Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XLII. I. Regno di Carlo. — II. Disturbi in Palermo ed altrove, quietati. — III. Il Moncada ritorna in Ispagna. Ettore Pignatelli luogotenente. — IV. Congiura di Squarcialupo. Si propagano i tumulti. — V. Congiura contro i sediziosi. — VI. Il conte di Monteleone vien fatto vicerè. — VII. Principii delle gare tra Carlo e Francesco re di Francia. I fratelli Imperatore tentano ribellare la Sicilia a Carlo.

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CAPITOLO XLII.

I. Regno di Carlo. — II. Disturbi in Palermo ed altrove, quietati. — III. Il Moncada ritorna in Ispagna. Ettore Pignatelli luogotenente. — IV. Congiura di Squarcialupo. Si propagano i tumulti. — V. Congiura contro i sediziosi. — VI. Il conte di Monteleone vien fatto vicerè. — VII. Principii delle gare tra Carlo e Francesco re di Francia. I fratelli Imperatore tentano ribellare la Sicilia a Carlo.

I. — Già sin dal 1503 la principessa Giovanna era stata riconosciuta dal parlamento come erede del trono, ma, come alla morte del padre era essa demente, Carlo di lei figliuolo primogenito cominciò a regnare: ma gli atti del governo portavano il nome della madre e del figlio. Era allora vicerè di Sicilia Ugone Moncada, valenziano, il quale era in odio a’ baroni, che lo accagionavano di avarizia e di sfrenati costumi. Avuta il vicerè secreta notizia della morte del re, cercò in tutti modi di tenerla celata, ma a suo dispetto la nuova venne bucinandosi. Il popol n’era lieto, curava di mascherar la sua letizia. Il Moncada stava infra due; chè temea poterglisi apporre ugualmente a delitto il continuare nel governo dopo la morte del re e l’abbandonarlo senz’ordine sovrano. Chiamò il sacro consiglio, di cui volle il parere. I magistrati dissero (e ben dissero), che per le leggi del regno dovea egli continuare nel governo (582); i baroni all’incontro diceano dover sottentrare Giacomo Alliata vicegiustiziere; e visto che il vicerè deponeva la carica, palesava la morte del re, da una mano vennero aizzando la plebe, dall’altra, per non parere suo fatto, recaronsi in Termini, ove addì 5 di marzo del 1516 nella chiesa maggiore fecero le esequie a re Ferdinando ed acclamarono Giovanna e Carlo. E di ciò in quel giorno stesso per lo notajo Filippo Caccamo Ugo fu fatta pubblica scrittura (583).

II. — Era di quaresima: predicava nella chiesa di s. Francesco di Palermo un fra Geronimo da Verona in presenza del senato e di folto popolo. Costui, non si sa se per altrui insinuazione, tolta occasione dall’ordine dato dall’inquisitore del sant’officio non guari prima, che tutti i neofiti ebrei, della sincerità della cui conversione dubitavasi, portassero, per essere conosciuti, un abito verde con una croce rossa cucitavi, si diè a declamare contro tale vitupero, fatto, com’e’ dicea, alla religione, di metter la croce in petto a costoro, ed incitò forte la plebe a correre a spogliarneli. In quell’età non fu altro mestieri, perchè la ciurmaglia venuta fuori dalla chiesa si fosse levata in capo. Correndo furente per le vie si die’ a lacerare le vesti e malmenare gli Ebrei tutti che le si paravano innanzi. Messo un volta in moto il popolaccio, si die’ a gridare, che il Moncada deponesse il governo. Costui non sopraffatto dalla paura, venne fuori a cavallo seguito da que’ nobili, ch’eran dalla sua, e da molti magistrati. Ordinava a’ sediziosi di ritirarsi, invano: per farsi la plebe amica bandi l’abolizione della gabella sulla farina, che il popolo mal tollerava, ma non fece miglior frutto: che la bordaglia più e più ostinavasi a gridare, essere cessata ogni sua autorità per la morte del re.

