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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XLIII. I. Caso di Sciacca. — II. Afflizioni del regno. — III. Guerra d’Affrica. Carlo viene in Sicilia. — IV. Miserie, che si cercano riparare malamente. Dazio sulla tratta. — V. Altre miserie. — VI. Stato del regno e morte di Carlo. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Sei anni erano scorsi appena, da che era stata scoperta e punita quella congiura, quando un caso atrocissimo accadde nella città di Sciacca; il quale, comechè quella sola città ne fossa stata il teatro ed avesse avuto origine dalla privata nimicizia di due potenti famiglie, pure merita un luogo negli annali di Sicilia, perchè serve a far conoscere i costumi di quell’età. Eransi per oltre un secolo tramandati di generazione in generazione gli odî tra la famiglia Perollo e quella de’ Luna. Prima cagione ne era stata l’aver Giovanni Perollo preteso di menare in moglie Margherita, figliuola di Niccolò Peralta conte di Caltabellotta ed erede del ricchissimo suo patrimonio: ed avea ferma speranza di conseguirla, non solo perchè la ragazza e la madre di lei mostravansi inclinate al partito, ma per esser egli un di coloro, il cui assenso, in forza del testamento del conte, era necessario al maritaggio di lei. Ma re Martino, per beneficare il conte Artale di Luna suo congiunto, che avealo seguito in Sicilia, dispensando colla sua autorità alla disposizione dell’ultimo conte, avuto il consenso della ragazza e della madre, aveala fatta maritare al Luna. Parve al Perollo d’essergli caduto il presente sull’uscio, nè mai più potè sgozzarla. Venuto repentinamente a morte nel 1412 il conte di Caltabellotta, corse voce d’esser morto di veleno fattogli apprestare dal Perollo. Ivi a sei anni anche costui si morì. Antonio di Luna e Pietro Perollo, eredi degli odî paterni, affettavano di vendicare l’uno l’affronto, l’altro la morte del padre; nè mancavano all’uno ed all’altro rei strumenti di vendetta; dachè in quei tempi disordinati era costume dei grandi di avere sempre al loro seguito una mano di sgherri, malfattori o domestici, che in quella età era tutt’uno; ed oltracciò era il Perollo ereditario signore del vasto e forte castello di Sciacca, ove potea a senno suo tenere armi ed armati in gran copia; ed allo stesso uso destinava l’altro il munito suo castello di Caltabellotta non guari discosto da quella città. Ivi erasi il conte ritratto, ed indi segretamente spediva i suoi sicarî, per mettere a morte il Perollo: ma questi era meglio servito dalla sua masnada; chè degli assassini spediti contro di lui, altri sparivano, senza saper come, ed altri intimoriti cercaron salvezza col confessare la loro missione. Chiese allora il Perollo soccorso ad Arrigo Ventimiglia marchese di Geraci suo congiunto, dal quale gli furono spediti trecento cavalli, che egli secretamente introdusse nel suo castello.
Era l’anno 1455; avvicinavasi il di sei d’aprile nel qual giorno conduceasi con gran processione per le strade di Sciacca una delle spine della corona di N. Signore: e perchè quella santa spina era stata un dono fatto del conte Guglielmo Peralta ad un monistero di Sciacca, da lui eretto e riccamente dotato, tutti i conti di Caltabellotta v’intervenivano con gran fasto. Venuto da Caltabellotta il conte Antonio col solito codazzo d’armigeri vestiti di ricche assise, fu cogli altri alla processione. Ogni cosa fu tranquilla, finchè sul cader del giorno la processione non giunse al castello del Perollo. Comechè ornate di ricche arazzerie, le finestre ne eran chiuse, ma apertesi in un attimo, ne vennero fuori i bravi del Perollo, ed a furia d’archibugiate uccisero o feriron molti del seguito del conte, e gli altri si volsero in fuga. Venuto sulla strada in quel momento Pietro Perollo, assalì colla spada nuda il conte, il quale cominciò con gran cuore a difendersi, ma sdrucciolato, il nemico gli fu sopra, e postogli un ginocchio sul ventre, non cessò di figgergli e rifiggergli il pugnale nel petto e nel volto, finchè non die’ più segno di vita. Chiamata poi a raccolta la sua gente, corse a dar la spogliazza alla casa di lui. Fatto notte, svaligiato il suo castello di quanto v’era di prezioso, mandò la moglie ed i figli a ricovrarsi presso il barone di Partanna suo cugino, ed egli rifuggì nel castello di Geraci.
Nella notte stessa, quando tutto era già queto, alcuni amici del conte recaronsi, ov’ei giacea, e lo trassero in una casa vicina, per rendergli il pietoso officio di onorevole sepoltura: ma nel lavargli i grumi di sangue, di cui tutto era cosperso, s’avvidero che il cuore gli palpitava ancora: per che datisi a curarlo, lor venne fatto di richiamarlo in vita.
