Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XLVII. I. Regno di Filippo IV. Vittorio Amedeo re di Sicilia. — II. Clemente XI vuole abolire la monarchia. — III. Maneggi di Alberoni. — IV. La Sicilia ceduta a Carlo VI imperatore. Principii del regno di Carlo. — V. Il tribunale della monarchia confermato. — VI. Preparativi per nuove guerre. — VII. D. Carlo dichiarato per nuovo re dl Sicilia. — VIII. Vicerè il conte di Montemar. — IX. Carlo viene in Sicilia per coronarsi. Coronazione. — X. Ottimo governo di Carlo.

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CAPITOLO XLVII.

I. Regno di Filippo IV. Vittorio Amedeo re di Sicilia. — II. Clemente XI vuole abolire la monarchia. — III. Maneggi di Alberoni. — IV. La Sicilia ceduta a Carlo VI imperatore. Principii del regno di Carlo. — V. Il tribunale della monarchia confermato. — VI. Preparativi per nuove guerre. — VII. D. Carlo dichiarato per nuovo re dl Sicilia. — VIII. Vicerè il conte di Montemar. — IX. Carlo viene in Sicilia per coronarsi. Coronazione. — X. Ottimo governo di Carlo.

I. — Tale era lo stato della Sicilia quando Filippo duca d’Angiò de’ reali di Francia, figliuolo secondogenito del Delfino, nato dal re Luigi XIV fu chiamato al trono di Spagna pel testamento di Carlo II, di cui era pronipote, per essere la regina sua ava sorella di lui. Il duca di Veragues vicerè, avutone l’incarico, riunì il parlamento addì 17 di gennaro del 1701 e colle solite forme ricevè l’omaggio della nazione, e prestò per parte del nuovo re il consueto giuramento per l’osservanza de’ capitoli e costituzioni del regno.

Ma il testamento di Carlo II destò un incendio di guerra. L’imperatore di Germania, l’Inghilterra, l’Olanda diedero addosso alla Francia. Tredici anni bastò la guerra, durante la quale la Sicilia fu in continuo timore di una straniera invasione o di alcun movimento interno; che gli imperiali più d’una volta cercaron di suscitare. Per la pace finalmente conchiusa in Utrecht nel 1713 la Sicilia toccò a Vittorio Amedeo duca di Savoja. Lieta fu la nazione d’esserle toccato un re italiano, noto per le sue buone qualità; e la comune letizia venne accresciuta quando gli ambasciatori spediti a Turino dalla deputazione del regno, dal senato e dal capitolo di Palermo, per ossequiare il nuovo re, tornati in Sicilia, recarono sue lettere, nelle quali dava notizia d’essere sulle mosse per venire al possesso del nuovo regno.

Addì 11 di ottobre del 1713 il re giunse in Palermo. Eran già secoli che la Sicilia non vedea alcuno dei suoi re. Quel sentimento nazionale, che ad onta del tempo e dell’impegno di soffocarlo è sempre divenuto più forte ne’ Siciliani, produsse all’arrivo del re quasi una generale frenesia. Il solenne ingresso di Vittorio Amedeo, la sua coronazione, il giuramento da lui prestato furono celebrati con pompa non mai vista fino allora, ed in Palermo se ne volle eternare la memoria con una iscrizione apposta nella faccia del palazzo del senato. Feste, luminarie ed altri spettacoli ebbero luogo nelle altre città del regno.

Veramente i Siciliani grande ragione aveano di esser lieti. Il re Vittorio, amabile, manieroso, a null’altro mostravasi inteso che a promovere il bene del regno. Convocò nel febbraro del 1714 il parlamento in Palermo; nel suo discorso si astenne di chiedere alcun sussidio; disse che avea riunito il parlamento solo per averne i lumi ed i mezzi, onde la giustizia fosse bene amministrata, le scienze e le lettere promosse, il commercio reso più fiorente, perchè il regno possa risorgere all’antico splendore. Il parlamento, comechè non richiesto, non solo confermò tutti gli ordinarî donativi, ma un nuovo ne offrì di quattrocentomila scudi. Pure se lodevole fu la generosità di quel parlamento, biasimevole fu la sua ignavia di non aver saputo proporre altro per lo bene del regno che il darsi un nuovo censo della popolazione del regno (654).

Addì 19 d’aprile del 1714 si allontanò il re da Palermo e per terra si portò in Messina. Vi dimorò sino all’agosto e ne partì, facendosi appena vedere in Palermo, onde mosse addì 5 di settembre verso Genova, per non ritornare più in Sicilia. Dolenti restarono i Siciliani della partenza di un re, il quale bene avrebbe saputo tener la promessa di restituire il regno all’antico splendore. Ma la sventura volle che ad onta delle buone intenzioni e delle ottime qualità di re Vittorio, turbulentissimo sia stato il breve suo regno a causa di una briga insorta nel precedente governo colla romana corte, e che egli non potè mai venire a capo d’acquetare, e bastò finchè egli tenne il regno.

II. — Nel 1711 il procuratore del vescovo di Lipari avea dato a vendere ad un treccone alcuni ceci tratti dalla decima de’ legumi, che dal vescovo esigeasi in quell’isola. Il treccone ne diede, com’era costume, una giumella a’ grascini; saputosi ciò dal vescovo monsignor Tedeschi, montò in furia, tenendo con ciò lesa l’immunità ecclesiastica; valse ad acquetarlo l’avere i grascini restituiti que’ pochi ceci; pretese che di tale restituzione fosse da tutto il magistrato municipale stipulato atto solenne. Il magistrato negossi, il vescovo sciorinò la scomunica maggiore contro i grascini, dichiarandoli Vitandi. Di tal violento procedere, quel governadore dieparte al marchese di Balbaser vicerè, che allora in Messina trovavasi: il vescovo dal canto suo vi mandò uno dei suoi canonici, per giustificare la sua condotta. Il vicerè non meno avventato del vescovo, saputo il caso, carcerò quel canonico. Il vescovo venne egli stesso in Messina: il vicerè gli fe’ viso d’armi, ordinogli di ritirar la scomunica, se avea cara la grazia del re, ed intanto mise in libertà il canonico.

Tornato il vescovo in Lipari, tutt’altro fece che assolvere dalla scomunica i grascini; per lo che costoro ebbero ricorso al giudice della monarchia, il quale colla potestà di Legato a latere gli assolvè ad cautelam e chiamò a se il giudizio. Il vescovo allora, senza chiederne permesso al vicerè, lasciata secretamente la sua diocesi, portossi in Roma e si die’ a gridare contro il tribunale della monarchia, e, come erasi prima procacciato i ricorsi de’ vescovi di Catania, di Girgenti e di Mazzara, dava a vedere, che tutti i vescovi di Sicilia reclamavano con lui.

Papa Clemente XI, cui quel vescovo presentò i suoi ricorsi, credè il momento opportuno, mentre re Filippo era mal fermo sul trono di Spagna, di sveller dalla corona di Sicilia una prerogativa sempre contrastata dai suoi antecessori, ma sempre mantenuta sin dal duodecimo secolo da tutti i principi, che tennero questo regno: per lo che nel gennaro del 1712 fu spedita dalla congregazione dell’immunità ecclesiastica una lettera a tutti gli arcivescovi e vescovi di Sicilia, nella quale si dichiarava non esser permesso a verun tribunale l’assolvere ad cautelam dalle scomuniche fulminate da’ vescovi, essendo ciò riserbato alla sola autorità del pontefice. Furono queste lettere spedite al vescovo di Catania Andrea Reggio, per distribuirle agli altri prelati del regno, ad oggetto di pubblicarle nelle rispettive diocesi. Lo stesso Reggio vescovo di Catania, Ramirez di Girgenti e Castelli di Mazzara furono i soli, che la pubblicarono; Gasch arcivescovo di Palermo, Algaria vescovo di Patti e il vicario generale di Morreale, avuta quella lettera, la trasmisero, com’era loro dovere, all’avvocato fiscale del real patrimonio, il quale, per essere incaricato della custodia delle reali prerogative, dovea apporre o negare l’esecuzione a qualunque carta spedita dalla romana corte. Migliaccio arcivescovo di Messina, Termini vescovo di Siracusa, Mascella di Cefalù e lo stesso arcivescovo di Palermo rappresentarono al papa le triste conseguenze che sarebbero nate dalla pubblicazione di quella lettera.

