Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XLI. I. Regno di Giovanni e Carlo di lui figlio. — II. Riconoscimento di re Ferdinando. — III. Paolo Fregoso arcivescovo corsaro. — IV. Leggi. Stato della Sicilia. — V. Regno di Ferdinando II. — VI. Ebrei sfrattati. — VII. Azioni di Ferdinando. — VIII. Miserie del regno. Provvedimenti. — IX. Inquisizione. — X. Giovan Luca Barberi. — XI. Morte di Ferdinando.

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CAPITOLO XLI.

I. Regno di Giovanni e Carlo di lui figlio. — II. Riconoscimento di re Ferdinando. — III. Paolo Fregoso arcivescovo corsaro. — IV. Leggi. Stato della Sicilia. — V. Regno di Ferdinando II. — VI. Ebrei sfrattati. — VII. Azioni di Ferdinando. — VIII. Miserie del regno. Provvedimenti. — IX. Inquisizione. — X. Giovan Luca Barberi. — XI. Morte di Ferdinando.

I. — Giovanni re di Navarra avea avuto dalla regina Bianca due figliuoli, Carlo principe di Viano ed Elisabetta: morta lei, era passato a seconde nozze con Giovanna Enriquez figliuola dell’almirante di Castiglia. Il principe Carlo, comechè sin dalla morte della madre avesse avuto diritto ad assumere il titolo di re e ’l governo del regno, pure rispettando il volere palesato dalla madre, che il marito continuasse durante sua vita a regnare, se n’era da prima rimasto. Ma quando l’orgoglio e la malvagità della nuova regina, dalla quale era in ogni modo vilipeso, fecero sorgere una fazione che lo voleva al trono, ei prese parte in que’ torbidi. Soppressi quei moti, vinta quella fazione, Carlo per fuggire lo sdegno del padre e la vendetta della matrigna, erasi ritratto in Napoli, dove re Alfonso suo zio aveagli assegnata per suo mantenimento una pingue pensione. Morto lo zio, sperando di tornare in grazia del padre con qualche segnalato servizio, cominciò a far pratiche cobaroni napolitani, per indurli ad acclamare re Giovanni. L’avveduto Ferdinando, per farnelo desistere, cominciò a careggiarlo, gli confermò la pensione accordatagli dal padre, a patto che si ritirasse in Sicilia. Ei vi si recò e fuvvi accolto con ogni rispetto dal vicerè Lupo Ximenes Durrea e con sommo giubilo de’ Siciliani.

Era Carlo bello della persona, piacevoli erano i modi suoi, morigerati i costumi. Protettore dei letterati, era letterato egli stesso; avea tradotta la morale d’Aristotile e scritta una storia de’ re di Navarra. Arrogi a tali meriti, che di per se soli sarebbero stati sufficienti a render quel principe caro a tutti, che la sua presenza ridestò nell’animo de’ Siciliani il desiderio non mai soppresso di avere un proprio re. E ben dieronlo a vedere nel parlamento riunito in Castrogiovanni nel novembre del 1458 per prestare l’omaggio al nuovo re. Chiese il parlamento, che il principe Carlo fosse restituito nella del re suo padre; che il re venisse a risedere nel regno o destinasse il principe sudetto a reggerlo come suo luogotenente; che si facesse al medesimo sul regno paterno un conveniente assegnamento; che in avvenire il governo del regno di Sicilia fosse sempre dato al primogenito del re; e finalmente, che gli ambasciatori, che il parlamento sarebbe per destinare a prestare nelle mani del re il giuramento in nome della nazione, lo prestassero anche al principe Carlo, come successore al trono, e ciò sarebbe ai Siciliani un dono immortale ed incomparabile (555).

Agli ambasciatori, che destinati furono dal parlamento, per chiedere tali grazie e la sanzione degli statuti da essi proposti, unì il principe di Viano Bernardo Requesenz assai caro al re, per ottenergli la riconciliazione, ed altri messi avea prima spediti agli stati di Valenza e d’Aragona, per indurli a chiedere al re la stessa grazia. Le premure de’ sudditi in favore del figlio maggiormente irritavano l’animo del re geloso della sua autorità; e maggiormente aizzavalo la moglie, la quale era sempre intesa a mettere zeppe tra ’l padre e ’l figliuolo, onde farlo privare della successione e farla avere a Ferdinando figliuolo di lei. Ma dall’altro lato avea re Giovanni ragione di temere, che negandosi apertamente a concedere ai Siciliani le grazie chieste in favore del figlio, essi in suo dispetto non lo acclamassero re. Sapea ben egli quanto loro stava fitto in cuore un tal desiderio: e ben sovvenivasi di ciò che avean fatto, per elevare lui stesso al trono, quando reggeva il regno per parte del re Ferdinando suo padre. Però da una mano tacque sulle richieste in favore del figlio, dall’altra finse d’esser pronto a riconciliarsi e spedì in Sicilia Giovanni Moncajo, per recar l’ordine al principe di portarsi in Majorca, per aspettarvi gli ordini suoi. E come era entrato in sospetto, che anche il vicerè Lupo Ximenes Durrea parteggiasse pel figlio e facesse alcuna pratica coi Siciliani in favore di lui, lo volle anche allontanato e vi sostituì lo stesso Moncajo.