Avea il vicerè Lupo Ximenes d’Urrea, saputo appena il caso, ordinato al tribunale della gran corte di compilare il processo al Perollo e ai suoi compagni, onde averne esemplare gastigo. Ma il conte più rabbioso di un toro assillito volea una vendetta, la volea clamorosa, la volea senza rispetto, la volea di sua mano: e però non sì tosto si riebbe, che, raccolta in Caltabellotta una numerosa masnada, venne ad assalire il castello di Sciacca, e non trovatovi il Perollo, ammazzò quanti v’erano, mise tutto a sacco ed a ruba; lo stesso fece nella casa di tutti coloro, ch’eran di lui congiunti od amici, e da per tutto metteva a morte qualunque, reo od innocente, che a lui si parava innanzi; onde più di cento persone caddero di sua mano. Nè pago di ciò, accatastate in tutte quelle case gran quantità di legne, egli stesso vi mise fuoco: onde, non che quelle, ma assai altre case di quella città furon preda delle fiamme. Pareggiata così la partita fra que’ due nemici, re Alfonso li bandì entrambi e ne confiscò i beni: ma poi presso a morire fe’ loro la grazia del ritorno e della restituzione de’ beni. Pure nè quella punizione, nè lungo volger d’anni poterono estinguere l’odio reciproco di quelle famiglie; anzi la nimicizia venne per varî incidenti accrescendosi, finchè nel 1529 produsse nuova e più sanguinosa catastrofe.
Era allora la città di Sciacca assai popolosa, e molte nobilissime famiglie colà stanziavano, fra le quali primeggiavano quelle due. Giovanni conte di Luna, signore di Caltabellotta, Bivona, Sclafani, Caltavuturo ed altri ricchi feudi, era stato da re Carlo scelto a presidente del regno dopo l’espulsione di Ugone Moncada, ed era poi restato in Palermo a menar vita pacifica. Sigismondo suo figliuolo dimorava in Sciacca. Capo della famiglia de’ Perollo, che sei allora se ne contavano, era Giacomo, barone di Pandolfina e di Castellammare. Allo splendore del sangue ed alle dovizie univa costui tutte le qualità, per rendere a se divota la plebe: ergeva chiese, ristorava monisteri, sovveniva vedove, provvedea d’onesto ritiro le vergini, soccorrea largamente i poveri e gli ospedali: ma al tempo stesso gli assassini, i malfattori, i ladri e tutti coloro, che volean sottrarsi al rigore delle leggi, trovavano un sicuro ricetto nel suo castello. E ciò maggiormente venivagli allora fatto, per esser egli stretto di amicizia col duca di Monteleone (584), contratta sin dalla prima età, essendo stati assieme paggi nella corte di Madrid. Indi avveniva, che la città di Sciacca era divenuta peggio che un suo vassallaggio; rimovea a senno suo i magistrati, ed altri ne sostituiva, spesso senz’altro merito che la sua protezione; metteva in carcere o ne levava chiunque fosse suo grado; e se alcuno osava, non che risentirsi, disapprovare la sua condotta, ne riportava o un fregio sul viso o un carico di legnate od anche la morte; nè le persone più nobili andavano esenti da tali soprammani. Indi avveniva, che costui veniva sempre fuori del suo castello seguito da numerosa caterva di nobili, plebei, ricchi, poveri, buoni e tristi.
Pur comechè tutto ciò molta dipendenza gli procacciava in quella città, non lasciava d’esser grave a tutti i nobili, e più che altri al conte Sigismondo di Luna, il quale oltracciò veniva di continuo aizzato da tutti coloro, che mal pativano l’arroganza del Perollo ed a lui offrivansi pronti ad accomunar le forze, per opprimerlo. Laonde venne a ribollire nel suo petto l’odio avito; tanto che non solo le ree azioni del Perollo, ma il suo fasto, la generosità sua, da cui ei teneasi oscurato, erano stilettate al suo cuore. E il suo mal’animo venne ad accrescersi per un caso avvenuto in que’ giorni.
Erano in que’ dì i luoghi marittimi di Sicilia mal sicuri per le continue depredazioni dei corsali affricani: uno di questi, accostatosi alle spiagge dì Palermo, prese terra, assalì e prese in una sua villa il barone di Solanto e dieci gentiluomini di sua compagnia, Passato poi ne’ mari di Sciacca, fattosi presso alla città, inalberò la bandiera di pace e mandò ad offrire dì trattare il riscatto di que’ prigioni. Il conte di Luna con somma generosità recossi il primo a quel corsale con danari, per riscattar quel barone: ma l’affricano non volle contentarsi dell’offerta: abbassata la bandiera e levate le ancore, già si disponeva a partire, e ’l conte non senza rossore ritornò al lido, ove stava ad aspettarlo ansioso tutto il popolo. Il barone Perollo allora nulla curando avere il corsale tolta la bandiera di sicurezza, caricò alcune barche di bestiami, pane, vino, polli, neve, ortaggi, frutte e finissimi pastumi in gran copia e mandoglieli in dono ed egli stesso, salito sur una feluca con somma splendidezza ornata, avvicinossi ai legni nemici. Tale generosità, tal confidenza di venire a trovarlo a rischio di restar preso, vinsero l’animo dell’Affricano, il quale, non solo mise in libertà il barone di Solanto e’ suoi compagni, senza riscatto, ma dichiarò, che indi innanzi in grazia del barone Perollo mai più avrebbe corseggiato nei mari di Sciacca.
