Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

NOTE ED ILLUSTRAZIONI

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NOTE ED ILLUSTRAZIONI

I

Erodoto dice che la battaglia d’Imera accadde lo stesso giorno di quella di Salamina (an. I, Ol. 75 480 a. C. 20 ottobre); Diodoro la dice accaduta nei primi giorni d’agosto, il giorno stesso del conflitto delle Termopili. Comechè la differenza sia lieve, io ho seguito in ciò Diodoro, il quale, per l’esattezza in tutte le altre circostanze della narrazione, e per fare quella considerazione sulla coincidenza delle due giornate, mostra di essere meglio informato. Non ho poi osato allontanarmi dallo stesso storico intorno al numero de’ Cartaginesi, comechè sembri eccedente. La descrizione della battaglia calza così bene colla situazione de’ luoghi che non pare probabile, che lo storico, esatto in tutto, non lo sia nella circostanza essenziale del numero. In secondo luogo, non è questo un fatto isolato, come nelle altre battaglie; ma è legato ad altre circostanze, che ne provano la verità. Diodoro dice che gli Agrigentini destinarono i loro prigionieri alla costruzione di opere magnifiche; e gli avanzi di tali opere, che oggi si osservano, ben fanno argomentare, che vi fu impiegato straordinario numero d’operai. Ne’ tempi d’appresso si citava sempre in Atene ed in Cartagine la sconfitta di 300,000 uomini sotto Imera da coloro, che volevano distogliere gli Ateniesi ed i Cartaginesi dal portare le armi in Sicilia. A fronte di tali argomenti non è permesso al moderno storico, che che ne pensi, di allontanarsi dagli antichi.

II.

Credevano gli antichi, che una ninfa gravida di Giove avesse partorito, presso l’origine del Simeto, due gemelli. Temendo l’ira di Giunone, li fece ingojare dalla terra; ma questa li rimandò sotto la forma di due sorgenti, che fortemente eruttavano un’acqua, alla quale si dava la virtù di scoprire gli spergiuri, facendoli morire come ne bevevano: per la quale cosa terribile era il giuramento per li Dei Palici, mai violato. Ivi presso era un famoso tempio, nel quale trovavano asilo i servi che, maltrattati da’ loro padroni, fuggivano; potevano esserne tratti, finchè i padroni non giuravano per gli Dei di non molestarli più oltre. Nel soprapposto colle Palica fu fabbricata. Oggi non si vede altro in quel sito che un suolo basso, in cui in inverno si uno stagno, detto volgarmente lago di Naftia; d’estate è secco, e restano i due crateri ad eruttare un’acqua bituminosa, la quale forse farebbe morire chiunque ne bevesse, anche senz’essere spergiuro.

III.

Diodoro dice, che i Cartaginesi mandarono una colonia, per abitare una città allora fabbricata presso le sorgenti d’acqua termale; onde fu detta Terme. Quasi tutti i moderni storici, forse perchè ora una sola città conserva quel nome di Terme (italianamente Termini), dicono esser questa la città allora edificata. E, perchè è altronde noto che gl’Imeresi, distrutta Imera, vennero a stanziarvi, soggiungono, che i Cartaginesi vi fecero anche abitare gl’Imeresi. Ma in ciò confondono la Terme imerese colla selinuntina. Le monete, che restano della prima, mostrano l’errore. Alcune di queste hanno da un lato improntata l’effigie d’Ercole, e dall’altro tre ninfe coll’epigrafe ΘЄΡΜΙΤΑΝ.

Tali monete, per gli emblemi affatto diversi da quelli d’Imera, ne’ quali nulla è di punico; per la testa di Ercole, che si vede solo nelle città d’antica origine; per la favola, che rappresenta, delle ninfe che apprestarono il bagno ad Ercole, la quale non lieve argomento di credere questo sito sin d’allora abitato; e finalmente pel nome del solo popolo termitano ivi espresso, e per quell’Є lunato, mostra d’essere anteriore alla riunione dei due popoli e prova l’esistenza della città, prima della caduta d’Imera. In altre monete si vede da un lato la stessa testa d’Ercole e dall’altro una donna in atto di fare una libazione, com’è nelle monete d’Imera, e l’epigrafe ΘΕΡΜΑΕΙΜΕΡΑΙΩΝ; in alcune, è la testa d’Imera con corona murale e ’l cornucopia, e nell’altro la statua di Stesicoro, come la descrive Cicerone e l’epigrafe ΘΕΡΜΙΤΩΝ ΙΜΕΡΑΙΩΝ. Queste evidentemente mostrano la riunione de’ due popoli. Ed è probabile, che la seconda ed un’altra piccola, in cui è la capra, fossero state coniate quando Scipione restituì a’ Termitani i simulacri d’Imera, di Stesicoro e della capra. Abbiamo altronde le monete della sola Imera. È dunque dalle monete provata l’esistenza contemporanea di Terme e di Imera, ognuna delle quali città avea le sue particolari monete; e la riunione de’ due popoli, quando accomunarono nelle monete gli emblemi. Il Torremuzza per lungo studio delle monete venne in chiaro di questa verità: Ad maris litus, dic’egli, prope veterem Himerae urbem, Thermae erant tota antiquitate celebres, et oppidum in eis extabat, quod postea, Himera a Cartaginensibus deleta, non exiguum habuit incrementum; nam Himerenses, quos belli calamitas reliquos fecit, post patriae exicidium, eo se collocarunt et comunem cum veteribus Thermitanis penates habuere, unde Thermarum Himerensium nomen civitati indictum. Sic. vet. nummi. Tab. XC.

Pochi anni dopo, fabricata la nuova città dai Cartaginesi, gl’Imeresi si unirono a Dionigi nella spedizione contro Mozia. Avrebbero eglino potuto farlo, se abitavano una città cartaginese? Undici anni dopo, i Cartaginesi, volendo da Panormo portare per terra l’esercito contro Messena, per non trovare intoppo in via, fecero un trattato coglImeresi. Ne avrebbero avuto mestieri? Come poi può ragionevolmente supporsi, che gl’Imeresi, un anno dopo il crudelissimo eccidio della loro patria, fossero iti volontariamente ad abitare coi Cartaginesi, dei quali erano stati prima e furono sempre nemici? I Cartaginesi cominciarono la loro conquista, come era naturale, dalla parte della Sicilia, che guarda l’Affrica; vi avevano amiche le città fenicie; s’erano fatti padroni di Selinunte; s’acccingevano all’assedio d’Agrigento; è naturale adunque, che da quel lato avessero fabbricata la nuova città tra Selinunte ed Agrigento; e vi avessero mandato una mano di servi, che volontariamente avevan prese le armi (Volones), per valersene nell’assedio: e dalle acque calde, che ivi erano, la città ebbe il nome di Terme, che da’ Saracini in poi cambiò con quello di Sciacca.

IV.

Diodoro dice che la scarsezza de’ viveri giunse allora a tale in Reggio, che un medinno di frumento si vendeva cinque mine. Di Blasi (Tom. II, lib. 3, cap. 5) narra la cosa in questi sensi: Sei moggi di grano, che corrispondono ad una salma e un quarto di misura siciliana, costavano loro cinque mine, che vale quasi a corrispondere a 58 scudi siciliani; sbagliando il Caruso, che la valuta solo 50 scudi, e il Burigny, che non la prezza più di 250 lire di Francia. Ma egli che fa tutte quelle riduzioni, senza accennare su quali dati, cade in errori più gravi. Il medinno aveva la capacità di sei moggia. Consultando Lo specchio delle misure e pesi de’ Romani, annesso all’opera di Catone, De re rustica, nell’edizione de’ Rustici latini, si trova che la capacità del moggio era 449,173 pollici cubici di Parigi; cioè quasi due quarti e un carozzo di nostra misura; onde il medinno era della capacità di tre tumoli e mezzo circa. Ciò è anche provato dal detto di Cicerone: In jugere Leontini agri medimnum fere tritici seritur (Verr. lib. 5, c. 47). Dallo specchio stesso si scorge, che l’Juger poco oltrepassava i tre tumoli. Come dunque poteva seminarvisi una salma e un quarto di frumento? La mina moneta poi, secondo le tavole di Berthélémy, valeva 90 lire di Francia; cioè 7 oncie e 6 tarì. Dunque nell’assedio di Reggio tre tumoli e mezzo di frumento giunsero a vendersi 36 once. Se quello storico avesse fatto bene il calcolo, avrebbe messo in forse il fatto.