Il vicerè convocò il sacro consiglio, per sentirne il parere sulla condotta di que’ tre vescovi, che avean pubblicata la lettera. Tutti que’ magistrati dissero, che degni erano di gastigo. Primieramente perchè il pubblicare la determinazione di una corte straniera intorno agli affari del regno, senza il consentimento del proprio governo, era un violare, non che la prerogativa di un re di Sicilia, ma i diritti di qualunque sovrano indipendente. La lettera poi contenea uno spoglio, che volea farsi al re, del diritto incontrastabile goduto per sei secoli da tutti i re di Sicilia di ricevere per mezzo di un giudice delle cose ecclesiastiche gli appelli di qualunque disposizione delle corti vescovili: e l’obbligare i Siciliani ad avere in questi casi ricorso alla romana corte era uno spogliarli del privilegio di non essere obbligati a piatire fuori del regno. E però fu di avviso il sacro consiglio di doversi ordinare ai vescovi di mandare al governo le lettere pontificie, e, negandosi, staggire i loro beni. Fu spedito a que’ tre vescovi un tal ordine; ma non ubbidirono, sul pretesto che la lettera contenea un’articolo di domma, e trattandosi di domma essi non poteano negare obbedienza al pontefice. Il vicerè rimise l’esame di ciò a sessanta de’ migliori teologi, i quali concordemente decisero, che in quella lettera trattavasi di giurisdizione e non di domma. Altri teologi al tempo stesso, destinati da’ vescovi a tale esame, concordemente decisero, che trattavasi di domma e non di giurisdizione. La staggina delle rendite di que’ vescovi, come il sacro consiglio lo aveva proposto, sarebbe stato un valevole argomento per mettere d’accordo i teologi: ma il vicerè non osò dare quel passo, senza prima averne ordine dalla corte di Madrid.

In questo giunsero due brevi pontificî spediti nel luglio del 1712. L’uno dichiarava scomunicato il delegato del giudice della monarchia in Lipari e tutti coloro ch’eransi opposti alle turbolenze del vicario lasciato dal vescovo, il quale avea messo quella popolazione in iscompiglio, per sostenere la famosa lettera; l’altro era diretto all’arcivescovo di Palermo, per riprenderlo d’essersi negato a pubblicar la lettera. Tali brevi eransi accompagnati da una lettera del cardinal Paolucci segretario di stato, diretta a tutti i vescovi, ch’eransi negati alla pubblicazione, nella quale in nome del papa ordinava loro di pubblicare tantosto la lettera; e minacciava loro, negandosi, la sospensione delle loro funzioni. Tutti obbedirono. Il vicerè allora mise fuori una grida, colla quale dichiarava nulli tutti gli editti pubblicati da’ vescovi, perchè moveano da decreti pontificî, che non aveano avuta esecutoria del governo; onde erano offensivi al dritto generale delle genti ed anche più alle prerogative del re.

Reggio vescovo di Catania e Ramirez di Girgenti, i quali, dal Tedeschi in fuori, erano i cervelli più balzani tra’ prelati del regno, suscitarono allora una general conflagrazione. Il primo pubblicò un editto, con cui dichiarava nulla la grida del vicerè e chiamava abuso il dritto del governo di dar l’esecutoria a’ decreti pontificî; stabiliva esser temeraria, orrida, scandalosa e dannevole la dottrina del dritto delle genti, che il vicerè mettea avanti, per sostenere tal dritto. Il vicerè intimò lo sfratto a quel torbido prelato: negossi egli ad ubbidire, ma minacciato dal sergente maggiore Giuseppe la Rosa di usar la forza, giusta l’ordine del vicerè, partì. Ma prima però di partire scomunicò il sergente maggiore e sottopose all’interdetto la sua diocesi. Ramirez di Girgenti (655) fece di più. Finse un breve pontificio, con cui veniva scelto delegato apostolico, per processare tutti coloro che avean molestato il vescovo di Catania: e con tal supposto carattere scomunicò tutti i magistrati del sacro consiglio, ch’erano in Messina presso il vicerè. Anche a lui fu dato lo sfratto, minacciandolo della forza. Ed anch’egli scomunicò e pubblicò l’interdetto nella sua diocesi, ed a scanso che il vicario sopraffatto dalla paura non eseguisse l’interdetto, tre vicarî prima di partire elesse, per succedersi l’uno all’altro, onde tenea sempre viva la face della discordia.

In tale stato eran le cose quando il re Vittorio Amedeo venne al possesso del regno. l’esser venuto il regno in altre mani, e per avventura più ferme, fece desistere il cocciuto pontefice dall’impegno; chè anzi da quel momento nulla lasciò intentato per mettere il regno sossopra. Il giudice della monarchia avea cancellato l’interdetto pubblicato dal vescovo di Catania: il papa con un breve annullò la cancellazione; monitorî piovevano contro coloro che ubbidivano al governo; si ordinò a tutti i religiosi di eseguire rigorosamente l’interdetto, la scomunica e la perdita del grado che ognuno avea nel suo ordine; si vietò a’ vescovi di pubblicare la bolla della crociata e di pagare i tributi fissati nell’ultimo parlamento, a’ quali eransi eglino volontariamente obbligati; fu scomunicato il giudice della monarchia; fu ordinato a tutti i vescovi o loro vicarî di non ammettere verun breve pontificio, sul quale fosse apposta l’esecutoria del governo; una coorte di frati travestiti fu spedita in Sicilia, per predicare la disubbidienza al governo. s’avvedea quel pontefice, che quel diluvio di scomuniche, di monitorî, di brevi e di censure per una giumella di ceci, comechè avessero in quel momento messo lo scompiglio nel regno, al fin de’ fatti mettean l’ultimo colmo al discredito di tali armi.

Il re oppose da prima a quel torrente un contegno tutto sobrio. Tentò tutte le vie di finire alla buona tale briga. Dopo la sua coronazione scrisse una lettera al pontefice, nella quale lo pregava a render la pace alla chiesa di Sicilia; il papa non volle pur vedere la lettera: spedì in Roma persone, per aprir alcuna via all’accomodamento; e queste sul confine dello stato romano furono respinte: vana fu ogni opera del cardinale de Tremouille ambasciatore di Francia: anzi il pontefice, fingendo di cedere alle insinuazioni del cardinale Albani suo nipote, convocò il concistoro de’ cardinali, per sentirne il parere. Tutti dissero dovere il papa desistere dalla pretensione di abolirsi il tribunale della monarchia in Sicilia ed impegnarsi piuttosto a farne correggere gli abusi. Lungi di arrendersi a tale avviso, nel febbraro del 1715 pubblicò la famosa bolla, con cui dichiarava abolito quel tribunale.

Perdè allora la pazienza il re. Avea egli prima di allontanarsi dal regno eretta una giunta di sei magistrati, la quale senza dipendere da veruna autorità dovea impedire l’esecuzione di tutti i decreti di Roma, che ferivano la prerogativa contesa. Saputa poi in Turino la pubblicazione della bolla, spedì ordine alla giunta di procedere col massimo rigore e senza la ordinaria formalità di giudizio contro tutti coloro che davano mano ad introdurre in Sicilia i brevi pontificî o gli eseguivano. Terribile e generale fu allora la persecuzione. Non altro videsi che confiscazioni di beni, carcerazioni, esilî degli ecclesiastici e di tutti coloro che tenean dal papa. Ma la persecuzione fece ciò, che ha sempre: i martiri. si sa ove le cose giunte sarebbero, se avvenimenti più gravi non avessero distolti gli uomini dal pensare ai ceci del vescovo di Lipari.

