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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XLV. I. Morto Filippo I, regna Filippo II. Il duca di Lerma. Il marchese di Vigliena vicerè. Il duca di Feria vicerè. — II. Il duca di Ossuna vicerè: suo genio intraprendente. Vicerè conte di Castro. — III. Filippo III. Il duca d’Alburquerque vicerè. I Messinesi vogliono divisa la Sicilia. — IV. Nuovi ritrovati per cavar sangue da’ Siciliani. Stato della Sicilia. — V. Tumultuazioni. Il marchese de Los Veles ed il cardinale Trivulzio vicerè — VI. Congiura di Francesco Vairo. Gabriello Platanella. — VII. Nuova cospirazione. — VIII. Ingordigia degli Spagnuoli. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Tale fu lo stato della Sicilia nei primi due regni della famiglia austriaca. Venuto a morte nel settembre del 1598 Filippo I, a lui succedè l’unico suo figliuolo, che anche Filippo avea nome. Conosciuta la poca capacità del figliuolo, che lo portava, come ei dicea, ad essere più presto comandato che a comandare (613), avea Filippo I disposto negli ultimi anni del suo regno, che il figlio stesse presente alle discussioni del consiglio di stato, per acquistar conoscenza degli uomini e delle cose di governo: avealo poche ore prima di morire avvertito a regger da se solo i regni. Ciò non però di manco giunto al trono, Filippo II depose tutta la sua autorità nelle mani del suo favorito il marchese di Denia, il quale era stato suo scudier maggiore. Creollo duca di Lerma, e con suo editto avvertì i sudditi a prestar fede ed obbedienza intera a qual si fosse ordine da lui spedito in suo nome.
La negghienza del monarca comunicossi tosto a tutta la monarchia e particolarmente al regno di Sicilia, che n’era la più remota parte in Europa. All’attività ed alle grandi imprese del precedente regno successe un generale languore. I vicerè null’altra pena davansi, che abbellire la capitale e trar danaro dalla nazione; ed in ciò molto loro giovava il timore, in cui sempre stava il regno per gli armamenti, che di continuo vociferavansi, degl’imperatori ottomani e per le le correrie de’ corsali affricani: però il parlamento, non che assentiva sempre alle richieste, ma mostravasi talvolta generoso, anche cogli stessi vicerè. Nel 1609 il parlamento fece al vicerè marchese di Vigliena un donativo di sessantamila scudi per lo ricatto di un suo figliuolo naturale caduto non guari prima in ischiavitù, accompagnando quel dono con espressioni le più lusinghe per la maniera, con cui quel vicerè avea governato; per cui: Ai buoni non resta più che sperare, ed alli stessi mali di che querelarsi (614). Il marchese di Vigliena generosamente rifiutò il dono, e per sovvenire a quella spesa amò meglio impegnare tutte le sue gioje (615).
Pure in quel parlamento stesso nacque una briga, per cui quel vicerè venne in odio e in disprezzo della nazione. Avea il re preso al suo soldo un inglese, che spedì in Sicilia, ordinando al vicerè di accrescere le galee siciliane e darne a costui il comando, per dar la caccia ai corsali. Mancando il danaro per quell’armamento, il vicerè, sedente il parlamento, mise fuori una grida, con cui raddoppiava i diritti, che pagavansi per tutti gli atti giudiciali. Risentissi il parlamento, per essersi senza consenso suo imposto quel dazio. Baldassare Naselli conte del Comiso, il quale, come pretore di Palermo, era capo del Braccio demaniale e Pietro Balsamo marchese della Limina, uno de’ deputati del regno, rappresentarono al vicerè l’illegalità del passo dato. Ma il cocciuto spagnuolo non volle cedere; anzi la notte fece arrestare il conte del Comiso e ’l marchese della Limina e mandolli presi nel castello a mare di Palermo e li depose dalle cariche. Allora l’indignazione divenne generale. Tutte le città del regno spedirono al vicerè rimostranze contro quel dazio; e forse le cose sarebbero andate più oltre, se il vicario generale dell’arcivescovo di Morreale non avesse minacciato al vicerè di scomunicarlo in forza della bolla in coena Domini, la quale vietava ai re d’imporre nuovi dazî ai sudditi senza il permesso della santa sede. La superstizione potè più della legge. Atterrito il vicerè da quella minaccia, rivocò la grida e die’ ordine di mettersi in libertà il conte del Comiso e il marchese della Limina: ma costoro negaronsi d’accettare la grazia e vollero restar prigioni fino a che fosse nota la volontà del re, cui aveano rimostrato. Nè guari andò, che il ministero di Madrid disapprovò la condotta del vicerè ed ordinò, che i due signori carcerati fossero messi in libertà e restituiti nelle rispettive cariche.
Tranne quel solo caso, in cui la nazione mostrò una certa energia ed unanimità, null’altro vedevasi in quel regno, che vergognose gare tra le due prime città del regno. Il coraggio e l’eroico disinteresse di Messina ne’ primi regni degli Aragonesi aveano sottratto più volte la Sicilia dal giuogo straniero. Ma ridotto il regno a far parte di una straniera monarchia, allo spirito pubblico era successo lo spirito municipale, sicuro indizio del decadimento de’ popoli: l’ardente amor di patria, per cui sempre eransi segnalati i Messinesi, si restrinse entro il confine della loro città. E tal sentimento veniva ad arte fomentato dalla diffidente politica del governo spagnuolo, il quale conoscendo quanto difficile fosse far tollerare ai Siciliani, finchè fossero uniti, la straniera dominazione, avea dato grandi privilegi a Messina, per metterla alle prese con Palermo e tenerle del pari in freno.
