Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXXIX. I. Principii del regno della regina Maria: suo matrimonio. — II. Martino viene in Sicilia. — III. Si ripiglia il corso della giustizia. — Martino aderisce all’antipapa ed il regno si ribella. Sottomettonsi i ribelli. Si riordina il regno. — IV. Sopravvengono nuove turbolenze. Si ripara. — V. Principii di altre gare. — VI. Figli di Martino. — VII. Spedizione di Sardegna. — VIII. Morte dei due Martini.

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CAPITOLO XXXIX.

I. Principii del regno della regina Maria: suo matrimonio. — II. Martino viene in Sicilia. — III. Si ripiglia il corso della giustizia. — Martino aderisce all’antipapa ed il regno si ribella. Sottomettonsi i ribelli. Si riordina il regno. — IV. Sopravvengono nuove turbolenze. Si ripara. — V. Principii di altre gare. — VI. Figli di Martino. — VII. Spedizione di Sardegna. — VIII. Morte dei due Martini.

I. — Morto appena il re, il gran giustiziere, perchè il governo non fosse turbato dall’ambizione de’ grandi, scelse a suoi compagni il grand’ammiraglio Manfredi Chiaramonte, il conte di Geraci e ’l conte Guglielmo Peralta, e tutti e quattro furon detti vicarî. Tal maniera di governo processe per alcun tempo tranquillamente: ma presto quella pace fu turbata. La regina era nel suo deciquarto anno: molti pretensori si offrivano per la sua mano. Come il re d’Aragona avea pretensione al trono di Sicilia, come colui, cui la successione sarebbe venuta in forza del testamento di Federigo II, e preparavasi a far valere le sue ragioni colle armi, il gran giustiziere, senza farne intesi i compagni, conchiuse il matrimonio della regina con Galeazzo Visconti, nipote del duca di Milano principe potentissimo in Italia, che avea forze sufficienti per resistere all’Aragonese. Una tale risoluzione rincrebbe al grande ammiraglio e più di lui ai baroni di origine catalana, ai quali non andava a pelo un re italiano. Potente innanzi ad ogni altro fra coloro era il conte d’Agosta Raimondo Moncada. Costui concepì l’ardito disegno di trarre la regina dalle mani del gran giustiziere. Soggiornava essa nel castello di Catania; il Moncada, saputo che il gran giustiziere era ito a Messina, venuto notte tempo su d’una galeotta, sbarcò non guari lontano dal castello; scalatone le mura ed innoltratosi nella camera, ove la regina stava a dormire, le disse che bisognava seguirlo: la regina inabile a resistere, obbedì. Fu prima condotta nel castello di Agosta, e quindi per essere più lontana da Catania in Alicata. Volea il gran giustiziere, saputo il ratto della principessa correre all’assedio d’Alicata, ma con poche forze e meno concordia cogli altri vicarî, ebbe suo mal grado a rimanersene: ma cominciò a premurare il Visconti a venire in Sicilia con grandi forze, per la sposa da Alicata; e quello apprestava un’armata a tale oggetto. Ma il re di Aragona avvisato dal conte d’Agosta del rapimento della regina e degli appresti del Visconti spedì Gilberto Cruillas con cinque galee, il quale entrato nella foce dell’Arno, mise fuoco all’armata lombarda; onde il soccorso, che il gran giustiziere aspettava, svanì. Dopo due anni di dimora in Alicata, la regina ne partì per andare in Aragona: ma, come colà era la peste, per non esporla a quel pericolo fu portata in Sardegna, ove dimorò altri due anni. Finalmente nel 1385 giunse in Aragona, ove ebbe particolar cura di lei la regina Eleonora sua zia.

Il governo di Sicilia in questo erasi affatto sconvolto. I quattro vicarî, non potendo esser di accordo fra loro, avean divisa la Sicilia come in quattro provincie, ed ognuno reggea la sua indipendentemente dagli altri.