Tutto lieto lo sventurato Carlo si partì da Sicilia e stette in Majorca sino a marzo del seguente anno 1460; finalmente il padre, non potendo più oltre negarsi alle vive istanze di tutti coloro, che desideravano la riconciliazione, lo chiamò a se, e comechè maggiormente ingelosito delle vive acclamazioni fattegli dal popolo, mostrò d’accoglierlo con paterna amorevolezza. Carlo tenendo sincere le carezze del padre, pensò ad ammogliarsi e fece chiedere la principessa Isabella figlia ed erede di Giovanni II re di Castiglia. Ma la perfida ed ambiziosa madrigna, che sin d’allora mirava a dar quella principessa in moglie a Ferdinando suo figliuolo, fece che il re apponesse a delitto al figlio quel desiderio, non che legittimo, ma vantagiosissimo per la sua casa, perchè avrebbe portato, come poi portò, la riunione nella sua discendenza di tutti i regni delle Spagne. Il re fece imprigionare il figlio nel castello d’Altona, volea anche farlo condannare per supposti delitti. Il popolo levato a sommossa minacciava di trarlo di forza dalla prigione, acclamarlo re e cacciar dal trono il padre. Fu forza al re di mettere il figlio in libertà, e gli cesse il dominio della Catalogna: ma recatovisi, non guari andò che vi mori, si disse di veleno fattogli porgere dalla madrigna, addì 15 di settembre del 1461.

II. — Ottenuto l’oggetto di tanta sua malopera, venne facile alla regina indurre l’ammaliato re a fare riconoscere il principe Ferdinando suo figliuolo come successore de’ regni paterni. Fu a tale oggetto spedito ordine a Bernardo Requesenz vicerè in Sicilia di convocare il parlamento. Ma dopo d’aver negata ai Siciliani la richiesta grazia di far prestare l’omaggio allo sventurato principe di Viano, già adulto, s’ebbe, se non tema, pudore a palesare prima che il parlamento fosse riunito, di voler lo stesso per Ferdinando ancor minore. Per tal ragione nelle lettere di convocazione si tacque l’oggetto di quel parlamento. Ma, sia che i baroni e gli altri, che doveano intervenirvi, avessero da quel silenzio argomentato dovervisi trattar cose di poco momento, sia che, saputo privatamente il perchè, a mal in cuore vi si recavano, nel giorno posto pochi trovaronsi in Messina, ove erano stati chiamati. Fu forza allora al vicerè far nuove lettere circolari, nelle quali palesò il motivo, per cui riunir doveasi il parlamento. Trovavasi già in Messina un Ferrante di Milina procuratore della città di Palermo, il quale, per non avere facoltà a prestare quel giuramento, scrisse in Palermo per aver fatta nuova procura all’uopo. Riunito finalmente il parlamento nel marzo dei 1464, vi fu riconosciuto Ferdinando, e monsignor Burgio vescovo di Mazzara, ambasciatore del parlamento, nella cattedrale di Saragozza giurò obbedienza al principe nelle mani della regina sua madre.

III. — Conchiuso appena quel parlamento, accadde un fatto, che mostra quanto disordinati erano i costumi in quell’età. Paolo Fregoso arcivescovo di Genova, cacciato dalla sua patria, erasi dato con tre sue navi a fare il corsale. Presso Favignana diede la caccia ad una barca: ma accorsi alcuni Trapanesi, non gli venne fatto di predarla. Avendo bisogno di provvista, ne chiese al vicerè, mostrandogli anche desiderio d’entrare al servizio del re d’Aragona; e ’l vicerè ordinò di darglisi ciò di che avea mestieri ed accettò il servizio di lui. Si obbligò il Genovese a servire il re per tre mesi e per altrettanto tempo, se così fosse al re piaciuto, e gli si pagarono quattromila ducati per soldo convenuto de’ primi tre mesi.

Come dovea in que’ giorni partire una nave messinese carica di grano, cotone, cavalli ed altro per conto del re, il vicerè, per farla giungere con sicurezza ordinò a quell’arcivescovo di scortarla colle sue navi. Colui accettò l’incarico, ma, come giunsero ne’ mari di Sardegna, assalita la nave siciliana, se ne impadronì. Sorpreso da altri legni genovesi, che andavano in traccia di lui, salito sulla barca predata, fuggì a Pepoli, ove avea signoria Giacomo Appiano suo congiunto. Tutto diverso da lui l’Appiano negossi a dargli ricovero nel suo castello, staggì la barca e ne diede avviso al vicerè, il quale spedì colà Niccolò Lucchese, cui fu consegnata la nave con tutto il carico.