Tali emulazioni vennero particolarmente fomentate dalla morte di Filippo I in poi e per la maggior debolezza del governo e perchè esse offrivano il destro alla sconsigliata prodigalità di Filippo II ed alla insaziabile cupidigia del primo ministro di smunger sempre più la Sicilia. Compri a gran prezzo erano stati da Messina i suoi privilegi, e fra gli altri quello, che i vicerè, quando il real servizio non volea altrimenti, nei tre anni del loro governo dimorassero diciotto mesi in Messina. E perchè il duca di Feria erasi assai trattenuto in Palermo, i Messinesi per ottenere dalla corte di Madrid, che si recasse in Messina, regalarono nel 1604 al re una statua d’argento del peso di 120 libbre, che figurava il genio di Messina in atto di presentare al re un’urna d’oro con entrovi le reliquie di s. Placido. Ottennero quanto bramavano; il vicerè si recò in Messina (616); vi convocò il parlamento e ne ottenne, oltre gli ordinarî donativi, uno straordinario di dugentomila scudi. Messina, che in forza de’ suoi privilegi credea essere esente dai donativi straordinarî, sostenne quel privilegio con offrirne centomila da se sola. Adescata da tali doni la corte di Madrid, sostenea sempre i privilegi di Messina, quali che fossero stati i danni che al regno ne venivano.
Gravi dispute ebbero luogo per un’altra zecca, che il vicerè marchese di Vigliena volea stabilire in Palermo, per estirpare sollecitamente le monete mancanti, che eransi introdotte e portavano grave nocumento al commercio. Più anni si dibattè; Messina l’ebbe vinta; intanto le monete mancanti eransi accresciute a più doppî; immensa fu la perdita nel ricambiarle; oltrachè per aver l’argento, onde coniar la nuova moneta, si tolse a forza a chi ne avea, pagandone dieci tarì l’oncia. Nè men grave fu la perdita, che si fece allora, d’una gran parte delle pubbliche scritture della cancelleria del regno, pel naufragio della nave, che le portava.
Pure se è biasimevole la politica del governo spagnuolo nel privilegiare una sola città con tanto danno di tutto il regno, è certo ammirevole la fermezza de’ Messinesi nel sostenerli a costo di qualunque sacrifizio. Vero è che la plebe dava talvolta in criminosi eccessi; ma i patrizî e i magistrati sostennero sempre i diritti della città con modi legali e con ammirevole costanza; tanto che non valse ad intimorirli la straordinaria fermezza del vicerè duca d’Ossuna.
II. — Era costui sul fior degli anni. Prima di esser promosso alla carica di vicerè erasi pel suo valore segnalato nelle guerre de’ Paesi Bassi; al gran cuore ed a’ natali distintissimi univa colto e vivace ingegno, sommo amore per la giustizia, estremo rigore nella punizione de’ rei, modi piacevoli e popolari; e tali qualità teneano maggiore risalto dalla generosità sua. Conoscea ben egli, che i disordini del regno nasceano dalla dappocaggine di re Filippo, ch’ei chiamava «il gran tamburo della monarchia.» Volendo dire d’esser solo uno strumento, per far conoscere il volere del duca di Lerma. Il poco conto, in cui tenea il re, la lontananza della sede del governo, le guerre, in cui era involta la Spagna, l’esempio dell’Olanda, che avea saputo sottrarsi alla dominazione spagnuola, la sicurezza di trovare un appoggio in Arrigo IV di Francia e nel duca di Savoja, nemici della famiglia austriaca, fecero concepire a quest’uomo straordinario la speranza di convertire in proprio ed indipendente il delegato potere; e con fina sagacità copriva quel disegno con una condotta strana, che in apparenza sentiva del bisbetico, ma pure era tutta diretta a farsi temere ed amare dalla nazione. Colla sua straordinaria attività supplì alla debolezza della corte di Madrid. Giunto in Palermo addì 2 aprile del 1611 (617), trovò la città ingombra di bravi e di sicarî: al quinto giorno del suo arrivo non se ne vide pur uno. Molti ne fe’ carcerare, molti ne sfrattò, gli altri sbiettarono. Era fallito il cassiere del banco pubblico di Palermo. Quel fallimento non potea accadere, se il senato, cui incombe la custodia del banco, non avesse tollerato, che colui tenesse il danaro in casa sua, invece di riporlo nel banco. Il pretore e i senatori ebbero ordine di andar presi nel castello di Termini, da restarvi finchè non avessero consegnato vivo o morto il cassiere: in pochi giorni il cassiere fu preso e condannato.
Usava quel vicerè di percorrere la notte tutto solo la città, travestito ora da accattone, ora da eremita, ora da facchino, e in tal modo veniva in cognizione de’ delitti, che severamente puniva, delle persone bisognose, che poi largamente sovveniva. Maravigliava la gente e non sapea capire come quell’uomo fosse a giorno delle più occulte e minute cose, e quella maraviglia accrebbe il timore del suo nome a segno che nessun malandrino osò più levar la fronte nel regno, nessuno osò ascondergli il vero.
Malgrado i tanti pesi imposti ne’ tempi anteriori dal parlamento, trovò egli la rendita dello stato nel massimo disordine, la spesa ordinaria superava d’assai la rendita. Era parte, e forse la prima, del suo piano il far che l’erario fosse ben provveduto. E però convocato nel maggio del 1612 il parlamento, espose, che il disavanzo della spesa annuale e dell’entrata era per tornare in grave danno del regno; laonde raccomandava al parlamento di darvi riparo, e ’l parlamento, fattosi carico dell’urgenza del caso, offrì uno straordinario donativo di duemilioni e settecentomila scudi, da pagare in nove anni: ed impose parecchie gabelle, per trarsene li trecentomila scudi l’anno, fra le quali quella di un tarì per ogni libbra di seta, che in Sicilia produceasi.
