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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XL. I. Successione al regno — II. Ferdinando eletto re d’Aragona e di Sicilia — III. Tentano i Siciliani di aver un proprio re. — IV. Il duca di Pegnafiel viene a governarli. — V. Morte di Ferdinando, regno d’Alfonso — VI. Stato della Sicilia — VII. Alfonso chiamato dalla regina Giovanna. — VIII. Alfonso acquista il regno di Napoli. — IX. Varie imprese di lui. — X. Apparati di guerra contro i Turchi — XI. Morte d’Alfonso. Leggi del medesimo — XII. Promuove le lettere. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Ciò non di manco salda e costante era nei Siciliani la volontà d’avere un proprio re: ma questa volontà riuscì sempre in vani sforzi per lo stato, in cui il regno trovavasi. Erano quivi stabiliti assai baroni catalani, i quali vi possedeano splendidissime signorie, vi esercitavano le cariche più luminose. Gran giustiziere il Caprera; grand’ammiraglio il Lihori; vicaria la regina Bianca, congiunta di sangue e d’interesse alla real casa d’Aragona. Divisi in due fazioni i baroni, divise teneano le città tutte. Palermo, Messina e Catania, non più strettamente unite fra loro, erano anzi divenute rivali; dachè l’esser nati in Catania alcuni de’ re aragonesi, e l’avervi quasi tutti avuto stabile sede, avea fatto che quella città teneasi già da più delle altre. Palermo, comechè tenuta sempre la capitale del regno, pure screditata già nell’opinione de’ Siciliani per la lunga dominazione avutavi dai Chiaramonti e per aver chiamato il governo angioino, avea perduto quel predominio, che hanno sempre le città capitali sede del governo e centro della forza pubblica. Trapani, venuta in quei dì floridissima per lo commercio d’Affrica, già teneasi pari alle maggiori del regno. Ma sopra tutte volea in ogni conto Messina essere considerata la prima. Quei cittadini fervidi sempre di amor di patria, ma sventuratamente tenendo per patria più Messina che Sicilia, proposero che s’adunasse il parlamento in Taormina per provvedere alla tranquillità del regno ed alla successione al trono. Si adunò colà infatti il parlamento nel luglio del 1410. Se ne tenne lontano il conte di Modica sul pretesto, ch’ei come gran giustiziere dovea prender cura della quiete del regno: nè vi mandarono i loro sindaci Catania, Siragusa, Girgenti e Trapani. Vi si stabilì, che la regina Bianca rinunziasse al governo, per esser mancati i due re, dai quali tenea l’autorità; che l’autorità suprema fosse affidata ad una giunta, composta da un prelato, due baroni, sei rappresentanti di Messina, due di Palermo ed uno per ogni altra città; ma se Catania, Siracusa, Trapani e Girgenti avessero aderito, due rappresentanti dovea mandar la prima ed uno ciascuna delle altre tre. Dichiarò il parlamento di dover conservarsi i privilegi ed onori della nazione catalana, ordinò un corpo d’esercito, del quale fu dato il comando ad Antonio Moncada conte d’Adernò; volle finalmente che la giunta dichiarasse il successore al trono, purchè fosse della real famiglia d’Aragona; e con ciò venne ad indicare espressamente il conte di Luna, che solo restava di quella famiglia.
Quel parlamento, che dovea assicurare la tranquillità e l’indipendenza del regno, suscitò la guerra intestina e ben servì le pretensioni di coloro, che voleano la Sicilia sempre dipendente da Aragona. Sdegnaronsi Palermo e le altre città della straordinaria prerogativa arrogatasi da Messina. Sdegnaronsi i baroni catalani della volontà manifestata di staccar la Sicilia dall’Aragona. Se il parlamento avesse dichiarato apertamente re il conte di Luna, forse i Siciliani tutti si sarebbero riuniti sotto le sue bandiere, e i Catalani sarebbero stati costretti ad acquetarsi: ma dando l’incarico di dichiarare il nuovo re ad una giunta composta in modo da destar la gelosia delle altre città, disunì la nazione e die’ tempo ai Catalani di fare andare a voto il desiderio dei Siciliani.
Il conte di Modica, venuto fuori con grandi forze, accompagnato da quasi tutti i baroni catalani dichiarò, a lui, come gran giustiziere del regno spettare il governo nella mancanza del re. A lui da prima unironsi la più parte delle città regie. Dall’altra parte levossi in armi il partito della regina Bianca capitanato dal grand’ammiraglio Lihori. Per tal modo i Siciliani, assorti in quel vortice d’intestine guerre, non poterono accumunar le forze per far valere i dritti loro.
La regina, non tenendosi sicura in alcuna delle città, che aveano riconosciuta l’autorità del conte di Modica, erasi ritratta in Siracusa, città a lei soggetta: ma venne fatto a quel conte di soprapprendere quella città, farsene padrone ed assediare strettamente la regina, ch’erasi chiusa in uno de’ castelli; tanto che era essa per cader nelle mani di lui: ma avutone compassione Giovanni Moncada, che militava col gran giustiziere, abbandonatolo colla sua schiera, venne in soccorso di lei, e tanto fece, che il conte fu cacciato dalla città e volto in fuga.
I Palermitani misero allora avanti il progetto di elevare al trono Niccolò Peralta de’ conti di Caltabellotta, la cui madre era figliuola della principessa Eleonora figlia di Giovanni duca di Atene, fratello del re Pietro II, e dargli in moglie la regina Bianca. Come un tal partito andava a sangue della regina, essa venne in Palermo per farlo conchiudere. Ma tranne lei, pare che nissun altro in Sicilia avesse approvato quel progetto.
Intanto le maniere amabili della regina, la sua bellezza, l’età sua venivano attirando a lei le città, le quali eransi da prima dichiarate pel conte di Modica. Un atto d’unione e perpetua alleanza offensiva e difensiva fu stipulato addì 11 novembre 1411 tra i comuni di Trapani, Marsala, Mazzara, Salemi, Monte-san-Giuliano ed i baroni di Partanna e Castelvetrano per la conservazione e difesa dell’onore dovuto alla real casa d’Aragona, per mantenere nel suo vicariato la regina ed opporsi al gran giustiziere. Vi si fissò la stregua di uomini e di stipendî che ognuno dovea contribuire; e si stabilì d’invitare a tale alleanza i comuni di Palermo e di Sciacca, e per essi i loro capitani Francesco Ventimiglia e Calcerando Peralta.