IV. — Ma non meno abbiam noi ragione di maravigliare, se ponghiamo mente agli atti della pubblica autorità, dai quali possiam conoscere quale era allora la condizione della Sicilia. Per riparare alla scarsezza del bestiame da macello, il vicerè Lupo Ximenes Durrea vietò nel 1466, pena once cento, la vendita di esso agli stranieri. Perchè i proprietari di armenti di cavalle traevan più profitto dal destinarle alla generazione dei muli, ed i cavalli vennero più scarsi nel regno; lo stesso vicerè per farli abbondare mise fuori una prammatica, colla quale ordinava che nessuno potesse far coprire da somaro più di un terzo delle sue giumente, pena mille fiorini pei conti e baroni, cinquant’once pegentiluomini, venticinque pei borghesi. E perchè tali pene parvero ardue a molti, dice il buon Di Blasi, che il vicerè compiacente si contentò di riserbare a suo arbitrio il gastigo. Eppure nella pubblicazione di quella prammatica ebbero ad intervenire tutti i supremi magistrati del regno. È facile argomentare da ciò qual dovea essere lo stato dell’agricoltura, quando coloro, che reggeano lo stato, erano tanto compiacenti. E di ciò può aversi più chiaro argomento, ove si ponga mente che il parlamento convocato in Castrogiovanni nel 1458 per incoraggiare l’agricoltura chiese la libera esportazione de’ frumenti e di non potersi aumentare la tratta, la quale era stata fissata a tre tarì la salma nel val di Mazzara, in cui usavasi la misura generale, e quattro tarì negli altri due valli. Il re accordò la libera esportazione per sei anni, purchè la tratta fosse aumentata d’un carlino (556), e ciò mentre quel dazio era più che un terzo del prezzo corrente del frumento. Ma questa stessa grazia (se grazia può chiamarsi) non ebbe effetto; il parlamento del 1474 fece presente al re la richiesta fatta sedici anni prima, e soggiunge che per essere stata S. M. distolta da altre occupazioni, quella richiesta e la real sanzione eran restate vote d’effetto; però il regno tutto, ridotto all’estrema povertà, genuflesso pregava umilmente l’umanità sua a recare ad effetto quel capitolo o per lo meno a permettere che le navi di tutte le nazioni, amiche o nemiche cristiane od infedeli, potessero liberamente venire a commerciare in Sicilia, fossero molestate infra sessanta miglia dalle spiagge. Il re rispose che avrebbe trattato col sommo pontefice pel commercio coglinfedeli, ed accordava la libertà commercio coi cristiani, tranne i ribelli di lui, della sua casa, delle corone d’Aragona e di Sicilia, e quelle nazioni, colle quali era in guerra (557). Chi restava?

Mentre il governo malavvedutamente disseccava tutte le sorgenti della pubblica ricchezza, era nella necessità di chieder sempre nuovi sacrifizî ai popoli. La Sardegna rivoltata dal marchese di Orestano potentissimo barone di quel regno: la Catalogna levata in armi e sostenuta dal duca di Angiò e dalla Francia: e soprattutto Maometto II, che veniva avvicinandosi all’Italia e minacciava di portar le armi sue vittoriose sino a Roma, accresceano d’ora in ora i bisogni del governo. In questo cadde in mente al vicerè conte di Prades il pensiere di aggiungere il dazio del dieci per cento su tutte le rendite, al di più di tutti gli altri pesi; e a tale oggetto convocò nel 1478 un parlamento in Polizzi. In Palermo non incontrò opposizione; anzi il consiglio municipale, senza aspettare la risoluzione del parlamento, impose dal primo dell’imminente ottobre in poi il gravissimo dazio di due tarì per ogni salma di frumento ed un tarì per ogni botte di vino. Temea intanto il vicerè che i Catanesi, i quali pretendeano, che i parlamenti si riunissero sempre nella loro città, messi in punto dal vederlo convocato altrove, non si fossero opposti. Per farseli amici, da Polizzi trasferì il parlamento in Catania; ed egli stesso recossi in Messina, per cercare di trarre alla sua que’ cittadini: ma vi trovò tutti i ceti contrarî. Cercò di metter zeppe tra un ceto e l’altro, invano. Giunse a promettere, che Messina, perchè aderisse, non solo sarebbe fatta esente dal dazio, ma avrebbe avuto un dono di quindicimila scudi, per rifabbricare le mura della città: e non fe’ frutto. I messinesi scelsero a loro procuratore in quel parlamento i due nobili Giovanni Staiti e Ludovico Bonfiglio, e ’l giurisperito Giovanni Antonio Gotto.

Si aprì finalmente il parlamento addì 10 d’agosto. Tumultuosissima ne fu la prima tornata. Pretesero i procuratori di Messina aver la precedenza su quelli di Palermo: il vicerè ordinò che per quella volta pigliassero il solito posto, ed in appresso, esaminate le ragioni delle due città, si sarebbe diffinito intorno a ciò. Il Bonfiglio e ’l Gotto (lo Staiti era per malattia restato in casa) risposero, che avrebbero prima sofferto la morte, che cedere il posto. Il regio tesoriere Niccolò Leofante palermitano disse allora essere ciò manifesto indizio di ribellione. Perdè la scrima a que’ detti il Bonfiglio; in pien parlamento diegli una solenne mentita e, tratta la spada, minacciollo di fargli rientrare quelle parole in gola. Per tale temerità il vicerè fece carcerare i due procuratori di Messina presenti, e pel segretario del governo Antonio Sollima da Messina fece intimar l’arresto in casa allo Staiti. Saputosi ciò in Messina, la plebe tenendo il Sollima traditore della patria, levossi in capo e corse per incendiar la sua casa: pure venne fatto ai maggiorenti di acquetar quella sommossa. Intanto i procuratori di tutte le altre tre città intercessero presso il vicerè in favore di que’ di Messina, ed ebbero libertà.

