano, nè la fede de’ patti, nè i legami d’amicizia, nè i vincoli stessi del sangue eran dicco alle usurpazioni. Mentre la contessa di Sclafani era in quel suo castello, vi venne a visitarla il suo nipote Matteo Moncada; accolto con ogni urbanità dalla zia vi stette alquanti giorni. Una volta che la contessa venne fuori dal castello per recarsi alla vicina chiesa di Santa Maria, il Moncada; fatta chiuder la porta del castello, lo ritenne per se. Don Sancio d’Alagona fece cacciare dal castello di Patti il suo cugino Bonifazio che pel re lo tenea; avutolo, ivi a non molto consegnollo a’ nemici. Era stretta amicizia tra lo stesso Matteo Moncada e Perrello di Modica barone di Sortino. La baronessa, per esserle morto in castello un figlio, volle per alcun tempo abitare altrove; il marito pregò il Moncada, ad appigionargli il castello di Curcuraci, e, non che pagargli la pigione, gli permise di abitare in quel tempo nel castello di Sortino e tenervi un suo castellano. Il Moncada accetta il partito e poi si dà a sedurre la gente del barone, per torgli il castello. Avutone lingua il barone, corse a Sortino, mise a morte i traditori precipitandoli giù da’ merli, e poi venne ad insignorirsi di forza del castello di Curcuraci. Corrado Lanza, cacciato da Piazza, Guido Ventimiglia castellano destinatovi dal re, tenne per se la castellania. Uno Spadafora fe’ lo stesso in Randazzo, ed altri altrove. Morta la principessa Eufemia, Bernardo Spadafora corse ad insignorirsi della terra e del castello di Gagliano, che a quella era appartenuto, ed ivi s’afforzò. Gli altri baroni ch’eran vicini al re, e nello Spadafora la causa propria difendeano, persuasero il dabben Federigo a spegner l’incendio, facendo allo Spadafora concessione di quella terra. Il re era ridotto senza autorità, senza forza, senza prerogative, senza erario. I principali baroni, non che usurpare il dominio di tutte le città del demanio, vi esigean per conto loro tutte le rendite che al re si apparteneano. Giacomo Chiaramonte fece coniar moneta col suo nome in Nicosia; lo stesso fece in Isciacca Raimondo Peralta, ed altri altrove. Il re quasi dimentico della sua prerogativa esortava nel 1365 il Peralta ad astenersene, per la ragione che veniva così a violarsi il privilegio della zecca concesso a’ Messinesi. Insomma nel percorrere questo calamitoso periodo della storia siciliana ti perdi, e fra tanta vertigine non sai decidere s’eran più infesti al regno i nemici o gli amici; e se l’autorità sovrana era più vilipesa da’ sudditi ribelli o da coloro, che diceansi fedeli.
Ma fra le pubbliche calamità di allora, nessuna delle città siciliane ebbe tanto a soffrire quanto Lentini, esposta alle correrie ed ai replicati assedî di don Artale Alagona. Erasi in quell’epoca e per quella guerra introdotta la coltivazione del grano marzuolo, che allora diceasi Diminia; perchè venendo a maturità in minor tempo degli altri frumenti, credeano gli agricoltori di correr meno pericolo. Pure ciò nulla giovò a’ Lentinesi nell’aprile del 1359. Venutovi l’Alagona, fece mietere tutte le biade, tagliar tutte le vigne e gli alberi di quegli ubertosissimi campi, e trovato il grano marzuolo ancora in erba, vi fece pascere il bestiame, finchè ridusse il suolo affatto nudo. Finalmente dopo tanti inutili sforzi gli venne fatto nel marzo del 1360 di prender la città e farvi prigionieri la moglie e i figliuoli di Manfredi Chiaramonte.
IV. — La cagion principale di tanti disordini era la dappocaggine del re, il quale a misura che crescea negli anni davasi a divedere anzi soro che no. Morta nel febbrajo del 1360 la principessa Eufemia sua sorella maggiore, era egli restato in balia del conte di Geraci. E comechè fosse egli di già maggiore, non avea cuore d’uscir dalle mani di quel conte, il quale valeasi del nome del re per avere una sanzione a tutte le usurpazioni sue e de’ suoi. Ma Federigo, mentre il regno era sconvolto ed egli non era padrone di se, passava i giorni suoi a servir messe nella chiesa dei Francescani, onde a ragione la posterità ha contraddistinto quel re col soprannome d’imbecille.
