Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XLVI. I. Morto Filippo III, regna Carlo II. — II. Tumultuazione in Messina. — III. I Francesi ajutano la ribellione. — IV. Battaglia navale davanti Palermo. — V. Il marchese di Castelrodrigo vicerè. — VI. I Francesi abbandonano Messina. Vendetta presa sopra i Messinesi. — VII. Vessazioni del vicerè duca di Santo Stefano. — VIII. Duca di Uzeda vicerè. — IX. Studi dei Siciliani sotto il dominio della casa d’Austria.

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CAPITOLO XLVI.

I. Morto Filippo III, regna Carlo II. — II. Tumultuazione in Messina. — III. I Francesi ajutano la ribellione. — IV. Battaglia navale davanti Palermo. — V. Il marchese di Castelrodrigo vicerè. — VI. I Francesi abbandonano Messina. Vendetta presa sopra i Messinesi. — VII. Vessazioni del vicerè duca di Santo Stefano. — VIII. Duca di Uzeda vicerè. — IX. Studi dei Siciliani sotto il dominio della casa d’Austria.

I. — Carlo II unico figliuolo del morto re, contava appena tre anni quando fu assunto al trono. Il governo fu nella sua minorità dal padre affidato alla regina vedova, con un consiglio di sei ministri. Se la minorità dei principi è sempre cagione di debolezza ne’ governi, assai più dovea esserlo la minorità di Carlo II, che trovava la suprema autorità già da lung’ora mal rispettata: e ben se ne videro gli effetti in Sicilia. Le tante franchigie concesse a Messina, l’uso di comprare il silenzio della corte di Madrid per qualunque ardimentoso procedimento, aveano reso quel popolo indocile all’autorità del governo; tanto che, essendo vicerè il duca di Alburquerque negaronsi a pagare più oltre quel dazio che diceasi quarta dogana e serviva alla custodia di que’ castelli. Il vicerè per indurre quel popolo a pagare il dazio, avea colà spedito Emmanuele di Mionga giudice della monarchia. Non fu ricevuto; anzi fu tagliata la gomena, che legava al lido la galea che lo portava, per farla di forza allontanare. il ministero di Madrid fe’ alcun caso di ciò. Tale rea condiscendenza confermò gli animi nel poco rispetto all’autorità del governo, ed assai contribuì alle triste vicende, che non guari dopo seguirono.

II. — Sterile era caduto il raccolto dell’anno 1671, anche più quello del 1672, in cui la carestia fu somma. Gl’insani regolamenti, per cui il magistrato dovea pensare a dar mangiare ai cittadini, faceano che in simili casi non a naturali cagioni, ma a malversazioni la carestia sempre si ascrivea, indi alla calamità naturale teneano spesso dietro disordini e tumultuazioni. Così avvenne in Messina. La plebe levossi in capo contro il senato, incese le case de’ senatori, saccheggiò il palazzo del comune, stanziò nuovi regolamenti per l’amministrazione dell’annona, respinse i senatori ed altri ne elesse. Lo stratigoto Luigi dell’, che pure avea fama di uomo virtuoso, confermò colla sua presenza e coll’autorità sua tutti questi procedimenti e ne dieconto al vicerè principe di Lignè, il quale recatosi tosto in Messina, disapprovò quanto avea fatto lo stratigoto, lo allontanò dalla città, e dall’altra mano si die’ ad esaminare l’amministrazione tenuta dal senato e punì i colpevoli. La tranquillità parve ristabilita, ma il germe della sommossa restava. Due fazioni eransi formate in quella città; quella della plebe, che diceasi dei Merli; quella del senato e de’ patrizi, che dei Malvizzi avea nome. Il marchese di Crispano nuovo stratigoto favoriva i primi. Un sarto della fazione de’ Malvizzi fu da lui carcerato per una pittura esposta sulla sua bottega, che lo stratigoto credè allusiva alla sua condotta. Il senato e molti nobili intercessero in suo favore; lo stratigoto negossi a scarcerarlo. Riunitosi allora nel palazzo del comune il senato, al suono della gran campana del duomo convocò il consiglio della città e tutti coloro che erano erano de’ Malvizzi. Vi fu stabilito di pigliar le armi e cacciare lo stratigoto e tutti i Merli. Una turba di faziosi armati, con due cannoni, corsero ad assaltare il palazzo dello stratigoto, il quale difeso da dugento fanti spagnuoli si difese assai tempo. In questo il senato pubblicò un’avviso, con cui palesava di aver permesso al popolo di armarsi per liberar la città dall’oppression dei Merli e dello stratigoto: dichiarava nemici della città il marchese di Crispano, il suo antecessore Luigi dell’Oyo, il vicario generale dell’arcivescovo, il principe di Maletto Spatafora, il presidente Alliata, l’avvocato fiscale della gran corte Painotto, Anzalone, avvocato fiscale della corte dello stratigoto, e tutti coloro della famiglia Cirino; annullò tutto ciò che era stato stabilito nel 1671, tranne il capitolo che tre de’ senatori fossero popolani, ed abolì la quarta dogana, ch’era stata rimessa dal principe di Lignè. E tanto il governo spagnuolo avea avvezzato quel popolo a governarsi quasi come repubblica indipendente, che il senato tenendo affatto regolare la sua condotta, spedì messi al marchese di Bajona vicerè, per dargliene conto e chiedere la punizione de’ Merli, autori di tanti trambusti.

Il vicerè mosse allora da Palermo alla volta di Messina. Fermatosi in Milazzo, fece sapere a quel senato il suo arrivo; n’ebbe risposta esser pronta la città a riceverlo con tutti gli onori a lui dovuti, purchè bandisse lo stratigoto ed entrasse in città senza truppa. Quest’audace risposta fece infellonire il vicerè; ed avanzossi verso Messina, sulla speranza che si fosse rispettato il suo carattere; ma fattosi presso la città, fu respinto a colpi di cannone. Ritornato a Milazzo, bandì un general perdono per tutto ciò ch’era accaduto dal sette di luglio in poi, purchè quei cittadini tornassero all’obbedienza del re. Ciò servì solo a renderli più arditi ed ostinati. E però si accinse a sottomettere la città colla forza; ed a tale oggetto fe’ venire a Milazzo tutte le truppe, che erano sparse per le altre piazze del regno, e chiamò il servizio militare de’ baroni. Con tali forze soccorse que’ castelli, ch’erano in potere dei soldati regî, e lo straticò; e cinse la città in modo che non potessero giungervi soccorsi di gente e di viveri.

Lacrimevole era in questo lo stato dell’infelice città, stretta al di fuori, lacerata al di dentro; chè i Malvizzi fecero man bassa su tutti coloro della contraria fazione. Assai ne misero a morte; gli altri ebber dicatti fuggire al campo regio. Le castella guernite di truppe regie tempestavano i forti, ch’erano in mano de’ sediziosi, e questi il real palazzo, ove difendeasi lo stratigoto. Pur finalmente fu forza a costui capitolare e cedere, non che il palazzo, ma la torre del faro, ed ebbe così a gran ventura il ritirarsi egli ed i suoi con tutto il bagaglio. Anche il castellaccio venne in potere de’ Messinesi.