Intanto il conte di Modica stavasi afforzato in Alcamo. Era gran tempo ch’egli mulinava il progetto di menare in moglie la regina e con ciò farsi strada al trono. E disperando di potere ottenere la mano di lei alla buona, avea sempre cercato di averla in poter suo, onde obbligarla colla forza ad aderire. Con tale intendimento avea cercato di soprapprenderla in Catania ed in Siracusa. Ed ora più che mai ardea di voglia di riuscire in ciò, dachè sapea d’essere arrivati in Trapani alcuni ambasciatori spediti dal parlamento d’Aragona ad istanza dell’antipapa Benedetto e del re di Navarra padre della regina, per provvedere alla tranquillità del regno, i quali dovean senza meno frastornare le sue mire. Però avvicinatosi notte tempo a Palermo nel gennajo del 1412, s’introdusse nel palazzo de’ Chiaramonti, che diceasi allora l’ostiere, e fu per coglier la regina nel proprio letto; ma, avvertita del pericolo, ebb’essa appena tempo di vestirsi e scappare colle sue damigelle; corse al lido, e quindi su d’una galea si salvò nel forte castello di Solanto. Vuolsi, che il conte, trovato ancora tepido il letto di lei, abbia detto «se ho perduta la pernice, voglio godermene il nido.» Spogliatosi, vi si coricò e stette un pezzo dimenandosi pel letto e fiutandolo per tutto. Ciò fatto, die’ sacco al palazzo e ne involò tutti i preziosi arredi della regina.
Saltò intanto il grillo in capo a papa Giovanni XXIII di credere il regno dì Sicilia a lui devoluto, per non essersi pagato il censo impostovi, e spedì a Messina un suo legato a pigliarne possesso, sperando che le intestine discordie avrebbero resa agevole l’impresa. Ben è vero che i Messinesi, malcontenti de’ Catalani, che avean frastornato gli sforzi della nazione, per avere un re proprio, e de’ Siciliani per aver tenuto in non cale quanto avea stabilito il parlamento di Taormina, non solo accolsero quel legato, ma trassero anche alla sua Milazzo ed alcune terre di quei dintorni; per lo che il legato pontificio, tenendosi già sicuro della felice riuscita dell’impresa, erasi dato ad assoldar gente e fare appresti di guerra. Ma il comun pericolo trasse le due parti a dare orecchio a proposizioni di pace, ed ambi si rimisero alla decisione degli ambasciatori venuti dall’Aragona.
Il conte di Modica poi volentieri accettò la costoro mediazione, sperando averli favorevoli, perchè sapea esser egli tenuto in grande stima da tutti gli Aragonesi; i quali credeano (e credeano il vero) che era stata tutta opera sua il non istaccarsi la Sicilia dall’Aragona, malgrado l’ardente desiderio dei Siciliani. E ben s’appose: dachè coloro, udite le ragioni d’ambe le parti, decisero, che il governo di tutto il regno, comprese le città della camera della regina, sino alla elezione del nuovo re stesse nelle mani del gran giustiziere; e la regina si ritirasse nel castello di Catania con uno assegnamento di ventimila fiorini, purchè non traesse al seguito alcun barone.
Si trasferì la regina in quel castello: ma i principali baroni siciliani la seguirono; e tanto dissero contro quella determinazione, che la indussero a ricominciare la guerra. Giovanni Ventimiglia, che diceasi suo capitan generale, occupò di forza Cefalù e già nel maggio di quell’anno la guerra era riaccesa per tutto. Stava il conte di Modica con grandi forze in Palermo: accostativisi il grand’ammiraglio ed Antonio Moncada conte di Adernò coll’esercito della regina, intimarongli a sgombrare da Palermo e consegnare le città tutte del regno alla regina e recarsi in Catania per prestarle omaggio. Quel conte non die’ altra risposta che venir fuori colla sua gente e schierarla in battaglia di fronte a’ nemici. In questo, qual ne fosse stato il perchè, egli rientrò in città. Avvistosene il Lihori, pose in agguato una mano dei suoi; e, come quello venne fuori, colto alla provveduta, fu preso, e il Lihori, per meglio custodirlo, lo mandò nel castello della sua terra di Motta.
II. — Mentre la Sicilia era miseramente lacerata dalla fazioni d’Aragona, Valenza e la Catalogna pensavano solo a darsi un re; ed in ciò processero con tal maturità di consiglio ed unità di volere, che l’Europa vide l’esempio unico di disporsi di tanti regni, come d’una privata successione, per sentenza di un magistrato. Nove persone, due vescovi, due monaci, un gentiluomo e quattro giureconsulti, probi tutti e sapienti, furono scelti e si riunirono nel castello di Caspe; ove, ascoltate le ragioni di tutti i pretendenti, decisero in favore di Ferdinando infante di Castiglia, figlio di una sorella di Martino il vecchio, principe virtuoso, che meritò dai popoli il soprannome di giusto. E tosto venne acclamato e coronato.
Temeasi a ragione dal nuovo re d’Aragona, che la Sicilia, la quale non avea avuta alcuna parte alla scelta, nè potea in conto alcuno tenersi annessa all’Aragona, non si sottraesse al suo dominio. Davagli anche da temere il re Ladislao di Napoli, il quale collegatosi a papa Giovanni, ne avea ottenuta l’investitura di questo regno: e trovandosi il papa già padrone di Messina e di Milazzo e quel re vicino, potean di leggiere insignorirsi della Sicilia. Per tali ragioni re Ferdinando spedì alcuni suoi ambasciatori, uomini avveduti e valenti, di Sicilia, i quali nel dicembre del 1412 furono in Trapani. A costoro il re die’ l’incarico di fare riconoscere la regina luogotenente generale e vicaria del regno, la quale dovea governare con un consiglio composto in parti uguali di Catalani e di Siciliani; di pubblicar da per tutto la elezione del re, e ’l voto di tutti gli uomini sapienti, che a lui doveasi il regno di Sicilia; di ripetere da tutti gli ordini dello stato il giuramento di fedeltà, non che a lui, ma ad Alfonso suo primogenito, come s’era prestato da’ sudditi d’oltremare; e di giurare in nome suo l’osservanza della libertà e dei privilegi del regno. Con molta avvedutezza si condussero costoro. Riunire secondo le antiche consuetudini il parlamento sarebbe stato pericoloso: in quella vece vennero visitando le principali città e terre del regno, ed in ognuna riceveano il giuramento de’ cittadini e di que’ baroni, che ivi erano, e lo prestavano in nome del re. Le precedenti dissidie fecero, che ogni comune ed ogni barone mal sicuro della volontà degli altri, non osò negarsi.