Restò cruccioso il conte di Luna di avere il suo nemico spuntato meglio di lui quell’impegno. Già la nimicizia fra costoro era venuta al colmo; ed ognun di loro ragranellava sgherri per lo sospetto che si aveano. Un di que’ giorni il conte tutto solo veniva fuori di Sciacca; gli si parò innanzi il Perollo col solito suo seguito. Non volle questi assalirlo, chè lo tenne a viltà, ma volto a’ suoi disse ad alta voce, sì che l’altro l’intese «dove va questo pazzo?» e in questo dire tutta quella ciurma si die’ a sbeffeggiare il conte con urli, con fischi, con archibugiate tratte in aria a modo di trionfo.
Perdè la scrima a quell’affronto il conte, e tutto rabbioso corse a Caltabellotta, ove chiamò tutti i suoi amici. Oltre i nobili di Sciacca, che erano dalla sua, vi vennero in suo ajuto Pietro Gilberto da Palermo, Michele Impugiades con due suoi fratelli da Girgenti, Pietro e Francesco Ugo da Termini, Francesco Sancitta da Salemi, ognuno col suo seguito. Fece venire da Bivona una numerosa masnada di bravi, e prese al suo servizio una banda di Greci facinorosi, capitanati da un Giorgio Comito, uomo di pessima vita. Ebbe così al suo comando quattrocento fanti e trecento cavalli. Ciò non di manco non osava egli assalire a fronte scoperta il Perollo in una città, che contava allora oltre a trentamila abitanti a lui devoti, ove abitava un castello ben provveduto d’armi e di gente. Per lo che con cento di quei bravi i più risoluti venne notte tempo a nascondersi in una casa di Sciacca, cercando di cogliere alcun destro d’assalire il suo nemico alla sprovveduta. Ma il Perollo, il quale per le sue spie era a giorno di tutti gli andamenti di lui, finse d’essergli sopraggiunto un grave dolor di fianco, per cui non potea venir fuori del suo castello; ed intanto preparavasi a respinger l’assalto nel caso che quello lo avesse tentato. Alcuni de’ suoi bravi, che osarono una di quelle sere uscire dal castello, furono messi a morte, e le loro teste vennero da’ seguaci del conte condotte per la città sulle picche.
Il barone Perollo scrisse allora al vicerè per chiedergli soccorso; e questi destinò capitan di armi Girolamo Statella barone di Mongelino, per quetare que’ moti e punire i rei di quei delitti. Lo Statella accompagnato da consultori fiscali ed altra gente di corte e da una banda d’armati, venne in Isciacca. Ma non per questo il Luna si rimosse un pelo dal suo crudele proponimento. Per che il Perollo volle mandare Federigo suo figliuolo primogenito a chiedere maggiori soccorsi di gente al vicerè, e per sua sicurezza lo fece scortare da sessanta de’ suoi armigeri a cavallo. Saputo il Luna la partenza di coloro, credendo d’esser così diminuita la guarnigione del castello, decise d’assalirlo prima che giungessero i chiesti soccorsi da Messina. La sera del 19 di luglio del 1529, riunite tutte le sue forze, entrò in città senza incontrare resistenza, e se ne fece padrone. Federigo Perollo, capitano della città, inabile a resistere, corse a Partanna, per chieder genti a quel barone. Due de’ giurati, ch’eran della fazione del Luna, trassero gli altri due nel consiglio di non tramettersi in tale affare: così la città senza reggitori restò in balìa del conte, il quale il domane assalì la casa, ove abitava il barone di Mongelino, la cui gente fece resistenza tale, che nè pur uno non restò in vita, tutti i suoi officiali furono uccisi, egli stesso, dopo di essersi con gran coraggio difeso, salito sur una torre, cominciò in nome del re a chiamar l’ajuto de’ magistrati e del popolo: ma nessuno osò mostrare il viso: sopraggiunti poi gli assalitori, lo misero a morte e ne buttarono il cadavere giù dai merli.