In questo si sparse voce in città d’essere giunto un messo di re Carlo, apportatore della cedola di conferma del vicerè. Il popolo trasse al lido per vedere costui: ma con sorpresa universale fu visto scender dalla nave un uomo, che a’ portamenti, al contegno, al vestito, mostravasi di vil nazione. Si venne allora in sospetto d’esser quella una sopercheria del Moncada. Chi dicea esser colui un bifolco travestito, chi un galeotto, chi un famiglio del Moncada, e v’era fin chi assicurava averlo visto sere prima a sbevazzare in una bettola. Ciò maggiormente stizzì la plebe; tanto che venuto fuori dal palazzo del senato, ove avea avuto luogo la ridicola scena di far presentare da colui la supposta real cedola, il capitano della città Vincenzo Corbera, barone di Misilindino, un plebeo gli chiese copia della real cedola. Offeso il capitano dalla temerità di costui, ordinò ai suoi birri di menarlo prigione: ma, datosi colui a gridare, la plebe trasse in furia e volse in fuga il capitano e i birri.

Maggiormente ingalluzzita da ciò la bordaglia, fatto sera corse al palazzo del vicerè, seguita da persone che sotto le mentite vesti di contadini erano armate d’usbergo traendo seco faci, legna e cannoni, per incendere o mandarne giù le porte gridando al Moncada di sfrattare tantosto. Chiese egli due giorni di sosta, per mettere in assetto le cose sue, e gli fu negata. Visto allora affollarsi di più e più, non che gente a piedi, ma a cavallo, assai, travestito da famiglio, venne fuori da una porta posteriore del palazzo, e giunto al lido, vi s’imbarcò addì 7 di marzo del 1516. Il conte di Adernò e quei magistrati, che in quel palazzo erano, avvistisi della sua fuga, come meglio seppero camparono anch’essi. I soldati, che custodivano il palazzo, vistolo deserto, dato di piglio a quanto v’era di prezioso, ne aprirono le porte; ed entrata la marmaglia, ne lasciò le nude mura, e poi corse al real palazzo, ove albergava lo spagnuolo Melchiorre Cervero inquisitore del sant’officio, e cacciò anche lui da Palermo.

Moncada intanto venne a Messina, ove fu come governante con ogni onorificenza ricevuto. Quindi scrisse lettere circolari, per mantenere nell’obbedienza le altre città del regno: ma queste, saputo gli avvenimenti di Palermo, ne seguiron tutte l’esempio: i magistrati furon da per tutto rimossi, i partigiani del Moncada perseguitati, i pesi pubblici aboliti, nuovi capi scelti a regger le cose municipali.

In Palermo ogni cosa era trambusto: la plebe sfrenata mettea le case a sacco ed a ruba. I maggiorenti chiamarono da Termini i baroni, per ricomporre le cose. Molti fra costoro negavansi dicendo, non appartener loro tramettersi in quel broglio; toccare al senato il rimetter l’ordine. Ma fu di contrario avviso Pietro Cardona conte di Collesano. Era stato costui assai caro al morto re: egli ed i suoi fratelli eransi segnalati nella guerra di Napoli; virtuoso, amante delle lettere, maestoso nella persona, bello nel volto, nessuno più di lui era accetto al popolo. Gli altri baroni piegaronsi al suo parere e tutti fecero ritorno in Palermo. Al loro arrivo tutto fu rimesso in calma, e perchè non restasse il regno più oltre senza governo, promossero a presidenti del regno Simone Ventimiglia marchese di Geraci e Matteo Santapau marchese di Licodia, a’ quali tutto il regno. cominciò ad obbedire, tranne Messina e ’l suo contado, che pel Moncada teneansi.

Per dar conto poi a re Carlo di ciò ch’era avvenuto fu spedito Antonio Campo. fece meno dalla sua parte il Moncada: scrisse egli al re addì 10 aprile del 1516, per fargli noto il tumulto di Palermo, il suo sfratto e la necessità di abolire alcune gabelle: e perchè conoscea che ciò dovea rincrescere al re, accompagnò alla sua una lettera de’ magistrati supremi, nella quale mostravano la necessità di quel passo.