Quetato queI trambusto, si aprì la seconda tornata. Proposta l’imposizione di quel dazio, lo Staiti, eloquente com’era, cominciò a far conoscere l’estrema miseria, cui il regno era ridotto, e l’assoluta impotenza di soggiacere a quell’enorme imposta, e soggiunse che in ciò egli avea in mira il vantaggio di tutto il regno, più che quello di Messina; dachè Messina col suo dissentire veniva a perdere quindicimila scudi, promessile dal vicerè, oltre l’esenzione del dazio. Tranne i procuratori di Palermo, le cui istruzioni portavano ch’ei dovessero aderire alla proposta del vicerè, tutti gli altri si uniformarono al voto del Messinese; anzi, giunta in Palermo la notizia dell’onorata condotta dello Staiti, e del dissenso delle altre città, si rivocarono le prime procure, altri procuratori si elessero con istruzioni diverse dalle prime.

Vinto così il partito della negativa, il vicerè non volle chiudere il parlamento, ma prorogatolo, lo trasferì in Palermo, assegnando il giorno 25 del seguente ottobre per la sua riunione. Ma, sia che nessuno vi si fosse recato, sia ch’egli venuto in Palermo, vi avesse trovati contrarî anche coloro che da prima avea tratti alla sua; quel parlamento non fu più conchiuso. guari andò che giunse in Sicilia la nuova d’essere, addì 19 di gennaro del 1479 finito di vivere re Giovanni, lasciando tanto esausto l’erario, che per fare i suoi funerali fu mestieri impegnare le gioje della corona e fino il tesoro d’oro per diecimila fiorini.

V.Ferdinando II era stato dichiarato re di Sicilia una col padre sin dal 1468 e coronato nella cattedrale di Saragozza, allorchè avea menato in moglie Isabella di Castiglia. Nel 1473 poi il padre gli avea cesso per suo assegnamento alcune gabelle di Sicilia, che diceansi allora gabelle riservate; ed egli avea qui mandato un Giovanni Madrigale suo procuratore, per riscuoterle. Nol permise la deputazione del regno, cui incombea la custodia delle franchigie della nazione; e fece presente al re, che le leggi del regno vietavano ai principi l’esigere alcuna gabella prima d’essere stato loro giurato l’omaggio della nazione ed aver prestato nelle forme consuete il giuramento di osservare le leggi del regno. Persuaso Ferdinando della giustizia di ciò, avea fatto altra procura al vicerè Lupo Ximenes Durrea, per ricever l’omaggio e prestare per parte sua quel giuramento. E ciò avea avuto luogo in un parlamento convocato in Palermo nel giugno del 1474, ed oltracciò avea a richiesta della deputazione del regno spedita una cedola, in cui promettea di osservare i capitoli del regno, data in Saragozza addì 13 di novembre del 1474 (558). Giunta poi in Sicilia la notizia della morte di re Giovanni, colsero il destro i Messinesi per trar vendetta del conte di Prades. Spedirono eglino al nuovo re ambasciatori gli stessi Ludovico Bonfiglio e Giovanni Antonio Gotto, ch’erano stati ambasciatori della città al parlamento di Catania, per offerire al re in nome di Messina un donativo di tremila scudi e querelarsi al tempo stesso del vicerè. Questi dal canto suo avea nel marzo del 1479 riunito il parlamento in Palermo, ed eragli venuto fatto di farsi scegliere ambasciatore di tutto il regno al nuovo re, sperando forse per tal mezzo di essere confermato. Recatosi in Aragona addì 11 di luglio di quell’anno, nella cattedrale di Saragozza prestò l’omaggio in nome della nazione e ricevè il giuramento del re (559). Ma trovò che i Messinesi, giunti prima di lui, aveano ottenuto quanto bramavano, avendo il re destinato al governo di Sicilia Gaspare Spes.

Non appena Ferdinando salì al trono, volse l’animo alla conquista del regno di Granata. Papa Sisto IV, perchè maomettani erano coloro, che tenean quel regno, dichiarò guerra di religione tale impresa, che null’altro oggetto avea che l’ambizione di Ferdinando; bandì una crociata; concesse al re la decima di tutti i beni ecclesiastici de’ suoi regni; e mise fuori una bolla per la quale concedea indulgenze, esenzioni, privilegi e fino l’assoluzione di qual si fosse enorme peccato a coloro, che o compravan quella bolla o militavan di persona in quella guerra. Oltracciò venivano al re tutti i beni di que’ miseri, che, per fuggire le persecuzioni del tribunale dell’inquisizione, di cui era supremo inquisitore il ferocissimo Tommaso Torrequemata, contentavansi abbandonar la patria e quanto aveano ed andar tapini negli altri regni. Comechè avesse re Ferdinando raccolto per tal modo gente e danaro assai, pure trovò duro intoppo. Erano i Granatini numerosissimi, ricchi ed assai prodi in guerra, e tutto quel regno era sparso di piazze fortissime, tanto che undici anni ebbe a combattere Ferdinando, prima di venirgli fatto quel conquisto.

VI. — Fornita quell’impresa, ad insinuazione di Torrequemata suo confessore, mai sazio di umane vittime, ordinò lo sfratto degli Ebrei da tutti i suoi regni. Eran costoro in Sicilia in gran numero, contavansene da centomila, tutti industriosi e dati alle arti e al commercio: pure il pregiudizio di un popolo ignorante e d’un governo superstizioso avea fatto loro soffrire a quando a quando alcune avanie, ed un’anno prima del loro sfratto, nella terra di Castiglione Andrea e Bartolomeo Frisi fratelli avean messo a morte Bitone loro sommo sacerdote, mossi, com’e’ diceano, dall’avere costui tratto un sasso dalla sua finestra contro il crocifisso, che portavasi attorno in una processione. Per sottrarsi al gastigo eran costoro fuggiti in Ispagna, ove Ferdinando, non che punirli, lodò lo zelo cristiano di que’ due assassini e li rimandò liberi. Un’anno dopo addì 18 giugno 1492 giunse in Sicilia l’ordine, spedito sin dal 31 di marzo, di sfrattare fra tre mesi, pena la morte e la confiscazione de’ beni, tutti gli Ebrei del regno, vietando di portar seco oro, argento, danaro e gioie, di cui si permettea loro di far baratto con mercanzie non vietate.

