IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XLIV. I. Filippo re. Nemici di Filippo. — II. Battaglia di Lepanto. Impresa di Tunis. — III. Severità del duca d’Albadalista odiata dai baroni a torto. — IV. Riforma dell’ordine giudiziale. — V. Disordini interni: si cerca ripararvi secondo i lumi di quel secolo. — VI. Utili stabilimenti. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Non sì tosto Filippo I venne al possesso dei regni paterni, che volle ricever l’omaggio dai Siciliani e giurare l’osservanza delle leggi del regno. E perchè ciò seguisse colla massima solennità, non ne die’ l’incarico al vicerè Giovanni de Vega, da lui confermato, ma spedì in Sicilia suo special procuratore Federico Enriquez. Chiamò costui il parlamento in Messina addì 7 di giugno del 1556 nel duomo di quella città, ove dal protonotaro Alfonso Bois fu letta la procura fatta dal nuovo re all’Enriquez in Bruselles addì 24 di marzo di quell’anno. Stesa poi e letta ad alta voce dal protonotaro stesso la forma del giuramento, accostaronsi d’uno in uno prima i prelati, poi i baroni ed in fine i procuratori delle città al soglio, ove sedea l’Enriquez; baciato il crocifisso ed i santi evangeli, lo sottoscriveano, stando come testimonî li sei giudici della gran corte e l’avvocato fiscale. Poi lo stesso Enriquez giurò come procuratore del re l’osservanza dei capitoli e delle altre leggi dei regno. Nè solo ciò, ma fu allora letta e registrata nell’atto del parlamento la real cedola spedita in Bruselles addì 17 di gennaro di quell’anno, per la quale il re confermava tutti i capitoli, costituzioni, prammatiche ed altre quali si fossero concessioni fatte da’ re suoi antecessori non che alla nazione ed ai comuni, ma ai privati cittadini. Nella qual cedola dicesi d’essere stato apposto il suggello di Sicilia, di cui soleasi valere re Carlo nella spedizione delle carte ordinarie, per non essersi ancora fatti i nuovi suggelli.
Letta poi la cedola della conferma del vicerè, questi prestò da parte sua il giuramento. Addì 14 dello stesso mese riunitosi il parlamento nel convento di s. Domenico della stessa città, accordò all’Enriquez un dono di seimila scudi, ed uno di quattrocento a D. Girolamo Manriquez, che con lui era venuto e recato avea il general perdono accordato dal nuovo re.
Nè tutto ciò fu vana pompa. Qual che Filippo Io siasi mostrato nel governo degli altri suoi dominî, i Siciliani non ebbero mai ragione di dolersi d’aver egli mai mancato a quel giuramento; tantochè svolgendo i capitoli di quel regno, non vi si leggono, come in quelli del precedente, querele per le gravissime ed illegali imposizioni, comechè avesse avuto Filippo ben altre imprese a tentare, ben altre guerre a sostenere, ben altri nemici a combattere, e ciò con mezzi assai più ristretti; dachè, oltre le forze dell’impero, ch’egli non ebbe, i Paesi Bassi, onde Carlo traea immense ricchezze e le migliori sue truppe, levatisi in armi contro il figliuolo, sostennero, finchè egli visse, l’impari lotta e ne uscirono alla fine vincitori: e quel piccolo paese fu baratro, ove si perderono i tesori e ’l fior delle truppe di Spagna. Sedea sul trono d’Inghilterra Elisabetta, che tant’alto levò la gloria e la potenza di quel regno; costante nemica di Filippo, lo attaccava in tutti i punti; e mentre soccorrea gli Olandesi di denaro e di gente, numerose armate venivano fuori dai porti d’Inghilterra e dell’Olanda, che portavan la morte e lo spavento in Asia ed in America, prima sorgente delle ricchezze e della potenza spagnuola. Dopo lunga convulsione, per fomentar la quale re Filippo ebbe ad impiegar denaro e soldati assai, giunto al trono di Francia il grand’Arrigo IV, divenne presto l’oggetto dell’amore de’ sudditi e del terrore de’ nemici, e, più che d’altri, di Filippo. Solimano il magnifico, Selim II, Amurat III, Maometto II furono de’ più potenti principi, che tennero l’impero ottomano; Dragut, Ulucchialì, Piali, Sinam Bassà, Mustafà Cara valentissimi loro capitani di terra e di mare minacciavano sempre e danneggiavano spesso le coste di Spagna, di Napoli, di Sicilia e diedero assai che fare a re Filippo. Nel 1562 una gran parte dell’esercito e dell’armata spagnuola e siciliana, portata dal vicerè duca di Medinaceli all’acquisto dell’isola delle Gerbe, restò disfatta e prigioniera di Mustafà Cara. E se nel 1565 Solimano non avesse perduto meglio di trentamila uomini nel famoso assedio di Malta, ove il prode ammiraglio Dragut perdè la vita, e ’l capitan generale Mustafà fu ad un pelo di restar prigione, e non fosse venuto fatto l’anno appresso al gran maestro La Valletta di fare appiccar fuoco nel porto stesso di Costantinopoli ad una nuova e più poderosa armata, che l’ottomano avea già in pronto, per ricattarsi della perdita; ben’altri danni avrebbero sofferto i regni di Filippo e più che gli altri la Sicilia. Ma il re non istava spensierato. Sovvenne di cinquantamila scudi la religione di Malta, per fabbricare una. nuova più forte città, che dal nome del valoroso gran maestro fu detta la Valletta.