V.

Narra Plutarco (in Dione) che il messo, camminando verso Caulona, ove Dionigi era, presso Reggio incontrò un suo amico, dal quale ebbe un pezzo di carne d’una vittima, che portava, e la pose nella sacca, in cui aveva le lettere. Fatto notte, s’addormentò in un bosco. Un lupo, tratto dall’odore della carne, vi venne e portò via la sacca. Svegliatosi il messo non trovata la sacca, non volle andare in presenza di Dionigi senza la lettera e fuggì senza farsi più trovare. Ma se costui non si fece più trovare, come si seppe il fatto? Se mentr’egli dormiva, il lupo venne a levargli la sacca, e solo allo svegliarsi s’avvide di non averla più, come potè sapere d’essere stato il lupo, che lo portò via? È probabile, che quel messo, volendo favorire la rivolta, non portò la lettera, e mise poi fuori quella menzogna, che venne senza esame creduta, come accade nelle rivoluzioni.

VI.

Diodoro, da cui principalmente i moderni storici hanno tratto le notizie delle azioni d’Agatocle, e gli altri antichi scrittori le ebbero da Timeo, il quale era personalmente nemico di quel tiranno, per esserne stato cacciato da Tauromenio, ove era succeduto al padre nella tirannide. Per lo che le sue narrazioni della crudeltà e dei tradimenti d’Agatocle sono assai sospette. Non è da dubitare, che per ispegnere il governo repubblicano ebbe costui ad usare mezzi violenti. E la necessità di sostenersi fra tanti nemici ebbe ad indurlo ad atti di rigore. Ma sono tante eccessive le stragi e le crudeltà, che a lui s’appongono, che convien crederle o inventate da’ molti nemici suoi, o esagerate; o che, per renderlo più odioso, si tacquero le vere cagioni, da cui fu mosso. Aggiungasi, che tra le cose, che si dicono fatte in Affrica da Agatocle, alcune sono poco verisimili ed altre affatto favolose. Si narra che, mentre era colà minacciato da un grande esercito di Cartaginesi, chiese il soccorso d’Ofella, uno de’ generali d’Alessandro, il quale, dopo la costui morte, aveva, sull’esempio degli altri, usurpato il regno di Cirene, promettendo a lui tutti i dominî di Cartagine in Affrica, volendo per se quelli di Sicilia. Ofella raccolse un esercito, e dopo più mesi di viaggio disastrosissimo giunse al campo d’Agatocle, il quale con tradimento lo assalì, lo mise a morte, ed unì al suo l’esercito di quello; come se l’esercito fosse stato un qualche animale, che, perduto il padrone, si lascia ad altri condurre: mentrechè que’soldati avevano in pronto la vendetta, col mettersi al soldo de’ Cartaginesi. Narra inoltre, che Eumaco uno de’ generali d’Agatocle, innoltratosi nell’interno dell’Affrica, trovò una montagna alta dugento stadi (25 miglia!!!) tutta piena di gatti; e perciò non vi allignavano uccelli. Quindi passò in un paese pieno di scimie, pasciute ed adorate dagli abitanti, che imponevano a’ loro figli il nome di esse. Tali baje deturpano la dignità della storia e minorano la fede dello storico. Non è permesso al moderno storico alterare le narrazioni degli antichi. Ma è suo dovere esaminarle con buona critica, e passare sotto silenzio quelle cose, che non sono verisimili. Però nel narrare le azioni d’Agatocle ho io preso consiglio di accennare solo gli eventi, sui quali non può cader dubbio schivando quanto ho potuto i particolari.

VII.

Si narra dagli storici, che Agatocle venne ad Egesta, per chiedere danaro in presto a que’ cittadini; e, per essersi negati, fece uscire prima i poveri e, condottili al vicino fiume Scamandro, li fece, l’un dopo l’altro, scannare. De’ ricchi poi, per far loro confessare il luogo, ove nascosto avevano il danaro, altri ne fece morire, legandoli ai raggi delle ruote de’ carri; altri messi nelle catapulte erano scagliati come ciottoli; ad altri si tagliavano le garrette; e, memore del toro di Falaride, fece costruire un letto di bronzo, in cui, posti alcuni a giacere, messosi il foco sotto, si facevano morire arrostiti. Alle donne poi o rompeva con tanaglie di ferro le ossa de’ piedi o tagliava le mammelle; ed alle gravide faceva mettere mattoni ed altri pesi sui lombi, perchè si sconciassero. Le ragazze ed i fanciulli furono venduti ai Bruti. Ora è mai credibile ciò? E particolarmente poi dicendosi, che ciò si fece, per trar danaro dagli Egestani? Mancavano città più ricche e più vicine? Forse, mentre tutta Sicilia era in sommossa contro di Agatocle, gli Egestani erano de’ più ardenti nemici suoi, e nel sottometterli li avrà trattato con molto rigore. Quelle fole si sparsero; Timeo le scrisse; gli altri, l’uno dopo l’altro, lo copiarono. Il nome di Città giusta, dato dopo l’eccidio ad Egesta, mostra, che punizione e non ingordigia di danaro lo mosse. Tale è la misera condizione de’ popoli, che, qual che si fosse il dritto, hanno sempre torto, quando soccombono e chi li punisce chiama sempre giusta la punizione.

VIII.

Il Montucla (Hist. des Math. T. I,) dichiara favoloso tutto ciò che si dice d’Archimede e delle sue invenzioni; e particolarmente poi dice: essere la nave del re Gerone una menzogna d’Ateneo. Si fonda egli, per quest’ultima parte, sul silenzio di Diodoro, Polibio e Tito Livio. Le prove tratte dall’altrui silenzio, ove non siano accompagnate da altre ragioni, sono sempre di poco momento. Diodoro scrivendo una storia vastissima, potè trascurare un fatto particolare non legato ad altri avvenimenti. Per mostrare la magnificenza il re Gerone, parla dell’Olimpio; del grande edifizio, lungo uno stadio, presso il foro; del gran palazzo sul lido d’Ortigia, ove poi abitarono i pretori romani; e de’ generosi doni suoi. Non è da pretendere, che avesse fatto l’esatta enumerazione di tutte le opere di quel re, come se di lui solo avesse scritto. Polibio era un generale che, da’ fatti di guerra in fuori, di nulla si fa carico. Se si dovesse tener menzogna tutto ciò, che tace Polibio, se ne dovrebbe conchiudere, che gli uomini di que’ tempi null’altro seppero fare che scannarsi l’un l’altro. Tito Livio scrisse la storia di Roma, non di Siracusa; parla di questa ove non ha che fare con quella. Nessuno de’ tre parla del tempio di tutti gli Dei fabbricato da Gerone; pure una lapida trovata in Siracusa e che colà si conserva, ci fa certi di ciò, malgrado il loro silenzio. Vero è che Ateneo visse da quattro secoli dopo Gerone; ma egli assicura d’avere tratta la descrizione di quella nave dall’opera del siracusano Moschione, coevo di Gerone: Intorno alla maravigliosa nave di Gerone re de’ Siracusani. Anche Appione fa cenno d’una nave straordinaria, costruita da Gerone, e riferisce l’epigramma fatto per tale opera dal poeta ateniese Archimedeo, che ne riportò dal generoso re il dono di mille moggia di frumento. Sappiamo altronde di essere stato in quell’età in moda fra i principi il lusso di costruire navi di straordinaria grandezza. Plutarco (in Demetrio) parla delle navi a quindici e sedici ordini di remi fatte da Demetrio per la prima volta; e d’una che in appresso ne fece Tolomeo Filopatore a quaranta ordini; lunga dugentottanta cubiti; alta quarantotto, che portava trecento marinai, quattromila remiganti e presso a tremila soldati. Ciò è troppo al di delle nostre idee, ma non è colle nostre idee che dobbiamo giudicare delle opere e delle azioni degli antichi. Siamo ancora lontani dal conoscere ove siano giunte le arti presso di loro. Daremo perciò ricisamente del mandace agli storici? Fra i moderni, oltre il Rollin (Hist. des ant. T. X), che ammette come vera la nave di Gerone, il Tiraboschi (Storia della lett. italiana Par. 2), esaminata con severa critica la sentenza del Montucla, conchiude: non essere da dubitare del fatto; solo potersi sospettare alcuna esagerazione od inesattezza nella descrizione d’Ateneo, ch’egli trascrive, giusta la traduzione fattane dal conte Mazzuchelli.