Era allora vicerè in Sicilia Ferdinando de Acugna, uomo dolce e ragionevole, il quale procurò in tutti i modi di prevenire qualunque violenza, cui sarebbero stati esposti que’ miseri. Fece erigere le armi reali sopra tutte le sinagoghe e le case degli Ebrei; bandì una salvaguardia in favor loro, perchè nissuno potesse offenderli; ed altri provvedimenti, diede, perchè presto e senza frode si liquidassero i debiti e crediti reciproci tra Ebrei e cristiani. Ma mentre egli con tanta umanità affaticavasi a render meno doloroso il colpo a quegl’infelici, gli giunse dalla corte l’ordine ingiustissimo di far loro pagare in capitale al quattro per cento tutte le imposizioni, alle quali sarebbero stati soggetti restando in Sicilia, e ciò mentre era in pieno vigore la bolla di Niccolò V del 1452 e la prammatica bandita da Alfonso lo stesso anno, in cui stabilivasi, che i capitali delle rendite dovessero fissarsi al dieci per cento. Qual diritto avea poi Ferdinando di esigere più dazî da gente che cacciava dai suoi regni? Fu forza obbedire: il vicerè staggì tutta la roba degli Ebrei ch’era in deposito, per trarsene i centomila fiorini che per tal supposto debito da loro si pretendeano. Chiesero allora quegl’infelici dal re una dilazione a pagare quel denaro: la loro supplica fu appoggiata da una rappresentanza del senato di Palermo, il quale dichiarava esser tutte false le cagioni che si assegnavano per lo sfratto degli Ebrei: non ostante il loro soggiorno nel regno, essersi sempre in Sicilia conservata pura la religione; aver mai gli Ebrei cercato di sedurre alcuno a cambiar di fede o fatto alcun che in obbrobrio della religione cristiana: ne chiamava in testimonio lo stesso inquisitore fra Antonio della Pegna; e conchiudea, che l’ordine dato dal re pel loro sfratto, per esser fondato su false assicurazioni, non dovea eseguirsi (560). Ma più che tale rappresentanza valse agl’Israeliti un dono di cinquemila fiorini, per far loro ottenere dal re una dilazione di due mesi, che poi fu promulgata sino a 12 di gennaro del 1493. Pagati finalmente centocinquantamila fiorini, si partirono. Ma nel partire fu solo concesso ai più facoltosi di portar una veste usata, un materasso, una coperta da letto di lana o di saja, un pajo di lenzuoli usati; pochi viveri, che appena bastavano durante il viaggio, e tre tarì per pagare il nolo, ed oltracciò i poveri doveano andare a carico de’ ricchi. Il vicerè non potè far altro che permetter loro di raddoppiare gli arredi, tranne la veste che dovea essere una sola e non nuova. ciò fu tutto: i barbari esecutori di questi barbari ordini non gli lasciaron partire senza scucire i loro materassi e portar le mani licenziose fin sotto le vesti ed in seno alle donne, per cercare se aveano oro o denaro nascosto.

VII. — In merito della conquista di Granata, dello sfratto degli Ebrei e dello stabilimento del tribunale dell’inquisizione re Ferdinando ebbe concesso dalla romana corte per se e suoi successori nel regno di Spagna il titolo di cattolico. Ma quel titolo costò ben caro ai sudditi. La espulsione degli Ebrei era stata preceduta dalle enormi vessazioni del vicerè Gaspare de Spes (561); dalle spese straordinarie, per tenere il regno in istato di difesa contro Maometto II, dalle continue depredazioni non che de’ corsali affricani e genovesi, ma degli stessi siciliani od altri sudditi dello stesso re, più infesti de’ nemici, a segno che il parlamento continuamente reclamava e bandiva leggi intorno a ciò (562).

Pure re Ferdinando nulla curava la calamità de’ sudditi per contentare la insaziabile cupidità di estendere i suoi dominî. pago del nuovo mondo, che il Colombo nel 1492 scopriva per lui, volse l’animo a cacciare dal trono di Napoli il proprio nipote col più nero tradimento, che mai fosse caduto in mente umana. Avea egli nel 1496 spedito in Sicilia con grandi forze Consalvo di Cordova, cui gli Spagnuoli davano il soprannome di gran capitano, per rimettere su quel trono Alfonso II, che cacciatone da Carlo VIII di Francia, erasi ricovrato in Sicilia. Ma all’arrivo del gran capitano quel vecchio re era morto in Messina. Ferdinando II suo figliuolo coll’ajuto delle armi spagnuole era risalito sul trono. Ferdinando erasi adoprato in ciò per la gelosia di vedere i Francesi così prossimi alla Sicilia: ma cacciatiline, cercava il destro d’insignorirsi egli stesso di quel regno, e ben gli venne fatto nel 1502. Morto Ferdinando II senza figliuoli, era a lui succeduto Federigo fratello del padre, il quale prevedendo, che Luigi XII figliuolo di Carlo VIII, conquistato già lo stato di Milano, avrebbe rivolte le armi sue contro Napoli, comechè sapesse, che re Ferdinando erasi da più anni pacificato colla Francia, a lui chiese soccorso; e Ferdinando, soppiattone, com’era, da una mano stringea alleanza col francese, per accomunar le forze, cacciar dal regno il nipote e dividerselo; dall’altra promise a questo di spedir tosto grandi forze in suo ajuto.