L’esempio de’ primi fe’ piegare tutti gli altri; così il nuovo re fu tranquillamente riconosciuto da tutti in Sicilia.
Recatisi quindi quegli ambasciatori in Catania, ove la regina era, le ricapitarono una lettera del re, nella quale ordinava di mettersi tosto in libertà il conte di Modica. La regina rispose esser necessaria la prigionia di quel conte per la tranquillità del regno; starsi in quel tempo compilando il processo pe’ gravi delitti da lui commessi (e si fe’ a raccontarli), compito il quale, lo avrebbe trasmesso alla corte; perchè il reo ne avesse riportata la debita pena. Malgrado quella risposta, il re, non volendo negarsi alle istanze di tanti signori della sua corte congiunti od amici del Caprera, ed altronde memore dei servizî da lui resi, spedì in Sicilia Guttierrez de Vega, ministro suo confidente, per fare che quel conte fosse senz’altra difficoltà sprigionato; e lo fu a patto che fra otto giorni sgombrasse dalla Sicilia e venisse a presentarsi alla corte. Così fu fatto.
III. — L’allontanamento di costui e l’esser da per tutto riconosciuto il nuovo re, restituirono la tranquillità in Sicilia. Ma non però venne meno ne’ Siciliani la brama d’avere un proprio re. E non avendo potuto averlo per altra via, cercarono ottenerlo dalla giustizia del re Ferdinando. Con tale intendimento vollero spedire a lui loro ambasciatori per fargliene la richiesta. Intesone il re, scrisse alla regina vicaria di fare ogni opera per frastornar tale idea: ma non le venne fatto. Il parlamento destinò suoi ambasciatori Ubertino de Marinis arcivescovo di Palermo, Filippo Ferreri vescovo di Patti e Giovanni Moncada, i quali giunsero nel 1414 mentre stava preparandosi la solenne coronazione del re. Esposero eglino il voto generale della nazione di avere un proprio re; fecero conoscere che a buon dritto lo chiedeano, per esser la Sicilia un’antico regno, ove da oltre a tre secoli aveano avuto sede tanti re. Ma Ferdinando, ove anche abbia avuto in animo di contentarli, ne sarebbe stato distolto dal timore di dispiacere gli Aragonesi e Catalani, i quali tenean già la Sicilia come annessa a que’ regni. Però la richiesta dei Siciliani fu respinta: ma il re promise in quella vece che avrebbe mandato a regger la Sicilia in suo nome l’infante Giovanni duca di Pegnafiel, suo secondo figliuolo.
IV. — Venne infatti in Sicilia quei principe nell’aprile del 1415; e tosto la regina Bianca ne partì. Per la repulsa non era venuto meno il desiderio de’ Siciliani; anzi l’arrivo dei principe pare che l’abbia reso più fervido. La città di Messina gli spedì suoi ambasciatori in Palermo, per ossequiarlo e presentargli alcune dimande per lo bene del regno. Pria d’ogni altro chiedevano apertamente che l’infante fosse non vicerè ma re, perchè ciò aveano sempre chiesto al re suo padre. L’infante rispose ringraziando quella città del buon volere; ma conchiuse che avendo un re virtuoso, giusto, benigno e potente, non accadea parlare oltre di ciò.
Forse la speranza di potere in breve presentare le loro suppliche al re di persona contenne allora i Siciliani; dachè l’infante vicerè nel rispondere ad uno de capitoli de’ Messinesi, in cui chiedeano che si desse riparo alle frequenti incursioni dei barbareschi, avea assicurato che fra poco il re si sarebbe recato in Nizza per concertare coll’imperator Sigismondo i mezzi di torre lo scisma dalla Chiesa, menando seco una numerosa armata, e quindi dovea passare in Sicilia. Ma come si seppe che quel congresso non più in Nizza ma in Perpignano ebbe luogo, e che ivi il re erasi gravemente ammalato, non si contennero più i Siciliani, ed apertamente rammentavano le gloriose gesta dei loro padri quando in onta all’Aragona aveano elevato al trono Federigo II. Nè saprebbe dirsi che ne sarebbe stato, se altro cuore avesse avuto quel principe o se i consiglieri aragonesi e castigliani, che più a lui erano attorno, fossero stati meno vigilanti. Ma essi da una mano tenean sempre a freno l’infante per non lasciarsi sedurre dalla speranza di salire sul trono di Sicilia; tanto che Ferdinando volea tosto richiamare il figlio: ma poi se ne rimase sul timore, che quel subito richiamo non mettesse il popolo in disperazione ed affrettasse piuttosto che riparasse il male.
V. — Venne intanto a morte il re addì 2 d’aprile del 1416, e dichiarò nel suo testamento che il regno di Sicilia fosse indi innanzi inseparabile dall’Aragona. Nè Alfonso suo primogenito pose tempo in mezzo a richiamare il fratello, cui il comun padre avea procurato il maritaggio colla vedova regina Bianca, erede del regno di Navarra. Destinò a tale oggetto il nuovo re in Sicilia Antonio Cardona, cui die’ l’incarico di mettersi d’accordo con Domenico Rem, vescovo di Lerida, ch’era uno de’ consiglieri dell’infante, per indurlo a rimettere nelle loro mani il governo, fargli presente il testamento del padre e notificargli il matrimonio di lui già conchiuso colla regina Bianca: intanto ricevesse l’infante il giuramento di fedeltà da’ Siciliani e giurasse per parte del re suo fratello la osservanza delle leggi del regno.
Reca veramente meraviglia dopo tanti clamori, docili i Siciliani tutti avessero prestato quel giuramento: ma anche allora furono essi aggirati dalla sagacità de’ ministri castigliani. I baroni, i prelati, i sindaci dei comuni furon chiamati in Catania: non però furono essi riuniti in parlamento, ma come arrivavan colà, si facea loro prestar separatamente il giuramento. Addì 23 maggio del 1416 prestaronlo il grand’ammiraglio Sancio Ruiz di Lihori visconte di Gagliano, Matteo Moncada conte di Caltanissetta, Pietro Moncada Ogerotto di Vicari, per se e come tutore della baronessa di Ciminna. Addì 25 dello stesso mese il barone di Mulareni, Riccardo Filangeri, Filippo Ventimiglia come procuratore dell’arcivescovo di Morreale: addì 13 luglio il vescovo di Patti: addì 25 d’agosto Ruggieri de Palici barone di Tortorici prestollo in Agosta. Tanto si fece per soffogare la voce della giustizia e ridurre in provincia la Sicilia! (543).