La città di Messina, la quale veramente soffriva più delle altre il peso di quel dazio perchè in quel distretto si producea e si produce tuttavia la maggior parte della seta di Sicilia, mise avanti, per andarne esente, il suo privilegio di non contribuire ne’ donativi straordinarî. Il duca d’Ossuna non era tale da piegarsi di leggieri; e sulla speranza, che la sua presenza potesse indurre i Messinesi a pagare il dazio, recossi in Messina. Trovò, che i senatori ed i magistrati erano i più forti propugnatori de’ dritti della città. Minacciò di arrestarli, ma quelli non intimidirono per la minaccia; anzi la plebe, maggiormente stizzita da ciò, levossi in capo. Il vicerè corse a cavallo armato e solo, ove i faziosi eran più forti. Sopraffatti dalla sua presenza e dal suo contegno sgombrarono. Allora, lasciata Messina, si ridusse a Milazzo. Ivi chiamò i senatori, i giudici e ’l fiscale di Messina; giuntivi li fe’ carcerare in quel castello. Venuto poi in Palermo, da un capitan d’armi li fece trasferire ammanettati nelle pubbliche carceri di quella città, Vi giunsero, forse a ragion veduta, di giorno, e mentre destavan l’altrui compassione, mostravan nel volto quella compiacenza, che le anime nobili sentono nel soffrire per la patria.
Non però sbaldanzirono i Messinesi. Spedirono anzi due di loro a Madrid, per difendere in iscritto ed a viva voce il privilegio della città e mostrare la gravezza del dazio. Il vicerè dal canto suo fece scrivere al maestro razionale Pietro Corsetto, che gran fama aveva di valente giureconsulto, al consultore Ferdinando Manete ed all’avvocato fiscale del real patrimonio Giuseppe Napoli una memoria in difesa dell’autorità del parlamento. Il ministero di Spagna colla furba politica, che sempre usava in simili casi, per trarre il maggior pro, che potea, dalla contesa, stette lunga ora in pendente. Dopo due anni un dono di cencinquantamila scudi fatto da Messina fu la spada di Brenno, che fe’ inchinar la bilancia in suo favore. Il dazio sulla seta fu tolto, i magistrati ebbero libertà.
Pure quella briga nè turbò la pubblica tranquillità nè interruppe la generale letizia, che il regno ebbe a godere nel governo del duca di Ossuna. Proteggea egli le lettere, premiava gli scienziati; ei fu che introdusse in Sicilia il gusto pei teatri, ed in uno, ch’eresse allo Spasimo in Palermo, facea rappresentare spesso i drammi di Torquato Tasso. L’uso delle maschere, se non fu da lui introdotto, fu certamente promosso: in un giorno di carnovale ordinò, che tutti in Palermo venissero fuori in maschera: ciò produsse un brio straordinario, il quale venne accresciuto dalla vista di quattro grandi carri tratti da buoi, carichi di carne, di vino, di prosciutti, salsiccioni ed altri camangiari, che il vicerè fece uscire dal suo palazzo, seguiti da grande tratta di maschere. Ad un dato segno il popolo ebbe licenza di saccheggiarli.
Studiava al tempo stesso quel vicerè rilevare lo spirito pubblico e ’l natural coraggio della nazione, e presto ne venne a capo. Fece costruire in Messina una galea di straordinaria grandezza. Venuta questa in Palermo, le si unirono otto galee siciliane, che quivi erano, e n’ebbe il comando Ottavio d’Aragona Tagliavia. Venuta fuori quell’armata, incontrossi ne’ mari di Modone con un grosso vascello turco carico di ricche merci e lo prese; e poi imbattutasi in dodici galee, che portavano al gran signore i tributi della Morea, dopo lungo e sanguinoso combattimento sette di quelle, sulle quali era la più gran parte del danaro, vennero in potere dei Siciliani, ed oltracciò meglio di secento schiavi cristiani, ch’erano sopra quelle galee, riacquistarono la libertà. Tornata l’armata vittoriosa in Palermo, l’ammiraglio, entrò in città in trionfo. Precedea il bassà d’Alessandria in catena preso in quella battaglia, seguivano tutti gli altri prigionieri, indi tutti i cristiani liberati con rami d’olivo nelle mani e da ultimo l’ammiraglio in mezzo del vicerè e del cardinale Doria arcivescovo di Palermo, con seguito numerosissimo di nobili.
Quella vittoria e quel trionfale ingresso produssero una ebbrietà generale: pareano risorti i tempi gloriosi dì Rugieri di Loria. Il vicerè, per secondare lo spirito nazionale, nel gennajo del 1614 ordinò, che in Palermo tutti i cittadini di ogni ceto atti a portar le armi stessero pronti a presentarsi ad ogni comando. A sommo stento ne furono esclusi i soli speziali. Nel seguente marzo poi volle farne una generale rassegna nel piano di s. Erasmo. Tutti i ceti vi comparvero in armi, divisi in compagnie comandate da capitani, che ogni classe avea scelto, e fin vi vennero da milletrecento Genovesi, che in Palermo erano, comandati dal loro console. Nell’anno stesso altre galee fe’ costruire, che unite alle prime vennero fuori nel 1615 e presto ritornarono con nuove prede.
Al tempo stesso animava i nobili ad armeggiare di continuo, e facea che la plebe si esercitasse a tirar di fromba. Per tal modo provveduto largamente l’erario, come non paresse suo fatto, veniva mettendo in punto un’armata, un esercito, un numeroso corpo di frombolieri.