III. — Giulio Alberoni prete parmigiano, il quale, elevandosi da oscuri principî, era giunto ad esser cardinale e primo ministro di Spagna, avea in pochi anni messo tal’ordine nell’amministrazione di quella monarchia, che le fe’ riacquistare quella forza e quel peso, che da secoli avea perduto. Concepì egli il disegno di ricuperare gli stati d’Italia, che la Spagna non guari prima avea perduto nella pace d’Utrecht. E perchè non potessero opporvisi le potenze, che aveano guarentito quel trattato, imprese a sovvertire mezza Europa, e fu ad un pelo di venirne a capo. Tenea pratiche col Turco, per fargli continuar la guerra coll’imperatore Carlo VI. Erasi indettato con Pietro I di Russia e Carlo XII di Svezia, e gli avea di già indotti ad accomunar le forze loro contro l’Inghilterra, per rimetter sul trono gli Stuard e rovesciare la costituzione di quel paese; ed al tempo stesso a forza d’oro e di promesse fomentava una cospirazione in Iscozia. Una congiura ordiva in Francia, per suscitare una rivoluzione, arrestare il duca d’Orleans reggente, e far dare la reggenza al re Filippo V. Finse poi di fare un secreto accordo col re Vittorio Amedeo di assalire unitamente lo stato di Milano; conquistato il quale, dovea tenerselo il re, e cedere la Spagna. Fidato su quell’accordo il re Vittorio veniva traendo la miglior truppa da Sicilia, ed ordinava al conte Maffei vicerè di ricevere come amiche le armate spagnuole se mai si accostassero alle spiagge del regno.

Ben vedeasi dai potentati il grande appresto di guerra, che faceasi in Ispagna: ma nessuno temea per se; dachè ognuno era sicuro della guarentia di tutti gli altri perciò che gli era stato assegnato in Utrecht; onde si dava fede alla voce, che facea correre l’Alberoni, d’esser le sue mire dirette all’acquisto d’Orano. Quando ogni cosa fu in pronto nel 1717 l’armata spagnuola corse ad assalir la Sardegna, che in breve fu sottomessa. Accresciuti ivi i preparamenti, fu spedito ordine al marchese di Leyde, supremo comandante di quelle forze, di rimbarcarsi, e, come fosse giunto in vista di Sicilia, aprire un plico, che gli si era spedito, ove avrebbe trovato gli ordini da eseguire.

Mosse addì 28 di giugno del 1718 dai porti di Sardegna l’armata spagnuola forte di quattrocentotrentadue legni, sui quali erano ventidue mila uomini; giunta ivi a due giorni ne’ mari di Sicilia, apertosi il plico, si lesse l’ordine di inpadronirsi della Sicilia, cominciando da Palermo. Intanto da ogni parte giungeano avvisi al conte Maffei dell’avvicinamento di quell’armata, ed ei facea cuore a tutti, dicendo che gli Spagnuoli erano amici, ned esser diretti per Sicilia: ma ebbe a restar di sasso, quando seppe che l’armata accostatasi alla spiaggia di Solanto sbarcò l’esercito; e ’l marchese di Leyde sparse un manifesto in nome di Filippo V, in cui dicea che veniva a scacciar dal regno il re Vittorio, perchè non avea tenuto il patto stipolato nel trattato di Utrecht di conservare al regno: sus leyes, constituciones, capitolos de reyno, pragmaticas, costumbres, libertades, y immunitades, y exemciones. Non accade il dire, che ciò era menzogna accampata dall’Alberoni, per colorire il tradimento, se pure non lo rendea più nero.

Il conte Maffei non seppe far altro che mostrare a tutti l’ordine avuto dal re di ricevere gli Spagnuoli come amici. Inabile poi a resistere, della poca truppa, che avea, ne mandò secento fanti in Trapani, quattrocento ne chiuse nel castello a mare di Palermo per accrescerne la guarnigione, e trecento Svizzeri mandò nel castello di Termini. Egli colla cavalleria si diresse per Siracusa (656). Ma giunto in Caltanissetta, que’ paesani incuorati dall’arrivo degli Spagnuoli negaronsi a riceverlo; fu mestieri farsi strada di forza, e molti dell’una e l’altra parte perirono nel conflitto. In questo la città di Palermo capitolò, il castello quasi senza far fuoco s’arrese restandone prigioniera la guarnigione. Più onorata difesa fecero que’ Savojardi, che erano sul castello di Termini. Vi si recò ad assalirlo il marchese di Bulmar con tremila fanti, de’ quali ne perdè da dugento prima di obbligare il castello a rendersi. Passato l’esercito spagnuolo in Messina, la città volontariamente si sottomise, le truppe si ritirarono nelle fortezze, delle quali solo la cittadella e il castello del Salvatore fecero lunga resistenza. Insomma, tranne le piazze forti, tutte le città del regno fecero a gara per acclamare il governo spagnuolo (657).

IV. — Ma la fortuna non secondò i disegni del cardinale Alberoni. Ogni opera sua, per far continuare la guerra al Turco, fu vana. Dopo la strepitosa vittoria riportata dal principe Eugenio a Belgrado, la pace di Pasterovitz fu conchiusa: Carlo XII fu ucciso in Norvegia: s’era fatto venire in Ispagna il principe Carlo Eduardo e lo si era mandato in Iscozia con un’armata; una tempesta disperse i legni: il principe prese terra con poca gente; e fu di leggieri respinto: la congiura, che tramavasi in Francia, fu scoperta. Allora l’Inghilterra, la Germania, la Francia, il re Vittorio Amedeo si collegarono contro la Spagna. La Francia invase la Navarra e la Catalogna; la Inghilterra spedì nel mediterraneo l’ammiraglio Bing con venticinque vascelli, dal quale addì 11 di agosto del 1718 fu l’armata spagnuola battuta presso Pachino: cinque vascelli a lui si resero, sei ne andarono in fiamme, gli altri mal conciritirarono. L’imperatore assunse l’impresa di cacciare gli spagnuoli dalla Sicilia, essendosi convenuto fra gli alleati, ch’ei dovea ritenerla e darsi in cambio al re Vittorio Amedeo la Sardegna. E però assai truppe vi avea fatto passare da Napoli, dopo che l’armata spagnuola era stata distrutta; e nel maggio del 1719 vi spedì un’esercito di oltre a diciottomila soldati comandato dal conte Mercy.

Eransi dopo lungo assedio nell’anno antecedente resi al marchese di Leyde il castello del Salvadore e la cittadella di Messina. La truppa savojarda, che dentro vi era, comandata dal marchese Adorno, unitamente ad un corpo di Tedeschi venuti da Napoli, uscitane con tutti gli onori di guerra, erasi ridotta a Milazzo, per rinforzarne la guarnigione. Il marchese di Leyde nel settembre eravisi recato con tutto l’esercito, per assediarla; ma v’incontrò tale resistenza che la piazza non erasi ancora resa sulla fine di maggio del 1719, quando l’esercito tedesco sbarcato in Patti andò a fermarsi ad Oliveri. Il marchese di Leyde, temendo non trovarsi stretto dall’esercito di Mercy da un lato e dalla guarnigione di Milazzo dall’altro, decampò, abbandonando viveri, munizioni e bagaglie: andò a porsi ad oste a Francavilla e munì, come meglio seppe, il suo campo. Il Mercy, marciando per difficili sentieri, venne a sboccare dal villagio delle Tre fontane ed attaccò gli spagnuoli ne’ loro stessi ripari: assai gente perdè in quell’attacco, senza essergli venuto fatto di cacciarli quella posizione: ma accampossi su quella giogaja minacciandoli sempre di un secondo attacco. Intanto un forte distaccamento tedesco corse ad impadronirsi di Taormina e tutto l’esercito la notte de’ 16 di luglio decampò con tal silenzio che gli Spagnuoli solo il domani s’avvidero della sua partenza, onde il conte di Mercy senza esser molestato scese alla spiaggia di Schisò, e quindi marciando lungo il lido si ridusse a Messina, che strinse d’assedio.