III. — Malgrado tali vantaggi, pericolosa era la condizione di que’ cittadini. La città mancava di viveri, di denaro e di soldati, per potere far fronte alle forze, che la Spagna avrebbe senza meno rivolte a quell’impresa. Aveano ben eglino fatto fondere tutti gli argenti delle chiese per moneta; giungea a quando a quando qualche carico di viveri: ma tutto ciò era a gran pezza inferiore al bisogno. Però si rivolsero a cercare l’ajuto straniero e spedirono messi al re Luigi XIV di Francia. Quell’ambiziosissimo re, allora in guerra colla Spagna, accolse con piacere la richiesta e promise loro ogni maniera d’ajuti. Intanto che si stava in Messina ad aspettarli, varî incontri seguivano tra la truppa regia e i Messinesi con vantaggio or dell’una or dell’altra parte. Non guari dopo addì 28 di settembre giunse in Messina il cavaliere di Vallebelle, che seco menava sei vascelli di linea e tre brulotti, carichi di truppe e di viveri. Non è a dimandare se ne furono lieti i Messinesi. Da per tutto fu tolto il ritratto di Carlo II e sostituitovi quello di Luigi XIV, la bandiera di Francia sventolò su tutti i castelli, il senato depose la toga spagnuola e in tutti i festivi mostravasi vestito alla francese. Accrebbe la gioja della città la presa del castello del Salvatore. Francesco Arecuso, che vi comandava, non potendo reggere ad un vigoroso attacco fattogli dalle truppe francesi e dalle bande messinesi, promise di render il castello, con doverne uscire con tutti gli onori militari, se fra otto giorni non fosse soccorso. Prima spirar quel termine fu in veduta l’armata spagnuola, forte di ventitrè legni. Si fece credere all’Arecuso d’esser quello un nuovo rinforzo mandato dal re di Francia, e lo si fece entrare in dubbio, che il comandante, non trovato reso il castello, si negasse ad adempire i patti della capitolazione. Lo spagnuolo vi prestò fede: ma venuto appena fuori, accortosi dell’inganno, tentò di riprender di forza il castello e vi restò prigione.

La letizia dei Messinesi fu di breve durata. Il Vallebelle ripartì. I viveri da lui portati eransi già consumati e la fame si fece maggiormente sentire, perchè il mare restò affatto chiuso dalle numerose navi spagnuole; e dalla terra il marchese di Bajona sempre più strignea la città. Mancati i viveri d’ogni maniera, giunse quel popolo a pascersi de’ più stomachevoli cibi: pure si confortava colla speranza di un vicino soccorso.

Addì 12 di dicembre del 1674 giunse in Palermo il nuovo vicerè marchese di Villafranca, e tosto ne ripartì per recarsi al campo di Milazzo. Cercò sulle prime ricondurre i Messinesi all’obbedienza con indulto generale pubblicato, ma non fe’ frutto. Ringagliardì l’attacco, gli venne fatto di ripigliar la torre del faro e di meglio custodire il braccio di san Ranieri, ed intanto facea devastare tutte le campagne dei dintorni. Vennero così ad accrescersi dentro la città gli orrori della fame. In questo addì 7 di gennaro del 1675 fu in vista di Messina una nuova armata francese forte di sette vascelli e tre barche incendiarie comandata dal marchese di Valevoir e dallo stesso Vallebelle, ed accompagnata da otto tartane cariche di vettovaglie. Quella vista accrebbe l’agonia degl’infelici Messinesi; dacchè l’armata spagnuola di gran lunga più numerosa della francese difendea l’entrata del porto. Ben sel vedeva il comandante francese; pure la certezza che senza quel soccorso Messina sarebbe caduta, lo determinò ad avventurar la battaglia, malgrado le impari forze, ed a golfo lanciato tirò contro l’armata spagnuola; ma l’ammiraglio di essa Melchiorre de la Cueva non ne aspettò l’incontro e ritirossi in Calabria. Stupirono tutti di tanta viltà. Saputosi ciò in Ispagna, quell’ammiraglio e i comandanti de’ legni furono degradati e puniti da un consiglio di guerra.

Il marchese di Valevoir e ’l cavalier Vallebelle furono ricevuti in Messina come liberatori. Ma i viveri da loro recati non erano sufficienti per la città, ove allora contavansi da ottantamila abitanti; la fame cominciava a farsi sentire da capo: per che il senato determinossi a trattar segretamente col marchese di Villafranca la resa. N’ebbe lingua il Vallebelle e minacciò di spianar la città, se quel trattato più oltre continuava. Rinfacciò la ingratitudine al re di Francia, promise, che nuovi soccorsi sarebbero presto giunti. le sue promesse furon vane. Ivi a pochi giorni si seppe esser giunto a Lipari il duca di Vivonne con otto vascelli ed altri legni da guerra e da carico, comandati dal tenente generale Duquesne. L’armata spagnuola volle lavar l’ignominia della viltà mostrata nel primo incontro e corse ad attaccare la francese; questa rifiutò la battaglia, comechè di gran lunga inferiore. Il giorno 9 di febbraro del 1675 le due armate vennero alle mani. Ad onta del suo coraggio l’ammiraglio Duquesne era per aver la peggio nel conflitto e già cominciava a cedere, quando inaspettatamente sopraggiunse il cavaliere Vallebelle con tutti i legni, che seco avea in Messina, il quale, conosciuto, che gli Spagnuoli correvano ad attaccare l’armata di Duquesne, avea lor tenuto dietro. Il suo arrivo pareggiò la partita; anzi accrebbe il coraggio de’ Francesi, e gli Spagnuoli ne furono sopraffatti. Uno de’ loro vascelli fu preso, due affondati, gli altri dispersi.

Vinta la battaglia, il duca di Vivonne venne a Messina. Addì 22 d’aprile fu solennemente riconosciuto come vicerè nella città di Messina e negli altri luoghi dell’isola di Sicilia, nei quali i popoli si averanno scaricato del giogo spagnuolo, e con tal carattere ricevè da’ senatori l’omaggio e giurò l’osservanza de’ privilegi della città in nome del re Luigi; e nel seguente maggio si fece la gran cavalcata allora in uso in tutte le giulive occasioni.