II. — Accozzaronsi in Messina nel 1577 le galee de’ Veneziani, de’ Genovesi, del papa, di Malta con quelle di Spagna, di Napoli, di Sicilia. Comandava tutta l’armata col titolo di generalissimo D. Giovanni d’Austria fratello naturale del re. L’imperatore Selim, comechè occupato nel fornire la conquista di Cipro, riunì una armata anche più poderosa. Venne fuori da Messina D. Giovanni con oltre a dugento galee, sulle quali erano cinquantamila uomini. Incontraronsi le due armate presso il golfo di Lepanto. Lunga e sanguinosissima fu la battaglia. Diecimila dei cristiani vi perderon la vita, ma la vittoria loro fu compita: quindicimila schiavi cristiani, che remigavano sulle galee turche, ricovrarono la libertà; meglio di venticinquemila de’ Turchi furono uccisi, fra’ quali lo stesso grand’ammiraglio Alì: diecimila ne furono presi, centotrenta legni turchi vennero in potere del vincitore, e tranne da trenta o quaranta galee, colle quali potè scappare Ulucchiali, le altre furono o affondate o fatte in pezzi od incese (595).
Il principe vittorioso ritirossi in Messina; quindi, invitato dal senato, venne in Palermo, ove il suo ingresso fu un vero trionfo. Ma quella gioja non valse a compensare la perdita, che fece allora la Sicilia nell’essersi colmato d’ordine di lui il porto di Marsala, ch’era il più vasto di Sicilia. Un passo così sconsigliato si diede per non dare ai Turchi d’Affrica l’agio di farvi uno sbarco. Ma certo, per colmarlo, si ebbe a spender di più di quanto era mestieri, per erigervi delle fortificazioni. Quella guerra già da secoli passò: la perdita del porto è restata. Data quest’insana disposizione, D. Giovanni mosse da Sicilia con un’armata di dugento vele, sopra la quale erano ventimila uomini di truppa di terra. Con tali forze si diresse contro Tunis. Erasi fatto signore di quel regno Ulucchialì, che ne avea cacciato il re Mulei Amida, il quale era venuto a ricovrarsi in Palermo, ove era stato splendidamente albergato nel palazzo d’Ajutamicristo; D. Giovanni lo menò seco. Felice fu l’esito di quella spedizione. Il governatore lasciato da Ulucchialì abbandonò al principe il regno e la città. Ma effimero fu quel trionfo. Avea il re ordinato al fratello di spianar Tunis, ove fosse venuta in suo potere: ma questi, che ambiva di essere investito del conquistato regno, lungi di eseguire l’ordine avuto, lasciò in Tunis una forte guarnigione, cominciò a farvi erigere altre fortezze, e lasciatovi al governo un Maometto, invece del re Mulei Amida, odiatissimo colà per le crudeltà sue, ne partì. Nel contravvenire agli ordini avuti era stato D. Giovanni secretamente incoraggiato da papa Gregorio XIII, il quale nel fare al re Filippo la proposizione d’investir suo fratello di quel regno, fece vedere i vantaggi, che avrebbe tratti la cristianità dall’esser quel regno tenuto da un principe cristiano. Ma il re, sia per gelosia del fratello, sia per cauto consiglio, rispose che ciò, lungi di accrescer le sue forze, le avrebbe divertite. Nè guari andò, che il fatto fece conoscere quanto ben s’era apposto. Ivi a pochi mesi sopraggiunse Ulucchialì con grandi forze. D. Giovanni trattenuto or qua ed or là dai contrarî venti non fu a tempo d’accorrere: non che Tunis, ma la Goletta vennero in potere degli Ottomani. Per tal modo al fin de’ fatti fu conservata ai Turchi una bella città, fu tolto alla Sicilia un bel porto. E forse le armi vincitrici ottomane ben altro male avrebbero allora fatto alla Sicilia, se non fosse venuto a morte Selim II lasciando sul trono il figliuolo Amurat III, che ne’ primi anni volle darsi alle arti di pace.