IX.

Polibio, T. Livio e Plutarco, che minutamente descrivono i fatti dell’assedio di Siracusa, non fanno motto dell’incendio delle navi romane per mezzo di specchi ustorî. Erone, Diodoro Sicolo, Dione e Pappo lo dicono. Le costoro opere, in cui enarrano tal fatto, son perdute, ma l’ebbero per le mani di Zonara e Tzeze, storici greci del XII secolo, ed Antemio valente matematico, che visse sotto Giustiniano. Nelle storie de’ primi due, e nel frammento, che resta delle opere del terzo, è descritto il fatto sull’autorità di que’ primi. Ciò, se non prova positivamente la verità del fatto, prova che gli antichi non ne dubitavano. Fra’ moderni, molti hanno negato, non che il fatto la possibilità di esso. Decartes nel suo trattato di diottrica dichiara favolosi gli specchi ustorii d’Archimede; ma il suo ragionamento poggia sii d’un principio falso. Egli stabilisce, che la maggiore o minor grandezza d’uno specchio ustorio può solo valere a riunire i raggi solari in un punto più o meno distante; ma non mai ad accrescere il calore; e però solo i semidotti in ottica possono prestar fede all’incendio delle navi romane fatto da Archimede cogli specchi ustorî, i quali per riunire i raggi solari alla distanza in cui erano le navi, avrebbero dovuto essere grandissimi; e perciò son da tenersi favolosi.

L’esperienza smentisce quel ragionamento. Una lente del diametro di trentadue pollici francesi, che abbia otto linee di foco, alla distanza di sei piedi fonde il rame; ovechè un’altra del tutto simile, ma con dimensioni dodici volte più piccole, produce nel suo foco un calore appena sensibile. Altronde poi Descartes suppone, che Archimede avesse dovuto necessariamente adoprare specchi di un sol pezzo. Certo sarebbe stato impossibile, che il matematico siracusano avesse fatto uso di una lente di refrazione o di un specchio di riflessione, che avrebbero dovuto essere di grandezza ineseguibile; senzachè nel secondo caso le navi avrebbero dovuto essere tra ’l sole e Siracusa, ciò, che per essere il porto ad occidente della città, non poteva avverarsi, se non nelle ore del tramonto, in cui assai lieve è il calore.

Kircher nella sua opera: Ars magna lucis et umbrae, pubblicata 9 anni dopo la Diottrica di Descartes propone il poblema: Machinam ex speculis planis construere ad centum pedes urentem. Aveva egli osservato, che uno specchio piano della larghezza d’un piede produce alla distanza di 100 piedi un punto luminoso d’un quarto di piede; e che dirigendo l’un dopo l’altro cinque specchi allo stesso punto, il quinto producea un calore insopportabile. Da ciò conchiuse, che accrescendo il il numero degli specchi, si poteva produrre un incendio a molto maggior distanza, che lo specchio concavo non potrebbe. Su tale idea Buffon nel 1747 fece costruire in Parigi uno specchio ustorio composto di 168 specchi piani, che potevano moversi indipendentemente l’uno all’altro. Dirigendo allo stesso punto le 168 imagini del sole, nel mese d’aprile, con un sole debole, alla distanza di 140 piedi giunse a fondere il piombo. Certo corre un gran divario tra il sole di Parigi e quello di Siracusa; tra il fondere il piombo; e l’accendere vele, sarte e legname impeciato; oltracchè le navi romane potevano essere a molto minore distanza.

Tale esperienza mette fuor di dubbio la possibilità dell’incendio, ed è grande argomento della probabilità di esso il leggere nel frammento delle opere d’Antemio, pubblicato dopo l’esperienza di Buffon, che lo specchio posto in uso da Archimede era quale Kircher lo avea immaginato e Buffon eseguito. Ciò può contrappesare la prova negativa tratta dal silenzio degli storici romani, del quale altronde può ben rendersi ragione. Non è certo da credere, che tutta la armata romana fu incesa; perchè non tutta doveva accostarsi alle mura; ma solo quelle navi, sulle quali erano le macchine ed i soldati, che dovevano tentar l’assalto da quella parte. Alcune di queste furono con altre macchine distrutte da Archimede; le altre spaventate si ritirarono fuori tiro. Potè ben accadere, che queste furono incese; che i romani ignoranti, com’erano, non conosciuta la causa dell’incendio, lo tennero accidentale, ed i loro storici non curarono di registrare un fatto, che, secondo la comune opinione, nulla aveva che fare colla difesa della piazza: ma i Siracusani, che sapevano come il fatto era andato, ne tennero conto, e su queste memorie gli storici greci dei tempi d’appresso lo attestarono.

In generale poi molti pensano che, malgrado l’autorità di T. Livio, Polibio e Plutarco assai sia da sottrarre alle narrazioni de’ portentosi effetti delle macchine d’Archimede, i quali devono ascriversi alla esaltata immaginazione de’ soldati romani, che, presi di paura per l’inaspettata resistenza, si diedero a magnificare i pericoli. Ma è da considerare che in tutto il tempo, che bastò l’assedio di Siracusa, i Romani mai più osarono venire allo assalto; ciò prova la insuperabile resistenza che incontrarono. Ed altronde per destare tanta paura in petti romani, dovevano esser cose troppo al di dell’ordinario. Non è finalmente improbabile, che le aste di frassino, che Verre trasse dal tempio di Minerva in Siracusa, pregevoli solo, come Cicerone dice, per l’incredibile grandezza, fossero state le leve, di cui Archimede si valse, per levar di peso le navi romane.

X.

Cedreno (presso Caruso, ivi, pag. 64) narra il mezzo, per cui Adriano seppe prestissimo la caduta di Siracusa. Nel Pelopponneso, egli dice, è un sito che si chiama Helos, per esservi vicino un bosco. Ivi erano le navi greche. Un pastore, mentre una notte era in quel bosco, intese i diavoli a raccontare la caduta di Siracusa il giorno avanti. Il pastore lo disse ad altri. Di bocca in bocca la notizia giunse ad Adriano, il quale, avuto a se il pastore, gli fece narrar la cosa. Volendo crederlo alle proprie orecchie, andò egli stesso al bosco. I diavoli con somma gentilezza ripresero a narrare fil filo lo assedio e la resa della città. Pure non volle crederlo (e come credere ai diavoli!); ma notò il giorno, in cui essi dicevano d’essere caduta la città. Dopo dieci giorni i fuggiaschi siracusani colà giunti narrano la cosa per punto come i diavoli avevano detto. Va ora e dici che il diavolo è sempre mendace! Io voglio prestar fede piuttosto al diavolo, che a storici, che narrano tali baje.