VI. — Questa sventura fu la natural conseguenza del progressivo decadimento del regno, che i principi normanni e svevi aveano reso fiorente nello interno, temuto al di fuori. Perdute le provincie continentali, il grand’animo di Federigo, il coraggio e la stretta unione de’ Siciliani sostennero alcun tempo la sua gloria, comechè la necessità avesse fatto piegare quel re e ’l duca Giovanni suo figliuolo a conchiudere il poco onorevole trattato di Castronovo e quello del 1347. Ma quando l’imbecille Federigo III sottoscrisse nel 1372 il trattato di pace colla regina Giovanna, in cui dichiaravasi vassallo di essa e dei successori di lei, comechè tale dichiarazione fosse stata tanto ingiusta, che nè quella regina, nè alcuno dei suoi successori ne pretesero mai lo adempimento, il regno venne a perdere ogni considerazione al di fuori, e ’l suo avvilimento fu consumato col riconoscere il supremo dominio de’ romani pontefici, coll’obbligarsi a pagar loro un’annuo censo per ricognizione di tal dominio e col lasciarsi spogliare di tutti i luminosissimi dritti annessi alla sua corona, di cui i re suoi antecessori erano stati tanto gelosi. Ciò non di manco restava ancora a quel re fuori del regno il dominio de’ ducati d’Atene e di Neopatria; ma, morto lui, coloro che restarono al governo pensaron più presto a raffermare le loro usurpazioni, che a governare quelle lontane provincie, le quali abbandonate a loro stesse cercaron la protezione di Pietro re d’Aragona, che non tardò a mettersene in possesso come colui che pretendea a lui spettare, non che quelle provincie, ma tutto il reame. E se i due Martini ne riebbero il dominio, ciò fu per la cessione loro fatta da re Pietro di tutti i suoi dritti sul regno di Sicilia, di cui quelle provincie facean parte: se quei due re, con franca mano ripigliarono tutti i diritti de’ re siciliani sulle cose ecclesiastiche, se negaronsi all’ignominiosa prestazione del censo, ciò fu pel loro personale coraggio, per le truppe aragonesi, di cui si facean forti, e soprattutto per lo scisma che dividea la Chiesa, per cui fra tanti papi ed antipapi, che si combattevano e scomunicavan l’un l’altro, nessuno potea pensare a difendere le recenti usurpazioni, anzi ognun d’essi cercava di careggiare quei due re per trarli alla sua. Ma tutto ciò non venne a rilevare la gloria e la potenza del regno di Sicilia; chè anzi dalla venuta de’ Martini in poi alla lunga anarchia successero le guerre civili e le gare municipali suscitate da’ baroni aragonesi di recente venuti; alle antiche successero le nuove devastazioni; a tante cause d’impoverimento successe la dispendiosa spedizione di Sardegna. Indi avvenne che i voti dei Siciliani per avere un proprio re furon mal concertati, i loro sforzi mal diretti, i diritti loro mal rispettati.
Da quel momento comechè avesse conservato la Sicilia il titolo di regno e le antiche forme di governo, venne mano mano cadendo in tale oscurità, che i nostri annali offron materia per la storia de’ re più presto che per quella del regno.
Avea re Ferdinando prima di morire raccomandato al figliuolo Alfonso di cooperare coll’imperator Sigismondo per far cessare lo scisma che lacerava la Chiesa, ed affrettare a tale oggetto la riunione del concilio di Costanza, che già era stato stabilito. Riunito il concilio re Alfonso, oltre gli ambasciatori speditivi dall’Aragona, volle che l’arcivescovo di Palermo Ubertino di Marino, oltre all’assistervi come prelato vi rappresentasse di suo ambasciatore pel regno di Sicilia una col conte di Sclafani. Il concilio, deposti i tre emuli, scelse a nuovo pontefice Martino V, dal quale gli ambasciatori siciliani chiesero la cancellazione dell’ingiustissimo censo imposto già al regno di Sicilia da Gregorio XI. Non era certo da sperare che il nuovo pontefice rinunziasse a quella supremazia, per istabilir la quale tanto eransi travagliati i suoi antecessori e tanto sangue aveano fatto spargere; fu gran che se ottennero che fosse rilasciato quanto fino allora credeano i pontefici esser creditori, e l’esenzione di pagarsi tal censo pei cinque anni avvenire. Pure è da credere che il re non si sarebbe acquetato a tal condiscendenza, se non fusse stato distolto dalla ribellione di Sardegna.
VII. — Fornita appena tal guerra fu egli richiesto di soccorso dalla regina Giovanna II di Napoli, la quale era rimasta erede di quel soglio alla morte di re Ladislao suo fratello. Gli sfrenati costumi di lei e lo straordinario potere accordato a Ser Gianni Caracciolo, suo drudo avean fatto rivoltare gli animi dei principali baroni, i quali avean chiamato ad insignorirsi del regno Luigi duca d’Angiò. E già Ludovico Sforza capo dei baroni sollevati dichiarato dal duca di Angiò vicerè e gran contestabile, avvicinavasi con grandi forze a Napoli; e lo stesso duca avea preparato un’armata in Genova per venirle a raggiungere.
In tale stretta la regina fece proporre ad Alfonso di adottarlo per figliuolo, dichiararlo suo successore in quel reame, e cedergli, anche vivente lei, la Calabria, a patto che venisse a soccorrerla. Accettò il re quel partito, fu sottoscritto il trattato, il re dalla Sardegna mandò ordine al vicerè di Sicilia di destinar subito in Napoli Raimondo Perollos come suo vicario, accompagnato da Giovanni Ansalone giudice della gran corte, per assistere de’ loro consigli la regina, i quali doveano portar con loro copia di viveri, di cui Napoli scarseggiava.
Giunti costoro in Napoli, la regina addì 16 di settembre del 1420 fece con ogni solennità pubblicare la sua adozione e dichiarò re Alfonso suo successore nel regno; e poi addì 29 dello stesso mese i seggi di Napoli prestarono in mani del Perollos il giuramento di riconoscere la regina Giovanna in sovrana del regno, tranne la Calabria cessa a re Alfonso, ed alla morte di lei lo stesso re come suo successore.