Nè lo stesso Ulucchialì tenne a lungo quel regno. Ribellatosi quel popolo nei 1581, cacciò il governatore e chiamò l’antico re Mulei Amida, il quale era ritornato in Palermo. Il duca di Tagliacozzo vicerè colse quel destro, per isgravarsi della spesa di mantenerlo; non solo acconsentì alla sua gita, ma fecelo scortare alle galee di Malta. Vi giunse; fu accolto con applausi; Ulucchialì tentò invano riprender l’anno appresso il regno. Tenuto quel regno da un principe amico, rivolte le armi di Amurat contro la Persia e la Ungheria, la Sicilia, tranne qualche correria di corsali, qualche momentaneo spavento all’avvicinarsi a caso a questi mari di alcun’armata turca, non ebbe indi in poi a soffrire altri mali.
Tali timori altronde cadeano in acconcio alle vedute del governo, il quale forse talvolta li esagerava, per accrescere le galee e trarre nuovi sussidî, che poi destinavansi alla guerra di Fiandra o alla famosa spedizione contro l’Inghilterra. Ma quei sussidî traevansi sempre legalmente, nè davan ragion di querela. Vero è che una forte dissensione accadde nel parlamento del 1591. Era vicerè il conte d’Albadalista uomo severo anzi che no, il quale nella punizione de’ delitti procedea ex abrupto, ciò che dalla legge era vietato, tranne in certi casi (596). Il soverchio rigore nell’amministrazione della giustizia bastava in que’ tempi a rendere un vicerè odioso a’ grandi; e d’Albadalista lo divenne. Convocato il parlamento, i bracci ecclesiastico e demaniale votarono, per accordarsi i chiesti sussidî, Il braccio militare, in cui sedeano i baroni del regno, disse che si diano et si confermino a S. M. non solo questi donativi dati di sopra, ma, l’istessa vita e sangue nostro, e de’ nostri figli, per altri tre anni, con conditione però che S. M. resti servita mantener a questo suo fidelissimo regno li suoi privileggi et capitoli, che con sì liberale et larga mano li serenissimi suoi predecessori gli hanno concesso, et giurato d’osservare, e precisamente S. M. ancora, et in particolare quello del serenissimo re Giovanni sopra il non potersi procedere ex abrupto, il quale da pochi anni in qua contra la mente di S. M. è stato violato.
Per quanto si fosse disputato, i baroni non vollero staccare un pelo dal loro voto. Il vicerè, convocato il sacro consiglio, propose, se potea egli accettare i sussidî accordati da due soli bracci del parlamento, ed esigger le imposizioni, malgrado il dissenso del terzo; e ’l consiglio rispose del sì. Congregatisi di bel nuovo i tre bracci, la maggior parte de’ baroni si contentavano, che il vicerè con atto pubblico ordinasse l’ordinanza di quelli capitoli e promettesse l’approvazione del re. A ciò non volendo il vicerè piegarsi, il parlamento fu chiuso, e si esasse il denaro col solo voto di due bracci.