III. — Avea re Carlo addì 15 di marzo spedita da Bruselles, ove trovavasi, la cedola di conferma al Moncada, la quale eragli giunta nel seguente aprile in Messina. Ciò non di manco il regno tutto negavagli ubbidienza. Saputo poi quanto era accaduto in Sicilia, vi mandò lo spagnuolo Diego dell’Aquila, sulla cui probità potea contare, per esaminare la condotta del Moncada e le cagioni del tumulto. Giunto costui in Palermo, palesò in primo luogo a’ baroni esser volere del re, che il Moncada continuasse nel governo. Coloro risposero di esser pronti ad obbedire, ma lo pregarono a considerare, che mentre la nazione tutta era contro di lui rivoltata, non era lieve il ricondurla all’obbedienza, e molto meno sedare una nuova sommossa. Consultato il re intorno a ciò, chiamò a se il Moncada e i conti di Golesano e di Cammarata, levò il governo a’ due presidenti e lo affidò a Giovanni Luna conte di Caltabellotta.

Partì il Moncada da Messina, menando seco per suoi patrocinatori Pietro di Gregorio famoso giureconsulto di quell’età e Francesco Sclafani, i quali erano anche ambasciatori di quella città al nuovo re; ed a costoro unironsi Blasco Lanza, Geronimo Guerriero e Cesare Gioeni da Catania, i quali per esser magistrati e partigiani del Moncada aveanlo seguito in Messina. Si accompagnarono ai conti di Cammarata e di Golesano, Federigo Imperatore ed Antonio Abrugnano, che aveano anch’essi nome di valorosi giureconsulti.

Giunti costoro tutti in presenza del re Carlo, il Moncada cominciò ad accagionare i due baroni di essere stati eglino e i loro compagni gli istigatori della sommossa: questi all’incontro diceano, che l’avarizia, l’orgoglio, la crudeltà, gli sfrenati costumi suoi aveano spinta all’estremo la pazienza del popolo; ch’essi, non che di gastigo, eran degni di premio, per avere rimesso in calma il regno.

Il re, udite le ragioni dell’una e l’altra parte, ed esaminati i fatti, depose il Moncada dalla carica, che conferì al conte di Monteleone Ettore Pignatelli; ordinò, che fossero rimessi i dazî, che il parlamento avea imposti, e che fosse rimborsato l’erario del denaro, che non era stato esatto; e che, tranne venti de’ principali autori de’ disordini, de’ quali riserbavasi la punizione, tutti gli altri avessero perdono. Ma volle al tempo stesso, che i due conti restassero presso di se.

Giunto il Conte di Monteleone in Palermo nel maggio del 1517, ordinò per parte del re ai marchesi di Geraci e di Licodia di recarsi tantosto in Napoli e restarvi a disposizione di quel vicerè. Credea re Carlo, che allontanati quei quattro baroni, non erano a temersi più disturbi in Sicilia: ma non guari andò che nuovi e più gravi disordini ebbero luogo. Comechè calmata fosse la sedizione, non erasi spento l’odio di molti contro coloro, che avean parteggiato pel Moncada; anzi venivasi di ora in ora accrescendo il mal umore al vedere che il luogotenente (con tal titolo era venuto in Sicilia il conte di Monteleone) tutto facea col consiglio dei magistrati, che tutti tenean da quella parte.

IV. — E però una congiura secretamente ordivasi per mettere a morte tutti coloro che del sacro consiglio erano. Capo di tale cospirazione era un Gianluca Squarcialupo nobile palermitano, il quale l’anno antecedente essendo giurato in Palermo, per una briga di precedenza avea tratta la spada contro il conte d’Adernò; e ’l Moncada per vendicar l’ingiuria di quel suo congiunto, avealo bandito. Visto costui il popolo malcontento, il re lontano, niun esercito in Sicilia in Italia, un governante dappoco, credè essere il momento acconcio per trar vendetta de’suoi nemici.