La regina era stata trasportata in Aragona, per maritarla al giovine Martino, figliuolo di Martino duca di Monblanco figlio secondogenito del re Pietro IV, il quale avea cesso al nipote ogni suo dritto sulla Sicilia. Ma tal maritaggio fu ritardato da alcuni intoppi. Assunto al pontificato Urbano VI, concepì la speranza di fare avere in moglie la regina ad un suo nipote: e, comechè tal partito fosse stato rigettato, pure l’ambizioso pontefice non ne avea abbandonata la speranza. E però si die’ a frastornare, quanto potè, il matrimonio del principe aragonese. Era allora un antipapa che faceasi chiamare Clemente VII, cui riconosceano quasi tutti i regni oltremonti. Per conchiudere il matrimonio della regina era necessaria la dispensa pontificia, per essere i due sposi consanguinei: come questa non poteasi avere da papa Urbano, il re d’Aragona la chiese a Clemente VII e l’ebbe, ed allora lo riconobbe anch’egli per vero pontefice. Bonifazio IX succeduto ad Urbano, stizzito della dispensa chiesta a Clemente e del riconoscimento di lui, entrò nell’impegno di ribellar la Sicilia, e nulla lasciò intentato per venirne a capo: brevi incendiari scrisse alle principali città, animandole a pigliar le armi contro un principe scismatico e a non permettere che i barbari, fatti per esser dominati daglItaliani, li dominassero. Internunzî spedì, per predicar la rivolta. I vescovi ed il clero in generale lo ajutavano. Lettere scrisse del pari ai vicarî, ordinando loro di non prestare alcuno ajuto all’antipapa non solo, ma a’ famigliari, aderenti e fautori di lui, di qualunque autorità e grado ed ancorchè fossero investiti della regal dignità.

Questi maligni semi trovarono un terreno propizio per allignare. I grandi usi da un mezzo secolo a farsi beffe dell’autorità sovrana e delle leggi, temeano a ragione che un re, il quale veniva accompagnato da grandi forze e che maggiori potea trarne dall’Aragona, non mettesse freno alla loro licenza. Il presente pericolo fe’ tacere le fazioni. Nel giugno del 1391 una riunione de’ principali baroni ebbe luogo nella chiesa campestre di S. Pietro presso Castronovo. E comechè molti fra essi avessero privatamente offerti i loro servigi a Martino, pure in quella adunanza stanziarono di recedere da ogni privato impegno, ricevere bensì come regina Maria ma respingerne il marito e ’l suocero. E per venirne a capo cominciarono a trattare alleanza con Ladislao re di Puglia e col duca di Milano.

Dei quattro vicari, che avean preso il governo alla morte del re Federigo, restava solo il conte Peralta. Eran morti il Conte di Geraci Francesco Ventimiglia, cui era successo nella carica e negli stati Antonio suo primogenito: il grand’ammiraglio, in cui vece assunse il vicariato il conte di Modica Andrea Chiaramonte: e ’l gran giustiziere, ch’era stato rimpiazzato da un altro Artale Alagona, figliuolo di un suo fratello. A costoro erasi diretto il duca di Monblanco, spedendo in Sicilia Berengario Cruillas e Gerardo Queralto. I due messi, per levare ogni cagione di scrupolo e di timore dalla mente dei vicari e de’ Siciliani, prometteano in nome del re, che venuto egli in Sicilia, avrebbe riconosciuto papa Bonifazio. E come i baroni siciliani temeano, che in questa occasione fosse venuta in Sicilia una nuova mano d’Aragonesi a stanziarvi ed arricchirsi, promettea il duca, che stabilita l’autorità del figliuolo, avrebbe fatto ritorno in Aragona con tutti coloro che seco venivano. Tre dei vicari piegavansi, il solo conte Alagona ruppe ogni trattato. Ciò non di manco, fatto già ogni appresto, re Martino colla regina Maria sua sposa e il duca di Monblanco suo padre mosse dall’Aragona, menando seco un’armata di cento galee e proporzionate forze di terra, e nel marzo del 1392 prese terra a Trapani.