Allontanata l’armata nemica, reso libero il mare, ogni cosa era lieta in Messina: ma negli altri luoghi di Sicilia i popoli, se voleano scaricarsi del giogo spagnuolo, come la corte di Francia sperava, non volevano addossarsi il giogo francese; senzachè le armi francesi non venivano a sostenere alcun movimento generale della nazione, ma a difendere la ribellione di una sola città, mossa dalla brama di volersi ingrandire a spese di tutto il regno: bastava ciò a renderle odiose, onde pochi progressi potè fare il duca di Vivonne. Tentò d’assalire per mare e per terra il campo di Milazzo. Mentre per le vie di terra avanzavasi il marchese Valevoir coll’esercito, l’armata sotto il comando dello stesso duca di Vivonne dovea accostarsi alla piazza. Ma i contrarî venti frastornarono il disegno. Il marchese di Valevoir s’avvicinò a Milazzo, il vicerè volea decampare ed abbandonar la piazza; ne fu distolto dal principe di Palagonia, che colà era cogli altri baroni, e lo indusse anzi a venir fuori con tutte le forze incontro ai nemici. Il generale francese, non sostenuto dall’armata, non osò venire alle mani e si ritirò.

Ivi a pochi giorni mostrossi il duca di Vivonne ne’ mari di Palermo: ma vista la disposizione ostile del popolo, se ne allontanò. In quella vece accostossi ad Augusta, che dopo settore di combattimento s’arrese pel tradimento di quel secreto, che solo in tutta Sicilia, da Messina in fuori, favorì i Francesi. Per riprender quella piazza il vicerè ordinò al nuovo ammiraglio principe di Montesarchio di andare ad attaccarla per mare: ma questi venuto fuori da Milazzo seppe, che il duca di Vivonne avea rimandato in Francia la maggior parte de’ suoi legni; onde invece di dirigersi ad Augusta tirò verso Messina; per attaccare l’armata francese. Un violento sirocco impedì la battaglia. Ritornò dopo pochi giorni l’armata spagnuola; ma una fiera tempesta la disperse: parte a sommo stento ed assai danneggiata venne a ricovrarsi in Palermo.

In questo la repubblica d’Olanda, alleata della Spagna contro la Francia, mandò in Sicilia in ajuto della prima un’armata di diciotto vascelli di linea e dodici barche minori, comandata da Ruiter, il più intrepido ed esperto capitano di mare di quell’età (623). Sulla sera del 7 di febbraro del 1676, l’armata olandese ebbe a fronte la francese, comandata da Duquesne. Pari eran le forze. Il domani ebbe luogo un ostinato conflitto. Risarcite durante la notte le navi danneggiate, sul far del giorno 9 le due armate trovaronsi accresciute, la olandese di otto vascelli che conducea da Palermo il principe di Montesarchio, la francese di dieci, che da Messina menava il signor d’Almeres. Una lunga calmaria impedì un nuovo incontro. Dopo due giorni le due armate si separavano, senza che alcuna avesse potuto vantar vittoria: gli olandesi aveano perduto il vice-ammiraglio Vesquer, i Francesi erano stati i primi a ritirarsi.

Intanto i Messinesi erano già stanchi della guerra; il commercio loro era arrenato; nulla potean trarre dalla terra; chè i beni loro erano o confiscati dal governo o sperperati dalle truppe regie. Le prime amichevoli accoglienze fatte a’ Francesi eransi già intiepidite. L’imperiose maniere del duca di Vivonne non poteano esser gradite ad un popolo uso all’inobbedienza: e tal mal umore era accresciuto da’ costumi licenziosi dei soldati francesi e soprattutto dall’avidità del signor d’Antega, segretario del duca di Vivonne, il quale ingelosito della confidenza, che dava il suo signore ad un padre di Lipari domenicano, che molta parte avea avuta ne’ primi movimenti di Messina, lo avea fatto allontanare. Erasi costui ridotto in Roma ed introdotto nella confidenza del cardinal Nittardo gesuita già confessore della regina reggente di Spagna. Allontanato costui pe’ suoi intrighi dal principe D. Giovanni d’Austria, anelava di tornare in corte con qualche segnalato servizio; perciò avea istigato il Lipari a tornare in Messina, per far modo di ricondurre la città alla obbedienza del governo spagnuolo. Il monaco, per vendicarsi del duca di Vivonne, avea accettato lo incarico, e venuto in Messina con un suo fratello, avea ordita una congiura, per dar la città agli Spagnuoli. Scoperta la mena, il duca di Vivonne avea fatto impiccare i due fratelli e gli altri congiurati, ed avea tolte le armi ai cittadini, i quali da quel momento guardavano i Francesi come oppressori.

Il vicerè e l’ammiraglio Ruiter, a’ quali non era ignoto lo stato delle cose in Messina, pensarono di correre al tempo stesso sopra quella città, e mentre questo colla sua armata teneva in rispetto la francese e l’impediva d’agire, quello per la via di terra dovea attaccare due forti, che il Vivonne avea fatto erigere fuori la città; superati i quali, era facile impadronirsi della città stessa. L’impresa mostrò da prima di volere riuscir bene: i due forti furono espugnati; ma quel popolo, temendo la vendetta dell’esercito regio, se entrava di forza in città, chiese a gran grida le armi per difendersi. Il duca di Vivonne costernato non potè negarsi. I Messinesi allora diedero addosso agli Spagnuoli con tal furia, che i due forti furono ripresi e l’esercito regio respinto.

Fallita quell’impresa, tentò il marchese di Villafranca di cacciare i Francesi da Augusta. Sperava riuscirvi per mezzo de’ cittadini, cui il dominio francese era odioso, co’ quali teneva pratiche. Ruiter vi fu spedito per assalir la piazza; Duquesne v’accorse per difenderla. Addì 22 di aprile del 1676 le due armate furono a fronte ne’ mari tra Siracusa ed Augusta. A quattr’ore p. m. cominciò lo attacco tra le due antiguardie: al primo scontro restò morto dei Francesi il marchese d’Almares, che comandava quella prima squadra, di cui prese tosto il comando il cavaliere di Vallebelle. Quella prima linea già piegava; l’ammiraglio Duquesne, invece di correre ad attaccare il centro dell’armata olandese, ebbe a voltarsi, per sostenere la sua antiguardia, gli altri legni olandesi entrarono allora anch’essi nel combattimento, che divenne generale. Immensa fu la strage e grave il danno dall’una parte e dall’altra. Le tenebre della notte posero fine alla battaglia. Francesi ed Olandesi, come spesso accade ne’ combattimenti di mare, vantaron vittoria: ma Ruiter cadde e la sua morte equivalse peFrancesi alla più segnalata vittoria. Sin dalle prime fu colto da una cannonata, che gli fe’ saltare mezza gamba; trasportato nel suo letto continuò a dar gli ordini per la battaglia, che vennero così bene eseguiti da Gerardo di Galembourg primo capitano del vascello, che nessuno s’accorse della sua mancanza. Dopo la battaglia fu posto in terra a Siracusa, ove dopo pochi giorni si morì. Fu sepolto in una collina presso la città (624). La sua armata venne a fermarsi in Palermo.

in terra posavan le armi. Il marchese di Villafranca, ingrossato l’esercito, s’avvicinò a Messina, mettendo a ferro ed a fuoco campagne e villaggi. Il marchese di Valevoir gli venne incontro e si pose in agguato; ma una legione di Messinesi, che seco avea, mal rispettando gli ordini suoi, invece d’aspettare il nemico al luogo delle tese insidie, gli corse contro. La cavalleria spagnuola ne fece macello. Un nuovo rinforzo di venticinque galee francesi giunto in Messina obbligò il vicerè a desistere dall’impresa, ed all’incontro una di gran momento ne tentò il Vivonne. Confidando egli nella sua superiorità nelle forze marittime, cercò di distruggere l’armata spagnuola ed olandese, e forse di fare alcun colpo sopra Palermo, ove esse eransi ritirate.