Il marchese di Leyde avendo perduta l’occasione di attaccar con vantaggio i Tedeschi, nel decampare non s’attentò di tener loro dietro nelle pianure e restò ozioso ne’ suoi trinceramenti di Francavilla. I Messinesi sulla speranza d’esser da lui soccorsi fecero da prima valida resistenza, animati dalle parole e dall’esempio de’ preti, i quali furono i primi a correre alle armi, sull’idea che i Tedeschi erano eretici: ma finalmente disperati di soccorso, stretti dalla fame resero la città addì 9 di agosto del 1719 e la truppa spagnuola si ritirò nel forte di santa Chiara, nel real palazzo e nella cittadella. I primi due furono resi dopo dieci giorni; ma l’acquisto della cittadella costò ben caro al Mercy, che vi perdè molta gente.

Il generale spagnuolo, quando la cittadella era per cadere, non si sa perchè, diloggiò da Francavilla ed avvicinossi a Messina dalla parte di Rametta, ma solo per esser testimone della resa di quella piazza. Quindi si ridusse in Castrogiovanni, onde spedì parte del suo esercito verso Palermo, ove egli stesso non guari dopo si recò. Il conte Mercy, imbarcato l’esercito, lo mandò in Trapani. Vi comandava per parte del re Vittorio Amedeo il conte Campione, il quale, in seguito della convenzione fatta tra’ sovrani alleati, cesse la piazza al generale tedesco. Anche il marchese di Leyde col suo esercito si ridusse in quelle parti, ma a misura che quelli si avanzavano, questi rinculavano, onde ambi gli eserciti accostaronsi a Palermo. Volea il marchese di Leyde, che fu il primo a giungere in quei luoghi, entrare in città e difendersi: ma il conte di Sammarco pretore non consentì ad esporre la città ai danni di un assedio: mise le compagnie degli artieri a guardia de’ baluardi, chiuse le porte della città, provvide al pericolo di mancar di viveri, e dichiarò, che avrebbe respinto colla forza qualunque de’ due eserciti, che volesse entrare in città: ma non fu mestieri usarne.

Già lo stato d’Europa era cambiato. La Spagna, che facendosi beffe de’ trattati e di tutte le leggi era entrata in quella guerra minacciando il sovvertimento d’Europa, null’altro al fin dei fatti avea ottenuto che il trarsi addosso la Francia, l’Inghilterra e l’impero. Il re Filippo fu presto obbligato a chieder pace, e l’ebbe a patto di aderire alla convenzione fatta dagli alleati di ceder la Sicilia e la Sardegna, e contentarsi della successione eventuale d’uno de’ suoi figliuoli agli stati di Parma e Piacenza ed alla Toscana. Il duca d’Orleans poi volle in ogni conto, che lo Alberoni fosse rimosso dal ministero e cacciato del regno: fu forza contentarlo.

Tali notizie erano giunte privatamente in Sicilia; il ministero di Vienna avea anche avvisato al general Mercy la cessione della Sicilia fatta all’imperatore Carlo VI, ma il marchese di Leyde nessun’ordine avea ancora ricevuto da Madrid: pure per non ispargere inutilmente il sangue dei soldati, propose una tregua. Il generale tedesco mostrossi pronto ad aderirvi, purchè gli fosse consegnato Palermo colle fortezze, ciò che lo spagnuolo non volle fare senz’ordine del re Filippo; e però seguirono le ostilità e varî incontri ebbero luogo nelle campagne di Palermo. Finalmente addì 2 di maggio del 1720 giunse al marchese di Leyde l’ordine di consegnare la Sardegna al re Vittorio Amedeo, la Sicilia all’imperatore. Allora l’esercito spagnuolo si ridusse a Termini, onde imbarcossi. Il conte di Mercy entrò in città e fe’ al parlamento prestare l’omaggio al re Carlo III di Sicilia, VI fra gli imperatori di Germania.

I primi passi del breve regno di Carlo III furono segnalati da due solenni ingiustizie. La truppa venuta da Napoli avea portato assai moneta di quel paese, che da’ venditori si rifiutava: il generale Mercy, che prese il governo in Palermo, comechè il duca di Monteleone destinato vicerè fosse da più mesi in Messina, fissò per quella moneta un valore nominale superiore al reale, minacciando gravi gastighi a coloro, che ne avessero rifiutata. Indi avvenne che il regno in poco d’ora fu inondato da quella moneta; le derrate siciliane, che con quella dovean cambiarsi, vennero a vendersi in realtà di meno, e le straniere, che dovean pagarsi in buona moneta, compravansi di più; per che alte querele levaronsi.

Due ordini sovrani furono poi pubblicati dal duca di Monteleone tosto dopo il suo arrivo in Palermo. Pel primo dichiaravansi nulle tutte l’elezioni fatte dal marchese di Leyde dopo il 17 di febbraro del 1720, nel qual giorno il re Filippo avea sottoscritto la cessione del regno. Ciò non dimeno poi nel provvedere le stesse cariche si tennero presenti fra le persone, che vi erano state promosse, quelle che distinguevansi per vero merito.

Dichiaravansi poi col secondo decreto nulle tutte le vendizioni d’impieghi fatti dalla morte di Carlo II in poi; perchè fatte da non legittimi governi. Ma quel re non potea chiamare usurpatori Filippo IV, Vittorio Amedeo. Dopo di avere egli stesso quand’era semplice arciduca d’Austria riconosciuta la facoltà del re Carlo II di disporre della monarchia per testamento, con aver procurato di esserne egli scritto erede, non potea attaccare il titolo di Filippo IV; e Vittorio Amedeo avea avuto il regno per una solenne convenzione de’ potentati d’Europa. Senzachè egli stesso, col dichiarare nulle tutte l’elezioni fatte prima del 17 febbraro veniva a riconoscere l’antecedente legittimità di quel governo.

V. — Ma se la Sicilia ebbe a dolersi di quel re per tali decreti, ebbe poi a lodarsene, per aver egli finalmente posto fine alla scandalosa briga colla romana corte pel tribunale della monarchia. Già sin dal momento, che gli Spagnuoli aveano messo piede nel regno, il marchese di Leyde, seguendo gli ordini del re Filippo, avea richiamato tutti i vescovi e gli altri, ch’erano stati banditi, avea soppressa la giunta, la persecuzione era cessata, tutti gli scomunicati erano stati obbligati a cercar l’assoluzione. Papa Clemente XI per tali sommissioni e forse ancora perchè avea assai più che temere della Spagna retta dall’audace Alberoni, avea levato l’interdetto delle diocesi di Catania e Girgenti. Fra lo strepito delle armi non si pensò più a tale baja. In Roma teneasi soppresso il tribunale della monarchia, in Sicilia esistea ed esercitava tranquillamente le sue funzioni. Finalmente nel 1729 fu conchiuso tra il re Carlo e papa Benedetto XIII il concordato, che indi in poi è stato base del dritto pubblico ecclesiastico di Sicilia. Vi fu riconosciuto il tribunale della monarchia, come dipendente da una prerogativa coeva al trono; e, per non aver più luogo abusi e contese, in trentacinque articoli furono prescritti i limiti della sua giurisdizione.

VI. — Ma mentre si conchiudea la pace colla Chiesa, venivasi rinnovando la guerra tra gli uomini. La Francia, l’Inghilterra, la Spagna e l’Olanda si collegarono, per assicurare a don Carlo infante di Spagna la successione de’ ducati di Parma e Piacenza e della Toscana: e stabilirono che le piazze di que’ paesi non più da seimila Svizzeri, come era stato convenuto ne’ precedenti trattati, ma da seimila Spagnuoli fossero custodite. La corte di Vienna, temendo non altro fine avesse quell’alleanza, accrebbe le sue forze d’Italia ed ordinò a’ vicerè di Sicilia e di Napoli di mettere i due regni in istato di difesa.