Ma la fortuna non arrise a’ suoi disegni. L’immatura morte di Arrigo IV era venuta prima a sconcertare il suo disegno. Avea quel gran re formato il gran piano di dar nuova forma ai regni d’Europa con combattere del tutto la casa di Austria. A tale oggetto avea stretta alleanza con altri potentati; e con tanto risparmio amministrava le rendite sue, che avea già apprestato un esercito floridissimo, ben provveduto di ogni bisognevole, e danaro sufficiente avea in serbo, per potere sostenere una guerra di dieci anni senza aggravare di alcun peso i sudditi. Il pugnale di un fanatico decise del destino d’Europa. La regina vedova madre di Luigi XIII, restata reggente per la minorità di lui, seguì un piano tutto contrario. Si strinse in amicizia cogli Austriaci, e, per accrescere i reciproci legami, fece menare in moglie al figliuolo l’infante Anna figliuola di re Filippo, e maritò la principessa Elisabetta sua figliuola a Filippo principe d’Asturias. Per tale doppio maritaggio somma fu la gioja di tutta l’austriaca famiglia, che inaspettatamente si vedea sottratta alla tempesta, che la minacciava; e in tutti i dominî austriaci grandi dimostrazioni di giubilo ebbero luogo. I baroni siciliani fecero una contribuzione, per farne in quella lieta congiuntura alcuna solenne festa. Il duca di Ossuna, cui quel doppio maritaggio non andava a pelo, facendo le viste di esserne lieto, dichiarò di voler egli disporre la festa. Il rispetto, che per lui si avea, l’opinione della sua splendidezza, fecero assentire i contribuenti. Avuto il danaro, ne maritò tante zitelle povere delle famiglie nobili, dicendo «Il danaro è meglio impiegato a moltiplicare, che a solenneggiare i matrimonî.»
Pur comechè gli fosse mancato il valido appoggio della Francia, continuò egli nel suo proponimento. Nel 1615 ottenne dal parlamento, oltre agli altri donativi, la conferma per altri nove anni di quello di trecentomila scudi l’anno: e come il parlamento avea chiesto alcune grazie al re, egli, forse per meglio addormire il governo, avea fatto fare un dono di trentamila scudi al duca d’Uzeda figliuolo del duca di Lerma, per ottenere la real sanzione, e ’l re avea dato facoltà allo stesso vicerè di rispondere alle proposte del parlamento.
La sua condotta avealo reso tanto caro ai Siciliani tutti, che la città di Palermo fece coniare in suo onore una medaglia d’argento, che vedesi nella Sicilia numismatica dell’Avercampio, e, ciò ch’è maggiormente degno di nota, il Longo e ’l Bonfiglio scrittori messinesi di quell’età lo lodano a cielo. Ciò non di manco l’impresa non era matura, quando nel 1616 ebbe a lasciar la Sicilia, per passare al governo di Napoli, onde fu rimosso nel 1620 (618).
Il brio e lo spirito marziale suscitati da quel vicerè spariron con lui; e comechè il conte di Castro, che a lui successe nel governo, si fosse mostrato egualmente vigile e rigoroso nell’amministrar la giustizia, pure la sua devozione, l’umore suo malinconico anneghittirono la nazione, e i disordini generali non che tornassero, si accrebbero dopo la morte di Filippo II seguita nel marzo del 1621.
III. — Filippo III, neghittoso ed incapace assai più del padre, abbandonò interamente il governo nelle mani del conte duca d’Olivares. La sconsigliata prodigalità del re; la cupidigia del ministro; le lunghe guerre, in cui la Spagna fu involta, portarono all’estremo i bisogni del governo. Non bastando i sussidî, che spesso accordava il parlamento, si vendè quanto restava delle rendite regie, si venderono le città demaniali, si venderono ordini cavallereschi e titoli di nobiltà. La Sicilia nel precedente regno ed assai più in questo fu inondata di principi, duchi, marchesi e cavalieri del Toson d’oro. E ben caddero allora in acconcio all’avidità del governo le smodate pretensioni di Messina.
Vedeano a malincorpo i Messinesi, che il vicerè duca di Alburquerque, nulla ostante i loro privilegi, erasi fermato in Palermo; e però, per compier l’opera dello scisma del regno, offrirono a re Filippo il dono di un milione di scudi, se dividea la Sicilia in due provincie, di una delle quali fosse capitale Palermo, dell’altra Messina, con assegnare ad ognuna il suo particolare vicerè. Saputosi ciò dalla deputazione del regno e dal senato di Palermo, fecero stendere un memoriale in lingua Spagnuola, che poi fu voltato in italiano, da Rugieri Paruta dotto uomo di quell’età, segretario del senato, nel quale mostravano i gravi sconci, che sarebbero nati da ciò; e l’abate Mariano Valguarnera. insigne letterato di quell’età fu spedito a Madrid, per sostenere le ragioni di Palermo. Il ministro ben seppe trar profitto della congiuntura; ordinò al vicerè di convocare il parlamento, per sentirne il parere.
Erasi addì 13 di maggio del 1630 riunito il parlamento, il quale, oltre la conferma di tutti gli ordinarî donativi, uno straordinario ne avea offerto di cencinquantamila scudi. Conchiuso appena questo, il vicerè per ordine sovrano ne convocò un’altro addì 9 di novembre. Nel suo discorso il duca d’Alburquerque, il quale altronde avea rappresentato alla corte contro il progetto di Messina, disse avergli scritto il primo ministro, che il re avea sospeso di accettare l’offerta di Messina, che giungea quasi a due milioni (619), e che non altererebbe lo stato attuale delle cose, quando il regno lo soccorresse nelle attuali angustie (620)
Certo era degno di un provido governo il sentire il parere del parlamento in una innovazione di tanto rilievo; ma il fare uno sfrontato mercimonio di quel progetto, che il vicerè stesso dicea d’esser irragionevole e nocivo ad ambe le provincie, che si voleano, era un dichiarare, che non il bene del regno, ma il danaro si avea in mira; e ciò si dicea «action tan singular y magnanima.»