È manifesto, che la querela de’ baroni nascea da personale malevolenza contro il vicerè; allontanato ivi a pochi giorni costui, non si fece più parola di ciò. Ed altronde i baroni non aveano ragione di querela. Vero è che il parlamento convocato in Castrogiovanni nel 1458 fra le tante proposte fatte a re Giovanni intorno a cose di giustizia, avea anche detto, che nessun magistrato potesse indi in poi tormentare alcuno, se non dopo d’esser compito il processo: ma il re avea risposto: Si osservi quanto dal diritto comune è prescritto (597). Accresciuto in appresso il numero de’ malfattori e de’ malfatti, particolarmente dietro gli avvenimenti, ch’ebbero luogo ne’ primi anni del regno di Carlo I, i magistrati furono nella necessità di deviare dalle forme ordinarie ed usar più rigore nel processare i rei. Se n’era più volte doluto il parlamento, chiedendo, che si procedesse ex abrupto solo contro i pubblici malfattori e le persone infamate d’altri delitti; e mai contro i titolati, i nobili e’ dottori: ma Carlo, che forse conoscea d’essere in que’ tempi i titolati e’ nobili e’ dottori poco dissimili da’ pubblici malfattori, avea sempre risposto, che avrebbe incaricato il vicerè di regolarsi con più prudenza, od altrettali equivoche espressioni. Ed ove nel 1541 rispose, che si osservassero i capitoli prima concessi, nulla nel fatto venne a concedere; chè in nissuno capitolo avea apposta una chiara affermativa sanzione, necessaria per dar forza di legge alle proposte del parlamento (598).
IV. — Indi è manifesto, che ammirevoli sarebbero stati i baroni siciliani, se passando oltre ai lumi di quell’età avessero chiesto l’abolizione di quel barbaro modo di procedere: ma nissun diritto aveano di dirlo violazione delle leggi del regno, le quali da re Filippo furono rispettate a segno che, essendo allora conosciuta necessaria una riforma ne’ tribunali di Sicilia, non volle farla senza l’intelligenza e ’l consentimento del parlamento. Ed a tale oggetto spedì in Sicilia il marchese dell’Oriuolo suo consigliere, il quale, fatto riunire addì 8 di dicembre del 1562 il parlamento in Palermo, espose l’incarico avuto dal re di dar nuova forma alle corti supreme di giustizia del regno. La proposizione ben cadea in acconcio a ciò che il parlamento stesso avea sin dal precedente regno proposto.
Il gran vizio dell’ordine giudiziario di Sicilia era la mancanza di un tribunale, cui i litiganti avessero potuto appellarsi dalle sentenze della gran corte, composta da prima da quattro soli giudici, cui presiedea il gran giustiziere del regno, i quali decideano nel civile e nel criminale. E perchè ristretta era la competenza dei magistrati inferiori, da’ quali portavasi appello alla gran corte, ne venia, che tutte le grandi cause erano difinite in un solo giudizio. Vero è che dalle sentenze di quel tribunale poteasi appellare direttamente al re, ossia, come allora diceasi, alla Sacra Regia Coscienza; e ’l re in questi casi destinava alcun giurisperito, che diceasi giudice della Sacra Regia Coscienza, per rivedere la causa: ma, oltrachè potea avvenire, che il debole fosse in quel modo sopraffatto dal potente, cui potea di leggieri venir fatto d’avere un giudice suo, era ben mostruoso che un giudizio proferito da quattro fosse contrappesato da quello di un solo. Indi fu che re Alfonso stanziò nel parlamento del 1423, che, portati gli appelli alla Sacra Regia Coscienza, non uno, ma due giudici o più fossero dal re distinati (599). Nel governo de’ vicerè erasi poi introdotto l’uso che, nel caso d’appello le due parti contendenti presentavano al vicerè le tavole de’ giureconsulti non sospetti, e quello ne scegliea uno per ogni tavola. Anche da ciò nasceano sconci; il parlamento nel 1534 e 1535 avea proposto a re Carlo di creare un magistrato di giudici permanenti, per rivedere le sentenze della gran corte: ma in quel regno ciò non avea potuto aver effetto. Giunto appena al trono Filippo I, il parlamento nel 1559 propose, che si erigesse un magistrato di tre giudici da cambiarsi ogni due anni una coi giudici della gran corte, col titolo di Tribunale del Concistoro della Sacra Regia Coscienza, il quale rivedesse tutte le sentenze, non che della gran corte, ma degli altri magistrati; e da questo tribunale si portassero gli appelli alla gran corte criminale. Ciò avea avuto la real sanzione (600).