Era già da alcuni anni conchiuso il suo maritaggio colla principessa Costanza figliuola di Pietro IV re d’Aragona. Don Artale Alagona, gran giustiziere del regno, sperando che ammogliato il re si sarebbe sottratto dalla tutela, in cui tenealo il conte di Geraci, spedì alla corte di Barcellona don Orlando d’Aragona per sollecitare la venuta in Sicilia della nuova regina.
Ma quel matrimonio del re non andava a sangue del conte di Geraci, il quale temea che il re d’Aragona avrebbe in ogni caso potuto dar grande appoggio al genero. In quella vece proponeva al re la figlia del duca di Durazzo dei reali di Napoli, e così veniva a procurarsi un valido appoggio nella regina Giovanna congiunta della principessa. Il gran giustiziere e gli altri baroni, avuto lingua di ciò, unitisi, colle loro rispettive forze vennero a trovare il conte di Geraci, che allora trovavasi in S. Filippo d’Argirò, chiedendo, che il re fosse messo in libertà. Il conte, che non avea a quel momento forze da resistere, promise a quei baroni che nell’imminente festa di S. Agata, quando gran parte del regno sarebbe concorsa in Catania, colà avrebbe menato il re: della qual promessa coloro trovatosi contenti, si partirono. Ma il conte, che tutt’altro avea in animo che tener quella promessa, per avere un partito da far fronte a quei baroni, pacificossi co’ Chiaramonti, e per render più salda la pace, die’ in moglie una sua figliuola al figlio del conte di Modica, e fece modo che i Chiaramonti tornassero in grazia del re. La pace fu bandita, e così tutto il regno venne in potere del re tranne Messina e Milazzo, che si teneano da’ Napolitani.
La principessa Costanza intanto arrivò in Trapani. Guido Ventimiglia, fratello del conte di Geraci, che comandava quella città, le vietò lo ingresso; onde la principessa andò a sbarcare alla Favignana.
In questo il re, saputo l’arrivo della sposa in Trapani, volle recarvisi. Il conte nol vietò, ma accompagnollo, e cammin facendo venivagli insinuando, che il regno era sconvolto a causa dei baroni catalani; che una regina aragonese avrebbe accresciuto il loro ardimento, ed il disordine ne sarebbe stato maggiore. Il re finse persuadersi di quelle ragioni, e, giunto appena in Trapani, volle ripartirne e fe’ ritorno in Cefalù.
La principessa, saputo l’arrivo del re in Trapani e ’l suo celere ritorno in Cefalù, mandò a lui un frate domenicano suo confessore per saperne il perchè. Il re scaltrito dall’amore, trovandosi presente il conte di Geraci, quando il frate venne a lui, lo accolse a sopracciglia levate, e con piglio severo gli disse «A che veniste?» Il frate rispose esser mandato dalla sua sposa per saper la cagione del suo sollecito ritorno da Trapani senza volerla vedere. «La ragione » rispose il re «del mio ritorno è palese a tutti. Il mio regno è stato sconvolto per opera de’ Catalani, ora è stato pacificato da questo magnifico conte. Non voglio ridestar lo incendio, dando nuovo coraggio ai Catalani con mettermi a’ fianchi una sposa della loro nazione; per ciò non voglio sentir più parlare di tal matrimonio.» Il conte non credendo il re capace di dissimulazione, fu tanto sicuro della sincerità di lui, che avendogli il frate chiesto licenza di parlare al re in segreto, gli consentì. Quando furon soli, il frate cominciò a dirgli, che pensasse meglio a ciò che facea; ch’egli come stretto congiunto del re d’Aragona, non dovea fargli l’affronto di rimandargli la figliuola, dopo essere stato convenuto il matrimonio; nè quel re lo avrebbe tollerato in pace, ed avea forze tali di farnelo pentire. A que’ detti il re tutto acceso in volto, sospirando rispose, che in presenza del conte di Geraci non avea potuto fare a meno di tenere quel linguaggio; che tutt’altri erano i suoi sensi; ch’egli non era padrone della sua persona; ma sperava presto uscire di servitù: lo incaricò di tornare alla principessa ed assicurarla ch’egli ardentemente desiderava di unirsi a lei; che intanto ella si dirigesse in Catania, ove il gran giustiziere avrebbela accolta e custodita, fino a tanto ch’egli potesse raggiungerla.