Ottenuto questo trionfo, rivolse il conte le sue forze ad assediare il castello, ove eransi ritratti tutti i Perolli, e coloro, che per loro teneansi. L’impresa era aspra e difficile; chè quel castello era munito di cannoni e d’altre armi d’ogni maniera. Il barone avea facoltà di tenervi dugento uomini di guarnigione, ed in quella occasione aveane aumentato assai il numero; e tutti i suoi congiunti, che comandavano quella gente, eran prodi. Quattro volte tentarono gli assalitori di scalarne le mura e le torri, ma vi perderono invano la vita molti anche de’ più distinti. Non miglior frutto fecero il secondo giorno. Disperato finalmente il conte di Luna, trasse dai bastioni della città otto cannoni e cominciò a battere le mura e le torri del castello, che sul far della sera erano di già atterrate. Immensa fu la strage della gente del Perollo, in parte uccisa dalle armi, in parte sepolta sotto le ruine. Coloro, che restavano, erano già scuorati. Il barone allora fattosi collare da un lato del castello, ove non erano assalitori, fuggì. Preso il castello, entrovvi furioso il conte, per aver nelle mani il suo nemico. La baronessa con le mogli e figliuoli degli altri congiunti e partigiani del marito eransi tutte lacrimose ritratte in una sala; all’annunzio, che il conte s’appressava, ne fece aprir le porte. Era essa della nobile famiglia Moncada, sorella del barone di Francofonte, di cui un’altra sorella era stata sposa dell’avo del conte. Questi alla vista di tutte quelle dame, deposte le ire, mostrò tutte le cortesie di cavaliere. Gittata la spada, trattosi l’elmo, accostossi rispettoso alla zia, le baciò le mani, pianse con essa sulle sue sventure, e per sottrar lei e tutte le altre da ogni pericolo, dato braccio alla baronessa, le condusse in un vicino monistero. Ma tornatone, ripigliò la ferocia e diessi a frugare, per rinvenire il barone, e non trovatolo, infelloniva. Quello erasi nascosto nella casa di un Luca Parisi; se ne era avvisto un Antonello Palermo, il quale, comechè il barone lo avesse largamente regalato per tacere, corse ad avvertire il conte. Speditavi una mano de’ suoi, vi fu preso, e mentre era condotto in presenza del conte, alcuni della fazione di costui, temendo, non si fossero riconciliati, lo misero a morte. Il conte ne fu lieto; ed ordinò, che il sanguinoso cadavere legato alla coda d’un cavallo fosse strascinato per le strade della città, ed egli stesso salito a cavallo, tutto coperto d’armi, tranne la testa, volle tener dietro a quello spettacolo atroce, accompagnato dai gentiluomini della sua fazione, seguito da tutta la feroce bordaglia, che sgavazzava, suonando trombe e tamburi, tirando archibugiate e mettendo urli festivi. Eppure costui non guari prima tanto generoso e cortese erasi mostrato colle dame. Quale strano impasto di contrarî affetti è mai il cuor dell’uomo!
Mentre quella sfrenata canaglia stavasi a saccheggiare ed incendiar le case dei veri o supposti nemici ed empiva la misera città di stragi, di rapine, di stupri e di delitti, i Perolli, che coll’infelice barone erano scappati dal castello, vennero in Partanna, ove trovarono, che quel barone avea già in pronto trecento uomini d’armi, ed altra gente aveano spedita in loro ajuto il barone di Francofonte e ’l marchese di Geraci. Accozzossi a tal comitiva Federigo Perollo già reduce da Messina, che seco menava dugento fanti ed altrettanti cavalli spagnuoli datigli dal vicerè. Il conte Sigismondo, saputo l’avvicinamento di costoro, non tenendosi sicuro in quella città, andò co’ suoi ad afforzarsi in Bivona. Entrati poi i Perolli, si ricattarono con altri incendî, altre stragi ed altre rapine.
In questo il vicerè, saputo l’orrendo caso, destinò con pieno podere due giudici della gran corte, per compilare il processo e punire il conte e’ suoi complici, accompagnandoli con dugento cavalleggieri. Recatisi costoro, ai quali vennero ad unirsi colle loro forze i Perolli, ad assediare Bivona, il conte non istette ad aspettar l’attacco, ma colla moglie e’ figliuoli fuggì dal regno. Allora alle stragi illegali successero le carnificine e le persecuzioni giudiziarie. Venuti i commissarî regî in Bivona, vi impiccarono quanti degli sgherri del conte poterono aver nelle mani. A Sciacca poi ebbero luogo più numerosi gastighi. Dichiarati i giurati complici del Luna due ebbero mozza la testa e due stettero più anni prigioni; molti dei plebei perderon la vita sulle forche; di tutti i nobili, che avean seguita quella fazione, altri furon condannati a perpetuo carcere, altri banditi, i più rei fuggirono; fu imprigionato in Palermo e mandato in un castello di Messina il vecchio duca di Bivona, padre del conte Sigismondo, il quale, comechè non si fosse trovato presente al caso, pure si sospettava d’aver favorito l’impresa del figlio: la stessa città di Sciacca fu condannata ad una grossa taglia, per non avere il popolo fatto argine all’impresa del conte ed aver tollerato, che si fossero tolti i cannoni dai baluardi; il conte stesso fu dichiarato ribelle e i beni della sua famiglia furono confiscati. Tutti quei masnadieri poi, che lo avean seguito ed all’ombra delle sue protezioni aveano fino allora scansata la pena degli antichi misfatti, presi in tutti i siti, ov’eransi ritratti, furono impiccati e squartati, e le teste e i membri loro furono appesi per le città e per le campagne; onde si videro lunga pezza in Sicilia le luttuose vestigia di quel tragico avvenimento, la cui fama suona ancora col nome di Caso di Sciacca, ito a proverbio, allorchè si vuol disegnare un gran che.