II. — Le grandi forze che re Martino seco menava fecero andare in fumo tutti i proponimenti fatti dai baroni nell’adunanza di Castronovo, e tutti, tranne i quattro vicari, corsero a Trapani per fare ossequio al nuovo sovrano. Dall’altro lato la forza stessa diecuore alla città d’implorare l’autorità sovrana per essere liberate dalle angherie cui i baroni aveale soggette. Molte di tali petizioni, che sono giunte sino a noi, chiaro mostrano a qual misera condizione le città siciliane erano allora ridotte. Molte dimandavano l’abolizione di tutte le nuove gabelle imposte dai tiranni. Girgenti a questa dimanda aggiunse, che i Chiaramonti aveano stabilito nella vicina terra della Favara un asilo di tutti i malviventi del regno, ove nessun magistrato osava molestarli; Termini chiese la restituzione della Montagna di Sancalogero e del bosco, onde allora era coperta, usurpata da Manfredi Chiaramonte, il quale avea lacerato il diploma della sovrana concessione, mostratogli dai cittadini; Troina e Caltavuturo dimandarono di non essere mai più date in signoria ad alcun barone: e se mai ciò avvenisse, fosse lecito agli abitanti disfarsi delle cose loro ed andare a stanziare in terra regale. E tutte poi imploravano la restituzione delle gabelle e de’ beni loro usurpati e la ripristinazione degli antichi privilegi loro, degli antichi magistrati municipali, dell’antica forma di loro elezione tutta popolare. A tali suppliche re Martino graziosamente provvedea con menar buone tutte quelle dimande, che poggiavano su gli antichi statuti e le consuetudini antiche.

Mentre così il principe aragonese stendea una mano protettrice al popolo, per sollevarlo dall’oppressione, avanzavasi minaccioso contro coloro, che osavan contrastare alla sua autorità. Primi fra costoro erano due dei vicarî, il conte di Modica Andrea Chiaramonte e ’l conte Alagona: gli altri due poco contavano. Il Chiaramonte erasi afforzato in Palermo, ove dominava; l’altro in Catania. Il duca di Monblanco, che dirigea tutte le operazioni del figlio e della nuora, fece ordinare al conte di Modica di venire in Trapani a prestare omaggio ai sovrani. Il conte mandò colà l’arcivescovo di Morreale ed un Andrea lo Monaco, per far sue scuse, se ei non veniva, perchè temea le insidie dei suoi nemici. Il re e la regina allora dichiararono ribelli quel conte, il suo congiunto Manfredi e ’l conte Alagona, ed incontanente marciarono con tutto lo esercito per assediar Palermo.

Il conte erasi ben preparato a resistere. La corte fermossi in Morreale, l’esercito venne a stringer d’assedio Palermo. Dopo varie fazioni di poco momento si venne a patti. Il conte promise di render Palermo e tutto il paese soggetto al suo vicariato, promise il re di cancellare la sentenza proferita contro di lui. Accordati tali punti, il conte con que’ baroni, che seco erano in Palermo, venne a presentarsi al re. Quindi fece ritorno in Palermo per preparare tutto il bisognevole per lo ricevimento del re. Si sparse intanto la voce, ch’egli all’incontro preparavasi a nuova ribellione. Ritornò il conte in Morreale, accompagnato dall’arcivescovo di Palermo, non si sa se per disingannare il re o per meglio deluderlo: ma non gli venne fatto; egli e l’arcivescovo furono imprigionati. Saputo ciò in Palermo, il popolo ad alta voce acclamò il re. La notte stessa furon carcerati il fratello e gli aderenti del conte. Il domane il re entrò in Palermo.

III. — La prima cura di Martino, venuto appena in possesso della capitale, fu quella di far legalmente il processo al conte di Modica; onde far conoscere alla nazione che l’autorità sovrana, le leggi, i magistrati, ridotti già a voto nome, ripigliavano il loro vigore. Il gran giustiziere e la gran corte compilarono il processo: e comechè fosse stato uno dei giudici un Salimbene Marchese, la cui famiglia avea sempre parteggiato pei Chiaramonti ed egli stesso era creatura di quel conte, fu egli condannato a perder la testa e i beni. La sentenza fu eseguita nel piano detto oggi della Marina, dirimpetto il palazzo del conte. Le vaste sue signorie vennero tutte in potere del re: la contea di Modica fu concessa a Bernardo Caprera: del suo palazzo, che allora diceasi l’osteri, una parte e forse la minore, è oggi destinata per la dogana e petribunali.