Venne di fatto in Sicilia Consalvo di Cordova, e diessi a munire le fortezze del regno come per timore di una prossima invasione del Turco. Fu convocato il parlamento, cui furon chiesti sussidî, mettendo avanti lo stesso pretesto: ma pare, che i Siciliani fossero già entrati in sospetto del vero scopo di quella guerra; dachè nell’accordare il sussidio, il parlamento disse: «S. M. ndi fazzi quillo sia più servicio, como meglu ad sua altezza plazza (563).»

Giunto finalmente in Roma l’esercito francese nel giugno del 1501, gli ambasciatori de’ due re in pien concistoro palesarono al famoso Alessandro VI, degno invero d’entrare in terzo in tale spoglio, la convenzione fatta, e chiesero l’investitura del regno di Napoli. Papa Alessandro, per vendicarsi del re di Napoli, che erasi negato a dare una delle sue figlie in moglie al sacrilego Cesare Borgia suo figliuolo, non solo accordò la chiesta investitura, ma volle essere anche della partita. L’infelice Federigo, inabile a far fronte a quelle prepotenti forze, cesse tutto il suo regno al re Luigi e ritirossi in Francia, ove fu assai bene accolto. Venuti poi i due re padroni di quel regno, Ferdinando, dopo d’aver fatto quel tradimento al nipote, accoccolla ai Francesi cacciandoli dalla metà loro assegnata.

Ma i trionfi di quel re furono avvelenati da domestiche sciagure. Avea egli avuto dalla regina Isabella cinque figliuoli, un maschio e quattro femine. Il principe Giovanni si morì nel 1497. Per la sua morte il diritto alla successione era passato nella principessa Isabella; maritata ad Emmanuele re di Portogallo, ed al principe Michele di lei figliuolo: ma anche questi l’un dopo l’altro vennero a morte: onde restava erede di quella vasta monarchia Giovanna, maritata a Filippo il bello arciduca d’Austria. A tante perdite venne ad aggiungersi quella della regina Isabella morta nel 1504; per che dovette cedere alla figliuola e al genero il governo della Castiglia, ed egli recossi in Napoli, per visitare quel nuovo suo regno. Ma poco vi si trattenne, dachè prima di giungervi morì l’arciduca Filippo, e la moglie ne fu così dolente, che ne perdè la ragione; onde re Ferdinando ebbe a ripigliar quel governo, finchè l’arciduca Carlo, primogenito di Filippo, fosse in età di regnare da se.

VIII. — La conquista della città d’Orano sulle coste d’Affrica fatta in quel tempo a proprie spese del cardinal Ximenes arcivescovo di Toledo, mentre governava la Castiglia in nome della regina Giovanna, fece nascere al re il desiderio di sottomettere altre città di quel littorale. Bugea e Tripoli vennero in suo potere. Quest’ultima fu da lui aggregata al regno di Sicilia, e ’l vicerè Ugo Moncada vi spedì millecinquecento soldati spagnuoli e siciliani, capitanati dal catalano Giacomo Requesenz dichiarato governatore di quella città. Ma ciò fu solo un nuovo peso addossato alla Sicilia in un momento che il regno era affatto esausto. Lo sfratto degli Ebrei avea fatto venir meno il commercio; per soprassoma una quantità ingente di falsa moneta erasi introdotta, per cui la diffidenza avea fatto cessare quel poco traffico che restava. Il vicerè Moncada, per riparare a ciò, mise fuori una grida, per ordinare che tutti coloro, che avean di tali monete, le portassero alla zecca per fondersi e riconiarsi, dovendosi pagare ai possessori dieci tarì per ogni oncia di argento puro che vi si fosse trovato. La perdita fu calcolata da secento fiorini, perdita enorme che potrebbe a nostri ragguagliarsi a settecentoquaranta mila once. Grandi ne furono i fallimenti; i capitali sparvero; il commercio si estinse.

Ben cercò il parlamento nel 1515 di portare alcun rimedio alla povertà, cui il regno era ridotto. Erasi allora nell’errore (e volesse il cielo che non lo si fosse da molti anche a nostri) di credere che la scarsezza del danaro in circolazione, anzi che l’effetto, sia la causa della povertà delle nazioni; e che per lo commercio entri o venga fuori danaro: «Lo regno» dicea il parlamento «a molto exausto di moniti, et quasi si diri annichilato, tanto per la perdita di li falsi moniti, in che il regno, come e dicto, perdio circa seicento milia fiorini; quanto per haviri mancato di multi tempi inza la extractioni di vittuvagli, da undi sulia entrari monita in lo regno; quanto per roptura di banchi, et magaseneri; quanto ancora per la continua extractioni di li moniti, et per li cosi di vostra altezza et per mercanti, maxime cathalani, et per li prelati, quali stanno fora del regno.» E però richiese che si desse opera a far coniare nuova moneta (564). Ma come godea allora Messina il privilegio di non essere altra zecca altrove, il parlamento, per facilitare la fabbricazione delle monete, chiese, che per alcun tempo si stabilisse un’altra zecca in Palermo. Ma il re, per non ledere il privilegio di Messina, stabilì, che in quella circostanza la nuova zecca si stabilisse in Termini, e vi fossero impiegati gli officiali della zecca di Messina (565).