Il conte, causa di tanti mali, fuggito da Sicilia recossi in Roma. Era sua moglie de’ Salviati di Toscana, e la madre era de’ Medici, sorella di papa Clemente VII, per lo cui mezzo sperava ottener da re Carlo il perdono. Nel febbraro del 1530 trovandosi papa Clemente in Bologna col re, gli chiese la grazia del reo: ma Carlo fu inesorabile; solo alle replicate preghiere del pontefice, rimise in libertà il padre e restituì i beni ai figliuoli, a patto che prima ne fossero ristorati i danni cagionati alle case de’ Perolli e degli altri. Trecentomila scudi fu calcolato il guasto del solo castello, oltre a quello delle altre case. Per Sigismondo poi dichiarò, che ovunque lo avesse colto, la sua testa sarebbe caduta per mani del boja. Quell’infelice disperato di perdono, agitato da’ rimorsi, buttossi nel Tevere e vi finì miseramente i giorni suoi.
II. — Mentre in quell’angolo di Sicilia tali sanguinosi fatti avean luogo, il regno tutto era afflitto, non che dalle continue depredazioni dei corsali affricani, ma dal timore di una invasione delle armi ottomane; che il re Francesco di Francia, per divertire le forze di re Carlo, avea stretto alleanza con Solimano soprannominato il magnifico, imperatore di Costantinopoli, il quale, dopo d’essersi insignorito dell’isola dì Rodi, cacciatone i prodi cavalieri dell’ordine di san Giovanni di Gerusalemme minacciava la Sicilia, Napoli e tutte le spiagge del Mediterraneo. Re Carlo, conoscendo quanto i cavalieri di s. Giovanni poteano essergli d’ajuto nel tener lontane le armate turchesche, concesse loro nel 1530 in feudo le isole di Malta e del Gozzo e la città di Tripoli. Era ammiraglio di Solimano, Ariadeno, soprannominato Barbarossa, famoso in quell’età pel suo valore, il quale erasi insignorito del regno di Tunis, cacciatone il re Mulei Assen: e perchè la vicinanza di costui accrescea il pericolo della Sicilia e di Napoli, il re fece ogni sforzo per cacciare il Barbarossa da quel regno. Apprestò una numerosa armata, alla quale s’unirono trenta galee di Genova, dodici di papa Paolo III, quattro de’ cavalieri di Malta e due armate a proprie spese del marchese d’Eraclea, Giovanni Aragona Tagliavia, sulle quali imbarcaronsi molti nobili Siciliani, che vollero essere a parte dell’impresa.
Con tali forze Carlo recossi egli stesso in Affrica. La fortuna gli arrise: in pochi giorni il regno di Tunis venne in suo potere, ed egli ne investì l’antico re, che si dichiarò suo tributario; ma tenne per se la Goletta, piazza marittima, ove lasciò presidio.
III. — Da Tunis passò in Sicilia. Prese terra a Trapani addì 20 d’agosto del 1535. Restato ivi pochi giorni, mosse per Palermo. Il marchese di Geraci, ch’era allora presidente del regno, ed i magistrati andarongli incontro e lo trovarono nel bosco di Partinico. Ne furono graziosamente accolti: lo accompagnarono sino a Morreale, ove fermossi; e fatti in Palermo i necessarî preparamenti pel suo ingresso, vi venne. Entrato per la porta, che diceasi allora del Sole, e poi ebbe nome di Nuova, recossi al duomo, ove giurò la osservanza de’ capitoli del regno, e andò ad abitare il palazzo d’Ajutamicristo. Non mancarono giostre, tornei, luminarie ed altrettali dimostrazioni di giubilo: e in queste e nel ricevere i complimenti de’ signori, de’ magistrati e degli ambasciatori spediti dalle principali città del regno, passò i primi giorni. Poi si diede a pigliar conto della maniera, con cui amministravasi la giustizia, ed ebbe ragione di rammaricarsi. Volle visitare i pubblici archivi: recatosi alla sprovveduta nella real cancelleria, ebbe a sedere in una delle sedie ordinarie, che ivi erano, la quale, lui partito, fu appesa al muro, coll’iscrizione SEDIA DI CARLO V, e vi stette sino a dì nostri. Addì 16 dello stesso settembre aprì il parlamento nel palazzo dello Steri, che poi fu conchiuso addì 22 nello stesso palazzo d’Ajutamicristo (585). Nel suo discorso il re disse, che sin dal momento in cui era venuto al possedimento degli altri suoi dominî, avea avuto desiderio di vedere il regno di Sicilia, come uno dei più importanti, per l’innata fedeltà e l’antico valore de’ Siciliani; e questo suo desiderio era accresciuto per le continue querele a lui giunte sugli abusi nell’amministrazione della giustizia: ma distolto da altre gravissime cure, non avea prima d’allora potuto soddisfare un tal desiderio; avea visto cogli occhi proprî essere tanto gravi quegli abusi, che avrebbe egli intrapreso un tal viaggio al solo fine di darvi riparo; laonde raccomandava al parlamento di proporre gli opportuni ripari. Si fece poi a mostrare le ingenti spese, che avea avuto a sostenere per la spedizione di Tunis, il vantaggio della quale era principalmente della Sicilia; però era giusto, che il regno lo soccorresse di alcuno straordinario sussidio.