XI.

Cedreno (presso Caruso, Bibl. Hist. Tom. I, pagina 62); Zonara (ivi, pag. 71); Giovanni diacono nella epistola sul martirio di s. Procopio, dicono che Ibraim, venuto in Sicilia, prese Taormina. A questi possono aggiungersi i due monaci benedittini, citati dal p. Gaetani nelle annotazioni a quell’epistola (ivi, pag. 44), Pietro Diacono, nella Vita di s. Placido; ed Ignazio da Praga, nella vita di s. Bertario. Anche la cronica di Cambridge lo dice. Malgrado tali autorità, forti ragioni m’hanno indotto a rigettare il fatto. Primieramente non calza colla cronologia. Al Novairo (presso Gregorio, pag. 11) e la cronica di Cambridge (ivi, pag. 43) dicono che nel 900 venne in Sicilia Al Abbas, figliuolo d’Ibraim; e la cronica soggiunge che nel 901 prese Palermo. Il primo dice, che nello stesso anno 901 Ibraim richiamò il figlio in Affrica; venne egli stesso in Sicilia, e qui morì. Al Kattib ed Abulfeda fissano nello stesso anno 901 la morte d’Ibraim, e l’Abulfeda dice, che morì in Palermo di diarrea (intestinorum profluvio abreptus est) senza che alcuno di essi facci motto della presa di Taormina e della spedizione in Calabria. Non è dunque da mettere in forse l’anno e il luogo della morte d’Ibraim, cioè il 901, in Palermo. Cedreno e Zonara non assegnano anno alla presa di Taormina, dicono essere ciò avvenuto nel regno di Leone il filosofo, cioè dall’886 al 911. Il diacono Giovanni dice, che Ibraim venne in Sicilia e prese Taormina nell’anno 24 del regno di Leone; ciò sarebbe nel 910. Il p. Gaetani, che vuole stabilire la presa di Taormina nel 903, dice che gli anni del regno di Leone non devono contarsi dalla morte di Basilio il macedone suo padre, ma dall’870, in cui fu coronato, vivente il padre. Sia che si vuole, l’anacronismo è chiaro. Ibraim nel 903 era morto da due anni. Più grave ancora è l’errore della cronica di Cambridge, che stabilisce la venuta in Sicilia del Magnus emirus, e la presa di Taormina nel 907; e poi da se stessa si smentisce con accennare una tregua conchiusa nel 919 tra Salem e gli abitanti di Taormina. In secondo luogo l’autorità degli scrittori bizzantini è di ben lieve momento ne’ fatti de’ Saracini in Sicilia, che mostrano d’ignorare affatto. Il Cedreno (in Niceforo Foca) dice, che i Saracini, espugnata Siracusa, spianarono tutte le città di Sicilia, tranne Palermo, che conservarono per difesa e ricovero loro. Quella lettera poi del diacono Giovanni è un guazzabuglio di grossolane menzogne. L’emir Ibraim, che fa spaccare il petto e trarre il cuore al vescovo, e perchè, tutto senza cuore, lo seguita a rampognare, gli fa mangiare quel cuore, e, non tacendo ancora, lo fa decapitare; la spedizione di lui in Italia per andare a prendere Petruli senis civitatem; s. Pietro che gli apparisce e gli del suo batocchio sul c.. onde gli schizzarono le budella; le stelle che si staccarono dal cielo e si misero a cozzare tra esse, son cose da pigliarle colle molle. L’altro monaco Pietro ti dice, che i Saracini, mossi da Babilonia e dall’Affrica sotto il comando d’Ibraim nel 900 invasero la Sicilia, nel 903 espugnarono Taormina. L’altro cassinese Ignazio da Praga narra, che i Saracini tolsero la Sicilia al monastero de’ cassinesi, cui apparteneva, ed espugnarono Taormina, ch’era la sola città che restava al monastero; ma s. Benedetto e s. Bertario se ne vendicarono con far morire di morte crudelissima sotto Cosenza Ibraim capo della masnada. L’autorità di costoro può mai contrappesare il silenzio degli storici Arabi? V’ha di più. Al Novairo, Abulfeda, Sheaboddin e la stessa cronica di Cambridge concordemente stabiliscono l’espugnazione di Taormina nel 962 addì 25 di dicembre, e sono uniformi nel nome dei capitani dell’esercito saracino, nella durata dell’assedio ed in tutte le circostanze. cade dubbio su questo fatto. Dunque, per esser vera l’espugnazione del 903 bisognava che la città fosse stata ripresa dai Greci. Nessuno degli scrittori di quell’età fa motto di ciò; anzi l’espressioni di Al Novairo, parlando dell’assedio del 962: Tabermin, quae reliqua erat graecanicarum arcium, pare ch’escluda la supposizione d’essere stata la città prima presa e ripresa (*). Il dire poi la cronica di Cambridge, che nel 919 fu conchiusa una tregua col popolo di Taormina e gli altri castelli, fa credere, che restava ancora in mano de’ Greci qualche tratto di paese attorno la città, ove erano altri luoghi muniti. Forse Ibraim nel 903 espugnò alcuno di tali castelli; ciò potè dar luogo alla voce d’avere espugnata Taormina. Cedreno lo avrà inteso dire in qualche crocchio di diavoli, Zonara, che a lui fu posteriore lo copiò, e i monaci si valsero della ciarla, per impinguare le vite de’ Santi, che scrivevano.

XII.

L’odio solito nascere da chi professa religioni fra loro discordi o contrarie, il mal talento nutrito sempre dalle genti conquistate contro i loro conquistatori fecero credere lungo tempo in Europa, che gli Arabi fossero stati solo un popolo spinto dal fanatismo a propagare colle armi le credenze del Corano, nel rimanente poi barbaro e nemico di ogni arte o scienza. La quale opinione, già prima diffusa e radicata nei paesi di occidente, dovette senza fallo venir meglio confermata nel secolo XV, allorchè l’anno 1453, caduta Costantinopoli in potere dei Turchi, esularono da quella metropoli e da tutta la Grecia quanti vi erano personaggi insigni per sapere, che sparsi per le nostre contrade, recarono in Italia e in Francia principalmente i tesori della greca sapienza.

Così quando la Sicilia, tradita e abbandonata dai governatori bizantini, dopo una eroica resistenza fu oppressa dal furore delle musulmane armi, se ancor sopravvanzava alcun cultore di lettere e scienze, spaventato da tutti gli orrori di una guerra devastatrice fuggiva dalla patria cercando altrove pacifico ricovero, meglio opportuno alla coltura delle ottime discipline. Da questo però non può dedursi, che i Saracini sieno stati per indole nemici degli studii.

Certo dagli Arabi di Spagna furono universalmente e con grande ardore coltivate le scienze astratte, la medicina e l’astronomia. La Biblioteca Arabo-Ispana del Casiri ne fa poi scorgere chiarissimamente quanto gran numero di opere abbiano scritto in molte materie gli Arabi di quel paese. ignoriamo, che in Ispagna sotto l’araba dominazione sieno state scuole, biblioteche e accademie. Anzi piacemi riferire la descrizione di una di quelle raunanze di dotti, affin di conoscere meglio lo stato della vita sociale e della civiltà del popolo musulmano.