Il re in questo venne in Sicilia, per fare i necessarii preparamenti. In Messina convocò a tale oggetto il parlamento, in cui intervennero molti baroni di Calabria. Fatto finalmente ogni appresto, recossi il re stesso in Napoli con grande accompagnamento di conti e di baroni aragonesi e siciliani. Fu accolto con grandi dimostrazioni di stima dalla regina: e a dì 8 luglio 1421 fu ratificato l’atto d’adozione con tutte le condizioni di già convenute.
Gli Angioini, non potendo resistere alle forze unite della regina Giovanna e d’Alfonso, sgombrarono il regno. I baroni, che avean parteggiato per essi tratti da’ piacevoli modi e dalla magnificenza del re, vennero volentieri a giurargli fedeltà. Ogni cosa parea lieta in Napoli: ma tale letizia fu di breve durata. Il gran siniscalco Caraccioli sin dal momento ch’erasi presentato al re in Ischia, ove egli erasi fermato prima d’entrare in Napoli, vistolo giovane, bello, cortese, temè d’essersi procacciato un pericoloso rivale, che potea soppiantarlo; per lo che cominciò ad ispirare alla regina sensi di diffidenza, i quali, cessato il pericolo, cominciarono a manifestarsi e s’accresceano a misura che la regina vedeva il re ossequiato da tutti i grandi del regno e ben veduto dal popolo. Disgustatasi allora apertamente di lui, lasciatolo in Gaeta, ove entrambi eransi ritirati, se ne venne in Napoli. Fu vano ogni mezzo di riconciliazione. Conosceva il re che il mantice principale, che soffiava in quello incendio, era il drudo di quella regina Ser Gianni Caracciolo; per allontanarnelo, lo fece imprigionare. Da quel punto la rabbia di lei divenne furore. Richiamò lo Sforza e tutti i baroni che avean favorito gli Angioini; cancellò l’adozione fatta al re Alfonso; una nuova ne fece a Ludovico duca d’Angiò, il quale da Roma, ove trovavasi, corse tosto a lei; strinse lega con Filippo Visconti duca di Milano; ottenne soccorsi da papa Martino, il quale odiava il re, perchè permettea di dimorare nei suoi stati l’antipapa Benedetto XIII, che non volea deporre la tiara, malgrado la decisione del concilio di Costanza e ’l non essere riconosciuto da verun sovrano.
Venti anni durò quella guerra con varie vicende, durante la quale lo stesso re Alfonso in una battaglia navale cadde prigione de’ Genovesi che lo condussero in Milano. Trattollo quel duca con gran cortesia; i due principi vennero presto in molta dimestichezza; il re seppe guadagnarsi l’animo di lui in modo che lo rimise in libertà, divenne suo amico ed alleato, obbligò i Genovesi a ritrarsi dalla lega contro di lui e a soccorrerlo anzi nell’acquisto di Napoli.
VIII. — Erano in questo finiti di vivere Luigi d’Angiò e la regina Giovanna, la quale avea lasciato il regno a Renato d’Angiò fratello di Luigi, e per trovarsi costui prigione del duca di Borgogna, era venuta a regger Napoli la Margherita sua moglie: non guari dopo ricattatosi, vi venne egli stesso. Sperava il re prender Napoli d’assalto, ma la morte seguita nella mischia dello infante don Pietro suo fratello scuorò in modo le sue truppe che fu obbligato a ritirarsi. Finalmente un’Aniello muratore napolitano palesò al re un antico aquedotto, il quale da un pozzo ne’ dintorni di Napoli mettea capo entro la città presso una delle torri di essa. Vuolsi che per la stessa via si sia introdotto in Napoli mille anni prima Belisario per cacciarne i Goti che vi regnavano. Alfonso fece entrare in quell’aquedotto dugencinquanta de’ più prodi soldati suoi guidati da Aniello e capitanati da Diomede Caraffa, i quali fattisi padroni della torre, ne diedero il segno al re, ch’erasi avvicinato ad una delle porte della città, aperta la quale dal Caraffa, entrò in città con tutto l’esercito nel giugno del 1442. Renato fu per esser preso; chiusosi nel Castel nuovo, ivi a pochi giorni, venuto a patti col re, ne partì. Così gli Angioini perderon finalmente quel regno dopo 177 anni che lo teneano; e come re di Sicilia faceano chiamarsi anch’essi, Alfonso da quel momento prese il titolo di re delle due Sicilie.
Dalla Sicilia trasse Alfonso genti, viveri, denaro in gran copia per quella guerra: molti Siciliani vi si segnalarono, fra’ quali innanzi ad ogni altro si distinse il conte di Geraci Giovanni Ventimiglia pel suo valore in guerra, pel suo senno nel governo. Il re ne lo meritò col titolo di marchese; e, come in quel regno e nel posteriore non furono altri marchesi in Sicilia, egli era chiamato lu marchisi.
IX. — Pur comechè le cure e gli sforzi di re Alfonso fossero stati per vent’anni diretti a quella impresa, non si astenne da altre. Il prode infante don Pietro fratello di lui, venuto in Sicilia con numerosa armata nel 1423, unitosi a Federigo conte di Luna grand’ammiraglio del regno, ne partì nel settembre di quell’anno, e si diresse a Genova in soccorso di Tommaso Fregoso, il quale dal duca di Milano era stato cacciato dalla sedia ducale, ed obbligò quei repubblicani a restituirlo nella carica di doge. Passato nelle coste d’Affrica s’insignorì dell’isola di Cerchena e trasse in catena tremilaquattrocento di quegli abitanti: preso terra a Scafati, il re di Tunisi intimorito ebbe a ventura comprar la pace con grandi presenti fatti a que’ principi, e col dar la libertà a tutti gli schiavi cristiani, che erano in suo potere. Ritornato in Sicilia, il vicerè Niccolò Speciale cesse a lui il governo del regno, che tenne sino a febbraro del 1425.
Si portò in Aragona, facendosi accompagnare dal conte di Luna; il re avea così ordinato, non volendo lasciar solo in Sicilia quel principe tanto amato dai Siciliani, e che non avea peranco perduta la speranza di giungere al trono. Comechè re Alfonso avesse con viso assai lieto accolto il fratello e ’l conte, pure, mosso dalla stessa diffidenza, onde non dare al conte occasione di ritornare in Sicilia, gli tolse la carica di grande ammiraglio e ne investì il fratello. Quel giovane, altero de’ suoi natali e forse ancora de’ diritti suoi, mal tollerò l’affronto, e per trarne vendetta si cercò la protezione del re di Castiglia ch’era in guerra col re Alfonso, fortificò alcuni castelli che possedea sul confine della Castiglia con animo forse di darli a quel re; ma fu prevenuto da Alfonso, il quale ne lo cacciò. Venuto allora in aperta ribellione, strinse maggiormente le secrete pratiche in Sicilia. Tal’era qui la disposizione degli animi, che gli venne facile trovar fautori. Avea fra gli altri tratto alla sua due figli del ricantato Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, ch’era allora vicerè di Sicilia, il quale avutone lingua, ne scrisse al conte con grave risentimento. Colui rispose con pari stizza e giunse per fino a sfidare a duello il vicerè, come avea prima sfidato lo stesso re: ma nè l’uno, nè l’altro degnaronsi accettar la sfida. In questo il mal consigliato giovine inimicossi anche il re di Castiglia, dal quale fu posto in prigione, ove si morì non senza sospetto di veleno.