A costui si unirono Francesco Barresi, Baldassare Settimo, Cristofaro di Benedetto, Alfonso Rosa, Pietro Spadafora ed alcuni altri nobili gravati di debiti e disperati fortuna. Non mancaron loro compagni fra la plebe; ed era voce essere secretamente a parte della congiura Gugliemo Ventimiglia barone di Ciminna. Accozzaronsi costoro in un podere di Antonio Ventimiglia presso la Margana. Ivi Squarcialupo dieintendere agli altri, essere stati messi a morte in Bruselles i conti di Golesano e di Cammarata per consiglio de’ magistrati di Palermo, esagerò l’oppressione della Sicilia, e conchiuse non dover eglino pigliar le armi contro il re, o ’l Pignatelli, ma contro i giudici della gran corte, i maestri razionali, l’avvocato fiscale e tutti coloro, che avean parteggiato e parteggiavan tuttavia per Moncada. Tutti fecero plauso e dichiararonsi pronti, e fu designato per l’esecuzione il giorno 24 di luglio, in cui doveasi celebrare la festa di santa Cristina in Palermo; e perchè il luogotenente con tutto il sacro consiglio doveasi recare in quel giorno al duomo, fu deciso di trucidare nel tempio stesso tutti i magistrati.

Tale cospirazione era giunta a notizia di molti; eppure il luogotenente e coloro che stavano al governo della città, sia che avessero ignorato la cosa, sia che l’avessero posto in negghienza, non curavano di accrescere la forza pubblica, di custodire le porte della città o dare altrettale provvedimento. Giunto finalmente il fatal giorno, un frate francescano, cui avea in confessione rivelata la congiura un fratello del di Benedetto, corse ad avvertirne il Pignatelli, il quale avuto quell’avviso, si chiuse nel suo palazzo col sacro consiglio. Il barone di Misilindino, capitano della città, fuggì, lasciando a far le sue veci Francesco Alliata suo giudice. Così la città restò affatto abbandonata a quel pugno di ribaldi. I congiurati in questo, entrati in città, si riunirono nella chiesa oggi diruta di S. Giacomo la Mazzara, ed ivi confortati all’impresa dallo Squarcialupo, nell’ora postarecarono al duomo: non vistovi alcuna delle vittime designate, pieni di furore s’avventarono ad un Paolo Cagio, archivario della città, uomo dabbene, che era per adorare la santa, e lo trucidarono nel tempio stesso. Venutine fuori per lo cassero, che allora diceasi via marmorea, si diressero al palazzo del luogotenente (l’ostiere).

Lo storico Fazzello dell’età allora di diciannove anni, inteso quel subuglio, venne fuori con un compagno del suo convento e nella piazza della Loggia vide lo Squarcialupo, il Settimo, lo Spatafora e gli altri, che in tutto erano da ventidue persone; i capi a cavallo, gli altri a piedi. Venivano da per tutto invitando la gente a seguirli: ma nissuno non li seguiva «Io stupiva» dic’egli «dell’audacia di costoro, che in sì poco numero osavano invadere una città popolosa, e molto più della milensaggine del Pignatelli