Per quest’ultima parte il parlamento condiscese volentieri a’ desideri del re, facendogli lo straordinario donativo di dugentomila ducati da pagarsi fra quattro mesi. Ma intorno alla prima parte del discorso del re il parlamento non seppe o non volle proporre altro, che di scegliersi quattro giureconsulti, per ricevere le appellazioni delle sentenze della gran corte (586); che sei fossero i giudici della gran corte, tre per le cause civili e tre per le criminali (587); e che tutti costoro usciti di carica fossero sindicati da un sindicatore straniero (588). Conchiuso così il parlamento, il re addì 14 di ottobre partissi da Palermo, e per la via di Termini, Polizzi, Troina, Randazzo e Taormina giunse a Messina, ove fu con somma pompa accolto; e ne partì addì 3 di novembre. Ma prima di partire cercò dare quel riparo all’amministrazione della giustizia, che invano avea chiesto al parlamento.
Era il regno in que’ dì infestato da una gran quantità di banditi e facinorosi d’ogni maniera, cui tutte le persone potenti si recavano a vanto proteggere. Il male avea antiche radici. Tutti i capitoli del regno, di Martino, di Alfonso, di Ferdinando il cattolico, minacciavano pene severe a coloro, che davano ricetto ai banditi. Prammatiche e gride s’erano pubblicate, e finalmente re Carlo addì 31 di ottobre del 1535 mise fuori una prammatica, colla quale si minacciava pena della perdita dei feudi ed anche della vita a quei baroni od altre persone, che ricettassero banditi e malfattori. Il replicarsi tanto spesso tali leggi prova la loro insufficienza.
IV. — Ma non era questo il male più grave, onde allora era travagliata la Sicilia. Le lunghe guerre tra Carlo e Francesco I e Solimano imperatore di Costantinopoli tennero in tutto quel regno la Sicilia in continuo timore d’una invasione degli Ottomani, senzachè continue erano le depredazioni de’ corsali. Ingenti spese furono allora necessarie, per tenere il regno in istato di difesa. Le fortificazioni delle città principali furono rifatte ed accresciute; trentasette torri furono erette ne’ luoghi più eminenti lungo le spiagge, ove stavano de’ custodi per dare avviso, con fiamme ed altri segnali, dl qualunque legno nemico si fosse veduto; per tal modo, in un’ora, tutta la periferia del regno era avvisata; la città di Carlentini fu di nuovo costruita e fortificata, per potervisi ricovrare que’ di Lentini, città, che, per essere assai prossima al lido e senza fortificazioni, era troppo esposta alle incursioni dei corsali; una nuova milizia urbana fu creata. Il presente pericolo facea, che la nazione si prestasse volentieri a tali spese; onde il parlamento che spesso era convocato, per chieder sempre nuovi sussidî, malgrado la miseria generale, non negolli mai. Ma oltre a tali imposizioni, i vicerè aumentavano smodatamente il dazio sulle tratte, e ciò dava luogo a grandi querele. Il capitolo 84 di Ferdinando II, in cui stabilivasi, che non potesse accrescersi quel dazio semprechè il frumento valesse meno di diciotto tarì la salma, andava soggetto a molti dubbî. Il frumento valea in alcuni luoghi più, in altri meno delli diciotto tarì: qual norma doveasi seguire? Il vicerè duca di Monteleone, per istabilire in ciò un dato certo, trasse dai pubblici registri il notamento de’ frumenti esportati dal 1521 al 1530 da dodici de’ luoghi marittimi, ov’erano pubblici depositi di frumento, onde mandavasi fuori, che caricadoi si dicono; e si trovò esserne stati espostati da rio in buono in ogni anno da Solanto salme 200 15 2, da Termini salme 60000 3 3, da Roccella salme 2066 13 1, da Catania salme 29199 9, da Bruca salme 14364 0 2, da Terranova salme 9356 10, da Alicata salme 28844 10 1, da Girgenti salme 30705 5, da Siculiana salme 2202 12 1, da Sciacca salme 40143 10 2, da Mazzara salme 11632 1, da Castellamare salme 28399 8. Posti tali dati, il vicerè mise fuori nel 1532 una prammatica, nella quale stabiliva potersi metter nuova imposizione sui frumenti, sempre che essi valevano più delli diciotto tarì la salma in alcuni caricadoi, di cui la somma delle medie esportazioni eccedea la metà della totale media esportazione di tutti i dodici caricatori sopradetti (589). Per tal modo se in Termini, Sciacca e Girgenti il frumento valea più delli diciotto tarì la salma, poteasi accrescer l’imposta, comechè per tutto altrove fosse a minor prezzo. Aggiungasi, che nella stessa prammatica stabiliasi, che si tenesse conto del suo prezzo, senza avere in considerazione, che ne’ caricadoi del val di Noto usavasi la salma grossa di venti tumoli, e negli altri la generale di sedici; perciò se in Catania, in Bruca in Terranova, in Termini e in Castellammare i frumenti valevano a venti tarì la salma, il governo accrescea l’imposizione, comechè il frumento ne’ primi tre valesse in realtà a sedici tarì la salma. Se ne querelò il parlamento nel 1535, ma furono vane le querele.