«Il pavimento della sala era coperto di tappeti di lana e seta, e adorne le pareti di parati di seta e drappi stampati. Stava nel mezzo della sala, a foggia di una stufa, un tubo lungo sei piedi pieno di ardenti carboni, intorno al quale erano adagiati gl’individui dell’assemblea. Si dava principio al congresso con la lettura di una hizbe (sezione) del Corano, la quale dovea essere interpretata da colui che volea muovere le parole. Indi si trattava di cose appartenenti a qual si voglia scienza od arte. Si diffondevano nelle adunanze profumi, moseo, acqua rosata ed altri aromi. Si metteva sempre fine al congresso con un banchetto composto di carni, o di vivande di pasticciere, di latte, di frutta e confetti di varie guise. Quando più brevi erano i giorni dell’anno, stavano quei letterati a tavola quasi per tutto il tempo dell’assemblea (659).»

Nessuno adunque può mettere in dubbio, che gli Arabi di Spagna abbiano dato ogni opera allo studio delle lettere e delle scienze.

Or noi sappiamo, che scambievole era il commercio ed ogni altra relazione tra la Spagna e l’isola nostra o direttamente o per mezzo dell’Africa: e però è molto probabile per questa ragione eziandio, che quelle scienze dagli Arabo-Sicoli non sieno state al tutto neglette.

Possiamo inoltre affermare, che le arti belle del disegno in Sicilia già prima accolte con tanto amore, poi dalle città greco-sicole onorate e dai nostri artisti di quell’epoca recate al sommo della perfezione, indi costrette dalle tremende vicissitudini dei tempi ad esulare da questa terra ospitale, vi furono pur alla fine dai maggiorenti fra i Saracini onorevolissimamente richiamate. Sotto la loro dominazione infatti si videro sorgere nobili edifizj, dei quali sono a nostri in piè considerevoli avanzi, e due palagi si conservano intieri. Gl’intendenti delle arti architettoniche gli ammirano: il volgo medesimo ne resta sopraffatto. E chi di noi non ha osservato maravigliando la solidità e magnificenza della Zisa e della Cuba (660)? Leandro Alberti esaminò questi monumenti nel 1526, e ci lasciò una descrizione particolarizzata del palazzo della Zisa, e degli ameni giardini, dei viali, delle fonti e di una ampia peschiera, che il rendeano deliziosissimo (661). Il che fa ancora il Fazello per ciò che riguarda il palazzo della Cuba. Gli orti, i verzieri, il parco, le peschiere, i portici or più non esistono. Ma se alcuno amasse averne piena notizia, potrebbe leggere i citati scrittori.

Ma si permetta intanto, che io faccia una breve, naturale, ma pure importante riflessione, ed è che deesi riputare quasi impossibile ergere cotali fabbriche e ornarle di tante delizie senza lo ajuto di altri studj; presso un popolo selvaggio o anche barbaro non si innalzano siffatte moli.

Al che vuolsi aggiungere, che i principi Aglabiti e Fatimiti dell’Africa non pur sovente porsero favore ai dotti personaggi, ma eziandio talvolta alcuni di essi diedero opera diligentissima in coltivare i buoni studî. E se nell’Africa tanto vicina e da cui la Sicilia per lunga stagione dipendeva in tutto, erano in fiore le lettere e le scienze, se ne può dedurre, che queste non doveano essere interamente trascurate fra i Saracini dell’isola nostra. E sebbene i mali derivati per dura necessità dalla conquista e la contrarietà delle religioni doveano impedire la cultura o almeno il progredimento e la diffusione degli studî e delle arti: tuttavia quando l’araba dominazione, cessate le guerre, venne fermamente stabilita e la cosa pubblica composta a pace quietissima; allora corsero tempi propizj per gli Arabi, i quali amavano darsi alle scienze. E dall’altro lato il fanatismo religioso dei possenti dominatori potea certo soffocare i germi della letteratura cristiana, che sola presso i Siciliani indigeni allora in qualche modo fioriva; non poteva però impedire, che gli Arabo Sicoli non si dessero allo studio delle altre discipline e specialmente delle scienze astratte e naturali, cui erano in singolar guisa inclinati. E se l’ingiuria dei tempi, e forse più ancora l’odio, che i cristiani nutrivano verso i Saracini anche per le oppressioni, che ne soffrivano, non ci avessero privato di esatte notizie: avremmo certo avuto documenti tali da poter compilare per quest’epoca una non mediocre storia letteraria.

Però lasciate dall’un dei canti le non mal ferme congetture e le naturali induzioni, esponghiamo quel tanto, che dopo accuratissime ricerche venne fatto rintracciarne all’eruditissimo Gregorio da me seguito e in qualche parte anche accresciuto di quelle notizie che lo studio e il caso mi hanno sovra questo argomento somministrato (662).

Primo, seguendo l’ordine dei tempi, è Ahmned Ben Al Aglab, il quale scrisse varie opere in prosa e in verso. Fiorì sul principio dell’araba dominazione in Sicilia; poichè era figlio di Mohamed Ben Abd Allah, che nell’anno 832 dell’era nostra fu da Ziadath Allah mandato ad amministrare la nostra isola. Ahmed fu molto lodato per dottrina.

Mohammed Ben Issa Ben Almounem Abu Abd Allah, secondo la Biblioteca Araba dei Filosofi, dee meritamente venir celebrato fra i più illustri geometri ed astronomi. Ci è però ignota l’epoca in cui visse.

E di età parimenti incerta è Abu Abd Allah Mohamed Ben Hajun, il quale scrisse in versi una Parafrasi del Corano, che poi venne arricchita di note da un altro arabo insigne.

Illustre poeta fu altresì Abu Al Hasan Alì Ben Abd Arrahaman, volgarmente detto Albalbuni, cioè Peloponnesiaco, il quale fiorì nel secolo quinto dell’egira; e nei suoi versi celebrò con somme lodi molti principi arabo-sicoli e principalmente Abu Hamud. Laonde sembra esser vissuto prima dell’arrivo dei Normanni. Questi versi diconsi Divan.

Gli Arabi chiamavano Divan una copiosa collezione di gazele differenti per la rima. La gazela poi è una specie di ode amatoria sparsa di vive immagini e pensieri floridi, e di una tessitura tutta propria della poesia araba. Il divano è perfetto quando nelle rime contiene per ordine tutte le lettere dell’alfabeto. Eccettuata questa particolarità, esso può assomigliarsi al nostro canzoniere (663).

Un secolo circa dopo il Peloponnesiaco fu Abu Al Kasem Ebn Al Kattaa nato in Sicilia. Egli però trasferissi in Cordova, e vi morì nel 1120 dell’era nostra. Scrisse un Dizionario chiamato Liber Verborum e lo divise in tre parti. Nella prima tratta delle parole radicali o semplici, nella seconda delle composte, nella terza delle derivate. Vi aggiunse inoltre un trattato, che dal Casiri vien detto: Recta methodus accomodandi verba rebus diversis.

E nell’anno medesimo morì Abì Al Kasem Alì Ben Giaber, detto volgarmente Ebn Catan, il quale era nato in Siviglia da genitori arabo-sicoli, e scrisse un Breve trattato dell’eloquenza della poesia.