Giunti presso la chiesa della Catena, Squarcialupo o sopraffatto dal pericolo della mal consigliata impresa; o scuorato dal non vedersi seguito, com’ei sperava, dal popolo, cadde svenuto: ma riconfortato con aceto da’ suoi compagni, ripreso animo, si diresse verso le ventidue ore al palazzo del luogotenente. Ivi si diede a chiamarlo ad alta voce ed a querelarsi della supposta morte dei conti di Golesano e di Cammarata, chiedendo i magistrati, che dicea di esserne autori, per farne vendetta. Pignatelli, fattosi ad una finestra, cominciò a dirgli di darsi pace , che i conti erano vivi: ma come quelli non s’acquetarono per ciò, ei si ritrasse. Sulle tre ore della sera la plebe, visto che nessuno veniva fuori a reprimere quei sediziosi, tratta dal desiderio di vendicare la morte de’ conti, ed anche più vaga di rapina, fece finalmente anche essa bella la piazza; e incese o rotte le porte del palazzo, tutta la ciurma entrò. Senza molestare il luogotenente, ne lo trassero fuori e lo condussero al palazzo reale; ma Niccolò Cannarella da Palazzolo e Gian-Tommaso Paternò da Catania, giudici della gran corte, uccisi e poi denudati, furono buttati giù dalle finestre, e’ loro cadaveri vennero accolti sulle punte delle picche da coloro di fuori. Gerardo Bonanno maestro razionale, soprappreso mentre fuggiva travestito da contadino, evirato prima, fu poi messo a morte. Il domani Priamo Capoccio da Marsala, avvocato fiscale, tratto dalla casa d’una donnicciuola, ove eragli venuto fatto d’appiattarsi, fu trascinato per le strade della città e finalmente tutto rotto e ferito fu scannato.

Era innanzi ad ogni altro in odio a costoro Blasco Lanza da Catania insigne giureconsulto, per essere stato amico di Moncada ed averlo accompagnato e difeso in presenza del re. Corsero al convento di S. Domenico, ove credeano di essersi ascoso; frugarono peluoghi più reconditi e fin per le sepolture, e, non trovatolo, diedero il sacco al convento, ove venne nelle loro mani la ricca supellettile di Ugone Moncada, che egli avea dato a conservare a quel priore. Passati alla casa del Lanza, vi misero fuoco, e ne fu ridotta in cenere la copiosa biblioteca.

Saputisi nell’interno del regno i disordini di Palermo, molte città ne seguiron l’esempio. In Catania le due contrarie fazioni di Geronimo Guerrero e di Francesco Paternò, barone di Raddusa, venute alle mani, trassero la città tutta in iscompiglio. Non minore fu la pugna in Girgenti tra Pietro Montaperto e Baldassare Naselli barone di Comiso. Trapani fu scissa ed insanguinata dalla contesa tra Simone Sanclemente e Giacomo Fardella. Ed i Terminesi, che aveano particolar malanimo contro Blasco Lanza, levatisi in capo, corsero a saccheggiare i campi e le case di Trabia, che al Lanza appartenea. Lo stato di Palermo poi era lacrimevole: non più magistrati; non più leggi; non più religione; non più freno a’ delitti; non più ordine sociale. Tutta la gente di scarriera, unita a Squarcialupo, disponea a man salva della vita e de’ beni altrui. Il luogotenente sopraffatto dalla paura non seppe far altro che chiamare il barone di Ciminna, che diceasi esser consorto di Squarcialupo, e dargli il governo della città. Ma quel riparo, ch’ei dar non seppe, altri lo diede.

V.Francesco e Niccolò Beccadelli di Bologna congiunti dello Squarcialupo, Pompilio Imperatore, Pietro Afflitto, Alfonso Saladino, Geronimo Imbonetto, tutti patrizî, stanchi di tanto disordine, presero fra loro consiglio di disfarsi di Squarcialupo e degli altri sediziosi: ne proposero il modo al luogotenente, chiedendogli di additar loro le persone di sua fiducia, cui potessero unirsi. Il buon uomo rispose non conoscerne alcuna. Eglino stessi proposero il barone di Ciminna (forse perchè indettati col medesimo). Maravigliò a ciò il Pignatelli, che sapea esser quel barone tutto di Squarcialupo; ma assicurato da quelli, chiamollo a se, diegli l’incarico, e quello accettollo. Si finsero costoro amici dei congiurati, proposero loro di stabilire d’accordo col luogotenente alcuni regolamenti per la riforma del governo, e coloro aderirono; chiestone Pignatelli, mostrò consentirlo. Fu stabilito il giorno 8 di settembre, per trovarsi tutti a quell’oggetto nella chiesa dell’Annunziata posta tra ’l convento di santa Cita e ’l castello a mare. Ma il Pignatelli non ebbe cuore di trovarsi presente alla scena, che dovea seguire. La notte antecedente a quel giorno, tutto solo imbarcatosi fuggì a Messina. Sul fare del nuovo giorno saputosi la partenza del luogotenente, Squarcialupo cominciò a dargli pubblicamente del fedifrago, e volle ciò malgrado, che il congresso avesse luogo.