Il conte di Sastago vicerè di Sicilia dietosto mano a riparare tutte le fortezze marittime del regno. Vi fu spedito il general Vallis con nuove truppe; ma il danajo mancava pel soldo di esso e per le altre spese. Per averne si ebbe ricorso a mezzi violentissimi. Fu obbligato il senato di Palermo a fare un presto; si tolse una intera annata delle rendite di tutti coloro, ch’erano fuori del regno; presti forzosi furono obbligati a fare i negozianti, a’ quali inoltre si vendevano a forza i dritti di tratta, senza che avessero frumenti da trarre; s’intimò a’ baroni (o a dir meglio si finse intimare) il servizio militare, per trarre da essi dieci once per ogni uomo che doveano dare; fu imposto il due per cento su tutte le rendite, e dagli ecclesiastici si volle non solo tale prestazione, ma la cessione delle franchigie, che godeano, che chiamavansi Scasciato; e finalmente fu obbligato il senato di Palermo trarre cencinquantamila scudi da quel capitale, che tenea in serbo, per servire a comprarne frumenti; e però diceasi colonna frumentaria.

Tutte quelle estorsioni produssero una miseria generale. I debitori o non potevano pagare o cercavan quel pretesto, per negarsi al pagamento dei debiti; i creditori mentre da una mano non poteano esigere, erano dall’altra stretti dal governo a pagare; ognuno, che avea danaro, lo sottrasse dalla circolazione. Ciò nulla ostante nel 1732 il conte di Sastago chiese al parlamento uno straordinario donativo di un milione di scudi, per pagare i debiti dello stato, e tanto fece che n’ebbe ottocentomila.

VII. — La guerra allora temuta non ebbe luogo: ma scoppiò poi da un’altro lato nel 1733. Era stato in quell’anno eletto re di Polonia Stanislao Leczinski suocero del re Luigi XV di Francia; la imperatrice di Russia e l’imperatore di Germania gli aveano suscitato contro i paladini di Lituania, i quali, comechè in poco numero, ajutati da quelle due potenze disfecero l’esercito polacco, cacciarono l’elettore e misero sul trono il figliuolo dell’ultimo re di Polonia, duca di Sassonia, sposo d’una nipote dell’imperatore, il quale venne a pagarne lo sconto. Il re Luigi strinse una lega colla Spagna e col re di Sardegna, per attaccare in tutti i punti i dominî austriaci. Un esercito gallo-sardo invase lo stato di Milano. Lo infante don Carlo secondo figliuolo del re Filippo, pria riconosciuto duca di Parma e principe ereditario di Toscana, con altro esercito venne a sbarcare nella riviera di Genova. Si fermò da prima in Parma, e quindi avanzatosi verso Napoli, in poco d’ora se ne insignorì. Quivi stando, addì 15 di maggio del 1734 gli giunse la cedola, con cui il re Filippo dichiaravalo re delle due Sicilie.

Se l’acquisto delle provincie napolitane fu, come in tutti i tempi è stato una passeggiata militare, non men facile fu quello di Sicilia; tantochè la condotta di coloro, che comandavano le armi austriache in questi paesi, fe’ sospettare d’alcun secreto accordo col ministero di Vienna. Il conte di Sastago, mentre l’esercito spagnuolo avanzavasi verso Napoli, sguerniva la Sicilia di soldati, per mandarne colà. Caduta quella città, levò tutte le truppe da Palermo e le divise in Trapani, Siracusa e Messina, lasciando solo dugento fanti di guarnigione nel castello. Partito lui per ritirarsi in Siracusa, dodici galee spagnuole addì 15 di giugno del 1734 vennero a fermarsi dirimpetto la città: il conte Castiglione milanese, che comandava il castello, chiese al general Roma, lasciato dal vicerè al comando delle armi, se dovea far fuoco contro que’ legni: il generale si portò al castello, osservò le galee e poi disse al castellano di non darsene pensiero. Forse fu quello un tentativo, che volle fare l’infante, per vedere se i comandanti in Sicilia stavano al convenuto.

Finalmente quando ogni cosa fu in pronto in Napoli, fu imbarcato l’esercito per la spedizione di Sicilia, di cui fu dato il comando al conte di Montemar, che fu anche destinato vicerè. A 28 di agosto il naviglio fu alle viste di Palermo. Il general Roma, saputo appena il suo avvicinamento, partì per Siracusa. La durezza e le estorsioni del governo austriaco; l’abitudine contratta da’ Siciliani di vivere sotto la dominazione spagnuola; la fama delle virtù del nuovo re; e quella natural vaghezza di novità, che fa a tutti sperare miglior ventura nei cambiamenti, resero oltremodo gradito l’arrivo degli Spagnuoli. Il popolo di Palermo traeva alla marina e godea dello spettacolo di tutti que’ legni (erano oltre a trecento le navi da trasporto, oltre quelle della guerra), i quali per la calmeria trattenevasi in alto mare. tosto addì 29 di quel mese lo esercito prese terra a Solanto, che la nobiltà vi corse, per ossequiare il comandante. Vi spedì suoi ambasciatori il senato, per avere per la resa della città le stesse condizioni accordate nel 1718 dal marchese di Leyde; e l’ottenne. Il domane l’esercito accostossi alla città e venne a fermarsi dall’altra parte nella campagna di Malaspina. Il conte di Montemar prese alloggio nella villa del duca di Sperlinga; addì 2 di settembre entrò in città accompagnato dal senato, dal principe di Butera e da molti baroni, e venne al duomo ove lettasi dal protonotaro del regno la real cedola, per la quale il re Carlo, quarto fra i monarchi di Sicilia di tal nome, venuto al possesso di questi regni per la cessione fattagliene dal re suo padre e dal principe delle Asturie suo fratello, destinava suo vicerè nel regno di Sicilia Giuseppe Cartillo Albornoz conte di Montemar. Dopo di che il nuovo vicerè prestò il consueto giuramento di osservare le leggi, i capitoli e le costituzioni del regno.

VIII. — Tosto dopo il nuovo vicerè ordinò al tribunale del patrimonio, che la moneta che indi in poi si fosse coniata, portasse l’epigrafe Carolus Borbonius Tertius. Lasciando stare che avrebbe più presto dovuto dirsi Carolus Tertius Borbonius, quell’epigrafe era mal conveniente; perchè se voleasi contare tra’ re di Sicilia Carlo d’Angiò, il nuovo re era il quinto di tal nome; se no, era il quarto. Ma il governo spagnuolo volea mostrare di tenere illegittimi non solo l’angioino, ma il re Carlo d’Austria, cui in quel momento veniva a spogliare del regno. E però il vicerè quel giorno medesimo ordinò al tribunale stesso di rimettergli un notamento di tutti gli officî e beneficî ecclesiastici conferiti dal governo austriaco e desse il suo parere, se era espediente staggirne le rendite.

Intanto erasi dato mano all’assedio del castello. Nel terzo giorno il conte di Castiglione, che forse era il solo che pigliava la cosa sul serio, colto da una bomba morì; la guarnigione senza altro aspettare cesse il castello e si rese prigioniera di guerra. Nel tempo stesso si arrendeva la città di Messina. Una parte del naviglio partito da Napoli erasi colà diretta, ed avea presso alla città messo in terra il conte di Marsillac con parte dell’esercito. Comandava colà le armi austriache il principe di Lobcovitz, il quale all’arrivo degli Spagnuoli, sguarnita Taormina e i castelli di Mattagrifone e ’l castellaccio, si ridusse nella cittadella, lasciando presidiati gli altri forti. La città si arrese di queto come Palermo, e ’l conte di Marsillac vi entrò addì 7 di settembre, ed ivi a sette giorni capitolò il forte Gonzaga. Ma la cittadella, ove comandava Lobcovitz fece validissima difesa. Finalmente dopo sei mesi, mancati affatto i viveri, ed essendogli stato scritto dal ministro imperiale in Roma, che non avea da sperare alcun soccorso, rese la piazza, onde venne fuori con tutti gli onori di guerra.