Punito il conte di Modica, volse il re l’animo e le forze a sottomettere il conte Artale Alagona, che dominava in tutto il val di Noto e in parte ancora del val Demone. Il duca di Monblanco, venuto fuori da Palermo coll’esercito, avvicinossi a Catania. L’Alagona, non tenendosi più sicuro in quella città, ritirossi nel castello d’Aci. I Catanesi acclamarono il re e lo invitarono a recarsi colla regina nella loro città; ed essi vi vennero. All’arrivo del re tutte le città del val di Demona e molte di quello di Noto staccatesi dall’Alagona, riconobbero l’autorità del re.

Il regno parea allora vicino ad esser ridotto in perfetta tranquillità, quando un nuovo incendio di guerra divampò. Venuto a morte in Avignone l’antipapa Clemente, i cardinali della sua fazione promossero il cardinal de Luna spagnuolo, che prese il nome di Benedetto XIII. Il re Martino e suo padre, forse indottivi dal re d’Aragona, lo riconobbero. Ciò destò la generale indignazione. I baroni, i quali tanto meno volentieri tolleravano il freno, in quanto videro sulle prime i governi delle città, le cariche più luminose, i feudi, le contee date ai Catalani di recente venuti, colsero quel destro e levaronsi da per tutto in armi. Il popolo costernato al veder maltrattati tutti i prelati del regno per aderire a papa Gregorio infiammato dalla voce degli emissarii di Roma, dai brevi pontificii, dalla scomunica fulminata contro il re, credendo difender la causa della religione, secondò da per tutto il movimento sedizioso dei baroni. In un baleno il regno fu tutto in armi. Le truppe catalane restaron chiuse in pochi castelli in cui eran di guarnigione. Il re col padre e la moglie restò assediato nel castello di Catania da quel popolo levatosi in capo.

Martino fu ad un pelo di vedersi cacciato dal regno. Chiese premurosamente soccorsi al fratello: ma come questi tardavano a venire, Bernardo Caprera, colà a tale oggetto inviato, venduta una sua terra, ne assoldò trecentuomini di armi, dugentocinquanta balestrieri a cavallo e più compagnie di fanti tratti dalla Guascogna, dalla Brettagna e dalla Catalogna. Con tale gente venne a trovare il re. Quel soccorso fu presto seguito da altra gente raccolta dalla duchessa di Monblanco; e poi da un’armata di venticinque galee, mandate dal re d’Aragona.

Il re, rinfrancate così le sue forze, si diresse in prima contro il conte Artale Alagona, più vicino e più potente degli altri baroni. Stretto costui d’assedio, venne più volte a patti, ma poi mancava alla data fede; finalmente minacciato di esser messi a morte il padre e ’l fratello, ch’eran prigionieri del re, si partì dal regno. Catania allora tornò all’obbedienza del re. Il duca di Monblanco venne sottomettendo le altre città. I baroni, sparsi com’erano in tutto il regno, furono l’un dopo l’altro sconfitti ed obbligati a tornare all’obbedienza del re. Ma ciò che raffermò l’autorità di Martino fu la morte accaduta nel 1396 del re Giovanni d’Aragona, per cui quello scettro passò al duca di Monblanco. La certezza, che indi in poi il re in ogni caso preste avrebbe in suo ajuto le forze tutte dei regni di Aragona, fece tornare in capo il cervello ai baroni ed a tutti coloro che volean tentare novità.

Il nuovo re d’Aragona si partì nel dicembre del 1396; ma prima d’allontanarsi, per lo buon andamento del governo di Sicilia, fece vicario del re nel val di Mazara Giacomo Prades, e coadjutori del governo il gran cancelliere Bartolomeo Gioeni, Raimondo Bages, Geraldo Malleone, Guglielmo Talamanca, il suo maggiordomo Antonio del Bosco, Gilberto Talamanca e i due maestri razionali Abbo Filangieri ed Ubertino La Grua. Sopra tutti costoro pose Raimondo Moncada conte di Agosta, il quale per li servizi resi era stato fatto gran giustiziere e marchese di Malta, ed a lui die’ per consiglieri Pietro Serra, vescovo Catania, ed Ugone Santapau barone dl Butera.