Proposta poi la totale riforma dal marchese dell’Oriuolo, il parlamento con atto espresso vi aderì, apponendovi solo la condizione che tutti i magistrati fossero siciliani (601). Ivi a sett’anni fu bandita la prammatica: De reformatione tribunalium. Di che la Sicilia non era stata più la sede dei suoi re, le cariche di gran cancelliere, di grande ammiraglio, gran camerario, gran contestabile e gran siniscalco erano o affatto spente o ridotte a voto nome. Restavano solo il gran protonotaro e ’l gran giustiziere; ma le funzioni del primo erano assai ristrette. Non così dell’altro, il quale, perchè presedea alla suprema corte di giustizia del regno e perchè pigliava il governo in mancanza de’ vicerè, gran peso avea ne’ pubblici affari. E per esser tal carica data sempre ad uno de’ grandi baroni, assai ne venia accresciuta la potenza di tutto il ceto. E forse da ciò fu mosso re Filippo a stabilire primieramente, che il gran giustiziere (ove il re lo eligga (602)) si avesse solo la dignità, la precedenza e ’l soldo di milledugento scudi l’anno. Tutte le attribuzioni ne furon trasfuse al presidente della gran corte, giurisperito, col titolo di luogotenente del gran giustiziere e il soldo di mille scudi l’anno.
Era stato nel 1548 proposto dal parlamento, che sei fossero i giudici della gran corte, tre per le cause civili e tre per le criminali; e Carlo I avea assentito alla proposta, con questo, che vicendevolmente que’ tre, che il primo anno rendeano ragion civile, nel secondo giudicar doveano nel criminale. Filippo stabilì con miglior consiglio, che de’ sei giudici della gran corte in tutto il tempo, che duravano in carica, tre fossero destinati al civile e tre al criminale: due avvocati fiscali, uno presso la gran corte, l’altro presso il tribunale del real patrimonio, stabiliti nel regno precedente nel parlamento del 1548 (603), furono confermati: due procuratori e due sollecitatori fiscali; un’avvocato ed un procuratore de’ poveri furono addetti alla gran corte. Il tribunale del real patrimonio fu allora composto da quattro maestri razionali, che poi vennero detti di cappa e spada, e due giurisprudenti, i primi de’ quali non avessero voto in affari di giustizia. Fu preposto a quel tribunale un presidente giurisperito col soldo di mille scudi l’anno. Fu stabilito che gli appelli da quel tribunale andassero a quello del concistoro, al quale fu assegnato un presidente giurisperito, nel quale venne trasfusa l’antica carica di gran cancelliere (604).
V. — Ma vi volea ben altro che quella riforma, per addirizzare il pubblico costume, I magistrati del regno continuarono negli stessi abusi; tanto che non guari dopo fu dal re spedito in Sicilia un Giorgio Bravo, visitatore, per punire i magistrati, che avesse trovato colpevoli. Si sa che egli levò la carica al maestro portulano, al tesoriere generale e ad uno de’ maestri razionali. Ma ciò a nulla montava. Il male nascea dalla lontananza del re, per cui l’autorità de’ vicerè (posto che fossero stati irreprensibili, e spesso non lo erano) era inceppata; il governo locale era debole; tutti coloro, che aveano un potere, qual che si fosse stato, ne abusavano.