Erano già nella chiesa dell’Annunziata Squarcialupo, Rosa, di Benedetto, molti plebei da una parte; il barone di Ciminna, Niccolò di Bologna, l’Imperatore, il Saladino, l’Imbonetto, l’Afflitto dall’altra. Mentre stavasi ad aspettare il Settimo, lo Spadafora, il Barresi e gli altri caporali della sedizione, Giacomo Crivello da Caccamo, sacerdote domenicano del vicino convento di santa Cita, venne fuori, per dir messa; Squarcialupo e i suoi accostaronsi all’altare e s’inginocchiarono, il barone di Ciminna e gli altri, non a caso, lor si misero dietro. Non appena era cominciata la messa, che il barone fece d’occhio a’ compagni. Niccolò di Bologna il primo, tratta la spada ne passò fuor fuori il di Benedetto; Pompilio Imperatore avventossi a Squarcialupo, e trovatolo coperto da un giaco sotto le vesti, lo scannò col pugnale; Rosa mori per mani di Afflitto. Uccisi quei tre caporioni, nissuno di coloro, ch’erano in chiesa, osò pigliarne le parti. Il barone di Ciminna, salito a cavallo, accompagnato dagli altri, cominciò a gridare per le strade, che tutti i cittadini pigliassero le armi pel re, per la patria, contro i ribelli, i traditori, i ladroni. Divulgata in un attimo per la città la morte di Squarcialupo e degli altri due, i buoni cittadini fecero cuore: degli altri sediziosi, tranne Barresi, che fu preso, qual fuggì, qual s’ascose. La tranquillità fu tosto ristabilita. Solo toccò a pagar lo scotto dell’altrui delitto al povero frate, che dicea messa, il quale fu preso da tale battisoffia, che non potè finir la messa, ed ivi a pochi giorni si mori.

VI. — Il conte di Monteleone, comechè fosse stato avvisato dal barone di Ciminna della felice riuscita dell’impresa e della tranquillità già ristabilita in Palermo, non ebbe cuore di venir fuori da Messina. Quando poi dal vicerè di Napoli gli furono spediti mille cavalli e millecinquecento fanti, tornò ammazzasette. Recossi prima in Randazzo e fe’ impiccare i capi di quella sedizione. Venuto in Catania, volle chiusa, prima d’entrare, la porta della città, che s’aprì dopo avervi dato tre colpi colla sua spada, per far mostra d’entrarvi di viva forza (vedi buffone!). Entrato in città, fece decapitare tre di que’ cittadini, ventidue ne fece morire sulle forche, molti ne bandì. Venuto poi in Palermo, fece mozzare il capo a Francesco Barresi, a Bartolomeo Squarcialupo, fratello di Gian-Luca, ed a Giovanni suo nipote, e le case loro furono spianate; trentatrè de’ plebei furono impiccati; i fanti e cavalieri spagnuoli, venuti col luogotenente, furon mandati a dimorare per più mesi in Termini: ciò fu lieve gastigo; chè in quell’età que’ soldati mal pagati, vivean per lo più di ruba; tanto che passata poi quella truppa in Marsala, lasciaron la città così impoverita, che re Carlo in parte ne ristorò il danno, in parte ne la compensò con privilegî, che le concesse. Quei nobili palermitani, che s’eran adoprati a sedare il tumulto, furon dal re premiati; il conte di Monteleone, che men lo meritava, n’ebbe la conferma della carica col più onorevole titolo di vicerè.