Piegossi il parlamento alla circostanza ed offrì un donativo di trecento mila scudi, e dugento mila ne diede il senato di Palermo, colla condizione: 1o che mai mai più potesse darsi ascolto alla proposizione di dividere il regno in due provincie; 2o che il privilegio, concesso a Messina, della residenza de’ vicerè diciotto mesi in quella città, debba intendersi, colla condizione, quando altro non convenisse al servizio del re ed al bene del regno, secondo il parere de’ vicerè; 3o che il re non concedesse in avvenire verun privilegio a Messina, senza sentirne prima il parere della deputazione del regno; 4o che non osservando alcuna di tali condizioni il donativo s’intendesse non fatto, e ’l re fosse obbligato a restituire il denaro esatto cogli stessi interessi del 13 per 100, che il governo solea allora pagare a coloro, da’ quali togliea danaro in presto; ed in tal caso fosse lecito alla deputazione del regno ritenere quel danaro co’ frutti sopra le tande, che si pagavano alla real corte.
È ben da notare l’astuzia del parlamento. Quei trecentomila scudi non furono dati in capitale: ma fu data al re una rendita perpetua da trarsi da un dazio di un carlino per libbra sulla seta cruda, che si suppose poter gettare fino a novemila e quattrocent’once l’anno; onde al fin dei fatti il peso fu ben lieve e questo cadde principalmente sopra Messina.
Il principe di Castelvetrano fu destinato dal parlamento ambasciatore al re, per fargli quella offerta. Recatosi egli in Madrid, il re accettò la offerta, ma non volle dirimere allora la contesa, riserbandosi dì farlo, come poi fece, quando avrebbe spolpato meglio la Sicilia con quel pretesto. Difatto nel parlamento del 1633 il vicerè duca di Alcalà disse, che il re avrebbe finalmente rigettata la proposizione di Messina, purchè se gli dessero altri dugentocinquantamila scudi, si levassero le dure condizioni apposte dall’antecedente parlamento al donativo de’ cinquecentomila scudi, e si facesse il pagamento del secondo donativo in moneta castigliana. Fu forza al parlamento, accordare il chiesto donativo, modificò le condizioni, ma respinse assolutamente la terza pretensione, dichiarando, che il danaro dovesse pagarsi in Sicilia ed in moneta siciliana.
IV. — Ma tutto ciò bastò solo per un momento ad appagar l’ingordigia del governo. In ogni parlamento si metteano avanti la difesa della religione minacciata dagli eretici olandesi, la difesa dello stato di Milano ed altri bisogni tutti stranieri alla Sicilia. Il parlamento imponea dazî perpetui e gli assegnava al re, e questi non sì tosto si davano, che si vendeano, onde i bisogni del governo d’ora in ora divenivan maggiori; intantochè nel 1638 dopo tanti sacrifizî si chiese al parlamento uno straordinario ed esorbitante donativo di due milioni di scudi, e il parlamento non potè trarli altronde che da un balzello sopra tutti i cittadini di ogni classe, tranne i mendici, di quanto ognuno trae in un giorno o da’ suoi beni o dal suo lavoro; ed altre gabelle fu mestieri imporre. Ciò non però di manco l’anno appresso il parlamento, per dare altro danaro, che si volea, impose due gabelle, contro le quali tanto si è gridato ne’ tempi moderni, la carta bollata e il due per cento su tutti i contratti di compra, vendite, locazioni e simili.
Grave maraviglia ci arreca il vedere come nessun parlamento abbia saputo in que’ tempi cogliere il destro de’ grandi bisogni e della milensaggine del governo, e far per lo regno tutto ciò che con tanto savio consiglio faceano i Messinesi per la loro città; dar danaro per estender le franchigie della nazione. E forse i Messinesi pensavan troppo al vantaggio particolare, perchè nessuno si dava pensiero del generale. In vero di ciò, svolgendo gli atti de’ parlamenti convocati in quel regno, s’incontrano sempre proposte o di poco generale rilievo od anche affatto nocevoli. Tali sono i provvedimenti chiesti nel 1648 per promovere l’agricoltura. e la pastorizia. Insiste il parlamento nella proibizione di macellare animali bovini; vuole i baroni seminassero ogni anno almeno la sesta parte de’ loro feudi; che le persone facoltose fossero obbligate dal magistrato a dar soccorso ai coloni; che tutte le faccende agrarie fossero dirette da un magistrato detto Giunta frumentaria (621). Queste stesse bessaggini, le quali mostrano evidentemente il decadimento dell’agricoltura in quell’età, erano state prescritte nella famosa prammatica: De seminerio, ejusque privilegiis, bandita due anni prima, nella quale erano state trasfuse tulle le antecedenti leggi di simil natura. Ciò non di manco l’agricoltura non s’era punto più estesa, il bestiame continuava a mancare, il commercio era tanto scarso, che ad onta degl’intimi e moltiplici legami tra la Spagna e la Sicilia, non vi era cambio, e ’l governo spagnuolo pretendea d’aver pagati i tributi in moneta castigliana. Tali fatti non isgannarono nè il parlamento di allora, nè gli uomini dell’età posteriore. Questi fatali regolamenti, e degli altri forse anche più nocevoli, erano in voga sino a dì nostri, e siamo ancor lontani dal vedere gli uomini in generale convinti dalla verità, che il mezzo più efficace di promover l’agricoltura, le arti, il commercio, l’industria in generale, è quello di non frapporvi ostacoli, senza darsene altro pensiero (622)