Il conte di Geraci nulla sospettando di ciò, sicuro anzi della risoluzione del re di non voler più la principessa aragonese, fu d’allora in poi meno vigilante nel custodirlo. La principessa Costanza dall’altro lato nel ricevere la risposta del re, tutta lieta si rimbarcò e venne a Sciacca, ove venne a trovarla il gran giustiziere, il quale, saputo l’arrivo di lei in Trapani, da Catania erasi diretto a quelle parti: rispettatala come nuova regina, seco la condusse in Mineo.
In questo venne un giorno il ticchio al conte di Geraci d’andare alla caccia. Invitato il re, disse al conte che lo precedesse, che ivi a poco lo avrebbe raggiunto. Partito il conte, salito a cavallo con tre soli domestici, si diresse a Mistretta: ma, ignaro com’era delle vie, venivasi aggirando per quelle montagne e que’ boschi, e sarebbe ricaduto nelle mani del conte, se un bifolco non gli avesse additata la via. Spronando allora, quanto potè, il cavallo, giunse in Mistretta. Non è a dire qual sia stato il cruccio del conte di Geraci, quando ebbe notizia della fuga del re; gli corse dietro per soprapprenderlo, ma saputo da coloro che gli vennero incontrati l’arrivo di lui in Mistretta, dolente e scornato fe’ ritorno in Cefalù. Il gran giustiziere avvisato dal re, venne a trovarlo e lo condusse in Mineo, e quindi vennero tutti in Catania. Ivi il re chiamò tutti i baroni del regno per esser presenti alle sue sposalizie. Tutti vi concorsero, tranne i Chiaramonti ed i Ventimiglia, i quali si preparavano alla guerra. Ciò non di manco le sposalizie ivi furono con gioja universale celebrate addì 15 aprile del 1361.
V. — Seguite le nozze, il conte Arrigo Rosso con buon nerbo di gente venne ad assediar Messina. Federigo Chiaramonte, che vi comandava, disse esser pronto a rendere la città, ma non volerla consegnare ad altri che al gran giustiziere; questi vi venne, ma, quando era per entrar nel porto, si vide respinto. In quella vece andò a saccheggiare le isole Eolie, che per la regina Giovanna si teneano.
Una pace in questo cominciossi a trattare tra il conte di Geraci, ed i Chiaramonti, e ’l re, la quale fu conchiusa. Fa veramente pietà il vedere che la maestà regia era allora tanto avvilita che il re acchinavasi a far trattati di pace coi suoi sudditi ribelli; ed eran que’ baroni tanto superbi, che trovandosi eglino in Motta-Santa-Anastasia, mentre trattavasi la pace, dopo conchiusa, per venire a presentarsi al re in Catania, chiesero ostaggi e loro furon dati. Vi vennero ad uno ad uno; e mentre l’uno era in Catania, gli ostaggi restarono in potere dell’altro. Ciò dava altronde a vedere il loro manco di sincerità in quella pacificazione; e ’l fatto indi a poco lo mostrò.