Ma briglie più gravi die’ al re papa Eugenio IV. Era stato dal concilio di Costanza promosso alla sede pontificia Martino V, e ’l concilio stesso avea stabilito una nuova adunanza de’ prelati di tutta la cristianità, per torre gli abusi nel reggimento della Chiesa, che aveano dato origine a tanti scandali. Morto papa Martino, Eugenio IV suo successore intimò un concilio in Basilea nel 1437. Ma come i padri ivi adunati mostrarono dalle prime di volere restringere in più angusti confini l’autorità dei pontefici, e giunsero sino a citare Eugenio a comparire innanzi a loro per giustificare la sua condotta, egli dichiarò sciolto il concilio e lo volle trasferito in Ferrara. Ma quei padri nulla curando la intimata traslazione, deposero Eugenio ed elessero in sua vece Felice V, e parecchie costituzioni stanziarono per lo buon regolamento della Chiesa, fra le quali quella, fosse tolto ai pontefici il dritto di riservarsi la elezione dei vescovi e prelati, ma tornasse in vigore l’antica consuetudine di scegliersi i prelati dal clero rispettivo. Colse allora il destro re Alfonso di vendicarsi di papa Eugenio, il quale avea mandato in soccorso dell’Angioino il cardinal Vitelleschi con tremila soldati: ordinò che in Sicilia fossero eseguiti i regolamenti del concilio di Basilea, acciò le chiese venissero affidate a buoni pastori e non a lupi rapaci.
Quando poi, conquistato Napoli, fu il re in istato di pigliare un tuono più minaccevole, conchiuse con Felice e co’ padri di Basilea un trattato per cui obbligavasi a marciar col suo esercito a Roma, cacciarne Eugenio, stabilir sulla sedia pontificia Felice, riconoscerlo per vero pontefice e farlo riconoscere dal re di Castiglia e dal duca di Milano: e dall’altra parte Felice promettea di accordargli l’investitura del conquistato regno e dargli dugentomila pezze d’oro. Per mala forza papa Eugenio piegossi allora a chieder pace. Spedì al re lo stesso cardinal Vitelleschi. La politica e non la religione avea indotto Alfonso a riconoscere l’autorità del concilio di Basilea, la politica e non la religione gli fece conchiudere un trattato con Eugenio. Obbligossi questi a riconoscere Alfonso in re di Napoli, a dargliene l’investitura e ad abilitare alla successione di quel regno Ferdinando figliuolo di lui, comechè non legittimo: e il re promise di richiamare da Basilea tutti i prelati dei suoi regni, di non riconoscere per cardinali coloro, che erano stati promossi da Felice, di tener legittimo pontefice il solo Eugenio; di ajutarlo contro lo Sforza, che invaso avea lo stato romano; e di soccorrerlo di un’armata nel caso che il pontefice volesse muover la guerra al Turco.
Nel riandare cotali contrasti tra ’l re Alfonso e la romana corte non puoi fare che non maravigli come non sia caduto in mente ad Alfonso il pensiere di sottrarsi all’ingiusta supremazia usurpata dai papi sul regno di Sicilia e sulle provincie d’oltremare: anzi ne mendicava da essi l’investitura. Ma ciò era riserbato ad un’età, in cui i progressi de’ lumi e delle armi aveano stabiliti i confini tra ’l sacerdozio e l’impero, sceverato i diritti del capo della Chiesa dall’autorità sua temporale, e reso i popoli più tranquilli, i troni più saldi.
X. — Che che ne fosse stato, fedele il re ai patti convenuti imprese la guerra contro lo Sforza, malgrado le rimostranze del costui suocero il duca di Milano. E ’l papa gli permise di tassare di dugentomila scudi gli ecclesiastici di Sicilia col pretesto, che tal denaro servir dovea per la guerra contro il Turco. Ma la guerra contro il Turco, che allora fu un pretesto, non andò guari che fu per essere vera. Già da assai tempo prima i pirati affricani infestavano i mari siciliani e tenevano in pericolo le città marittime. Varie provvidenze erano state date da’ vicerè, per tenere il regno in istato di difesa: nel 1438 avea il re spedito in Tunisi il p. Giuliano Majali benedittino, per conchiudere una pace con quel governo (544). Ma la caduta di Costantinopoli scosse tutti i principi d’Europa: parlavasi d’una nuova crociata contro Maometto II. Re Alfonso, i cui regni eran più degli altri esposti a grave rischio, fece grandi preparamenti. Convocato nel 1457 il parlamento in Palermo, il vicerè Lupo Ximenes de Urrea espose l’urgenza del caso e chiese uno straordinario donativo e l’armamento di sei galee. Il parlamento accordò trecentomila fiorini e quattro galee, e ne destinò comandante lo stesso vicerè, il marchese di Geraci, il gran contestabile e ’l grand’ammiraglio del regno; le altre due le diedero le città di Palermo e di Messina. E, come il papa avea per quella stessa guerra imposto sugli ecclesiastici di Sicilia una tassa dei 10 per 100 sulle loro rendite, il braccio ecclesiastico chiese d’essere esente dal contribuire al donativo offerto dal parlamento: ma il re respinse la dimanda (545).
Pure tutto quell’apparato minaccevole de’ re cristiani si ridusse ad aggravare i popoli di nuovi pesi con pretesto di una lega generale, che non si conchiuse (546). In quella vece re Alfonso diresse le armi sue contro Genova. Ma mentre aspettava la notizia della presa di quella città, ammalatosi nel maggio del 1458 in Napoli, venne peggiorando, finchè addì 27 del seguente giugno finì di vivere. Come non lasciò figli legittimi, chiamò eredi di tutti i suoi regni il fratello Giovanni re di Navarra, tranne Napoli e le sue provincie, che lasciò con titolo di regno a Ferdinando suo figliuolo naturale.