Quetati que’ disturbi, convocò il vicerè il parlamento in Palermo addì 6 di novembre del 1518. Ivi il conte di Monteleone, come procuratore del re, ricevè l’omaggio della nazione, e prestò il giuramento di osservare le leggi del regno. Il parlamento poi offrì al re il donativo di trecentomila fiorini, e per evitare in avvenire gli stessi scandali accaduti nel governo del Moncada, propose, che quindi innanzi colui, che si fosse trovato alla morte del re a reggere il regno, qual si fosse il suo titolo, continuasse nel governo, finchè non sia palese la volontà del nuovo re. Ciò ebbe la real sanzione. Chiese poi il parlamento ed ottenne la grazia del ritorno de’ marchesi di Geraci e di Licodia e de’ conti di Golesano e di Cammarata, dei quali il primo morì poi valorosamente pugnando nella battaglia di Pavia, l’altro era serbato a più reo destino.

Morto Massimiliano imperatore di Germania, Carlo re di Spagna e di Sicilia e Francesco re di Francia, giovani entrambi, entrambi potenti, di grand’animo entrambi, pretesero l’impero. Carlo la vinse, e nel maggio del 1520 fu coronato imperatore in Aquisgrana. Fu questa la fatale scintilla, dalla quale fu desto quel vasto incendio di guerra, che, con poche interruzioni, bastò finchè vissero i due monarchi. Al primo muover delle armi corse rischio re Carlo di perdere il regno di Sicilia, come e quando men si aspettava.

Gian-Vincenzo, Federigo e Francesco della nobile famiglia Imperatore, banditi da Sicilia, i primi due per avere avuta alcuna parte nella congiura di Squarcialupo, l’altro per aver ferito un Giovanni Cangialosi, eransi ridotti in Roma, ove stanziava Cesare loro fratello famigliare del cardinale Pompeo Colonna, per lo cui mezzo speravano ottenere il perdono e ’l permesso di rimpatriare. Non ottenutolo, cominciarono a mulinare di ribellar la Sicilia, e si diedero a tener pratica intorno a ciò con Marco Antonio Colonna, generale del re francese, il cui ajuto era loro necessario. Il Colonna altamente approvò il loro pensiere, ne scrisse al re Francesco; e questo rispose, che fornito il riacquisto di Milano, che era per tentare, avrebbe spedita una poderosa armata in Sicilia. Su tali speranze quei quattro fratelli si diedero a trovar compagni, e trassero nella congiura Niccolò Leofante tesoriere del regno, Federigo e Geronimo suoi fratelli, Giovanni Sanfilippo, Giacomo Spadafora da Messina, un Gaspare Pepe, plebeo, da Girgenti, il conte di Cammarata, Pieruccio Gioeni da Catania, l’altro Federigo Abbatellis barone di Cefalà. Lo stesso papa Leone X erasi tramesso in quell’affare, e Francesco Imperatore nel 1522 era ito in Francia, per trattar di presenza con quel re, portando seco lettere del cardinal di Volterra, nelle quali caldamente raccomandava al re Francesco quella persona e quell’affare.

Era intendimento de’ congiurati di levare a sommossa il popolo di Palermo al primo apparire dell’armata francese ne’ mari di Sicilia e dare addosso a’ soldati spagnuoli; onde il Francese, quasi senza trarre la spada, avrebbe potuto venir signore del regno. Un caso ruppe le fila della congiura.

Il conte di Monteleone vicerè avea convocato il parlamento in Palermo, per chiedere straordinarî sussidî. Il conte di Cammarata, il barone di Cefalà ed i Leofanti, per rendersi cari al popolo, onde servirsene poi di strumento, proposero, che que’ sussidî dovessero solo pagarsi da’ prelati e da’ baroni, e ne fosse il popolo esente. Inciprignirono a quella proposta i baroni e i prelati; onde il vicerè trasferì il parlamento in Messina, ove la voce di quel conte non potea prevalere: ma il conte vi si recò con grande accompagnamento d’armati. Ciò parve a tutti, e lo era, un’offesa alla legge ed alla pubblica autorità; per che il vicerè, fattolo arrestare, lo mandò di presente in Napoli, per essere custodito in quelle carceri.