V. — Che che ne sia di ciò, l’indifferenza del parlamento siciliano per oggetti di maggior momento, tanto più deve recar maraviglia, in quanto la Sicilia non andò allora esente da quello spirito di vertigine, da cui furono agitate molte altre parti della monarchia spagnuola; chè la debolezza del governo facea da per tutto i popoli arditi a tentare pericolose innovazioni. Il Portogallo con tutti i paesi dell’altro emisfero, dipendenti da quel regno, si staccarono dalla monarchia spagnuola; la Catalogna ribellata e sostenuta da’ Francesi diede assai che fare alle armi di re Filippo: in Napoli un pescivendolo detto Tommaso Aniello, e volgarmente Masaniello, messosi alla testa del fedelissimo popolo, cacciò il governo spagnuolo e dettò alcun tempo leggi. Un esempio così vicino scaldò le menti de’ Siciliani. Tumultuazioni erano accadute in Messina nel 1646, perchè per la carestia erasi diminuito il peso del pane; tumultuazioni erano accadute per la stessa ragione l’anno appresso in Palermo e nella maggior parte delle città e terre del regno. E perchè erasi menata buona la dimanda della plebe palermitana di abolirsi le gabelle e di scegliersi nuovi magistrati municipali, da per tutto furono a furia di popolo abolite le gabelle e cacciati i magistrati. Ivi a poco un Giuseppe d’Alessi volte far la scimia a Masaniello e gli venne fatto. Levò la plebe a sommossa; il vicerè fuggì; la poca truppa spagnuola si ritirò; lo Alessi cominciò a governare a senno suo la città col titolo di capitan generale del popolo e sindaco perpetuo della città. Ebbe assegnata una guardia di settanta soldati, pagati dal comune, ed il soldo di duemila scudi l’anno. Dopo pochi giorni quel tumulto fu represso, lo Alessi fu messo a morte, non dalla forza del governo, chè non ne avea, e molto meno per l’abilità del vicerè marchese di los Veles, ma da’ pescatori, dagli orefici, da’ preti, da’ nobili. E comechè severamente fossero stati gastigati molti dei compagni dello Alessi, ed al doppoco los Veles, morto nel novembre del 1647, fosse succeduto al governo il cardinale Teodoro Trivulzio, uomo fermo e coraggioso, pure la forza era sempre in mano della plebe; la custodia della città e de’ baluardi guerniti d’artiglierie era affidala ai consoli degli artieri; però le tumultuazioni e le congiure ripullulavano.
VI. — Un Francesco Vairo calabrese, domestico della principessa di Roccafiorita, il quale godea opinione di tal probità, che la principessa aveagli dati in deposito trentamila scudi; agiato di beni di fortuna; d’età matura; con numerosa famiglia; nelle passate vertigini erasi mostrato zelantissimo in favore del governo. Ciò non di manco gli venne in capo di cacciare gli Spagnuoli e stabilire in Sicilia una repubblica. Ardito era il pensiero; e il piano divisato dal Vairo e dai compagni, per venirne a capo, mostra mente non volgare. Doveano i congiurati sparger fama, che il cardinal Trivulzio d’accordo co’ nobili e’ magistrati dovea di soppiatto far venire assai soldati e con essi dare addosso alla sprovveduta al popolo. Quando gli spiriti sarebbero stati messi in agitazione per quelle voci, il Vairo dovea invitare a cena i consoli, dargli bere vino adoppiato, oppressi dal sonno, metterli a morte, e al far del giorno farne trovare le membra sparse per la città, le teste appese nella piazza Vigliena, e farne credere autore il governo. Messa per tal modo in furore la plebe, dovea il Vairo mostrarsi a cavallo armato a gridare vendetta. Non potea mancare di trovar seguaci: il danaro della principessa sparso ad arte, la promessa del saccheggio del banco pubblico e delle case facoltose, gli avrebbe accresciuti. Con tali forze assalir dovea e mettere a morte il presidente del regno, la nobiltà, i magistrati, e farsi padrone del castello e de’ baluardi. Doveasi allora proclamar la repubblica, di cui il primo doge esser dovea Francesco Barone da Morreale, uomo d’ingegno colto e gentile, che scrisse l’opera De Majestate Panormitana, il quale per la sua libertà di pensare era da più anni nelle carceri del sant’officio.
Prima cura del nuovo doge esser dovea quella d’invitare tutte le altre città del regno a scuotere il giogo del governo spagnuolo, scrivere a Masaniello, per istringer lega tra la repubblica siciliana e la napolitana, e far pace a qual si sia partito col re di Tunis, il bey d’Algeri e ’l gran signore, e chiamarli, per dare addosso all’armata spagnuola, ch’era nei mari di Napoli.
Non è improbabile, che quella congiura avesse cominciato ad ordirsi dal Vairo sin dal tempo, che governava il marchese di los Veles. Ed era forse questa la ragione, per cui egli erasi mostrato avverso a que’ movimenti popolari, i quali anzichè agevolare, frastornavano il suo piano. Nè pare verisimile, che un piano così vasto avesse potuto concepirsi da un domestico. L’essere stato il Barone proposto da’ cospiratori per doge della nuova repubblica; l’avere lo Alessi nel suo momentaneo governo chiesto all’inquisitore la costui liberazione, per destinarlo a suo segretario; l’essere egli uomo da ciò, potrebbe far sospettare, che costui avesse avuta parte alla cospirazione: e comechè dalla confessione de’ rei ciò non si vede, pare che il governo lo abbia anche sospettato; chè il Barone non ricuperò più la libertà.