Senza palesare ad alcuno il suo pensiere mosse egli da Messina con tutte le sue navi. Ma in Palermo già sapeasi il rinforzo delle venticinque galee venute di Francia ed attentamente si spiavano i movimenti del nemico; però giunse l’avviso da Termini di essere in vista l’armata nemica, che a vele gonfie tirava verso Palermo. A tale annunzio tutti i legni olandesi e spagnuoli colle galee di Napoli e di Sicilia furon posti in linea dalla foce dell’Oreto alla lanterna del molo, in guisa che le navi eran quasi in contatto. In questa pessima disposizione stettero ad aspettar l’attacco. E ’l popolo si affollò sulle mura per vedere lo spettacolo (625).

IV. — Addì 2 di giugno del 1676 l’armata francese accostossi a Palermo in tre squadre. La prima di nove vascelli, sette galee e cinque brulotti attaccò la battaglia. Il Vivonne colle due altre seguiva da presso. Sulle dieci ore a. m. cominciò l’attacco. Spirava un greco-levante, che quanto favoriva i Francesi, tanto dannoso riuscì agli alleati; dachè alle prime bordate un denso fumo levossi, che loro andava in faccia. Sin di allora cominciarono a disordinarsi; chè i segnali de’ comandanti non bene poteronsi scernere. Colto il destro di ciò, l’ammiraglio francese spinse avanti i suoi brulotti e gli venne fatto attaccare il foco a tre vascelli. Allora la confusione e ’l disordine divenne sommo; ogni legno cercava sostenersi; perocchè per la gran vicinanza era facile che le fiamme passassero da un legno all’altro. Intanto il Vivonne incalzava l’azione, fece dar fuoco alla reale di Spagna, la quale saltò in aria con ispaventevole fracasso, e fece affondare due altre galee, la Padrona di Napoli e la san Giuseppe di Sicilia, che le eran di costa. Tutto allora divenne confusione ed orrore, non che in mare, ma nella città. Tal denso fumo era spinto in città, che in pien mezzogiorno si abbujò; e l’orrore della caligine, anzi che rotto, veniva accresciuto dal fuoco dei cannoni e dalle fiamme delle navi incendiate; ned altro sentivasi che l’orrendo rimbombo delle cannonate; lo scoppio de’ legni, che stavano in aria, il fischio delle palle, lo scrosciare delle vetrate, e un generale ululato del popolo, mosso dalla commiserazione di tanti bravi, che miseramente perivano, e dal timore di uno sbarco de’ Francesi.

Settore durò quella spaventevole scena. Possono appena esprimersi i danni riportati dalle armate alleate. Vi periron fra tanti altri i due ammiragli Ivanos e Staen: nove vascelli e tre galee furono preda delle fiamme, e la gran parte de’ vascelli olandesi restò così mal concia, che se ne vendettero le manovre e i cannoni, che furono comprati dal senato di Palermo. E se il duca di Vivonne non colse altro vantaggio della vittoria, ciò più che pel danno da lui riportato, che non fu lieve, avvenne pel coraggio del popolo palermitano. Dietro i movimenti popolari seguiti nel passato regno avea il cardinal Trivulzio tolto i cannoni da tutti i baluardi della città e ripostigli in maggior parte nel cortile del palazzo arcivescovile. In quel momento di pericolo il popolo vi accorse chiedendo a gran grida i cannoni. L’arcivescovo monsignor Luzana negossi: ma non potendo reggere alla furia popolare, travestito scappò. Tratti i cannoni, il popolo corse a piantarli su quei bastioni, che allora erano sulla marina, e cominciò a fare un fuocovivo contro i Francesi, che a quell’atto inaspettato, lasciata la voglia di metter piede a terra, si ritirarono.

V. — Il marchese di Castelrodrigo succeduto al marchese di Villafranca nel governo del regno, trovò la Sicilia pressochè sossopra. L’erario esausto per le ingenti spese della guerra; il commercio affatto spento, per essere i Francesi divenuti padroni del mare; ned essere possibile chieder nuovi soccorsi alla nazione in un momento, in cui ogni lieve disgusto de’ cittadini potea aver funeste conseguenze. E però stette sulla difesa, ed intanto grandi premure facea alla corte, per aver soccorsi d’ogni maniera. Le stesse richieste facea il duca di Vivonne, che sempre agognava a sottomettere tutto il regno. guari andò che a lui furono mandati altri trenta vascelli con danaro, viveri, artiglierie e soldati. Il vicerè prevedendo che il principale oggetto, che il Francese avea in mira, era Catania, ivi trasferì il suo quartier generale e vi chiamò il servizio militare di tutti i baroni. Il Vivonne, raccolto ed imbarcato tutto il suo esercito, prese terra ad Augusta: ma altro acquisto non potè fare che dare il sacco alla piccola terra di Melilli ed insignorirsi del forte, che le stava appresso, difeso da cencinquanta soldati spagnuoli, i quali, fatta la resistenza, che poterono, s’arresero a buoni patti. Avanzatosi poi verso Catania, di dal Simeto trovò l’esercito siciliano schierato in battaglia e pronto a venire alle mani. Senz’altro fare il duca di Vivonne tornò ad Augusta, e rimbarcate le truppe, si diresse per Taormina, posta nel miluogo tra Messina e Catania. Il vicerè ne avea tratte le compagnie de’ Tedeschi, che v’eran di guarnigione, e malgrado i reclami del conte di Prades, Carlo Ventimiglia, che vi comandava e lo avvertiva del pericolo, non volle rimandarle dopo la ritirata de’ Francesi, lasciando alla difesa della città i soli paesani armati. Assalita da quattromila Francesi, ogni sforzo del conte di Prades fu vano; la città fu presa, il conte stesso vi restò prigioniere. Il castello di Mola che sta a cavaliere alla città fu espugnato (626).

In questo, rimosso il primo ministro, la somma del governo della monarchia spagnuola era stata affidata al principe don Giovanni d’Austria, il quale rivolse l’animo a rimetter le cose di Sicilia. Diede il governo della guerra al duca di Bornaville sperimentato generale, e truppe fece venire in Sicilia da Genova, da Milano, da Sardegna, da Majorca, da Napoli. E perchè era stato assai ben’accolto da’ Messinesi quando era stato in Sicilia vicerè, scrisse loro una lettera, nella quale promettea il perdono e la conferma de’ loro privilegi, se ritornavano all’obbedienza. Ma i Messinesi, compulsi dalla prepotente forza francese, anche volendo, non poteano porger l’orecchio a parole di pace; però il conte di Bornaville, già arrivato in Sicilia nel giugno del 1677, preparossi con più vigore alla guerra.