Per acquistar poi l’oro e l’argento necessario per esser coniato, chiese il parlamento, e ’l re accordollo, il presto di mille ducati, per pagarsene le spese del conio a que’ mercanti, che fossero per portare argento od oro, i quali incoraggiati da ciò in maggior copia ne avrebbero portato (566); e che il governo impiegasse cinque mila ducati l’anno in compra d’argento ed oro, e lo facesse coniare. Il re a ciò rispose con aderire alla richiesta, purchè l’oro e l’argento da comprarsi fosse presto, e non ne venisse jattura all’erario (567). Propose anche il parlamento, che fosse ritenuta la quinta parte delle rendite dei prelati, che dimoravan fuori del regno, e s’impiegasse in compra d’oro od argento, e ridotto in moneta si restituisse il danaro ai loro procuratori (568).

Non saprebbe in vero capirsi come potea entrare in capo a que’ buoni padri nostri, l’idea, che con tali provvedimenti potea accrescersi la moneta del regno. Impiegar danaro in compra di metalli e farne danaro, era un’operazione affatto inutile. Più sano consiglio mostrò il parlamento nell’esporre al re essere il commercio di Sicilia spento per le vessazioni, cui andavano esposti i bastimenti, che approdavano ne’ nostri porti; per lo proibire capricciosamente l’esportazione; e per lo aumentarsi della tratta: onde chiese che l’esportazione pepaesi amici non fosse mai vietata; e che la tratta non si aumentasse. Il re assentì al non aumentarsi della tratta, finchè il frumento valesse meno di tarì diciotto la salma, suo vero e giusto prezzo (569). Dimandò ancora il parlamento, che coloro, che ne avessero ottenuto licenza dal santo padre (vedi fin dove mettevano in que’ tempi il cece i papi), potesser mandar vettovaglie anche a luoghi proibiti (570).

Gli zuccheri di Sicilia cominciavano a non poter più sostenere la concorrenza degli stranieri, la manifattura ne veniva meno di giorno in giorno: il parlamento pregò il re a ridurre a metà per dieci anni il dritto d’esportazione. Il re il consentì a patto che lo stesso calo si facesse nel fitto delle cannamele (571). Allo stesso fine di torre ogni impedimento al commercio propose il parlamento, che indi in poi non si concedessero più dal re lettere di marca e rappresaglia (572); e che non fosse più vietata l’esportazione dei cavalli (573). Custodi straordinari si vollero per impedire che non andasse fuori del regno moneta, oro od argento (574). E perchè una delle cagioni, cui il parlamento ascrivea la mancanza di denaro nel regno era la dimora del prelati fuori di esso, reclamava ed enumerando i danni, che da ciò nasceano, dicea, che i vescovi mandavano certi procuratori, che su pilaturi et estorturi di li poveri genti di loro diocesi (575). E collo stesso intendimento di far andar fuori quanto meno si potea il danaro, espose il parlamento, che per l’assenza de’ prelati, i quali null’altro curavano, che di riscuotere il danaro, le chiese loro andavano in rovina, il culto divino era da per tutto negletto: per che proponea, che si ritenesse la quarta parte delle rendite di tutti i prelati, che dimoravano altrove, e questa da uomini probi, da destinarsi dal re, si spendesse per riparare le chiese e per lo servizio religioso delle medesime. Il re, non che assentì ma mise tantosto fuori una prammatica, colla quale ordinava l’esatta esecuzione di ciò: se non che, non già il quarto ma il quinto si ritenesse (576). Chiese allo stesso oggetto il parlamento, che li mille fiorini l’anno, che l’arcivescovo di Morreale avrebbe dovuto spendere per ristoro di quel sontuoso duomo, e che mai non eransi spesi, si riducessero a duemila, per essere quell’arcivescovato tanto ricco, che il fitto dei suoi feudi montava allora a diciassettemila fiorini (577); che i beneficî di regia collazione si dessero a’ Siciliani; e che si desse miglior forma all’università di Catania; dachè per esser tenui le mercedi dei professori, essi non adempivano al loro dovere; oltrachè venivano destinati a professori uomini ignoranti: indi nascea, che i Siciliani eran costretti a recarsi a studiare nelle università straniere. Perchè potesse aumentarsi il soldo de’ professori, propose il parlamento di assegnare alla stessa università alcuna abbadia di regia collazione: ma in ciò cantò ai sordi (578).