Mentre le armi spagnuole stringeano la cittadella, moveano da Palermo gli ambasciatori destinati dalla deputazione del regno in nome di tutta la nazione ad ossequiare il nuovo re, e quelli del senato di Palermo. Giunti essi in Napoli, i primi furono dal re ricevuti con tutti gli onori di ambasciatori di un regno indipendente. Introdotti nell’anticamera della sala del trono con gran seguito di nobili siciliani, che più magnifica rendeano la funzione, venne fuori ad incontrarli il conte di Santo Stefano, maggiordomo maggiore del re, il quale era nato in Sicilia mentre suo padre vi era vicerè sotto Carlo II. Signori, diss’egli agli ambasciatori, mi duole che i doveri della mia carica non mi permettono di seguirli anch’io come siciliano: ma vi prego a gradire, che in mia vece ciò si facci dal duca d’Airon mio figlio. Tali espressioni intese a lusingare il sentimento nazionale, forte in tutti i popoli, fortissimo ne’ Siciliani, unite all’onore reso dal re alla nazione nelle persone di coloro, che la rappresentavano, furono foriere e non mendaci della futura condotta di quel buon re, la cui memoria sarà sempre cara ai Siciliani, per avere, finchè regnò, non solo religiosamente conservate, ma accresciute le prerogative del regno. Ed una prova solenne volle darne allora stesso col promettere in quella pubblica udienza agli ambasciatori siciliani, che presto si sarebbe recato in Palermo, per esservi coronato sull’esempio di tutti i re di Sicilia suoi predecessori. Quest’onore compartito alla Sicilia dava sul naso a qualche altra città; per lo che grandi mene eransi fatte, per indurlo a coronarsi altrove. Fu allora, che il senato di Palermo fece scrivere all’infaticabile canonico Mongitore l’opera sul dritto, che ha la città di Palermo, di dar la corona ai re di Sicilia. Ma non era mestieri di tal libro. Quell’ottimo re non lasciò mai piegarsi a deviare dal suo proponimento di rispettare gli antichi statuti e le civili consuetudini del regno.

IX. — Come seppe, che la cittadella di Messina era per cadere; mosse per terra a quella volta sulla fine di febbraro del 1735 e vi giunse addì 9 di marzo. In presenza sua fu consegnata la cittadella alle sue armi, in presenza sua ne partirono i Tedeschi. La deputazione del regno ed il senato di Palermo, saputo il suo arrivo in Messina, vi spedirono altri ambasciatori, per ossequiarlo. Dopo due mesi di dimora in quella città imbarcossi, per venire in Palermo, addì 16 di maggio. Venuto fuori del porto, nello stretto levossi un vento contrario, per cui fu mestieri passar la notte in quella spiaggia. Rimessosi il domane in mare, sulle undici ore a. m. del giorno 18 fu alle viste di Palermo. Avea egli due giorni prima di partire fatto spedire un corriere in Palermo, per dare avviso della sua mossa, ma questo non era ancora arrivato; e per essere inaspettata la sua venuta, più viva ne fu la gioja de’ Palermitani.

Sulle quattr’ore scese a rimpetto della Quinta Casa de’ gesuiti, ed ivi stette la notte: il domane rimessosi in mare venne alla porta Felice, ove era già preparato il magnifico ponte. Ivi stavano ad aspettarlo il sacro consiglio, la deputazione del regno, la nobiltà, il clero, il senato: scese fra lo sparo delle artiglierie; e salito in una splendida carrozza del principe di Cattolica, entrò in città. I collegi degli artieri che formavano le milizie urbane erano schierate lungo la strada Toledo. Giunto al duomo, vi fu ricevuto dall’arcivescovo e dal capitolo. Vi si cantò il Te Deum; e fatte le sue adorazioni, si recò al real palazzo.

Lo stesso giorno del suo ingresso bandì, che fossero tolte da tutti i luoghi, ove ne erano state affisse, le iscrizioni intitolate al re Carlo III suo antecessore, il cui vicerè avea nel 1720 fatto levare quelle, in cui era il nome di Filippo IV, che in quelle diceasi quinto; anzi ne avea fatto atterrare la statua, ch’era stata eretta alla porta della Doganella. Designò poi il re il giorno 30 del seguente giugno, per fare il suo solenne ingresso. Come a questa funzione andava annesso il prestarsi dalla nazione l’omaggio al nuovo re, il protonotaro del regno vi chiamò tutti coloro, che avean sede in parlamento.

Il giubilo de’ Siciliani venne al suo colmo in quel giorno. Sul far dell’alba le milizie urbane si schierarono da ambi i lati della strada Toledo; le case tutte della città, non che quelle de’ grandi signori, ma de’ magistrati, degli ecclesiastici e degli agiati cittadini furono parate di sontuose arazzerie. Tre magnifici archi trionfali furono eretti dal senato, il primo alla porta de’ Greci, l’altro alla porta Felice, il terzo alla piazza Vigliena. Tre ne eressero nella stessa strada Toledo le tre nazioni napolitana, genovese e lombarda.

Recossi il re di buon mattino fuori di città nella pianura di Sant’Erasmo, ove evasi prima eretto un gran padiglione, entro il quale era il trono. Ivi stando, il principe di Butera primo titolo del regno, introdotto alla sua presenza, inginocchiatosi, con breve aringa mostrò la letizia della nazione, per essere egli venuto al trono: il re rispose con lodare la fedeltà de’ Siciliani, a questo dire, tolto dalle mani del principe Corsini cavallerizzo maggiore il reale stendardo, a lui lo porse; e ’l principe rialzatosi venne fuori e si avviarono alla città, con l’ordine a ciascuno assegnato, tutti coloro ch’erano ammessi a corteggiare il re.

Precedea il reggimento delle guardie italiane; venivano appresso a piedi tutti i servidori e i paggi del re; seguivano a cavallo il principe di Rammacca, capitano della città, accompagnato da uno de’ giudici della corte pretoriana, preceduto da’ suoi alabardieri; poi i deputati del regno coi governatori del banco di Palermo; indi tutti i nobili, ognun de’ quali avea un gran seguito di servidori e palafrenieri vestiti di ricche assise. Seguiva la banda de’ suonatori del senato, cui tenean dietro gli uffiziali minori dei tribunali della gran corte e del real patrimonio; poi tutti i vescovi ed abati, che avean sede nel parlamento del regno; ed accanto ad ognun di loro era un sacro consiglio. Seguiva il principe di Catena tesoriere generale, che portava appesi all’arcione sacchetti di monete, coniate in quei giorni colla effigie del nuovo re, e in tutti i quadrivî ne gittava al popolo; venivano appresso quattro battitori della guardia del corpo e quattro cavallerizzi; poi i maggiordomi e gentiluomini di camera, l’elemosiniere del re, gli ajutanti reali. Finalmente andava innanzi il re il principe di Butera portando lo stendardo reale.

Cavalcava il re sotto ricco baldacchino donatogli dal corpo de’ mercatanti di Palermo: lo addestravano, dalla dritta il principe di Trabia, che pigliava il luogo di secondo titolo, e dalla sinistra il principe di Cattolica pretore: i senatori sorreggean l’aste del baldacchino. Andavano a piedi, avanti al re, i cavallerizzi di campo, e dietro il duca di Castelluccio secreto della regia dogana. Fuori del baldacchino cavalcavano dal lato del re il principe Corsini cavallerizzo maggiore, portando nuda la spada del sovrano, e dietro il marchese di Arienzo capitano della guardia del corpo, il conte di Santo Stefano maggiordomo maggiore e ’l duca d’Airon gentiluomo di camera in servizio. Venivan da sezzo la compagnia delle guardie del corpo a cavallo, e poi le carrozze del re, dell’arcivescovo di Palermo, degli altri vescovi, del principe di Butera, del principe di Trabia e del senato.

L’arcivescovo di Palermo erasi fermato dentro la città presso alla porta Felice, con tutto il clero regolare e secolare. Come il re mosse a quella volta, egli, seguito dal clero, ne venne fuori in abito ponteficale e lo scontrò al primo arco trionfale presso la porta de’ Greci. Il re smontato, inginocchiossi e baciò la croce portagli dallo arcivescovo. Rimesso in sella, continuò la marcia, e l’arcivescovo spogliatosi degli abiti pontificali, colla cappamagna e ’l cappello vescovile, salito sulla sua mula, andò a raggiungere gli altri prelati. Giunto il re alla porta Felice, il pretore, che poco prima erasi staccato dal suo fianco, inginocchiatosi, gli porse in un bacino d’argento le chiavi delle porte della città, facendo un’apposita aringa, alla quale il re cortesemente rispose, e, prese le chiavi, a lui le restituì, e in quell’atto udissi il rimbombo delle artiglierie del castello e de’ legni reali.