Il duca di Vivonne erasi insignorito di Scaletta e Calatabiano, piccole terre tra Messina e Taormina, e ricevuto un rinforzo di presso a cinquemila uomini, era nell’autunno dell’anno stesso venuto a mettersi ad oste nelle pianure di Mascali con animo di stringere d’assedio Catania: ma l’aria mal sana di quei luoghi in quella stagione fece ammalare i soldati, millecinquecento ne morirono, e per non perdere tutti gli altri, peggio che disfatto in battaglia tornò a Messina.

Il castello di Mola non andò guari che fu ripreso dal conte di Bornaville, per opera di un prete della terra, nemico de’ Francesi. La notte de’ 17 dicembre dugento quaranta Spagnuoli accostaronsi al piede della rupe, sulla quale sorge quel castello; quaranta di essi furon tratti su colle funi dal prete e da’ suoi amici. Entrati così nel castello, assalirono la guarnigione, la quale colta alla sprovveduta, oppressa dal sonno, si arrese, salva la vita e la libertà.

Ma già la guerra, per cui il re Luigi XIV di Francia erasi indotto a soccorrere i Messinesi, tirava al suo fine; la speranza di voler conquistare la Sicilia era ormai svanita; e però essendo giunti a quel re i ricorsi del duca di Vivonne, che chiedea nuovi soccorsi, e de’ Messinesi, che si querelavano del Vivonne, egli spedì in Sicilia il maresciallo duca della Feuillade, in apparenza per richiamare in Francia il Vivonne e pigliare il governo in sua vece; in realtà per abbandonare con tutte le truppe Messina. Costui fece da prima le viste di tentare alcun’impresa, ma poi, raccolte le truppe, si dispose alla partenza. Chiamati sul vascello, ove era già salito, i senatori e i maggiorenti della città, comunicò ad essi l’ordine avuto di partire. Invano que’ miseri lo pregarono ad indugiare alcun giorno, per cercare di venire col governo spagnuolo ad alcun partito, solo poterono ottenere di essere trasportati in Francia coloro che il voleano. Quindicimila cittadini accettaron tale offerta, e addì 16 di marzo del 1678 abbandonarono la patria, i beni, i parenti gli amici. Tale fu la condotta del re Luigi XIV verso gl’infelici Messinesi. Ben è vero che non fu egli, che suscitò la loro sommossa: ma furono coloro, che comandavano in suo nome, che colle più severe minacce vietarono sempre ch’essi si fossero sottomessi; e l’onore di un gran re volea che avesse fatto ogni opera per sottrarli alla vendetta del governo spagnuolo. Miseri que’ popoli, che danno orecchio alle promesse degli stranieri e contano sulla loro lealtà! questo è il solo esempio di perfidia, che offrono gli annali della moderna storia di Sicilia.

VI. — Gl’infelici Messinesi non ebbero allora altro scampo che sottomettersi volontariamente. Era allora vicerè il principe Vincenzo Gonzaga, uomo dolce e magnanimo, il quale recatosi in Messina, pubblicò in nome del re un perdono generale; e scelse nuovi senatori, che tutti coloro, che teneano alcun magistrato, eran partiti coFrancesi. Ma la corte di Madrid, saputa la resa di Messina, conoscendo, che il principe Gonzaga sarebbe ito a rilento e di mala voglia nel trar vendetta da quella città, vi destinò consultore il feroce ed inesorabile Roderigo Quintana. Venuto costui in Sicilia, conobbe non esser da sperare, che quel vicerè prestasse mano all’esecuzione degli ordini rigorosissimi, che il governo volea emanare. A mal istento e dopo lungo indugiare potè ottenere che fossero confiscati i beni de’ fuorusciti. Però tanto scrisse in Ispagna quel Quintana, che il vicerè fu richiamato e venne scelto in sua vece il conte di Santo Stefano, strumento ben atto alla vendetta.

Giunto quel vicerè in Messina addì 5 di gennaro del 1679 abolì l’antichissima carica di sratigoto, e stanziò che indi innanzi la città fosse retta da un governadore militare; soppresse il nome di senato e ’l titolo d’illustrissimi, che davasi ai senatori; e in quella vece il magistrato municipale fu composto di Eletti con titolo meno orrevole di Spettabili; de’ già senatori scelti dal vicerè Gonzaga, due ne depose, che bandì, e loro sostituì due Spagnuoli; quel magistrato fu privato della toga e di ogni altra onorificenza; non più nel palazzo senatorio, ma nel regio ed alla presenza del governadore potè adunarsi, e gli venne tolta ogni giurisdizione nella città e nel distretto; eresse un nuovo magistrato detto Giunta di Stato, composto di giureconsulti, al quale affidò l’amministrazione de’ beni, non che de’ fuorusciti, ma della città stessa; chè il patrimonio tutto di essa fu confiscato; le spese tutte della città furono limitate ad ottomiladugento scudi: questi, non dagli eletti, ma dalla giunta doveano spendersi; e finalmente vietò sotto gravi pene qualunque corrispondenza di lettere cogli esuli.

Con ferocia degna di un Vandalo passò poi il Quintana a saccheggiare l’archivio pubblico della città. Tutti i privilegi, i diplomi e le pergamene, che colà si conservavano in più casse, ne furono rimossi, e sottratta ne fu del pari la sella e ’l bastone di comando del re Carlo I, imperatore, che quel principe avea lasciato in dono alla città. Tutto sparì, mai si è saputo che se ne fosse fatto. Se la ragion di stato volea, che si fossero tolti que’ privilegi a Messina, eran quelle carte da conservare come preziosi monumenti storici. Il farli sparire, il sottrarre una memoria, che l’imperatore Carlo avea voluto lasciar di se ad una città siciliana, fu un affronto fatto a tutta la nazione. Riposti eran pure in quell’archivio più volumi di antichi manoscritti greci, che il senato di Messina avea comprato da Costantino Lascaris, i quali trasportati in Palermo, vi furono serbati con altro spoglio.

qui si tenne la rabbia del conte di Santo Stefano e del consultore Quintana. Infellonivan costoro, più che contro Messina, contro la civiltà siciliana. L’ordine equestre della stella, modello di onore per la nobiltà del regno, fu soppresso; soppresse furon del pari le due accademie letterarie della fucina e degli abbarbicati; soppressa fu la famosa università, ove aveano letto i più bell’ingegni d’Europa; come se l’onore e le lettere, rendon gli uomini docili al santo impero delle leggi, non fossero stati sempre i più saldi sostegni del trono. Fu dalle fondamenta spianato il magnifico palazzo del senato, il suolo ne fu arato e sparso di sale; ed ivi fu eretta la statua equestre del re Carlo II, fatta col bronzo tratto dalla gran campana di quel duomo, al suono della quale si chiamavano i cittadini a consiglio. Essa fu opera di Giacomo Serpotta e Gaspare Romano. Per tal modo in mezzo a quel turbine di distruzione surse un monumento, per far conoscere lo stato delle belle arti in Sicilia in quell’età.