Composto così il regno e ’l governo, volse l’animo re Martino a riordinare l’antica costituzione del regno, già caduta in tanti anni d’anarchia. A tale oggetto convocò nel febbrajo del 1396 il parlamento in Catania. Ivi fu stanziato che nessuno osasse non seguire gli ordini del re e dei magistrati; che inalienabili fossero le Scarizie e le gabelle ad esse appartenenti; che fossero strettamente conservati i dritti del sovrano sui boschi, sulle saline, sulle spiagge, sul passo dei fiumi, sui luoghi riserbati alle reali cacce; che nessun laico s’ingerisse nelle cose spirituali senza un’ordine speciale del re; che i giudici dovessero amministrar la giustizia anche contro le persone del più alto rango; che spedissero le liti nel minor tempo possibile e si guardassero da illecite esazioni; che fossero rigorosamente osservati gli statuti dell’imperator Federigo e dei re Giacomo e Federigo II; che i prigionieri non esigan dai carcerati nulla oltre la legge; che i castellani non s’intromettano in cosa alcuna oltre i limiti del castello; che nessun magistrato nell’esercizio della sua giurisdizione eccedesse quei confini che le antiche leggi del regno avean fissati; che fosse esente da qualunque gabella il commercio delle vittuaglie nello interno del regno; che tutti i diplomi si spedissero dalla real cancelleria colle forme antiche; che i carlini e le piccole monete si riconiassero di buona lega e con unica impronta; che tutti i magistrati municipali siano annuali; che in tutte le città demaniali si eligessero tanti consiglieri quanti erano i giurati, e gli uni e gli altri venissero eletti coll’antica usanza delle Scarfi ossia a bussolo, che prima di venticinque anni nessuno potesse essere promosso ad alcuna carica; che nessun feudatario, il quale avea nel feudo il mero e misto impero, vietasse agli abitatori del feudo l’appello dal magistrato baronale alla gran corte; che i beni dei ribelli fossero appropriati al fisco, senza che i figli od altri congiunti potessero succedervi; e finalmente che se alcun conte, barone, milite od altra qualsifosse persona attentasse di fare alcun che contro l’autorità sovrana, fattogli legalmente il processo dal tribunale della gran corte e proferita la sentenza, i beni fossero applicati al fisco.

È manifesto che in tutti quegli statuti nulla era di nuovo; si voller solo rimettere in pieno vigore le antiche leggi del regno. Ma quelle generali disposizioni a nulla montavano; perchè non attaccavan la radice del male: ciò potè farsi allora pei disordini, che sopravvennero.

IV. — Il torbido vescovo di Catania, lungi di cooperare al buon andamento del governo, qual che sia stata la ragione onde si mosse, cominciò ad inasprire l’animo del marchese di Malta contro il re, e gli venne fatto ad accender una nuova guerra civile, collegandosi col conte di Collesano Antonio Ventimiglia ed altri baroni, i quali tentarono forse di fare un’ultimo sforzo, per non essere spogliati di quanto aveano usurpato. Tutti levaronsi in armi e misero sossopra i due valli di Mazzara e di Noto: ma la maggior parte delle città si tenne fedele al re. Il re d’Aragona avvisato dal figlio di questa nuova sommossa, non tardò a mandare in Sicilia navi, soldati, viveri o denaro. Ma non fu mestieri di tali soccorsi; il marchese di Malta che era il più potente dei rivoltosi venne a morire, gli altri scuorati dalla sua morte e dall’arrivo delle forze dell’Aragona si sottomisero volontariamente, e loro furono restituiti i beni.

Spenta così quasi sul nascere quella sommossa, il re sempre inteso a riordinare l’antica costituzione del regno, convocò nell’ottobre del 1398 il parlamento in Siracusa. Al primo aprirsi di quel parlamento il re invitò l’assemblea a provvedere: Io al mantenimento della casa reale; IIo alla difesa dei castelli; IIIo all’ordinamento dell’esercito; IV allo ristabilimento dei magistrati. Pel primo articolo il parlamento andò dritto allo scopo con proporre in prima che il re ripigliasse le isole, città, terre, castelli e luoghi del demanio, che altri teneva in baronia o in rettoria; dachè erasi introdotta nelle guerre civili la rea usanza che i più potenti baroni occupavano le città demaniali, dichiarandosene rettori, e con questo titolo vi sceglieano gli officiali tutti, ne appropriavan le gabelle, i territorî, le rendite, insomma le appropriavano.