Non manca fra gli scrittori d’allora chi accagioni Alfonso dì poca religione per le brighe avute colla romana corte, e di dissolutezza per aver sempre trascurata la moglie e tenuto dietro a drude. Ma all’età nostra lungi di apporre alla sua memoria la prima pecca, dovremmo più presto accusarlo di debolezza: e l’altra fa torto all’uomo, non al re. Nè per ciò potrebbe negarsi doversi Alfonso annoverare, se non tra gli ottimi, tra’ buoni principi, che sedettero sul trono siciliano. In nessun’altro regno tante leggi si bandirono. Vero è che non tutte quelle leggi son degne d’approvazione all’età nostra: ma ciò più che al legislatore, al secolo, in cui visse, deve imputarsi. I capitoli del regno erano proposte, che faceano i parlamenti, alle quali il re apponea la sua sanzione: onde tali leggi devono considerarsi come prove storiche delle idee di quel secolo: ma provano al tempo stesso lo studio del principe a promuovere il bene dei sudditi.
Erano allora le corti di giustizia in Sicilia nel massimo disordine: enormi concussioni si commetteano dai magistrati. Per darvi alcun riparo i vicerè Antonio Cardona, Ferdinando Velasquez e Martino de Torres aveano nel 1420 fissati i diritti da pagarsi ai magistrati (547). Ma pare che inutile sia stato un tal provvedimento: dachè il vicerè Niccolò Speciale quattro anni dopo fu dai continui reclami costretto a tornare in sullo stabilire diritti. Venuto re Alfonso in Sicilia, in un consesso del sacro consiglio, cui intervennero anche i prelati e’ baroni del regno, stabilì, che quattro e non più fossero i giudici della gran corte; che ad ognuno di essi fosse assegnato il soldo di once cento trenta; che fosse loro vietato di ricevere cosa alcuna dai litiganti; pure si permise ai giudici di ricevere i viveri (esculentum et poculentum) per se e per la famiglia da consumarsi in un giorno. Forse la corruzione era così comune e sfrontata che ciò parve cosa ben lieve. Fu stanziato inoltre che, rimesso il processo ad alcuno de’ giudici, questi dovesse esaminarlo, restituirlo alla corte al più fra dodici giorni, e restituitolo, la corte dovesse profferir la sentenza al più fra dieci giorni; furono egualmente fissati il soldo e’ doveri dell’avvocato fiscale, de’ procuratori fiscali, del maestro notajo e dell’archivario della gran corte. Si stabilì che i diritti che, giusta la determinazione dei vicerè, dai litiganti doveansi pagare a quei magistrati, cui erasi assegnato un soldo, fossero indi in poi acquistati al regio erario (548).
Nel gennajo dello stesso anno convocò un parlamento in Palermo, ed ivi si stabilì in primo luogo, che coloro, che il re destinava a governare il regno in suo nome, vi avessero la suprema potestà, e nissuno, qual che si fossero il suo rango o la carica che indossava, potesse negar loro obbedienza. Si die’ loro il dovere di visitare due volte l’anno, o almeno una, il regno, per esaminar la condotta dei magistrati d’ogni luogo, ed ove forse il caso farli condannare dalla gran corte. Per animare il commercio fu permessa, pagata la tratta, la libera esportazione del frumento od altra derrata: e perchè la tratta variava secondo il prezzo del frumento, fu stabilito di fissarsi di tre in tre mesi. Per evitar poi le frodi, che potean nascere per le diverse misure, si prescrisse che in tutto il val di Mazzara fosse in uso la sola misura di Palermo, che poi fu detta generale, e ne’ valli di Demone e Noto quella di Catania, che diceasi grossa (549). Fu vietato a’ prelati, conti, baroni, magistrati e qual si fosse altra persona l’impedire che si trasportassero viveri da un luogo all’altro del regno, toltone prima la quantità sufficiente per lo mantenimento del comune (550).
Volle poi il parlamento che gli officî annuali di capitano, giudici ed altrettali, dovessero eligersi d’anno in anno e mai anticipatamente; e che i capitani, deposta una volta la carica, potessero essere rieletti solo ivi a due anni. Permetteano allora le leggi ai rei di sottrarsi alla pena corporale con una prestazione in denaro, e ciò diceasi composizione: dichiarò il re in quel parlamento che il diritto di rimettere le colpe gravi era così aderente alle ossa sue che non poteasi svellernelo; e però vietò a qualunque magistrato di far composizioni (551).
Si passò poi a stabilire i diritti dei castellani e de’ servienti delle castella; e quelli che i carcerati dovean pagare ai castellani ed ai prigionieri. Degno è di somma lode a tal proposito il capitolo 43, in cui si stabilisce esser le carceri destinate alla custodia, non alla pena delle persone: per che fu bandito, che tutti coloro, che aveano avuto concesso il diritto di carcere, dessero opera infra sei mesi, pena la perdita di quel diritto, che la casa destinata a prigione fosse comoda e salutevole; e che i giurati e il capitano d’ogni città visitassero una volta il mese le carceri e curassero che i carcerati fossero ben trattati dai loro prigionieri.
Volle poi il parlamento provvedere al buon andamento dell’amministrazione de’ comuni, con richiamare in osservanza i capitoli di re Federigo II. Semplicissimo era allora il modo con cui i comuni governavansi. Tutte le gabelle e le rendite del comune venivano in potere del tesoriere, spendevansi dai giurati coll’intelligenza del consiglio municipale composto dal bajulo, dal capitano, dai giudici e da alquanti borghesi. Un maestro giurato sorvegliava la condotta dei giurati delle città comprese nella sua provincia, le visitava d’una in una, esaminava i conti, vegliava perchè il danaro fosse speso nelle opere pubbliche stabilite dalla legge, e trovando frodi, mal versazioni od altra colpa ne’ giurati, li puniva, e se il delitto eccedeva i limiti della sua competenza, compilava il processo e lo trasmettea al governo, per pigliarne cognizione la gran corte.