Questa considerazione basterebbe di per se sola a farci argomentare qual dovea essere allora in Sicilia la condizione dell’agricoltura, che prospera solo nella tranquillità e sicurezza generale; e meglio lo mostrano gli atti della pubblica autorità. Era gran tempo, che il bestiame bovino nel regno veniva mancando, la coltivazione de’ campi, era abbandonata. Il governo credea porvi riparo con bandire a quando a quando pene a coloro che macellavano animali bovini, e premî a coloro che li moltiplicavano: ma tali provvedimenti non produceano l’effetto che si volea, anzi il male di giorno in giorno accresceasi. Per darvi riparo il principe di Castelvetrano presidente del regno mise fuori nel 1573 (col parere del sacro consiglio) una nuova prammatica, nella quale furono trasfuse tutte le antecedenti disposizioni. Si stanziò: che non potessero pegnorarsi vacche e loro rede infra l’anno per qual si fosse debito, tranne il prezzo delle stesse e il pascolo: che coloro, che avessero cinquanta vacche o più, fossero esenti dal peso di dare alloggio a’ soldati, e chi ne avesse dieci potesse, non ostante qualunque divieto, portar l’archibugio fuori città: che fosse assolutamente vietato il macellare animali bovini in qual si fosse luogo, pena mille scudi e tre anni di prigionia in un castello pe’ nobili, in galera pe’ plebei: si permettea macellare otto vacche per ogni centinajo che uno ne avea, purchè fossero di guasto (e ciò dovea farsi osservare al segreto e ai giurati), si macellassero in un sito designato e non altrove, e la loro carne non si vendesse più di grani due e mezzo il rotolo; era anche permesso il macellare bovi inutili al lavoro, purchè ciò si facesse costare ai magistrati municipali e la loro carne si vendesse da maggio a 15 luglio a grani cinque e quattro danari il rotolo, da mezzo luglio a tutto agosto e ne’ mesi di marzo ed aprile a grani sei e denari due, da settembre a novembre a grani sette, e in dicembre, gennaio e febbrajo a grani sei e denari quattro: finalmente il permesso di macellar giovenchi dovea ottenersi direttamente dal governo, e la carne di essi non potea vendersi oltre di grani otto il rotolo. La carne degli animali bovini di quattr’anni in su morti a caso potea entrarsi in città e vendersi, quella de’ giovenchi a grani quattro, de’ bovi a grani tre, delle vacche a grani due il rotolo, ma quella degli animali infra tre anni non potea entrare in nessuna terra e dovea solo consumarsi ne’ luoghi disabitati. Gli animali bovini poi ed i castrati, che venivano da oltremare, poteano vendersi a qual prezzo fosse piaciuto al venditore. Il prezzo di un bove d’anni quattro in su fu fissato ad once cinque, quello di un giovenco d’anni quattro in giù ad onze quattro e tarì dodici; e si minacciava la stessa pena di sopra a chiunque ne avesse comprato o venduto a più alto prezzo: ma le vacche di qualunque età e i vitelli poteano vendersi liberamente. Nelle mandre di pecore, degli agnelli, che si spoppavano, due terze parti dovevano tenersi separati dalle madri ed affatto casti sino a marzo dell’anno appresso; allora doveansi castrare, nè poteano vendersi prima di settembre, pena ai mandriani, che controvvenissero, la perdita della mandra ed once dugento (605).
Per quanto tali regolamenti severi, oppressivi, irragionevoli potessero parere affacenti al carattere di Filippo, pure lo erano anche più alle idee di quel secolo. Quella prammatica fu chiesta dal parlamento nel 1566 (606). E quel parlamento stesso ne chiese un’altra, per proibirsi il taglio degli ulivi di qualunque natura; perchè, dicea il parlamento, d’alcuni anni in qua si è introdotto, che sotto pretesto che alcuni albori di olive sono infruttuose, molti s’hanno impetrato licentie di tagliarle; e sotto detta licenza tagliano indifferentemente tutte le olive, che rendono buon frutto: talchè oggi ci è gran mancamento d’oglio in questo Regno; e se non si dà rimedio a quest’abuso verrà a mancare totalmente (607). Doveano sovvenirsi que’ legislatori del gran principio bandito da Ferdinando I nel parlamento di Randazzo del 1414. Hi, qui fruendi bonis propriis libertate privantur, arbitria deserunt (608). La chiesta prammatica fu messa fuori dal vicerè don Garzia di Toledo; e per essa, pena once dugento, fu vietato tagliare ulivi utili od inutili, salvatichi o domestichi che fossero. Ma pubblicata appena la prammatica, si conobbe il gravissimo sconcio che era per nascere; nessuno avrebbe potuto incalmare oleastri. Fu mestieri bandire una seconda prammatica, per la quale si permettea portare gli oleastri e tagliarli, per innestarli, con questo che prima di tagliarli e portarli lo facessero sapere ai giurati della loro terra, e se dopo tagliati fra due anni non l’incalmassero, fossero soggetti alla multa di once cinquanta (609).