Procedendo poi lungo la strada Toledo, giunse il re al duomo, ove fu ricevuto dall’arcivescovo e dal capitolo. Assisosi in soglio, dopo cantato il Te Deum, gli fu posto innanzi un tavolino col libro de’ vangeli aperto ed un crocifisso sopra. Il protonotaro del regno, avutone prima l’ordine, lesse ad alta voce la formola del giuramento da prestarsi al nuovo sovrano. Furon poi chiamati l’arcivescovo di Palermo, ed uno appresso all’altro tutti i prelati del regno: il principe di Butera, e dopo lui tutti i baroni, il pretore di Palermo, seguito dai procuratori delle altre città, e finalmente la deputazione del regno, per giurare in nome degli assenti. Ad ognuno di costoro dimandava il protonotaro: giura Ella fedeltà ed omaggio a S. M. secondo la formola da me letta? E colui, baciando il crocifisso e il vangelo, rispondea: Così lo giuro. Dopo ciò ordinò il re allo stesso protonotaro di leggere la formola del giuramento da prestarsi da lui per l’osservanza delle leggi del regno; e quello, lettala, s’inginocchiò e disse al re: Si compiace V. M. di giurare l’osservanza de’ capitoli e privileggi del regno, secondo la formola, che mi ordinò di leggere? Il re levossi, e toltosi il cappello e ’l guanto, posta la mano ignuda sul vangelo, rispose: Così lo giuro. Si fece allora avanti il pretore col libro de’ privilegi e consuetudini di Palermo, e postosi in ginocchio, pregò il re a giurarne del pari l’osservanza; e il re giurò, ma col cappello in capo e colla mano vestita del guanto. E quell’atto fu accompagnato dalle grida festose di tutto il popolo, dalle scariche delle artiglierie.

Comechè i giuramenti de’ principi siano, sventuratamente per l’umanità, sempre subordinati alla ragion di stato, pure il giuramento di Carlo IV spirò una gioja straordinaria, perchè il popolo altamente confidava nella religione di quel buon re, e ne avea onde. Carlo nell’insignorirsi dei regni di Sicilia e di Napoli avea riacquistato un patrimonio avito, ma lo avea acquistato coll’armi, i popoli aveano avuta alcuna parte in ciò: pure quell’ottimo principe sdegnò l’odioso titolo di conquistatore, e di sola sua volontà prestò quel giuramento, che poi tenne con ammirevole lealtà.

men fastosa fu la funzione della sua coronazione. La gotica soffitta, che allora conservava il duomo di Palermo, per non essere stato ancor contraffatto, fu vestita artificiosamente, e negli spartimenti furono posti nove grandi quadri, nei quali si rappresentavan le gesta del re David e la sua unzione e coronazione. Nell’ornato soprapposto alle mura laterali del tempio, conservandosi la stessa euritmia della soffitta, furono lasciati nove partimenti per ogni lato ne’ quali furono situati diciotto quadri, che rappresentavano le coronazioni di Rugieri I, di Guglielmo I, di Guglielmo II, di Tancredi, di Rugieri II, di Guglielmo III, di Arrigo I, di Federigo I, di Arrigo II, di Manfredi, di Pietro I d’Aragona, di Giacomo, di Federigo II, di Pietro II, di Lodovigo, di Federigo III, di Martino e di Vittorio Amedeo. Tramezzo ai quadri eran due colonne, che sosteneano l’ordine superiore, fra le quali erano le statue di que’ re, che non erano stati coronati in Sicilia.

Così preparato il tempio, sulle dieci ore a. m. venne fuori il re con tutta la sua corte. Precedea la guardia de’ reali alabardieri, seguita da una carrozza tirata da sei cavalli, entro la quale erano il principe di Butera ed il conte di Sammarco. Portava il primo in un bacino di argento la corona e lo scettro dello stesso metallo ingiojellati di delicatissimo lavoro, fatti in Palermo. In uguale bacino portava l’altro la ricca spada del re col budriere. In un’altra carrozza era il primo cavallerizzo del re con alcuni gentiluomini di camera. Vota era la terza carrozza, tirata da otto cavalli. Seguivano in confuso i nobili e’ cortigiani. Quattro battitori a cavallo precedean la carrozza, entro la quale era il re col cavallerizzo maggiore il capitano della guardia del corpo e ’l gentiluomo di servizio. Erano accanto alla carrozza i paggi a piedi e quattro cavallerizzi a cavallo, e dietro la compagnia della guardia del corpo a cavallo.

Giunta la prima carrozza al duomo i due gentiluomi di camera vennero al soglio pontificale, ove stava a sedere l’arcivescovo, presentarongli la corona, lo scettro e la spada, che furono posti sopra l’altare. l’arcivescovo, alcun altro andò incontro al re nell’entrare in chiesa. Era egli in abito positivo e senza spada. Avuta l’acqua benedetta dal suo limosiniere, andossene in uno stanzino preparato presso il coro, onde ivi a poco ritornò vestito di sole brache e giubbone, senza cappello e spada. Incontrato dai vescovi di Catania e di Siracusa, fu da essi presentato all’arcivescovo, e dal primo fu fatta la dimanda d’esser unto e coronato. Sedutosi allora il re fra’ due vescovi, gli fu letta dall’arcivescovo l’ammonizione, secondo i canoni; inginocchiatosi poi, fece la professione di fede. Denudatigli l’antibraccio destro e le spalle fu unto, e restando in ginocchio furon dall’arcivescovo lette le solite preci. Dopo ciò l’arcivescovo cominciò la messa solenne, e il re si ritirò nel suo stanzino. Ivi a poco ricomparve vestito del real manto, il cui lungo strascico era sostenuto dal conte di Santo Stefano maggiordomo maggiore e dal duca di Airon, e andò ad inginocchiarsi sul soglio. Prima del vangelo l’arcivescovo s’assise nel suo faldistoro; e ’l re sceso dal soglio, tra’ vescovi di Catania e di Siracusa andò ad inginocchiarsi avanti a lui; egli, presa la spada nuda al re la porse, e il re a lui la restituì; rimessa nel fodero, la cinse al re, il quale, levatosi, la sguinò, la vibrò quattro volte in aria, fece atto di tergerla sul braccio sinistro, la rimise sul fodero e tornò in ginocchio. Presa allora d’in sull’altare la corona, l’arcivescovo la pose sul capo del re, e in mano gli pose lo scettro. In quell’atto echeggiarono gli evviva del popolo, il suono delle campane, le scariche della truppa, ch’era al di fuori, e le salve delle artiglierie della città, de’ forti, dei legni reali. Alzatosi allora l’arcivescovo, ricondusse il re al trono e ve lo fece sedere, ciò che dicesi intronizzare. Cantato il Te Deum, continuò la messa, ed all’offertorio il re scese dal soglio ed offrì all’altare tredici monete d’oro colla sua effigie, del valore di cinque once l’una, e novantadue doppie (658). Finita la messa, il re collo stesso accompagnamento, portando la coronazione in testa e lo scettro in mano ritornò al real palazzo.

La sera poi si vece vedere a cavallo con gran seguito di nobili, ognun de’ quali era accompagnato da paggi con torchi di cera accesi. Con tal corteggio venne godendo del magnifico spettacolo, che mostrava per ogni dove la città. Oltre la pubblica luminaria, tutte le case, non che quelle de’ signori, ma de’ privati cittadini, eran parate di ricche arazzerie, ornate di trofei e di emblemi analoghi alla coronazione del re e illuminate con numerosi torchi di cera. Tutti i beglingegni furono messi alla prova, per inventare macchine, imprese e motti. Le case religiose, i monasteri, i seminari, i collegi di tutti gli artieri gareggiarono nel far pubbliche dimostrazioni di gioja. Da per tutto vedeansi ingegnose macchine allusive alla congiuntura con gran profusione illuminate. Si distinsero fra gli altri gli orafi e gli argentai, i quali eressero nella piazza del Garraffello una mole quadrata alta quaranta palmi, ornata di statue, fatta tutta d’argento; sovr’essa sorgea la statua del re dello stesso metallo, sopra uno zoccolo gremito d’ogni maniera di gioje; tutti i preziosi utensili, che quegli artieri aveano in vendita, furon posti con bell’ordine presso gli angoli del basamento e vi formavano quattro alte piramidi. Accrescea la magnificenza del tutto l’immensa copia di cera, che intorno vi ardea.