Nel fare, in seguito di quella proposizione, lo esame delle terre e città che apparteneano al demanio, il re e ’l parlamento processero con somma avvedutezza e giustizia. Scelse il re sei frai suoi consiglieri, tre Catalani, e tre Siciliani, e furono il cardinal Serra vescovo di Catania, il conte di Modica Bernardo Caprera, Raimondo Xatmar, il maestro razionale Niccolò Crisafi, il protonotaro Giacomo Arezzi e Corrado Castello. Sei ne scelsero i rappresentanti dei comuni, e furono i giurisperiti Salimbene Marchese e Giacomo Denti giudici della gran corte, Novello Podilepori da Siracusa, Rinaldo Landolina da Noto, Luca Cosmerio da Palermo, Vitale Falesio da Girgenti. Tutti dodici formarono un consiglio, cui fu affidato quell’esame. Ed allora vennero registrate tutte le città dichiarate demaniali: ed indi in poi restò come un principio del dritto pubblico siciliano, che nessuna di quelle potesse in qualunque modo staccarsi dal demanio senza consenso del parlamento.

Dalla composizione di quel consiglio, da cui furono affatto esclusi i baroni, ed anche più da gli atti stessi di quel parlamento, si vede che essi vi ebbero una parte meramente passiva.

Stabilì poscia il parlamento che si restringessero le eccessive donazioni sulle segrezie, tratte e collette, onde la rendita dell’erario dalla morte del re Pietro II in poi era stata in gran parte sprecata. Il re per dar esecuzione a tale statuto dispose, che di tutte quelle rendite, toltine prima dodicimila forini (539) per lo mantenimento del re e della regina, quindicimila per la custodia dei reali castelli e quarantamila per tenere a soldo un corpo stanziale di gente d’armi, ciò che restava fosse ripartito da’ maestri razionali fra tutti coloro che ne aveano avute assegnazioni.

Intorno al mantenimento e provisione dei castelli il parlamento propose che il soldo d’ogni castellano non potesse eccedere le once ventiquattro, secondo la buona antica consuetudine; da potersi anche minorare secondo i luoghi e le persone. Ma il re lo fissò ad once trenta al più pel castellano; pel vice-castellano ad once otto; e pei fanti, che allora dicevansi servienti, a tarì 12 per ognuno al mese. Poi vennero enumerandosi tutti i castelli del regno, ed assegnando la guarnigione d’ognuno e ’l soldo del rispettivo castellano. Ma fu espressamente stabilito, che se alcun castellano od altra persona si ingerisse in cose oltre la soglia del castello, possano essere presi e puniti dal capitano od altro magistrato della città.

Nel trattare poi il terzo articolo, stanziò in prima il parlamento che si chiamasse con rigore il servizio militare dei feudatari tutti, secondo che ognuno giusta le antiche consuetudini era tenuto. Volle poi che fosse stabilito un corpo di soldati stipendiati per la difesa del regno, il cui soldo si traesse da ciò che restava dalle rendite del demanio, trattone prima li dodicimila fiorini per lo mantenimento del re e li quindicimila per li castelli. Fu vietato ai feudatarî partecipare a tali soldi, come coloro, che altronde erano obbligati a militar di persona. Il re in esecuzione di tale statuto dichiarò che avrebbe tenuto a soldo trecento bacinetti, ognuno dei quali valea il servizio di due cavalli, dugento, cioè, esteri e cento siciliani, de’ quali cinquanta dovean pagarsi da’ baroni. Per tal modo due grandi innovazioni furono introdotte da quel parlamento: la truppa stanziale ed un peso straordinario a’ baroni, oltre il servizio militare.