Che che ne fosse stato, la congiura fu scoperta. Il Vairo e tre de’ suoi compagni vi perderon la vita sul patibolo. Ma non perciò la Sicilia restò senza timori; anzi poco mancò, che un nuovo turbine venisse dallo straniero. Gabriello Platanella prete, cappellano dell’ospedale grande di Palermo, levato dal suo posto, cercando altrove miglior ventura, erasi ridotto in Marsiglia, ove presentossi al governatore e fecesi credere spedito da’ consoli di Palermo, per chiedere ajuto al re Luigi XIV, onde cacciare gli Spagnuoli da Sicilia; e quello lo mandò in Parigi al cardinal Mazzarino, il quale, visto che quel prete non mostrava nè lettere, ned altra prova della sua missione, datogli danaro, lo mandò in Roma all’ambasciatore francese, perchè costui più da vicino potesse indagar la cosa. Messosi il prete in viaggio, ebbe a compagno il marchese Maffei, che da Palermo a Roma recavasi, e, come è solito tra compagni di viaggi, strinsero dimestichezza. Lo sciocco prete, creduto colui un francese, palesogli l’oggetto della sua gita, e colui non volle trarlo d’inganno e facea le viste di approvare il suo pensiere. Giunti in Roma, gli disse, che per fargli meglio riuscie l’affare, sarebbe ito a prevenire l’ambasciatore di Francia, e intanto stesse chiuso nella sua stanza, a scanso che alcun siciliano o spagnuolo non lo vedesse; e così fece.
Il Maffei intanto corse ad avvertire il conte di Ognate, ambasciatore di Spagna, della scoperta; col quale convenne di dire al prete, che per guardare la necessaria secretezza sulla sera avrebbe mandato a levarlo colla sua carrozza. Tornato all’osteria, il Maffei disse al prete essere lo ambasciatore di Francia lietissimo del suo arrivo, e la sera si sarebbe secolui abboccato. Fatto notte, il conte d’Ognate spedì la sua carrozza con servidori vestiti alla francese; ed ebbe a se il Platanella e lo accolse con maniere gentilissime. Ebbro il prete di tanto onore, pieno di belle speranze, palesogli tutto il suo pensiere: anzi a richiesta dell’ambasciatore scrisse una memoria, in cui conteneasi tutto il proggetto e’ nomi dei consoli, ch’ei dicea di averlo spedito. Il conte, per meglio deluderlo, lo tenne ad albergo in sua casa, ed assegnolli due soldati, travestiti da servitori, con tutt’altro incarico che quello di servirlo. Dopo alcun giorno finalmente gli disse esser mestieri, che facesse tosto ritorno in Sicilia per meglio combinare le cose; avrebb’egli provveduto alle spese del suo viaggio: e intanto fu largo nel promettere ajuti del re di Francia. Datogli danaro in copia, lo fece imbarcare sul Tevere e fecelo accompagnare da un uffiziale borgognone, fattogli credere d’esser francese, al quale die’ secretamente l’incarico d’arrestare il compagno, giunti appena in Sicilia, e consegnarlo al cardinal Trivulzio. La barca, che li portava, da una tempesta fu trasportata a Milazzo. Quel baccello fu consegnato ad un capitano d’armi e condotto in Palermo. Esaminata la cosa, fu trovato essere i consoli affatto innocenti. Il prete morì sulle forche.
VII. — Pure fra tante cospirazioni, che di giorno in giorno rinasceano, una ne fu ordita nel 1649 la quale e per la condizione de’ congiurati e per l’oggetto, cui miravano, die’ assai che temere al governo. Era il re Filippo III passato alle seconde nozze con Maria Anna d’Austria figliuola di Ferdinando III imperatore di Germania. Mentre in Sicilia faceansi feste per il maritaggio, si sparse voce d’essersi il re ammalato e poi morto. Ciò dava luogo in tutti i crocchi a varî ragionari sul futuro destino della Sicilia. Antonio del Giudice e Giuseppe Pesce, avvocati di gran nome in Palermo, si diedero ad insinuare nelle case de’ signori, ove familiarmente usavano, essere oramai favorevole la congiuntura di scuotere la straniera dominazione; avere il regno perduto il nome e la potenza, dachè lo scettro era passato in mani straniere e lontane; dovere i baroni siciliani promovere ora alcun di loro al trono, nè mancare in Sicilia famiglie, le quali per l’antichità del legnaggio eran degne di corona; esser questo il solo mezzo di risorgere il regno alla grandezza, cui era giunto sotto i principi normanni, svevi ed aragonesi.
Questi discorsi erano generalmente graditi, e più che altri vi dava orecchio il conte di Mazzarino de’ Branciforti sulla speranza di esser egli assunto al trono; e die’ a far delle pratiche cogli altri baroni, per recare ad effetto quel pensiere, ed assai persone trovò fra’ nobili pronte a secondarlo in tutto, menochè nel promuover lui al trono: chè le mire de’ suoi avvocati e degli altri erano dirette al principe di Paternò, duca di Montalto, il quale oltre al chiarissimo sangue, era innanzi ad ogni altro barone siciliano potente e dovizioso. Possedea egli in Sicilia vastissimi stati, oltre a quelli che avea in Ispagna, a’ quali erano venuti ad aggiungersi quelli del duca d’Alcalà, cui per ragion della moglie era succeduto; ed oltracciò espertissimo era nell’arte di governare. Era stato più volte presidente del regno di Sicilia; poi era stato promosso a vicerè di Sardegna, e dopo di avervi governato dieci anni, gli era stato successore il cardinal Trivulzio. Disgustato del governo, per averlo tolto di carica senza dargli altra remunerazione, era venuto non guari prima in Sicilia, erasi ritratto alla sua contea di Golisano, e quindi era venuto in Palermo, ove da pochi lasciavasi vedere: e quel suo misterioso contegno accrescea nel pubblico il desiderio di lui e ’l rispetto per la sua persona.
Palesatogli da Pietro Opezzinga nobile palermitano la trama in apparenza diretta a promuovere il conte di Mazzarino, altamente approvolla: e conferenze si faceano spesso tra ’l duca, l’Opezzinga e’ due avvocati. In breve s’estese il numero de’ cospiratori; v’erano de’ Ventimiglia, dei Filangieri, de’ Gaetani, de’ Requesenz, degli Afflitto, de’ Carretto; v’era fra gli altri Simone Rau e Requesenz parroco della Kalsa in Palermo, uomo assai rispettato per gl’incontaminati costumi e per la dottrina. In questo la contessa di Mazzarino, donna assai avveduta, venne in cognizione, che in quell’affare mettevasi avanti il conte suo marito solo per dar nome e peso alla congiura; però ne lo avvertì, facendogli considerare, che se la cosa riusciva a male, ne sarebbe andato per lui della vita; se a bene, altri ne avrebbe colto il frutto. Persuaso da ciò il conte, spedì il suo segretario, per isvelare la congiura al principe don Giovanni di Austria figliuolo naturale del re allora vicerè in Sicilia, che in Messina trovavasi.