X. — La gioja destata in Sicilia ventidue anni prima per l’ingresso e coronazione di Vittorio Amedeo era stata solo effetto del sentimento nazionale; ma nella coronazione di Carlo, alle cerimonie pubbliche, che furono le stesse, unironsi queste particolari dimostrazioni d’affetto, perchè il sentimento nazionale era più forte. La monarchia siciliana parea risorgere nello stato e nei confini assegnatile dal primo re Ruggieri. Carlo, lealissimo com’era, sordo alle altrui insinuazioni, non altrove volle essere unto e coronato. Nel farsi i preparamenti per la sua venuta avea voluto, che negli addobbi de’ regali appartamenti tutto fosse siciliano. Univasi a ciò l’amore, che le qualità sue gli attiravano. La bellezza della sua persona; il mostrare in quell’età giovanile tanto senno, tanta compostezza di costumi, tanto amore della giustizia, tanta assiduità nel pigliar conto de’ pubblici affari, tanta gentilezza e piacevolezza nelle sue maniere, senza però degradare dalla dignità di monarca; la sua religione, vera religione; chè l’esatta osservanza delle pratiche religiose andava in lui del pari col buon costume, colla lealtà, con tutte le virtù d’uomo e di re; sin dal primo suo giungere in Sicilia lo resero caro al popolo. E comechè, seguita la coronazione, si fosse allontanato, per fermare in Napoli la sua residenza, non permise mai che indi venisse il menomo che di pregiudizio alle antiche leggi o di scorno alla Sicilia. E di ciò una luminosa prova diede nel momento stesso della sua partenza.

Trovò nel real palazzo di Palermo i due arieti di bronzo, avanzi dell’antica Siracusa, donati da re Alfonso a Giovanni Ventimiglia primo marchese di Geraci e confiscati ad un de’ suoi successori. Non mancò fra’ cortigiani chi propose di trasportarsi nel palazzo di Napoli; però partito appena il re, furon colà mandati. Ciò rincrebbe a tutti, ma nessuno osava reclamare; chè non appartenevan quegli arieti alla città, al regno, ma essendo beni di confisca, eran proprî del patrimonio reale. Pure re Carlo, avuto lingua di quel rincrescimento de’ Siciliani, ordinò che quegli arieti fossero tosto riportati nel palazzo di Palermo, e mai più indi rimossi, dichiarando pubblicamente non esser venuto in Sicilia, per ispogliarla de’ suoi ornamenti, ma per accrescerne i pregi; ed in ciò pose ogni suo studio.

Istituì in Napoli un magistrato, che fu detto Giunta di Sicilia, composto da quattro giureconsulti, che avean dato saggio di se nelle alte magistrature, due de’ quali volle che fossero siciliani, ed un barone siciliano volle che fosse presidente, col titolo ed esercizio di consigliere di stato. Ed a richiesta della deputazione del regno stabilì, che quel presidente fosse scelto del numero di coloro, che la deputazione stessa avrebbe proposto. Il parere di quel magistrato chiedea in tutti gli affari di Sicilia. Per tal modo il regno avea sempre presso il trono un valevole difensore delle sue franchigie.

Erasi nell’aprile del 1738 aperto il parlamento, ed il vicerè principe Corsini avea chiesto in nome del re uno straordinario donativo. Mentre il parlamento stava discutendo un tale affare, giunse inaspettatamente un sovrano rescritto, in cui stabilivasi, che quind’innanzi tutte le prelature del regno fossero conferite solo a Siciliani, tranne l’arcivescovo di Palermo, che il re riserbò in suo arbitrio il conferirlo in avvenire, e per una sola volta quello di Morreale. Il parlamento, per mostrare la sua gratitudine per tale concessione tanto più gradita in quanto era stata chiesta sempre invano ed ora il re faceala di sua volontà, offrì un donativo di centomila scudi; ed uno di dugentomila, oltre la conferma degli ordinarî, che offrì per la richiesta fatta dal vicerè.

Memorabili sono i soccorsi mandati da quel buon re a Messina travagliata dalla peste nel 1743 e più memorabili i regolamenti da lui emanati, per dar nuova forma alta suprema deputazione di salute, onde questo flagello non tornasse più ad affliggere la Sicilia. E tali regolamenti sino all’età nostra furon tenuti sapientissimi da tutte le nazioni e da molti presi a modello.

Si deve a re Carlo il sontuoso albergo dei poveri di Palermo, per la costruzione del quale diede egli del suo cinquemila scudi l’anno. Fu suo pensiero lo stabilire in Messina una privilegiata compagnia di commercio. E comechè tale istituzione sia stata di breve durata, perchè le circostanze generali del mondo aveano sviato il commercio da quella città, pure servì a provare, che l’animo di quel re era sempre inteso a promovere il vero bene della nazione.

Il regno, venuto sotto il dominio di Carlo, passò dalla durezza del governo austriaco al reggimento veramente paterno di lui. Quel buon re non solo si astenne dalle illegali estorsioni, che s’eran fatte lecite gli Austriaci, ma moderatissimi furono i tributi da lui chiesti al parlamento, dimandò mai straordinarî donativi, se non quando straordinarî bisogni lo stringeano; tantochè nel 1750 vietò al vicerè duca di Laviefuille di chiedere al parlamento alcun che di più della conferma de’ donativi ordinarî, per non averne mestieri. E se nel 1754 fu chiesto al parlamento, oltre un donativo straordinario di cencinquantamila scudi da pagarsi in quattr’anni, uno di settecentoventimila in nove anni; ciò lungi di essere stato di peso, fu un atto di beneficenza. Il denaro fu religiosamente impiegato, come il re avea dichiarato, pel mantenimento di cinque reggimenti siciliani, di cui fecero leva cinque baroni, onde fu un capitale di più messo in circolazione in Sicilia, e quindi ebbero onorato modo di vivere migliaja di cittadini.

Tale fu il governo di Carlo IV. Chiamato egli al trono di Spagna per la morte di Ferdinando VI suo maggior fratello, addì 6 di ottobre del 1759, cesse i regni delle due Sicilie all’infante Ferdinando suo terzo figliuolo. Nel seguente dicembre il marchese Fogliani vicerè nel duomo di Palermo ricevè l’omaggio della nazione, ed in forza di espressa procura prestò il consueto giuramento d’osservare le leggi del regno per parte del nuovo re Ferdinando III.






654 Ciò fu eseguito e la popolazione fu trovata 1,123,163 anime.



655 Era costui figliuolo bastardo di Filippo IV e dicea: son mulo, ma son figlio di buon cavallo.



656 Prima di partire fece bruciare tutte le carte della cancelleria e tutti i corpi della storia de’ parlamenti di Andrea Marchese, ch’erasi allora stampata coll’aggiunta del Mongitore, il quale nella storia dei parlamenti da lui compilata riferisce questo fatto, ma non dice onde si sia mosso quel vicerè.



657 Ho inteso nella mia prima età raccontare da un vecchio, che persone viventi nel regno di Vittorio Amedeo gli diceano d’aver visto in una città della diocesi di Girgenti i ragazzi scarabbocchiare al muro un fantoccio, cui davano il nome di Vittorio Amedeo, e farne bersaglio per trarvi de’ sassi. Tanto odioso s’era fatto divenire al volgo un re, che nel breve suo regno procurò sempre il bene della Sicilia.



658 Tutto il dono fu del valore di onze 444: ma poi regalò alla cappella di s. Rosalia una immaginetta di avorio della santa contornazione di grossi brillanti del valore di quattromila scudi.



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