Le frequenti carestie, che allora soffrivansi, erano effetto di que’ mal consigliati regolamenti, e venivano accresciute da provvedimenti anche più insani. Gride in tali casi bandivansi, per obbligare sotto pene severe chiunque possedea frumenti a rivelare la quantità che ne avea. Un prezzo forzato ad essi imponeasi: il frumento spariva: il popolo, massime in Palermo, volea mangiare il pane sempre allo stesso prezzo, e così lo si era avvezzo: e ad ogni alterazione nel prezzo del pane tumultuazioni, saccheggi, rapine avean luogo.
VI. — Pure fra tante oppressioni alcun’utile stabilimento fu in quel regno promosso. Il vicerè Garzia di Toledo fondò in Sicilia l’accademia dei cavalieri, ove i nobili stavano ad istruirsi nel maneggio dell’armi. Era loro dovere accorrere in ogni incontro in difesa della patria e a tale oggetto, sempre che il caso l’avesse chiesto, doveano, vestiti d’armi, riunirsi al ponte dello Ammiraglio presso Palermo, portando ognuno un compagno armato del pari. L’impresa dell’accademia era quel ponte, sul quale vedevasi Orazio in atto di far fronte ai nemici, col motto Ipsa suos (610). Tale istituzione fu imitata in Messina dal marchese di Geraci, presidente del regno, il quale ottenne dal re la fondazione di un ordine cavalleresco detto della stella. Era composto di cento cavalieri dati alla scherma e al maneggio. Le continue correrie de’ Turchi, per cui ad ogni poco d’ora era chiamato il servizio militare de’ baroni, de’ campi faceansi nelle spiaggie più minacciate, e le città marittime eran tenute in istato di difesa, diedero luogo a tali istituzioni: ma non è da negare, ch’esse servivano al tempo stesso a mantener vivo il coraggio e lo spirito marziale della nazione, e destavano nella nobiltà siciliana quel vivo puntiglio d’onore e quella brama di segnalarsi, per cui il nobile è veramente nobile.
E se nel regno di Filippo e nell’antecedente la debolezza del governo, la depravazione dei costumi, la miseria portavano molti al delitto; le tante compagnie religiose erette in que’ due regni in Palermo e nelle principali città del regno, che impiegavansi a raccorre elemosine, per sovvenire i poveri, assistere gli ammalati negli ospedali ed altre pie opere, provano che lo spirito pubblico era indiretto alla virtù ed alla beneficenza, e che i delitti, grandi ed universali che fossero stati, da altro principio, che rea indole della nazione, eran mossi.
Miglior prova di ciò è il costante impegno mostrato dalla nazione in quei due regni di accrescere e migliorare l’università di Catania. In tutto il regno di Carlo I il parlamento fece sempre delle richieste in favore di quell’università, e replicate furono a Filippo (611). Questo lodevolissimo impegno della nazione di promuovere i buoni studî venne a quando a quando secondato dalla protezione, che alcuni de’ governanti accordarono alle lettere ed a’ letterati. Ed in ciò si distinsero i due vicerè Giovanni de Vega e il marchese di Pescara, il quale nel 1568 fondò in Palermo l’accademia degli Accesi, e più che altri Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, presidente del regno, il quale venne a capo di stabilire in Messina un’altra università, che venne poi in gran nome pei grandi soldi assegnati da quel comune a’ professori e per gli uomini illustri, che vi fiorirono. Nè erano spenti in Sicilia i semi sparsi nel secolo precedente da Alfonso; che anzi i buoni studî ebbero in questo una nuova spinta, per l’esempio degli altri Italiani datisi allora a ricercare avidamente i classici antichi, a studiarli, ad imitarne la purità del linguaggio, e per la dimora che molti Siciliani ebbero a fare in Roma nel pontificato di Leone X. Tutto ciò fece, che in onta alle ree vicissitudini, dalle quali fu travagliato il regno, potè la Sicilia vantare in quell’età, oltre a tanti scrittori di giurisprudenza e di cose sacre, un Fazello, un Maurolico, un Ingrassia, un Valguarnera, un Gaetani, un Mirabella, un Bonfiglio. Dalle opere de’ quali si vede, che non solo gli ameni studî non erano allora trascurati in Sicilia (612) ma le più severe discipline eran con profitto investigate.