VII. — I baluardi poi, che fin’allora erano stati custoditi dai cittadini, furono guarniti di truppa spagnuola, per pagar la quale s’impose in città un dazio straordinario, che fu detto nuovo imposto. E finalmente fu eretta a grandi spese presso la città una fortezza detta la cittadella, per servire di difesa e di freno alla medesima.

la sola città di Messina, ma tutto il regno ebbe a sentire gli effetti del rigore e degli avventati modi di quel vicerè. Tutte le altre città del regno furono spogliate del dritto di scegliere i loro magistrati a bussolo, e la scelta loro fu riserbata al governo. le persone più eminenti in dignità e i magistrati supremi furono con più dolcezza trattati.

Avea quel vicerè destinati de’ capitani di campagna, per arrestare que’ malandrini, che infestavano le pubbliche vie. Parecchi ne furono colti nel maggio del 1680. Il tribunale della gran corte li fece tutti frustare e li condannò dieci anni in galea. Era fra costoro un soldato spagnuolo: tutti i militari spagnuoli si tennero offesi ed ebbero ricorso al vicerè, il quale senza por mente, che il tribunale ignorava la condizione di colui, perchè ned egli, altri avean messo avanti il foro militare, levò affatto di carica il presidente Diego Joppolo, l’avvocato fiscale Giovanni Rizzari, i procuratori fiscali ed i giudici, due dei quali carcerò, uno nel castello di Tusa, l’altro in quello di Cefalù; confinò i due procuratori fiscali in Lipari, e chiamò in Messina, ov’egli trovavasi, il presidente e l’avvocato fiscale. Il presidente col pretesto di malattia negavasi, e ritirossi in Solanto, feudo di sua famiglia. Il vicerè vi spedì una compagnia di soldati, con ordine di riscuotere dall’ex-presidente centoventicinque scudi al giorno per loro stipendio. Fu giocoforza obbedire: recossi il Joppolo in Messina, e quindi fu confinato in Cefalù. Non lasciò il tribunale di far giungere suoi reclami alla corte. Il reggente Pietro Valero fu spedito in Sicilia, per esaminare tale briga. Rappresentò costui essere il capitano di campagna il solo reo, perchè avea condotto lo Spagnuolo nelle pubbliche carceri, invece di consegnarlo al suo foro. Rappresentanza ingiusta; dacchè se il soldato avea reclamato il foro, il tribunale era reo del pari; se non lo avea, era anche innoccente il capitano. Questi stranieri aveano allora il diritto di essere assassini impunemente. In ogni modo il ministero di Madrid ordinò, che tutti que’ magistrati fossero rimessi in carica.

Ma quel povero presidente Joppolo fu ivi a poco per soggiacere ad altra persecuzione, dalla quale la morte campollo. In quello stesso anno 1681 una ridicola briga era nata in Palermo tra i domenicani di santa Cita e gli altri ordini religiosi, che per non dare la precedenza a quelli, si erano negati a intervenire alla processione, fatta per pubblicar la bolla della crociata. Monsignor Palafox arcivescovo di Palermo volle tramettersi in tale baja, e pigliando parte pedomenicani, sottopose all’interdetto le chiese degli altri religiosi. Sul ricorso di costoro il giudice della monarchia, come legato a latere, avea cancellato l’interdetto; il cocciuto arcivescovo ne avea bandito un secondo, più rigoroso del primo. Il vicerè, per comporre la cosa, avea pregato l’arcivescovo a ritirar l’interdetto, e come erasi ostinatamente negato, fatto prima esaminar l’affare dalla giunta de’ presidenti e del consultore, avea esiliato in Termini il pervicace prelato, il quale avea avuto ricorso a papa Innocenzo XI. La congregazione della immunità ecclesiastica, alla quale il papa rimise l’esame della controversia, decise in favore dello arcivescovo; e dichiarò incorsi nella scomunica il vicerè e coloro che lo aveano consigliato. In questo il conte di Santo Stefano, conoscendo il gran credito, in cui era presso la corte di Spagna quell’arcivescovo, dopo quattro mesi lo richiamò dall’esilio. Egli ritornò in Palermo, ma non volle comunicare col vicerè, coi magistrati, ch’egli tenea scomunicati. Finalmente dopo tre anni la corte di Madrid ordinò (e solo tal corte in Europa potea ordinarlo) che il vicerè, il suo segretario, il consultore e i tre presidenti fossero assoluti dalla scomunica. Solo al vicerè fu concesso, che la umiliazione non fosse pubblica. La notte de’ 12 di agosto del 1683 recatosi egli privatamente al palazzo arcivescovile, vi fu assoluto. Joppolo presidente della gran corte, il segretario del vicerè Vertivara erano morti; Guerrero presidente del concistoro trovavasi in Ispagna reggente del supremo consiglio d’Italia; Chafallon presidente del tribunale del patrimonio e Quintana furono il giorno 12 assoluti pubblicamente nel duomo di Palermo. Quantum in rebus inane!

VIII. — Pure più che del conte di Santo Stefano ebbe la Sicilia a dolersi del conte d’Uzeda suo successore. Dato costui agli studî, poco pensiere davasi del governo del regno, che interamente affidava ai suoi segretarî. Finchè visse Felice Lucio de Espinosa, che seco venne da segretario, uomo sagace, attivo ed onesto, il governo fu regolare e quel vicerè fu gradito: ma morto costui, ebbe la stessa carica il furbo e rapace Felice della Croce Haedo, il quale da una mano secondava la negghienza del vicerè e la sua passione per gli studî, dell’altra vendeva le cariche, la giustizia, il perdono de’ delitti. il duca altro pensiero davasi che spogliar la Sicilia di quadri, statue, antiche monete, libri di gran pregio o per la rarità o per l’edizione, ed antichi manoscritti. Trovato nel real palazzo i manoscritti del Lascari, ne li menò in Ispagna, per esservi forse pasto de’ ratti.

IX. — Fu questa l’ultima e forse non la men grave delle calamità, che afflissero la Sicilia nel xvii secolo, in cui tennero il regno gli ultimi tre re della famiglia austriaca; dacchè entrato appena il secolo xviii Carlo II finì di vivere (novembre 1700). Fu in quel secolo che a tante guerre straniere, a tante interne perturbazioni vennero ad aggiungersi le più frequenti carestie, spaventevoli terremoti, eruzioni straordinarie dell’Etna. Pure fra tante ree vicende, uomini illustri sorsero da meritar un luogo distinto nella storia letteraria di Sicilia. Accademie furono in quel secolo erette, non che in Palermo ed in Messina, ma in molte altre città del regno; e comechè da tali accademie uscivan solo prose e versi in tutto degni di un secolo, in cui il gusto delle lettere era tanto corrotto, pure servivano a tener desta la nazione. Aggiungasi che i più distinti personaggi del regno davano esempio e protezione ai letterati. Il duca di Montalto principe di Paternò, Francesco Branciforte principe di Pietraperzia, Carlo e Giulio Tommasi duchi di Palma, Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, Giacomo Bonanno duca di Montalbano, Luigi La Farina marchese di Madonia si distinsero in quel secolo o per la loro dottrina o pel favore compartito ai dotti.