Per provvedere poi al buon regolamento politico (ciò che riguardava l’ultimo argomento) fu stabilito, che gli offici tutti concessi a vita fossero riordinati secondo l’antica consuetudine e gli statuti del re Federigo II: che ognuno dei magistrati conoscesse i limiti della sua giurisdizione, osasse oltrapassarli; e che nessuno si facesse lecito di turbarne l’esercizio, sotto pena ai trasgressori di pagare il doppio del danno cagionato in tali casi alle terze persone: che si togliessero gli esorbitanti salarî de’ magistrati e si regolassero secondo i tempi il comportavano: che si promovessero alle magistrature persone meritevoli, senza verun’umano riguardo, onde venga dato l’uomo alla carica, non la carica all’uomo (540); che le magistrature, alle quali era addetta una pratica giurisdizione, fossero sempre date a Siciliani, perchè meglio conosceano le persone e i luoghi; dacchè i Siciliani ai Siciliani, e i Catalani ai Catalani meglio s’affaceano. Il re respinse la dimanda, ma promise di provveder sempre la magistratura e non il magistrato. Fu finalmente disposto che tutti i magistrati annuali fossero alla fine dell’anno tenuti a sindacato; e che i giudici, i giurati, gli acatapani e gli altri magistrati municipali fossero eletti coll’antica forma del bussolo.

V.Dati così i provvedimenti chiesti dal re, si diedero i comuni a proporre articoli di altra importanza. Il matrimonio della regina avea riuniti i diritti di lei e quelli del re d’Aragona, il quale era in forza del testamento del re Federigo II il legittimo successore alla corona di Sicilia; ma papa Gregorio IX avea dispensato a quell’articolo in favore di Maria. Seguito il matrimonio, Martino, il padre, il figliuolo di lui e Maria dichiararonsi tutti e tre consedenti nel trono di Sicilia, conregenti e conregnanti (541). Finchè fu in Sicilia il vecchio Martino non nacque da ciò veruno sconcio; perchè egli solo comandava. Ma allontanato lui, sorse una gara tra Sancio Ruiz de Lihori, favorito dal figlio, e ’l conte Caprera caro al padre pesegnalati servizî da lui resi. Costoro ambiziosi e potenti del pari arrogavansi straordinaria autorità nel governo. Ciò, non che sturbare il governo, facea temere a ragione che desse origine ad una nuova guerra civile. A riparare a ciò i comuni in quel parlamento pregarono il re ad ordinare la sua coronazione; acciò tutti riconoscessero lui solo per legittimo e natural signore; e nessuno abbia a compagno e tutti stessero umili e soggetti; onde l’arroganza d’uno non arrecasse violenza agli altri, dacchè molte spade nello stesso fodero non istanno bene (542).

 Il re, non fattosi carico dell’ultima parte della proposta, rispose che le sue circostanze non gli permetteano di far la spesa della sua coronazione: ma se essi conosceano, che il popolo potea dargli una sovvenzione secondo l’antica consuetudine, lo avrebbe fatto.

VI. — Conchiuso così il parlamento, ritornò il re in Catania, ove ebbe il contento di vedersi nascere un figliuolo. Ma breve fu tal contento: il neonato principe poco visse, guari andò che la madre finì di vivere anch’essa. Rimasto vedovo, menò Martino in seconda moglie la principessa Bianca unica figliuola del re di Navarra, la quale venuta in Palermo, vi furono addì 30 novembre del 1402 celebrate le reali sposalizie, ed al tempo stesso la coronazione di lei e del re. Nella quale lieta circostanza il re dichiarò che la colletta, la quale, malgrado lo statuto del re Giacomo, era già tornata un peso permanente, fosse indi innanzi limitata ai soli quattro casi stabiliti nello statuto. Ivi ad un anno la regina si sgravò di un figliuolo, il quale si morì nato appena.