Il re tenendo sincera la pace, volle recarsi in Palermo: ma giunto in Piazza, trovò che il conte di Geraci avea ostilmente occupato Castrogiovanni; per che venne a Caltanissetta. Ivi chiamò il conte di Geraci per giustificarsi dell’occupazione di Castrogiovanni, e i Chiaramonti col pretesto di volervi adunare il parlamento. Nè quello, nè questi obbedirono; onde il conte di Geraci fu dichiarato ribelle e tutti i beni suoi furono confiscati. Ambe le parti prepararonsi allora alla guerra. Il re mandò in Aragona per chieder soccorsi al cognato; chiamò il parlamento in Piazza, e la guerra vi fu decisa. Facean dall’altro lato preparativi il conte di Geraci e’ suoi; ma, venuto a morte in quell’anno 1362 Luigi re di Napoli, sul cui appoggio contavano, fu loro forza chieder pace secretamente al gran giustiziere. Come la messe era allora imminente una sospensione d’armi fu conchiusa, e poi addì 14 di ottobre del 1362 fu stabilita la pace. Ma ben s’appose il Gregorio dicendo che questa pace avea più presto sembianza di convenzione da masnadieri, i quali, spogliato un viandante, dividonsi fra loro il bottino. Si convenne di restituirsi scambievolmente le terre e le castella usurpate: ma si convenne ugualmente di ritenere ognun di essi le città e le rendite del demanio; sulle quali obbligaronsi i Chiaramonti a pagare mille once all’anno al re, ed oltracciò ottennero che due dei giudici della gran corte dovessero essere scelti da quelle due famiglie; ed è naturale il supporre che gli altri due erano scelti dalla contraria fazione. Eppure questa pace fu dal re stesso promulgata. Ma le restituzioni non ebbero luogo; le onze mille non furon pagate; e i Chiaramonti e’ Ventimiglia vennero a tale arroganza, che eressero dalla parte loro un tribunale di gran corte affatto separato ed indipendente da quello del re. Eppure osaron mandare al re alcune doglianze d’infrazione della pace, fatta dalla contraria fazione, alle quali il re rispose in tuono così dimesso da destar compassione e renderlo sempre più spregevole.
Da questa pace fu escluso il solo Manfredi Chiaramonte che ostinatamente tenea Messina per la regina Giovanna. Costui sicuro che il re si sarebbe tosto rivolto con tutte le forze del regno contro di lui, e non fidandosi nè della volontà de’ Messinesi, nè del valore de’ Napolitani, che eran di presidio, lasciata Messina, ritirossi in Calabria. Nè guari andò che Messina, morto il nuovo governatore destinatovi dalla regina, ritornò all’obbedienza del re, per opera principalmente dello stesso Manfredi Chiaramonte: in merito di che tornò in grazia del re, e non che restituirgli tutti i suoi beni fu promosso all’eccelsa carica di grand’ammiraglio del regno.
Ma la gioja per la resa di Messina fu avvelenata dalla morte della regina Costanza, seguita in Catania nel luglio del 1363, dopo d’aver dato alla luce una figlia, ch’ebbe nome Maria. Ivi a pochi anni poco mancò che il re stesso fosse morto per mano d’un assassino. Trovavasi egli in Messina nell’ottobre del 1371 quando ebbe un giorno a celebrarsi nella chiesa di S. Francesco una messa novella; volle assistervi con tutta la corte; nell’uscir di chiesa presso la porta sentì pungersi nel ventre da uomo avvolto in rozzi panni: il re stesso colla mano lo allontanò; l’assassino era per dargli un secondo colpo; ma ne fu impedito da una pinta datagli dal conte di Geraci, il quale ordinò alle guardie d’arrestarlo, senza metterlo a morte. Esaminata la ferita del re, furon trovate forate le vesti, il corsetto e la cammicia; ma il pugnale avea fatto solo una scalfittura nella pelle. Cominciato il processo dell’assassino, si trovò d’essere un sellaro fiamingo o francese di nome Tommaso: messo ai tormenti disse, che trovandosi anni prima in Catania un cavaliere di nome Corrado, avealo indotto con grandi promesse ad uccidere il re; che non gli era ciò venuto fatta in Catania, per essere il re venuto a Messina: che vi s’era recato egli stesso e vi avea fatto fare a bella posta il pugnale. Del cavaliere non sapea altro che il nome, ma dai segni che diede della taglia, dell’età, del colorito, de’ lineamenti del volto s’argomentò d’esser costui un Corrado Castello nobile catanese. Lo stratigoto e la gran corte condannò il mandatario a morire bruciato: ma ignoriamo il destino del mandante; forse, visto fallito il colpo ed arrestato il suo mandatario, sarà fuggito da Sicilia.