Tenuto in grandissimo conto dagli Arabi e molto onorato dal conte Rugiero fu Esseriph soprannominato Essachali, che è quanto dire Siciliano. I Saracini di Mazzara, dove egli era nato, lo inviarono ambasciadore al principe normanno, affine di sottomettersi pacificamente e con buone condizioni alla dominazione di lui. Come ebbe fornito il negozio, Esseriph si fece ad offrire al conte una sua opera intorno alla Geografia. Ruggiero gradì moltissimo il dono, e letto il libro, lo tenne sempre carissimo per modo, che ne ordinò subito la traduzione dall’arabo in latino. E a chi ebbe a dirgli, che Tolomeo avea già scritto sovra lo stesso argomento, egli rispose: «Io preferisco all’opera di Tolomeo questa di Esseriph, perchè quegli descrisse una sola parte del mondo, questi descrive il mondo tutto quanto.» E veramente nel libro dell’arabo geografo, diviso in sette parti, secondo i sette climi, si conteneva la descrizione geografica e topografica di tutte le città antiche e moderne e i loro prodotti naturali e le cose degne di ammirazione. Vi erano inoltre descritte le isole, i monti, i fiumi e tutto quanto apparteneva a questa materia. Volendo Ruggiero magnificamente rimunerare Esseriph del dono e del lavoro, gli confermò il possesso di un castello, di che egli era signore, e il pregò di rimanersi in corte presso di se. Ma il filosofo ben conoscendo, che la reggia di un principe guerriero mal si affaceva alla quieta condizione di un uomo consacrato agli studi, venduto il castello ad un barone della corte, ritirossi a vivere agiatamente nella Mauritania, dove morì nel 1122.

Di un altro geografo insigne, vissuto in Sicilia, benchè forse non vi fosse nato, parmi conveniente il tener qui discorso. Venne egli chiamato Al Scherif Al Edrissi, qualificato del titolo di Emir Almoumenin, cioè Califfo. Apparteneva egli alla famiglia e dinastia degli Edrissiti, che trasse il nome da Edris, figlio di Edris, figlio di Abdallah, discendente da Alì genero di Maometto. Questa dinastia regnò piu di cento anni in Africa, in Barberia, a Fez, a Schatah e a Tangiah, che sono le città di Ceuta e Tanger, e fu sterminata dai Fatimiti l’anno dell’egira 296, che corrisponde all’anno di Gesù Cristo 901, e non già 908, come scrive il D’Herbelot (664). Quanti caddero in mano del conquistatore ebber mozza la testa; però gli avanzi di essa famiglia si salvarono in Sicilia.

Edrissi compose una geografia assai vasta, distribuita secondo i sette climi notati da Tolomeo, la quale è sovente citata sotto il nome di Al Memalek u al Messalek, ossia I paesi ed i viaggi; ma il suo proprio titolo è Nozahat al moschtác fi ekhterák al áfác, cioè: Il piacere dei curiosi nei viaggi.

Quest’opera fu composta l’anno dell’egira 548, di Gesù Cristo 1153, per far la descrizione di un globo terrestre pesante ottocento marchi di argento da lui costrutto ed offerto al re Ruggiero (665). Perciò è anche chiamata Katab Ragiar o Il Libro di Ruggiero.

La Geografia Nubiense dai Maroniti di Parigi tradotta in latino e pubblicata l’anno 1619 è solo un compendio di quest’opera, stata già impressa in arabo a Roma nella stamperia dei Medici sul manoscritto che si conserva nella biblioteca del gran duca di Tocana (666).

Il nome proprio di questo autore è Abou Abadallac Mohammed; che era figlio di un altro Mohammed Ben Abadallah Ben Edris (667).

Restaci a parlare di due illustri filosofi morali, dei quali il primo massimamente fu dagli Arabi e Persiani avuto in istima grandissima, ed ebbe nome Abu Hasem Mohammed Ebn Dhafer Al Mekki. Egli compose un’opera, il cui titolo, secondo D’Herbelot, è Solouan Almothà, e tratta dei motivi della consolazione nei travagli della vita (668). È divisa in cinque capi, e contengono cinque sorgenti, alle quali l’uomo può attingere la sua consolazione. Però il primo capo è intitolato: Tafouid cioè l’abbandono, che l’uomo fa di se stesso nelle mani di Dio. Il secondo Bas, che significa: le forze dell’anima e il coraggio. Il terzo: Sabr o la pazienza. Il quarto: Rhida o la conformità al volere di Dio. Il quinto: Zehed ossia la Vita ritirata ed austera. Questo libro fu messo in versi da Tageddin Abu Abd Allah, e venne tradotto in persiano col titolo: Riahin almolouk fi nadhat alsolouk.

Il Casiri nella sua Biblioteca Arabico-Ispana (669) riferisce le parole di Ben Khalacn, scrittore arabo dalle quali si deduce, che l’autore dell’opera sopra detta compose altri libri anch’essi pregevoli, come un epitome del libro intitolato Della buona scienza, e un doppio comentario sulle opere di Harirèo (670); che avea avuto i suoi natali in Sicilia, l’educazione alla Mecca; che visse lungo tempo in Apamea, dove morì il 565 dell’egira, che corrisponde al 1169 di Gesù Cristo.

Gli scrittori inglesi della Storia Universale asseriscono (671), che Abu Hasen non poteva essere siciliano perchè fiorì un buon secolo dopo la conquista dei Normanni. E perciò rigettano ancora la testimonianza del celebre Hunt, dottissimo in letteratura orientale, il quale attesta, che anche un manoscritto di Ebn Shonhah afferma questo autore essere siciliano. Ma forse quegli scrittori non pensarono ad una cosa notissima, ed è, che i Saracini di Sicilia non furono sterminati; che anzi moltissime migliaia di famiglie musulmane restarono in pace nell’isola nostra senza alcun timore di persecuzioni; che i principali Saracini ebbero in corte dei principi normanni importantissimi uffici; che anche sotto la dominazione degli Svevi, e specialmente nella prima metà del secolo XIII i musulmani erano in sì grande numero, che levatisi in capo, Federigo II ebbe a sostener contro di essi una guerra, se non pericolosa, certo lunga e molesta, finchè li ebbe pur finalmente domati e costretti a valicare il faro e ridursi nelle provincie continentali del regno. Delle quali cose, poichè certamente a nessuno sono ignote, non terremo più lungo ragionamento.

Mohammed Ben Abi Mohammed Ben Zefer, di cui finalmente dobbiamo fare un breve cenno, nacque propriamente in Cordova, ma passò la sua vita in Sicilia, il che per avventura conferma quanto abbiamo poco innanzi ragionato. Scrisse Mohammed una opera intitolata dal Casiri: Solatia malorum et nocturna regum confabulatio. Dividesi in cinque sezioni, delle quali la prima tratta di quell’affetto dell’anima, per cui tutto affidiamo al volere di Dio; la seconda del dolore e della contrizione dell’animo; la terza della pazienza; la quarta della conformità al divino beneplacito; la quinta dello studio di una vita più pura e severa. Quest’opera fu terminata nel 1173. Essa fu ultimamente tradotta da un nostro siciliano e verrà pubblicata in Firenze da Felice Le Monnier.

E questi son tutti gli scrittori, che nacquero o fiorirono in Sicilia nell’epoca, in cui fu occupata dai Saracini. Pochi in vero, ma pur quanti la condizione dell’isola nostra potea per avventura produrne. Imperocchè è a considerare, che la loro dominazione non si estese in Sicilia al di di due secoli e mezzo, dei quali meglio di una buona metà fu spesa in guerre continue e disastrose La città di Taormina cadde in potere dei Musulmani, almeno l’ultima volta (672), verso l’anno 962. L’anno 964 l’imperatore Foca inviò il patrizio Emmanuele con numerose schiere di Russi, Persiani ed Armeni in soccorso di Rometta, che si era ribellata all’emiro di Sicilia. I Saracini sbaragliarono l’esercito di Emmanuele, costrinsero Rometta alla resa. Con quella famosa battaglia ebber fine le guerre; le quali per altro, cominciando a contare dal primo sbarco dei Saracini fatto nell’anno 827, quando Ziadath Allah determinò di accingersi alla conquista di Sicilia, non durarono meno di centotrentasette anni.