Comechè quell’arresto nulla avesse avuto che fare colla congiura, stimolò i congiurati ad affrettare il passo; e però Francesco Imperatore da Roma, ove trovavasi, mosse per Parigi, onde sollecitare il soccorso di quel re. Prima di partire, imprudentemente svelò l’oggetto del suo viaggio ad un Pietro Augello, che lo disse a Cesare Grifeo nobile di Sciacca, che in Roma era, il quale corse a palesar la cosa al duca di Sessa, ambasciatore imperiale presso la romana corte. Fu corso dietro a colui; e soprappresolo a Castelnuovo, non fu mestieri di tormenti, per fargli palesare fil filo la congiura e tutte le persone, che vi avean preso parte; senzachè le lettere, che avea indosso, abbastanza lo mostravano. Ben custodito, il duca di Sessa lo mandò al vicerè di Napoli, per rimetterlo al conte di Monteleone, che non avea pur sospetto della congiura. Pure l’Imperatore ebbe modo di avvertire Claudio figliuol naturale di uno de’ suoi fratelli di recarsi di volo in Sicilia a far sapere agli altri il suo arresto: e quello, salito sur una barchetta, ebbe vento tanto prospero, che giunse in Palermo cinque giorni prima che il vicerè avesse avuto la notizia dell’accaduto; onde gli altri congiurati ebbero tempo di nascondersi. Ma venuto Francesco in Messina, l’un dopo l’altro furon tutti presi, tranne Pieruccio Gioeni e Geronimo Leofante. Federigo e Giovanni Imperatore, il Sanfilippo e lo Spadafora furono nel giugno del 1523 impiccati e poi squartati in Messina. Lo stesso fine fecero ivi a poco in Milazzo il conte di Cammarata, Niccolò Leofante e Francesco Imperatore; e finalmente fu fatto morir sulle forche in Patti il barone di Cefalà.

Pieruccio Gioeni, il quale era ancora adolescente, erasi nascosto nel castello di Francofonte, di cui era signore Ferdinando Moncada; marito di una sua sorella. Dopo diciotto mesi Giambattista Barresi barone di Militello suo zio aveagli procurato un’imbarco per andar fuori del regno: ma intrapreso in Augusta, mentre era per imbarcarsi, fu stretto in carcere. Il Moncada, per avergli dato ricetto, il barone di Militello, per averne procurata la fuga, furono carcerati del pari e poi banditi. Egli fu crudelmente martoriato, ma pure un’ette non iscappò dalla sua bocca, e al fin de’ fatti ne uscì immune, riportando somma lode d’avere avuto e’ solo imberbe com’era, fortezza da reggere alla tortura.





582 V’erano intorno a ciò due prammatiche del re Giovanni. T. I, tit. 1, De off. proregis.



583 Intervengono in quell’atto il marchese di Geraci, il marchese di Licodia, il conte di Cammarata, il conte di S. Marco, il conte di Golisano, il barone di Pietraperzia, il barone di Castelvetrano, il barone di Militello, il barone di Ciminna, il barone di Regalmuto, tanto nomine proprio, quanto come procuratore di molti altri baroni restati in Palermo, i quali dichiararono, che volendo evitare gli scandali, omicidii ed altri danni, s’erano partiti il giorno avanti da Palermo, e venuti in Termini vi celebraron l’esequie del morto re ed invocarono ad alta voce il nome della regina Giovanna e del principe di lei figliuolo. Sono testimoni li magnifici Angelo de Serio, capitano; Niccolò Bonafede, Giovanni Ferzano e Vincenzo di Vita, giurati; il ven. presbitero Bartolomeo di Matteo vice arciprete e vicario; Antonino Romano secreto; Antonio di Vitali vice portolano.



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