Per frenare i delitti erasi in quel parlamento stesso stabilito che il capitano e’ giurati d’ogni città dovessero denunziare al governo tutti i gravi misfatti accaduti in quella, meritevoli della pena di morte, di mutilazione di membra o di esilio. Profferita dalla gran corte la sentenza contro tali rei, ove essi non fossero stati presenti, bandissero che fra un’anno, non presentatisi, il tribunale stesso avrebbe profferita la sentenza di fuorgiudizio. Vi volle che baroni facessero lo stesso ne’ luoghi di lor vassallaggio per quei delitti cui si estendea la rispettiva giurisdizione, degli altri ne dessero parte al governo, e, pena once 100, perseguitassero, malgrado qualunque privilegio, i malfattori; e per torre a costoro ogni speranza di scampo, si vietò, non che ai baroni, ma alle chiese stesse d’offrir loro un’asilo (552). Come quel parlamento erasi radunato in una sala terrena del palazzo dell’ostiere in Palermo, quegli statuti vennero poi chiamati «Capitoli della sala terrena.»
Aveano sin dal 1440 i due vicerè Gilberto Centelles conte di Collesano e Battista Platamone ordinata col sacro consiglio una prammatica per fissare il modo di scegliersi i notai, le forme, con cui essi stipular doveano gli atti pubblici, e i diritti che poteano esigere; questa, approvata dal re, venne poi pubblicata nel 1443 dal vicerè Ximenes Durrea.
Ma l’opera, che rese illustre ne’ secoli posteriori il nome di Alfonso, fu il Rito della gran Corte. Erano allora assai incerte le forme che seguivansi dai tribunali; dachè non erano stabilite da alcuna legge scritta, ma da una consuetudine alterata spesso dall’ignoranza o dalla malizia dei curiali, e da scritti di antichi giureconsulti spesso contraddittori e sempre oscuri. Per riparare un tal male Alfonso die’ l’incarico a Leonardo di Bartolomeo gran protonotaro del regno di compilare un corpo di leggi per determinare le forme dei giudizî; e veramente il Bartolomeo era da tanto. Compito il lavoro e riveduto dal sacro consiglio, fu presentato al re, il quale a richiesta del parlamento lo approvò e ne ordinò l’osservanza addì 23 ott. del 1446 (553).
Tali leggi furono in vigore sino all’età nostra o per dir meglio, non vennero mai dalla pubblica autorità abrogate, ma erano nel fatto sfigurate ed impunemente violate nella pratica; indi nasceano grandi querele e vivo desiderio, di una riforma. Noi non diremo certamente che il rito stabilito da Alfonso era ottimo di se stesso e molto meno che dopo quattro secoli la società non si fosse alterata in modo da chiedere la modificazione: ma è certo rimproverevole la nostra stemperata smania d’innovare, senza esaminar prima ponderatamente, se il male nascea dalla legge o dalla inosservanza di essa, onde vedere fin dove estendersi dovea la riforma.
XII. — Un titolo anche maggiore acquistò Alfonso alla benevolenza de’ Siciliani ed all’ammirazione dei posteri, per l’alto senno da lui mostrato nella scelta delle persone destinate al comando delle armi o al reggimento de’ popoli. Mandava egli ora uno ora più vicerè a reggere il regno in suo nome, e siciliani e stranieri, ma tutti di un merito distinto. Egli ebbe il soprannome di magnanimo ed a buon dritto: certo fu prova di gran cuore il rivolgere ogni suo studio a fare risorgere le lettere in Sicilia. Le civili dissensioni, che per oltre ad un secolo aveano sconvolto il regno, ridussero la nazione in tale stato d’ignoranza, che il saper leggere e scrivere era qualità non volgare; tantochè i giudici delle città del regno erano spesso idioti affatto (554). Mentre in Italia facean le lettere rapidissimi progressi ed alto suonava in Europa il nome delle università di Pisa, di Bologna e di Pavia, in Sicilia non erano scuole e coloro che voleano apparar lettere, giurisprudenza, teologia e medicina, dovean recarsi in Bologna od altrove. Aveano i Catanesi già da più anni concepito il lodevolissimo disegno di erigere una università nella loro città, Nel 1435 trovandosi il re a Palermo, fra le altre grazie chiesero anche questa e ne ottennero il sovrano permesso: ma come in quei tempi credeasi che ai soli pontefici si appartenesse il diritto di erigere università, ed i re null’altro potessero che permetterlo, si diressero a tale oggetto alla romana corte. Le brighe insorte tra ’l re e papa Eugenio menarono in lungo l’affare. Seguita poi la pace nel 1440, ottennero la desiderata bolla e l’anno appresso il re assegnò alla nuova università 1500 scudi pel soldo de’ lettori.
Ma più che l’università di Catania valse al risorgimento delle lettere in Sicilia l’esempio e la condotta del principe. Il palazzo d’Alfonso era una continua accademia. Tutte le ore, che potea sottrarre alle gravi cure dello stato, eran da lui impiegate a conversare familiarmente cogli uomini più rinomati per sapere, svolgendo con essi i classici greci, latini ed italiani: spesso gli studenti erano ammessi alla sua presenza, godea di esaminarli, proponea loro de’ temi, li facea gareggiare e largamente ricompensava i migliori. La pubblica tranquillità già ristabilita, la valevolissima spinta da lui data fecero sorgere molti uomini insigni per sapere o per l’eminenti cariche, alle quali furon da lui promossi: Leonardo di Bartolomeo, Niccolò Speciale, Ruggieri Paruta, Adamo Asmundo, Giambattista Platamone, Giovanni Aurispa, Antonio Beccadelli di Bologna detto il Panormita; Niccolò Tedeschi, Niccolò Palmeri, Andrea di Bartolomeo, Pietro Ranzano, Giovanni Paternò, resero assai chiaro il XV secolo e ’l nome d’Alfonso.
Non è però da negare che la magnanimità di Alfonso sia costata cara a’ sudditi. Per sovvenire alle ingenti spese della guerra da lui sostenuta, al fasto del suo mantenimento ed alle largizioni sue verso coloro che proteggea, aggravò i popoli di pesi straordinarî non che col chiedere spesso sussidî al parlamento, ma col vendere, contro le leggi del regno, alcune delle città demaniali, e poi chiedea sussidî al parlamento, per ricomprarle, senza che la ricompra si effettuisse: onde le città erano obbligate a ricomprarsi, con imporre nuove tasse sui cittadini. I parlamenti tornavano sempre in sul vietare l’alienazione del demanio e dimandar la conferma degli antichi statuti: non v’ha parlamento nel regno di Alfonso, in cui non si vedesse un capitolo «De prohibita alienatione demanii» che ricevea sempre la sovrana sanzione. Ogni parlamento conchiudea col richiamare in piena osservanza le precedenti leggi. Ma divenuto il regno membro d’una straniera monarchia, l’autorità del parlamento, le franchigie della nazione furon dicco ben lieve al volere del principe: e il male venne accrescendosi nei seguenti regni.