VI. — Finalmente dopo tanti luttuosi accidenti fu conchiusa, per opera di papa Gregorio XI, la pace tra re Federigo e la regina Giovanna: pace ignominiosa che solo un re imbecille potè sottoscrivere. Si convenne che re Federigo si avesse la Sicilia, come un dono della regina Giovanna e le pagasse in ogni anno tre mila once; che non re di Sicilia, ma di Trinacria s’intitolasse; che l’isola di Lipari restasse durante sua vita alla regina Giovanna; che nel caso che i dominî di lei fossero invasi, il re dovesse soccorrerla di dieci galee e cento cavalli; e che nessuna delle due parti potesse mai far lega coi nemici dell’altra. Presentato questo trattato al papa per essere approvato, Gregorio vi aggiunse che ambi i sovrani riconoscessero i loro regni come feudo della Chiesa e ne facessero omaggio ai pontefici; e che l’infante Maria potesse succedere nel regno al padre, malgrado l’ordine di successione stabilito dal re Federigo II. Fortunatamente la prima di queste condizioni fece che quel trattato non fosse mai in appresso eseguito, comechè i due paesi fossero restati in pace; dacchè, per non dichiararsi vassalli del papa, nè la corte di Napoli, nè quella di Palermo fecero mai valere quel trattato.
VII. — Per render poi più durevole la pace fu convenuto il matrimonio del re con Antonia del Balzo, figliuola del duca d’Andria, la cui madre era stretta congiunta della regina. Venuta in Messina nel 1374 la nuova regina, vi si celebrarono le reali nozze. Nel settembre poi di quell’anno il re venne colla sposa in Palermo per esservi coronato colla regina. Vi si trattenne sino al principio del 1375, quando ebbe ad allontanarsene per un caso inopinato. Il conte Arrigo Rosso occupò Messina. Gli venne fatto il colpo per essere il grand’ammiraglio Manfredi Chiaramonte, ch’era governadore, in Palermo per assistere alla coronazione del re. Avuta quella notizia, imbarcatisi il re e la regina sopra due galee vennero a Messina: ma entrati nel porto trovarono quel conte preparato a difendersi. Non tenutovisi sicuro il re, andò a fermarsi nella spiaggia di Reggio. Il conte gli fe’ sapere d’essere pronto a riceverlo in Messina a patto che a lui restasse il governo della città. Respinta dal re questa proposizione, il conte venne fuori da Messina con tre legni armati ed assalì le galee, sulle quali erano il re e la regina, le quali si difesero con gran bravura. La regina spaventata buttossi in mare, Ripresa da’ marinari, fu tratta al lido, ove fu trovata leggermente ferita. Trasportata in Catania, tra per la paura avuta e la ferita, ammalatasi, ivi a pochi giorni si morì.
La storia tace sull’esito della ribellione di quel conte. Sappiamo solo che venuto il re da Catania in Siracusa, ivi trovò gli ambasciadori di Messina che lo pregarono a venire in quella città: e ’l re non guari dopo vi si recò: e nel seguente regno di Maria il conte Rosso tornò a guerreggiare in Sicilia.
VIII. — Vedovo Federigo per la seconda volta, era per passare alle terze nozze colla figliuola di Barnabò Visconti duca di Milano, quando fu rapito ai viventi in Messina addì 27 di luglio del 1373 nel trentesimo quinto anno dell’età sua e nel ventesimosecondo del suo torbidissimo regno. Nel suo testamento dichiara la figliuola Maria erede del regno e dei ducati d’Atene e Neopatria: morta questa senza figli, vuole che succeda il suo figliuolo naturale Guglielmo, cui lascia le isole di Malta e del Gozzo e ’l governo di Messina e delle valli di Demone e Noto. Estinta la linea di costui, chiama alla successione i discendenti della regina d’Aragona sua sorella. Lasciò bailo della figlia e vicario del regno, finch’ella fosse raggiunta all’età di diciotto anni, il conte Artale Alagona gran giustiziere del regno. Dichiarò nulle tutte le concessioni da lui fatte; e finalmente volle che s’egli fosse debitore del conte Arrigo Rosso, si pagasse a costui il suo credito ad arbitrio del gran giustiziere. In un codicillo, che poi fece, annullò gli ultimi due articoli del testamento, e lasciò a don Giovanni di Aragona suo fratello naturale once cinquanta all’anno per suo mantenimento. Tanto valea allor la moneta. Celebratigli i solenni funerali, fu il suo cadavere tumulato nel duomo di Messina.