E quando poi sottomessa l’isola intieramente e caduto dall’animo dei greci imperatori il pensiero di riconquistarla, i Saracini poterono godere i frutti di loro vittorie, non poteano certo produrre bentosto numerose opere di lettere e scienze; poichè dovette necessariamente scorrere buon tratto di tempo pria che ogni cosa avesse potuto prendere un retto avviamento. poi quell’ordinato e pacifico vivere ebbe lunghissima durata. Conciossiacchè, liberi i musulmani dagli esterni nemici, sottomessi i popoli dell’isola, vollero prima emanciparsi in gran parte dal califfo di Africa; indi i più potenti presero a dividersi gli uni dagli altri e a fondare principati quasi al tutto indipendenti dall’emiro stesso di Sicilia. La qual cosa finalmente porse occasione propizia ai Normanni di por fine al dominio dei Saracini nell’isola nostra.

Per lo che ognuno ben vede, che il tempo favorevole agli studi fu per gli Arabi assai breve. Anzi abbiamo di più. Alcuni degli scrittori accennati vissero sotto i principi normanni, dai quali, come fu detto, ebbero pace e protezione.

(Nota dell’Edit. P. Sanfilippo).

XIII.

Malaterra a costui il nome d’Arcadio, ed in ciò è stato seguito da molti; ma non saprebbe capirsi come un saracino avesse potuto avere un nome greco. Arcadio, uno dei figliuoli di Teodosio, fu imperadore d’oriente nel IV secolo. Confondono costoro il nome delle persone con quello della carica. Al Kaid nella lingua araba suona il comandante d’una fortezza; ed i cristiani, che storpiavano le parole arabe, lo chiamavano Arcaidus. Che così sia ita la cosa si vede dalle parole dell’Anonimo, che scrisse la storia di Sicilia dai Normanni a Pietro d’Aragona (presso Caruso Bibl. Hist. R. S. Tom. 2, pag. 827-831). Erat autem ex parte Saracenorum quidam vocatus Archaydus, idem legis doctor, vel princeps. Per la ragione stessa Gaiti si chiamavano sotto i re normanni quei Saracini che avevano cariche eminenti, e particolarmente coloro, ai quali era affidata la custodia del real palazzo. Dalla originale voce araba si formò la parola spagnuola alchayde, che suona lo stesso; e dal governo spagnuolo noi avemmo nei tempi di appresso l’Alchayde del sant’officio e l’Alcayde della vicaria.

XIV.

Grande è nel racconto di tali fatti la differenza tra la narrazione degli storici bizantini e quella dei cronachisti arabi Al Novairo e Sheabbodin. Narra Cedreno (presso Caruso, ivi, pag. 65) che un Apolafar Maometto, che governava la Sicilia dopo il 1034 venuto in discordia con Apocapso suo fratello, stretto da questo, che con grandi forze gli veniva contro, andò a chiedere soccorso all’imperatore Michele Paflagone, il quale destinò Giorgio Maniace a raccorre un esercito in Italia e passare in Sicilia in aiuto del principe saracino; Apocapso avea già pattuito coll’emir d’Affrica Umero, e ne avea avuto soccorso di gente, per cui Apolafar ebbe la peggio, e non essendo ancora arrivato Maniace, chiese aiuto da Leone Apo, che pel greco imperatore governava le provincie italiane; e questi, passato in Sicilia, affrontò e disperse l’esercito d’Apocapso; ma poi, rappacificati i due fratelli, temendo d’esserne tolto in mezzo, era ritornato in Italia. In questo, sopraggiunto Maniace, malgrado la rappacificazione dei due fratelli, passò in Sicilia, prese battaglia coSaracini in un luogo detto Remata, e ne fece tale strage che il sangue dilagò i campi, e progredendo nelle sue vittorie, s’insignorì di tutta Sicilia! Messo in ceppi Maniace per le calunnie del patrizio Stefano, comandante dell’armata, fu dato il governo dell’isola allo stesso Stefano ed all’eunuco Basilio, per la cui ignavia i Saracini, chiamate altre forze dell’Affrica, cacciarono da per tutto i Greci, ripresero tutte le città, tranne Messina, ove comandava un Catalo Ambusto comandante della legione armena, il quale all’avvicinarsi dei Saracini, chiuse le porte della città, permise che alcun soldato si facesse vedere; stato così tre giorni, i Saracini, ascrivendo ciò a paura, si tenevano sicuri d’aver la città fra poco; il quarto giorno, che era la festa della pentecoste, i Saracini la celebrarono con istraordinarî stravizi e ne vennero tutti ubbriachi; Catalo colse quel momento per sortire ed assalirli, corse alla tenda d’Apolafar, che comandava in Sicilia, e lo mise a morte; di tutto quel numeroso esercito solo pochi camparono in Palermo, della maggior parte i cadaveri colmarono i fiumi e le valli, lo spoglio fu tanto che i soldati greci si divisero l’argento e l’oro colle moggia.

Fin qui lo storico non fa alcun motto dei Normanni; ma parlando appresso di Costantino Monomaco, ripiglia la narrazione, e dice che cinquento Franchi, chiamati dalla Gallia transalpina, s’unirono a Maniace che veniva in soccorso d’Apolofaro Maometto, principe di Sicilia; che, tolto il comando a Maniace, era stato dato a Doceano (sopra avea detto che i nuovi comandanti furono Stefano e l’eunuco Basilio) d’allora in poi le cose dei Greci andavano di male in peggio, per l’ignavia del nuovo comandante e perchè costui avea negato gli stipendî convenuti ai Normanni e bastonato il lor capo, costoro vennero in Italia, ed assalirono quelle provincie. E qui ti narra la battaglia di Canne, accaduta in altri tempi e con altra gente, ed altre battaglie, nelle quali i Greci ebbero sempre la peggio, intantochè i Normanni s’erano fatti padroni di tutto il paese, tranne Brindisi, Otranto, Taranto e Bari, che sole restavano al greco impero; allora fu messo in libertà Maniace, e gli fu dato il governo di quella guerra; e questi cacciò del tutto i Normanni dall’Italia!

Zonara poi brevemente narra la venuta in Sicilia di Maniace in soccorso d’uno de’ due fratelli saracini; il riacquisto di tutta Sicilia; la carcerazione di Maniace; e la perdita dell’isola, tranne Messina difesa dal valore di Catalo Ambusto.

Al Novairo (presso Gregorio, Rer. Arab. quae ad Hist. Sic. spectant ampla collectio, pag. 23 e seq.) narra l’insurrezione dei Saracini Siciliani contro lo emir Al Achal; la venuta del figlio dell’emir d’Affrica Al Moezz ben Badis, con gente in soccorso degl’insorgenti; l’assedio di Al Achal in Palermo; l’uccisione di lui; l’insurrezione dei Siciliani contro gli Affricani; la disfatta e le perdite di questi; il governo e l’espulsione di Al Samsam fratello di Achal; la divisione della Sicilia fra gli ottimati. Tali cose sono al modo stesso narrate da Sheabboddin (ivi pag. 62); ma il primo, continuando la storia, riferisce la guerra tra due di quegli ottimati Ebn al Temanh, e Ben al Muash, nella quale il primo fu vinto, e corse ad invitare il conte Ruggiero, promettendogli di aiutarlo nella conquista di Sicilia. Tenne la promessa; ed i Normanni s’insignorirono così dell’isola.