VII. — Composto il regno in pacifico stato, il giovane Martino, avveduto e cupido di gloria, colse il destro della ribellione di Sardegna, per portare colà le armi e trar così dalla Sicilia tutti que’ baroni, i quali accesi di spirito militare, da lunga disciplina ancor domi, potean destar sempre nuovi torbidi. E comechè grandi soccorsi avesse avuti dalla Catalogna, dall’Aragona e da Valenza, pure dalla Sicilia trasse le principali sue forze: quindi ebbe la molta e valida sua cavalleria; quindi un numeroso stuolo d’arcieri, che diceansi campisi; e quindi tutta vittovaglia necessaria all’esercito, essendo stata tassata ognuna delle città marittime in una certa quantità di frumento o biscotto. Non che i più distinti baroni, ma un grandissimo numero di semplici gentiluomini vollero seguire il re, a loro spese e que’ baroni che restaron nel regno, e le città entro terra venivan somministrando uomini e cavalli.

Lasciò il re sua vicaria nel regno la regina Bianca, alla quale assegnò per assisterla un consiglio composto da Pietro Queralto, il commendatore di Monson, Bartolomeo Gioeni, Luigi Raidal, il maestro portulano, Gabriele Fisaulo, i maestri razionali, i giudici della gran corte e sei deputati che dovean mandarvi Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa e Trapani.

Nell’ottobre del 1408 mosse il giovane re da Trapani; la sua impresa fallì la generale espettazione. Addì 1 giugno del 1409 colla sola armata siciliana sconfisse le galee genovesi, che erano andate in soccorso dei Sardi: molte ne prese, e quattro de’ capitani, fatti prigionieri, furono mandati nel castello di Catania. Sulla fine dello stesso mese pari segnalata vittoria ebbe in terra. Venuto alle mani presso il castello di Luri conemici, gli volse in fuga e seimila ne uccise.

Tali, strepitose vittorie misero in ispavento gli stati d’Italia. Già alto suonava il nome di Martino. I Siciliani a ragione speravano, che il loro re era per fare risorgere i giorni gloriosi del suo grand’avo Federigo. Già ei volgeva in mente il progetto di portar le insegne sue vittoriose in Italia, conquistare le provincie napolitane e correre in Roma, per farvi riconoscere l’antipapa spagnuolo: ma ben altrimenti era scritto negli eterni decreti. Ammalatosi il re in Cagliari, finì di vivere nel luglio del 1409 nella fresca età di 33 anni.

VIII. — Il vecchio Martino, saputa la morte del figlio, confermò alla regina Bianca sua nuora il vicariato collo stesso consiglio e colle facoltà stesse da quello accordatele. E perchè ben prevedea che l’ambizioso conte di Modica avrebbe a malincorpo tollerato, ch’egli gran giustiziere del regno fosse escluso dal governo, ordinògli di starsi nel suo contado, senza metter piede in alcuna delle città demaniali. Ma l’audace conte, malgrado tal ordine, corse a Palermo ed apparecchiavasi ad assediar Catania, ove la regina risedea: e dall’altra parte pronti erano a venir fuori armati tutti i baroni, che parteggiavan per lei. La guerra sospesa alcun tempo per la notizia divulgata ad arte dal re del suo prossimo viaggio in Sicilia, apertamente scoppiò all’annunzio della sua morte seguita nel maggio del 1410.

Aveano i Siciliani spedito in Aragona loro ambasciatori per far modo che il re lasciasse il regno al giovane Federigo conte di Luna figliuolo naturale del giovane Martino, e di Tarsia Rizzari da Catania: e quelli a calde lagrime si diedero a pregare il re, il quale mostravasi assai inclinato a soddisfar le dimande dei Siciliani e beneficare il nipote. Avealo egli, vivente il figlio, legittimato, per poter succedere al padre nella contea di Luna; ed ora ad istanza de’ Siciliani fece che l’antipapa Benedetto lo legittimasse per lo solo regno di Sicilia. Ma gli Aragonesi tanto fecero, che le speranze de’ Siciliani andarono a voto; e il re si morì senza dichiarare la sua volontà.





539 Un fiorino valea l’ottavo di un’oncia.



540 Sit principaliter officiis Provisum, non officialibus.



541 Tutti i diplomi di quei tempi hanno l’intitolazione «Martinus Dei gratia etc. et Martinus et Maria, eadem gratia rex et regina Siciliae etc. et in dicti regni Siciliae ac ducatuum praedictorum regimine et solio omnes tres consedentes, conregentes, conregnantes



542 Cap. VII Reg. Mart.



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