Pure ciò era il minore de’ mali. Non è credibile a qual segno abbiano spinto i vicerè lo abuso di accrescere straordinariamente tale imposizione. Nel 1544 il vicerè marchese di Terranova caricò la tratta de’ frumenti di un nuovo imposto di tarì dodici la salma; e perchè in pochi caricadori il frumento valea più di tarì diciotto la salma, e da essi non si aveano le salme 129940, stabilite dalla prammatica del duca di Monteleone, vi si aggiunsero i frumenti roccella, che traeansi da Girgenti, i quali vaglion sempre di più degli altri, ma non entravano nei caricadoi, nè erano stati compresi in quei calcolo. Per tal modo il nuovo imposto di dodici tarì la salma, l’ordinaria gravezza e le spese uguagliavano e forse superavano il prezzo del frumento. Ricorse al vicerè il console de’ Genovesi a nome di tutti i negozianti di quella nazione; dicendo essere allora il prezzo del frumento minore delli tarì diciotto la salma. Ma il vicerè lungi di menar buone le loro ragioni, mise fuori una grida per consumarsi l’esazione del dazio. E tant’oltre fu spinto allora l’abuso, che si portò quel nuovo imposto fino a due ed anche tre scudi la salma, mentre il frumento tanto non valea. Tutti i parlamenti convocati in quel regno faceano alte querele al re per l’ingiustizia di tale imposizione e ’l danno che ne veniva al regno. Il re rispondea sempre con dar parole. I vicerè continuavano il fatto loro. Indi avveniva, che nessun mercante volle più sovvenir di denaro gli agricoltori nel corso dell’anno, per averne poi frumento; dall’altra mano gli agricoltori, raccolto appena il frumento, voleano venderlo per tema che aumentandosi i prezzi non fosse accresciuta l’imposizione: ma per la ragione stessa nessuno volea comprarne, ed il prezzo di più in più avviliva, gli agricoltori fallivano. Nè ciò è tutto: il governo, sempre che ne avea mestieri, pigliavasi i frumenti altrui depositati ne’ caricadoi. Di che si dolse il parlamento nel 1546 (590).
Nè saprebbe ora capirsi come i campi siciliani non divennero allora affatto deserti. Ma è da considerare, che nell’avvilimento, in cui era allora l’agricoltura, i baroni tenevano le terre a loro mani, e però erano i più grossi proprietarî di frumenti. Costoro, usi com’erano a farsi beffe delle leggi anche giuste, molto più dovean farlo per tali iniqui regolamenti, e traeano loro frumenti di contrabbando. Indi le severissime prammatiche del 1536, del 1544 e del 1555 contro le tratte furtive.
V. — Accrescea la calamità della Sicilia la licenza dei soldati spagnuoli, che vi venivano. Nel 1539 la guarnigione della Goletta mal pagata si abbottinò, una parte di essa, lasciata la piazza, venne in Sicilia e volea sbarcare in Messina. Il vicerè Gonzaga no ’l permise; ma quelli, malgrado il divieto, presero terra e dieronsi a saccheggiare il contado. Adoprate in vano le vie della persuasione, il vicerè ricorse alla forza e spedì contro di essi tre commissarî con gente armata. Stretti da tutte le parti vennero a patti, il vicerè recossi in Linguagrossa, ov’essi erano, e giurò sull’ostia sacra di pagar loro gli stipendi, di cui eran creditori, e perdonargli la sedizione. A questi patti si sottomisero, e vennero divisi in varie piazze del regno. Gli stipendî furono pagati, ma non guari andò, che il vicerè, chiamati i capi di quei sediziosi in Messina, venticinque ne fece impiccare; ed altri ne furono al tempo stesso impiccati in Vizzini, in Militello, in Lentini.