L’oggetto della congiura, la qualità dei congiurati spaventarono il principe. Temea egli, che il tentar di arrestare o punire i più cospicui e potenti personaggi del regno non affrettasse più presto la congiura: e però fece carcerare in Palermo solo i due avvocati, un Lorenzo Platania causidico e due preti zii del Pesce, acciò gli altri congiurati, avvertiti da ciò, che le loro trame erano scoperte, anzi che ricorrere a mezzi pericolosi e violenti, per salvarsi pigliassero la fuga. Così avvenne per punto; tutti camparono tranne il conte di Regalmuto, che temè di mostrarsi reo fuggendo, di che poi mal gliene incolse, l’abate Gaetani, fratello del principe di Cassaro, che fu arrestato in Messina,oil parroco Rau e ’l principe di Paternò. Destinati i giudici, fu compilato il processo a tutti. Fu carcerato il conte di Regalmuto; il parroco Rau, perchè familiare dell’inquisizione, fu stretto in quelle carceri; pe’ fuggiti fu pubblicato il bando, i loro beni furono confiscati; una taglia di duemila scudi e ’l perdono di qualunque delitto furono promessi a chi ne avesse dato alcuno vivo o morto nelle mani del governo.
Di coloro, ch’erano stati carcerati, furono decapitati il conte di Regalmuto, l’abate Gaetani e i due avvocati; e sulle forche o strangolati morirono il Platania e un Mercurio Micciardo, maggiordomo del conte di Mazzarino. Il parroco Rau fu salvato, facendosi credere d’avere anch’egli svelata la congiura al padre Spucchez gesuita. Ma il principe di Paternò, forse più reo degli altri, non fu molestato; recatosi anzi in Madrid, fu da re Filippo promosso a vicerè d’Aragona (vedi bontà!); e quindi, abbracciato lo stato ecclesiastico, morì cardinale.
VIII. — Tali momentanee vertigini non fecero desistere il governo spagnuolo dall’abitudine di trar danaro, come ed onde che fosse. Il principe don Giovanni d’Austria, venuto appena al governo del regno, per potere sollecitamente approntare un’armata di galee in Messina mise in vendita il perdono di qualunque delitto, tranne quello di lesa maestà, e ne fissò la tariffa. Le città di Girgenti, Alicata e Patti furon vendute. I privilegi poi di Messina e le brighe tra quella città e Palermo erano una sorgente perenne di doni e di propine per la corte e pe’ ministri di Spagna. Il senato di Palermo nel partire il duca dell’Infantado, dopo d’essere stato vicerè, gli assegnò una pensione di dodicimila scudi l’anno, come protettore delle città.
L’arditezza del popolo di Messina giunse a tale, che avendo il vicerè conte d’Ajala spedito in Milazzo un percettore con cento soldati, per esigere certi tributi, dai quali i Messinesi teneansi pei loro privilegi esenti, come Milazzo era compreso nel distretto di Messina, vi fu mandato uno de’ senatori con cinquecento armati. La truppa regia fu volta in fuga: il percettore fu condotto in Messina, ove gli venne data la colla in una piazza pubblica. Due dei loro furono mandati in Madrid, i quali ottennero un ordine diretto al vicerè di non molestare più oltre Messina, senza farsi più motto di quel delitto: nè ciò potè ottenersi colle nude parole.
Anche più ebbe a spender poi Messina per ugner le mani al vicerè duca di Sermoneta, che il popolo chiamava duca da far moneta, tanto ne era ingordo, il quale caldamente sposò le parti di Messina. Vi stette gran pezza, per far valer quel privilegio, che più milioni era costato. Fu allora che per opera del messinese Ascanio Ansalone duca della Montagna, ottenne quella città lo strano privilegio, che solo da Messina potessero trarsi le sete per fuori regno. Il senato di Palermo e la deputazione del regno rimostrarono al vicerè il danno che ne sarebbe venuto a tutto il regno, e non ebbero ascolto; anzi volendo i Messinesi, che ciò passasse in legge e se ne facesse una prammatica, il vicerè volea compiacerli. Erano i Messinesi sicuri di ottenerlo; da chè de’ diciannove magistrati, che componeano il sacro consiglio, dieci eran messinesi e solo cinque palermitani. Pure tale era l’ingiustizia della pretensione, che la maggior parte di quei magistrati negaronsi a sottoscrivere la prammatica. Il popolo levossi in armi e minacciò di incendiarne le case. Fu forza compiacerlo. La prammatica fu sottoscritta; e per sedare il tumulto, il vicerè si fece ad una finestra fra due torchi accesi, chè era notte, e mostrò alla bordaglia la prammatica bella e sottoscritta.
Intanto la deputazione del regno e ’l senato di Palermo spedirono in Madrid il parroco Francesco Vetrano, il quale tanto fece, che fu rivocato, non che quel privilegio, ma l’altro per la dimora del vicerè avendo dichiarato il re che i vicerè stessero ove la loro presenza era più necessaria. In questa congiuntura il senato di Palermo fece a re Filippo un dono di ventimila scudi con alquante reliquie di s. Rosalia. Non la poterono sgozzare i Messinesi; più calda divenne la contesa: ma mentre si contendea, Filippo III finì di vivere addì 15 di aprile del 1665.