Con tali esempî, generale divenne il golìo di scrivere. Molti si distinsero nelle scienze sacre; molti nella giurisprudenza e nella medicina; ma sopratutto lo studio della storia patria divenne come una passione generale. Assai sono le storie municipali, che ci restano. Mariano Valguarnera (627), Agostino Inveges (628), Francesco Barone (629), Vincenzo Di Giovanni (630) furono gli storici più segnalati di Palermo; Placido Reina (631), Placido Sampieri (632), Giuseppe Bonfiglio (633), di Messina; Pietro Carreca (634), Giambattista de Grassis (635) e Giambattista Guarneri (636), di Catania. mancarono storici alle città di minor nome. Piazza ebbe il Chiarandà (637), Trapani l’Olandini (638) e il Sorba (639), Termini Vincenzo Solito (640), Scicli Mariano Perrello (641), Caccamo Agostino Inveges (642) e Giovanni Maria Amato (643); Militello del val di Noto Pietro Carrera (644), Erice Vito Carvino (645), Naro il cappuccino fra Salvadore da ivi (646) e Cefalù il Passafiume (647) e l’Auria (648).

Pur comechè in molte di tali storie si ammira la vasta erudizione degli scrittori, nissuna di esse accresce l’onore delle siciliane lettere. Tutti credon portare alle stelle la propria città o con darle que’ meriti, che non ha, o con esagerare quelli, che ha. È proprio da ridere al sentire stabilita l’origine di Palermo sin dai tempi del diluvio universale. E poco mancò, che gli storici palermitani di quell’età non avessero trovato nelle sacre carte una settima giornata di creazione destinata dal supremo fattore a trar dal nulla Palermo. Non men ridicoli sono il Chiarandà, che intende provare ad evidenza, che Piazza sia l’antica Gela, ’l buon cappuccino, che vuol far vedere in Naro l’antica Agrigento. E tutti poi ti danno tanti uomini illustri in ognuna delle città; di cui scrivono, quanti non poteron vantare Atene, Roma, Sicilia tutta nell’età sua più gloriosa.

Ma il difetto principale di molti fra gli scrittori di cose municipali in quel secolo è lo studio di procacciare vanto alla città loro, con toglierne alle altre. Venne il ticchio all’Auria di rubar santi alle altre città, e con ciò stuzzicò un vespajo. A ciò si aggiungevano i libelli, che con tanto disdoro non che delle lettere, ma del nome siciliano pubblicavansi in Palermo contro Messina, in Messina contro Palermo; intantochè sul cadere del secolo l’autore de’ prolegomeni alla storia del Maurolico non potè ristarsi dal dire ai Siciliani: Narrate le cose vostre, ma narratele come conviene ad uomini dotti e prodi, a’ Siciliani, senza studio di parte; è indegno d’uno scrittore di storia, che val quanto dire di verità, il mostrarsi parziale per tale o tal altro luogo; anche più indegno è l’esaltar questo con iscapito di quello. Ben mi duole il vedere le principali città agitate da reciproche animosità, dopo le ree vicende esser peranco estinte le fonti delle fatali discordie. La stessa Sicilia ci ha visto nascer tutti; lo stesso aere respiriamo; la terra stessa calchiamo. È turpe il dilaniarci; l’invidiarci, lo cantarci l’un l’altro, come se la gloria d’una città non torni a vanto delle altre, o il disdoro dell’una non arrechi alle altre vergogna. Hanno tutti di che darsi vanto Non è tolto all’una ciò che la natura, la fortuna o il merito ha dato all’altra, Scrivete adunque per essere oggetto di invidia e non di scandalo agli scrittori, di amore, e non di sdegno ai concittadini (Prolegom. x ad Maurol.).

Pure fra quella plebe di scrittori, uomini sommi si distinsero in quel secolo, che seppero calcare il dritto sentiero, per illustrare le cose siciliane. Il regio storiografo Antonio Amico da Messina, canonico della cattedrale di Palermo, ove fiorì nel 1641, si die’ con pazienza instancabile a rimuginare gli archivî di Napoli e di Sicilia, e più volumi di diplomi ne trasse, per servir di scorta alla storia sacra e profana di Sicilia (649). Seguendo le sue vestigia l’abate Rocco Pirri, raccolti ed ordinati tutti i diplomi intorno alle cose sacre di Sicilia, ne compilò la Sicilia sacra, ossia la storia di tutte le chiese siciliane. L’abate Martino La Farina, fratello del marchese di Madonia, non men di lui caro alle lettere, nella sua lunga dimora in Ispagna e nel monistero di S. Lorenzo dell’Escuriale, dotto come era nella lingua araba, ne trasse parecchi frammenti storici scritti in quella lingua, i quali hanno poi servito a dar qualche lume sullo stato della Sicilia sotto la dominazione de’ Saracini. Il marchese di Geraci Giovanni Ventimiglia si die’ a raccorre le notizie di tutti i poeti siciliani sino all’età sua. La morte, che immaturamente lo colse sul fior degli anni nel 1665, fece restare inedite le sue fatiche, che tanto avrebbero illustrato la storia letteraria siciliana; non però andarono del tutto perdute; che da quel dotto e nobile uomo ebbe l’Allacci le notizie degli antichi poeti da lui pubblicati.

trascurate furono in quel secolo l’archeologia e la numismatica di Sicilia. La topografia dell’antica Siracusa fu illustrata da Vincenzo Mirabella (650) e da Giacomo Bonanno duca di Montalbano (651); e delle antiche monete di Sicilia scrissero Filippo Paruta (652) e ’l teatino Giammaria Amato (653).

Oltre a tali scrittori di cose patrie, molti levaron gran fama nelle più severe discipline. Alfonso Borrello da Messina, che a torto è stato da taluni creduto straniero, lesse matematiche in quella università e diffuse in Sicilia il gusto per tali studî. Furono suoi discîpoli e gran nome acquistarono, non che in Sicilia, ma oltremare, don Carlo Ventimiglia e Michelangelo Fardella. Al tempo stesso Giambattista Odierna da Ragusa, arciprete di Palma, profondissimo nelle matematiche, nella fisica, nell’astronomia, senz’altro osservatorio che la vetta d’una collina, che indi ritenne il nome di Piano dello Strologo, senza strumenti, senz’altro conforto che l’amore della scienza, la protezione de’ duchi di Palma e l’ammirazione degli astronomi d’Europa, scopriva nuovi astri, e il primo in Europa pubblicava Effemeridi astronomiche, e come per riposo, tramettea a que’ severi studî non meno utili lavori, o lavorava strumenti o incidea rami di carte celesti, rettificate dalle proprie osservazioni, o dava in luce opere astronomiche e fisiche o scrivea storia e dirigea le sue osservazioni alle più minute cose della natura, descrivea l’occhio degl’insetti, e primo di ogni altro scopriva la struttura del dente delle vipere, per cui velenosi ne sono i morsi. Per tal modo meritò ugualmente bene dell’astronomia, della fisica e della storia naturale. In quest’ultima scienza poi e particolarmente nella botanica gran fama levarono in tutta Europa sul cadere del secolo Silvio Boccone e Francesco Cupani, i cui nomi vanno del pari a quelli di Teofrasto, di Tournefort, di Linneo e di quanti altri posson vantarne gli stranieri.