Miseri que’ paesi, in cui il governo per mancanza di forza è nella dura necessità di ricorrere alla mala fede ed allo spergiuro! E ben misera era allora la Sicilia; chè a tante calamità aggiungeasi (ned era il minor de’ mali) la depravazione generale de’ magistrati, per cui il parlamento del 1545 dimandò al re un sindacatore straniero. Il re spedì l’anno appresso il sacerdote D. Diego di Cordova spagnuolo, non come sindacatore, ma visitatore, per informarsi secretamente della condotta de’ magistrati e rimettere a lui le informazioni, per quindi punirli. Il parlamento convocato in quell’anno se ne dolse, primieramente perchè il procedere di quel visitatore per via d’inquisizione era contro le leggi del regno; per cui qualunque reo dovea esser condannato secondo le forme legali; ed oltracciò, non avendo egli dritto di condannare i rei, ma solo di ammanir le prove e rimetterle alla real corte, le cause venivano ad estraregnare: ciò ch’era contrario ai privilegi del regno; e finalmente procedendosi (dicea il parlamento) per via inquisitionis, si daria assai commodità di poter produrre testimoni falsi, delli quali in questo regno è tanta abondanza, che etiam si trovano a deponere falsamente in presentia dello illustre vicerè, et regia gran corte, dove sono certi, che si danno copie alle parti di loro deposizioni, con li nomi et cognomi; quanto più si ha da credere, che diriano il falso, dove non dubbitassero di esser tenuti secreti! Il re a quel capitolo rispose, che per discarico di sua coscienza avea destinato quel visitatore, per essere informato della condotta dei magistrati, e che provvederebbe, che non si desse al regno giusta ragione di querela, nè s’infrangessero le sue leggi (591). E comechè sembrasse a prima vista, che giuste fossero state le ragioni del parlamento, il fatto fece conoscere, che ben si appose il re. Trattavasi di punire persone potenti, contro le quali nessuno avrebbe osato deporre, ed avrebbero di leggieri schivata la pena. Fu di fatto condannato D. Giovanni Valguarnera, conte d’Asaro, straticò di Messina ad una multa di trentamila scudi ed all’esilio dal regno. Ed è ben da notare, che il parlamento convocato in Palermo nell’aprile del 1548 chiese grazia per costui. Da ciò venghiamo a conoscere onde sia stato mosso l’antecedente parlamento a reclamare per la missione del Cordova. Nel voler poi mostrar l’innocenza di quel conte, confessa apertamente il parlamento e le enormi concussioni di lui; dachè dice, che tutti gli straticò suoi predecessori, per sovvenire alle spese della carica, col consenso de’ vicerè aveano fatto composizioni, ed egli avea seguito tale esempio (592). Non pensava il parlamento, che il re, conoscendo, che la composizione de’ delitti era un mezzo sicuro di moltiplicarli, nella prammatica bandita prima di allontanarsi da Sicilia avea stabilito, che indi in poi fosse vietato ai vicerè ed a qual si fosse inferior magistrato di far composizione per qualunque delitto, pena il quadruplo della composizione (593), nè volle assentire alla richiesta. Ma il parlamento divenne allora intercessore di tutti coloro, che furono processati: prova certa che quell’adunanza era più depravata de’ magistrati. Nel 1552 fu chiesta grazia in favore di quattro giureconsulti, che in seguito di questo processo erano stati inabilitati a concorrere a qualunque carica, e dimandò poi un perdono generale per tutti gli altri. Il re accordò la grazia de’ primi, e per gli altri rispose, che molti di costoro erano stati compresi nell’indulto non guari prima pubblicato, alcuni n’erano stati eccettuati (in tanto numero erano), de’ quali, allorchè sarebbe compito il processo, avrebbe tenuta in considerazione l’intercessione del parlamento (594).
VI. — Da tutto ciò è manifesto che l’agricoltura depersa; il commercio spento; il governo spergiuro; i magistrati corrotti; il pubblico costume perduto; la nazione ridotta all’estrema miseria; il regno divenuto covile di masnadieri; furono i frutti che trasse la Sicilia dalle grandi imprese e da’ trofei di Carlo V. Stanco finalmente quel re di tante guerre e tante peregrinazioni; morto da alcun tempo il suo rivale Francesco I di Francia; ottenuta da Arrigo II successore di lui una tregua di cinque anni, cesse a Filippo suo figliuolo prima la Lombardia e Napoli, e poi la Borgogna e i Paesi Bassi, finalmente addì 6 di febbraro del 1556 tutti gli altri regni, e cesse al tempo stesso la corona imperiale a Ferdinando suo fratello, già da lung’ora eletto re de’ Romani. Quindi si ritirò nel monistero di s. Giusto de’ gerolimini in Estremadura, ove nel 1558 finì di vivere.