IX. — Era stato l’anno antecedente stabilito in Sicilia il tribunale dell’inquisizione, già eretto in Ispagna sin dal 1480: sino allora erasi a quando a quando destinato alcun particolare inquisitore in Sicilia. La maniera di procedere in tali giudizî, non che rigorosa, ma al di di qualunque forma prescritta agli altri tribunali, mosse il parlamento a reclamare. Ha secuto, dicea esso, che essendo per lo inquisituri passato condemnati alcuni a morti, in lo thalamo, in la presentia di lo inquisituri, et soi officiali, undi era quasi lo popolo tucto congregato, alcuni si hanno disdicto e revocato, dicendo haviri confessato o per timuri di tormenti, o per altri causi, ci su stati morti cum grandissimi signi di devotioni, et di boni christiani, per fina all’ultimo di loro vita, sempri revocando loru confessioni, et dicendo, che pigliavanu la morti in supplicio di altri loro peccati: di maniera, che in lo regno è restato alcuno rezelo, et impressioni, che alcuni di quisti sianu stati morti ingiustamenti (579). Reclami fece ugualmente il parlamento, per l’abuso degli inquisitori di dare a larga mano licenza di portare addosso armi d’ogni sorta, a gente facinorosa, che andava attorno la notte, commettea delitti e turbava la pubblica tranquillità (580). Ed è ben da credere, che assai più gravi erano i mali, se il parlamento osò dir tanto in quell’età, in quelle circostanze, a quel re.

X. — Mentre il sant’officio minacciava la vita, la libertà e la quiete de’ cittadini, un’avido fiscale ne minacciava la proprietà. Giovan Luca Barbieri da Noto erasi da gran tempo dato a rimuginare gli archivî di Sicilia, per rinvenire le primitive concessioni di tutti i feudi e di tutti i beneficî e i loro passaggi d’una in altra famiglia. Raccolti tali diplomi in un volume, che ei titolò capibrevi, che allora suonava atti notariali o registri, per accattarne alcun merito, recossi in presenza del re con animo di proporgli di spogliare de’ feudi e beneficî tutti coloro, che non potean mostrarne legittimo titolo. Non era certo da negare esservi state di grandi usurpazioni in Sicilia, ma era ugualmente da considerare, che re Alfonso a richiesta del parlamento del 1452 avea fatta una nuova amplissima concessione de’ feudi e de’ diritti annessivi a tutti coloro che da vent’anni prima ne erano in possesso, comechè non avessero potuto mostrarne legittimo titolo (581); e che l’osservanza di quello, come degli altri capitoli, era stata giurata dal re Ferdinando. E su di ciò si fe’ forte il parlamento del 1509 nel chiedere, che il re non desse alcuna retta al capibrevi del Barbieri. Il re rispose «Piace a S. M. che se ne facci il conto che secondo le leggi dovrebbe farsene: e che i sudditi non fossero indebitamente vessati

Non però furon perdute le speranze di quel pelamantelli. Gli fu concessa la carica di regio segretario, e autorità gli fu data di esaminare le bolle e i rescritti di ogni beneficio prima di darsene il possesso ai nuovi prelati, e le sovrane concessioni prima di spedire l’investitura del feudo al successore di alcun morto barone. Da ciò trasse il destro colui di fare mille straordinarie concussioni. Però a richiesta del parlamento del 1514 il re stanziò, che nissun diritto si pagasse al Barbieri per l’esame degli atti, onde far la fede, se i beneficî eran di regia collazione o no; che nessun barone fosse tenuto a trarre dagli archivî gli antichi diplomi della concessione del feudo, ma nel dar l’investitura si eseguissero i capitoli del regno; e che abbiano solo forza legale i diplomi e gli atti pubblici contenuti o citati nel capibrevi; non le allegazioni annessevi dallo Barbieri.

XI. — I gravi disturbi seguiti ivi a poco in Sicilia non fecero più pensare al capibrevi. Quel parlamento, conchiuso in Palermo addì 25 di novembre del 1514, ebbe poi la real sanzione in Burgos addì 24 di giugno del 1515. Nel gennaro del 1516 il re finì di vivere.





555 Cap. R. S. in Joan. cap. 2, 3, 4, 5, 6.



556 Cap. XXVII Joan.



557 Cap. CII e CIII Joann.



558 Cap. R. in Ferd. cap. I.



559 Ferd. cap. II.



560 Da ciò è manifesto quanto sia stato falso, che il sommo sacerdote degli Ebrei abbia in Castiglione tratto un sasso contro il crocifisso in una pubblica processione.



561 Resta ancora un monumento delle vessazioni questo vicerè. Il marchese di Geraci Arrigo Ventimiglia e il conte di Golisano per una briga privata ebbero un duello: il vicerè li bandì e confiscò tutti i loro beni. Il conte di Golisano si acconciò col vicerè con cedergli il feudo della Roccella allora appartenente alla sua contea. Il marchese di Geraci si rifuggì presso il duca di Ferrara suo parente. Fra’ beni confiscatigli furono gli arieti di bronzo, avanzo delle antiche arti greco-sicule, che Alfonso avea donati a Giovanni primo marchese di Geraci, i quali tratti da Castelbuono furono trasportati in Palermo, e tuttora si conservano nella galleria del real palazzo. Forse a tale violenza si deve la conservazione di questo pregevolissimo monumento.



562 Cap. 396 Alph., 23 Joann., 8 Ferd.



563 Mong., Stor. de Parl., T. I, pag. 124.



564 Cap. 77 Ferd. II.



565 Cap. 80.



566 Cap. 81.



567 Cap. 82.



568 Cap. 83.



569 Cap. 84.



570 Cap. 85.



571 Cap. 86.



572 Cap. 87.



573 Cap. 88.



574 Cap. 90.



575 Cap. 92.



576 Cap. 93.



577 Cap. 94.



578 Cap. 97.



579 Cap. 101.



580 Cap. 102.



581 Cap. 456 reg. Alph.



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