E’ cade qui in acconcio il considerare, che in quel secolo non valsero a distorre gli uomini dagli studî filosofici, l’esempio funesto del Barone, che nelle carceri del sant’officio terminò i giorni suoi; l’auto-da-fe, che a quando a quando si celebrava. Tragica funzione, dice il Di Blasi, per cui freme l’umanità: si offrono, come offrivano i Cartaginesi a Saturno, umane vittime alla Divinità, e si vede con orrenda mostruosità, che si oppone alla ragione, unirsi lo spirito caritatevole prescritto dalla legge di Gesù Cristo alla vendetta inumana, che insinua un malinteso entusiasmo d’intolleranza.





623 Adriano Michele Ruiter erasi battuto in varii incontri con somma gloria contro le armate spagnuole e francesi. In quella guerra avea riportate più segnalate vittorie contro gl’Inglesi, e finalmente avea avuto l’ardimento d’entrare colla sua armata nel Tamigi portando sull’albero di maestro del suo vascello una granata, per darsi vanto d’avere spazzato i mari de’ legni inglesi.



624 È noto e molto è stato lodato il disticon allora fatto:

Terruit Hispanos Ruiter, ter terruit Anglos,
Terruit et Gallos, territus ipse ruit
.

Ma quel ridicolo bisticcio del nome Ruiter e terruit, è degno di quel secolo; quel Ruiter ter terruit pare uno sparo di mastii; e ’l dire di quel prode territus ruit, è una goffaggine.



625 L’Auria (Cronol. de’ vicerè, p. 158) allora presente in Palermo dice, che in un consiglio di guerra tenuto al primo annunzio dell’avvicinamento de’ Francesi, Diego d’Ivarras ammiraglio spagnuolo propose di prendere il largo per attaccare i Francesi in alto mare; che l’ammiraglio olandese Staen, sul timore che nella battaglia gli Spagnuoli si fossero tenuti indietro, volle assolutamente, che i legni tutti si mettessero in quella strana posizione; e che fu forza seguir quel parere, perch’egli minacciò che altrimenti avrebbe tosto fatto ritorno in Olanda; e assicura, che i legni, non che posti in linea, furono l’uno all’altro legati.

Quest’ultima assicurazione è così inverisimile, che serve a mostrare quanto lo storico fosse stato male informato dei fatti. Egli era presente in città, ma non nel consiglio dei generali: è naturale che mille ciarle si fossero allora sparse nel volgo, ed una potè ben esser questa, ch’egli adottò senz’altro esame. È anche più naturale, che dopo l’infelice esito della battaglia se ne fosse data la colpa allo straniero. Forse se la battaglia si fosse guadagnata, gli Spagnuoli si sarebbero fatti autori della disposizione de’ legni.



626 Il marchese di Castelrodrigo, non volendo palesare la sua imprevidenza, scrisse in Ispagna d’esser caduti la città ed il castello per la viltà del conte di Prades. E facendo le viste d’esserne sdegnatissimo, arrestò i congiunti di lui, e con ciò attirossi lo sdegno della nobiltà siciliana. Dimandò il conte d’esser scambiato con alcun altro de’ prigionieri francesi, per potere andare in Ispagna a giustificar la sua condotta: ma il vicerè, che non volea metter in chiaro la verità, negollo. Pure ottenne la libertà dalla generosità del duca di Vivonne; il quale contentossi della sua parola d’onore, di restituirsi prigione ivi a pochi mesi. Recatosi persuase il governo della sua innocenza. N’ebbe il grado di maresciallo di campo.



627 Discorso dell’origine ed antichità di Palermo, Palermo 1614.



628 Palermo antico. Pal. 1649. Palermo sacro 1650. Palermo nobile, 1651.



629 De Majestate Panormitana libri IV, Pan. 1630 in fol.



630 Palermo ristorato ms.



631 Notizie storiche della città di Messina. Par. I, Mes. 1658. P. II, 1668. P. III restò ms.



632 Messana illustrata ms.



633 La Messina città nobilissima descritta in VIII libri. Ven. 1606.



634 Memorie historiche della città di Catania T. I, Cat. 1634; T. II, ivi 1641, il terzo torno assicura il Mongitore di essere restato ms.



635 Catanense Decachordum. T. I. Cat. 1642, T. II, 1647. Annales catanenses ms.



636 Historia Catania. Cat. 1651.



637 Piazza antica, nuova, sacra e nobile, di Giovanni Paolo Chiarandà. Messina 1654



638.Trapani in una breve descrizione. Pal. 1605.



639 De rebus Drepanitanis ms. nella biblioteca del marchese di Madonia.



640 Termini Himerese città della Sicilia posta in theatro. Tom. I. Pal. 1669. Tom. II, Messina 1671.



641 L’antichità di Scicli anticamente chiamata Casmena 1640. Difesa dell’antichità di Scicli. Nap. 1641.



642 La Cartagine Siciliana. T. I e II, Palermo 1651, T. III Genova 1706.



643 Historia della generosissima città di Caccamo ms.



644 Historia di Militello del val di Noto ms.



645 Erice antica, moderna e sacra ms.



646 La Fenice fra le famose città di Sicilia nobilissima ms.



647 De origine ecclesiae cephaledanae, ejusque urbis, Venetiis 1645.



648 Dell’origine ed antichità di Cefalù. Pal. 1656.



649 Di tali volumi alcuni furono portati via dallo arcivescovo Palafox; il resto, dice il Mongitore (Bibl. Sic., Antonius Amicus), che si conservavano nella biblioteca del marchese Madonia.



650 Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse etc. Napoli 1613 in fol.



651 L’antica Siracusa illustrata, Messina 1624. Pietro Carrera nella storia di Catania, pubblicata dopo la morte del Bonanno, dice esserne lui autore; ma ne fu smentito dal marchese di Geraci nell’opera «Dei poeti siciliani



652 Della Sicilia descritta con medaglie. Parte prima. Palermo 1612. Ristampata in Roma nel 1647, ed in Londra nel 1697. La seconda parte fu da Simplicio suo figliuolo data al prete Mauro Marchese palermitano, per farla stampare in Venezia: ma prima di cominciarsene la stampa il Marchese morì e ’l manoscritto andò smarrito.



653 La Sicilia numismatica; ed Appendice di 300 medaglie al Paruta. Ma queste opere non videro la luce.



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