Tale racconto ha quella naturale evidenza, che nasce dal nesso cronologico degli avvenimenti; ovechè ciò che narra il Cedreno è manifestamente un garbuglio di menzogne, di iperboli, di anacronismi; e serve solo a mostrare che nel greco impero, il governo ed il popolo ignoravano del pari ciò che accadeva nelle provincie. Chi era quell’Abucabo? Quell’Apolafar? Quell’emir d’Affrica Umero? Indovinala, grillo. Quei due fratelli prima in guerra e poi rappacificati, non possono aver luogo nella serie degli avvenimenti. E il silenzio degli scrittori arabi sulla spedizione di Maniace farebbe dubitare di tal fatto, se non ne facessero parola la cronica di Leone d’Ostia, il poema di Guglielmo di Puglia e la storia del Malaterra; ma tali scrittori, narrando le cose con cronologica semplicità, giustificano il silenzio degli Arabi, con mostrare che quella spedizione niente differì dalle tante momentanee incursioni, che i Greci fecero senza frutto in Sicilia; e sarebbe, come molte di quelle, ignorata, se non avesse dato luogo alla conquista dei Normanni.

XV.

Narra il Malaterra, che il duca Roberto e ’l conte Ruggiero col loro esercito vennero ad accamparsi sopra un monte nei dintorni di Palermo, il quale ebbe in appresso il nome di Tarantino, per la quantità de’ ragnateli, che vi erano, nel latino barbaro chiamate tarantae, onde venne il nome siciliano tarantuli. I morsi di tali insetti producevano una strana malattia. Gl’intestini s’empivano d’aria; per lo che tutti, ch’erano su quel monte, divennero petardi, e se non s’esponevano sulle prime al calore del forno, ne morivano. Nessuno dei monti, che circondano Palermo, ha mai avuto il nome di Tarantino; i morsi de’ ragnateli, comechè ve ne fossero dei velenosi, non hanno mai prodotto quello strano male. Forse alcuno de’ cavalieri normanni avrà detto ciò per celia a Malaterra, e ’l buon monaco se la bevve. Ma nel proemio della storia ei si protesta che gli errori di essa: non tam mihi, quam relatoribus, culpando adscribantur; praesertim cum de ipsis temporibus, quibus fiebant, praesentialiter non interfuissem, sed a transmontanis partibus venientem, noviter Apulum factum, vel certe Siculum ad plenum cognoscatis.

XVI.

Il Palmeri si mostra talora avverso alla condotta dei papi del medio evo, e manifesta il suo mal talento principalmente contro s. Gregorio VII. Era ciò ben naturale. Egli era versatissimo nello studio degli storici francesi ed inglesi del secolo XVIII; quindi avea abbracciato le loro opinioni, le quali per altro erano a tutti gl’Italiani comuni sul principio di questo secolo. Ma ormai la storia si scrive in modo ben diverso da quello, che si osserva in Voltaire, Hume, Gibbon, Robertson e altri siffatti; in Francia, in Inghilterra, in Germania, culla e sede precipua del protestantesimo, quelle sentenze son più seguite. Il Villemain nel suo Corso di Letteratura francese al medio evo biasima francamente il Voltaire, per avere scritto con odio e leggerezza singolari la storia di quell’epoca da lui ignorata e abborrita, e il taccia di non aver tenuto conto delle lettere di s. Gregorio VII, documento importantissimo dello spirito umano, essendo stato quel pontefice uno dei pochi e sommi luminari del medio evo.

Il protestante Voigt; professore nell’università di Halle in Sassonia, pubblicò una storia della vita di Gregorio VI, che venne già dal tedesco tradotta in francese e indi in italiano e stampata in Milano e Napoli. In essa l’A. fa un’apologia di quel ponteficedotta, profonda, giudiziosa e imparziale, che un cattolico non avrebbe potuto far di vantaggio. Raumer nella Storia degli Hohenstauffen, Carlo Federico Eichorn nella Storia politica e giuridica della Germania, Novalis (Schriften, Berlino, 1826, I Th., p. 191); Giovanni Muller nella Storia Universale, il dottore Schmidt, primo professore di teologia a Giessen, nel Manuale di Storia Ecclesiastica Cristiana, il filosofo scrittore Errico Steffens nella sua opera: Il secolo attuale, pubblicata in Berlino al 1817, e più che altri il principe degli storici alemanni Errico Luden nel volume VII della sua storia del popolo tedesco stampata nel 1833 e nella Storia universale dei popoli e degli stati (Iena 1821) dimostrano, che i papi, e in ispecie s. Gregorio VII, non poteano per quei tempi dirsi usurpatori, poichè faceano uso di diritti lor dati liberamente e legalmente dalla costituzione, onde allora reggevansi gli stati di Europa, i quali tutti con reciproci vincoli collegati formavano una repubblica cristiana. Non è mio scopo esporre quella specie di costituzione, cui eransi allora sottomessi quasi tutti i regni di Europa. Ho voluto però accennarlo, perchè non si abbia a giudicar precipitosamente della condotta de’ romani pontefici e specialmente di s. Gregorio VII, il quale credesi aver tracciato a’ suoi successori la via da tenere. Ed è cosa omai troppo conosciuta, che i papi nel medio evo furono i più forti ed efficaci difensori de’ popoli oppressi e della libertà e indipendenza di molti stati

Piacemi però riferire intorno a Gregorio VII alcuni brani di un altro storico protestante di Alemagna, non meno illustre de’ citati poc’anzi, qual si è il professore Errico Leo, che in vari luoghi così ne parla (673).

«Il giorno stesso dei funerali di Alessandro fu eletto per suo successore Ildebrando (674) con universale giubilo in Roma. Commosso egli fino alle lacrime e sentendo tutta la gravità dell’immenso peso, che stava per cadergli in sulle braccia, negò di accettare la dignità che gli era stata conferita. Non si può dubitare che non fosse verace la sua ripugnanza, imperocchè vedeva bene come egli dovesse incontrare grandissime difficoltà. Di molte pene e travagli ha dovuto fare esperienza durante il suo pontificato, e pochi sono stati i giorni, nel corso di sua vita, sereni; sicchè sarebbe da avergli compassione, se i grandi uomini, quale fu egli, non fossero superiori alla buona, come alla malvagia fortuna

Ecco la sua sentenza intorno alla umiliazione dell’imperatore Arrigo IV a Canossa.

«Non è mancato qualche scrittore di Germania, che la scena di Canossa ha riguardato siccome un oltraggio fatto da un superbo prelato alla nazione alemanna. Questo modo di considerare la cosa denota un grandissimo accecamento e indegno d’una dotta nazione. Facciamo di spogliarci un solo istante di tutti i pregiudizî nati e nudriti dall’orgoglio nazionale e dal protestantismo, e collochiamoci, secondo che a veri protestanti si conviene, in istato di perfetta libertà di pensiero. Così facendo ravviseremo in Gregorio un uomo, il quale, venuto fuori d’una classe esclusa a quel tempo da ogni potere politico ed appoggiatosi sulla sola forza del suo ingegno e della sua volontà, sollevò la Chiesa dal suo avvilimento e ad uno splendore la portò fino allora sconosciuto. Vedremo per lo contrario in Arrigo un uomo (appena merita questo nome!), a cui avea il padre lasciato un potere quasi assoluto sopra un popolo valoroso e ricco secondo la ragione dei tempi, e che malgrado questa abbondanza di mezzi esteriori portato dalla viltà della sua natura a cadere nel fango di vizi così vergognosi, che la lingua a nominarli ripugna, si abbassò al grado di vil supplicante, e dopo aver calpestato quanto gli uomini han di più sacro, tremò alla voce di un eroe per sola forza d’ingegno.

«In verità fa mostra di animo assai meschino colui, che si lascia offuscare l’intelletto dal sentimento di nazionalità, al punto di non rallegrarsi del trionfo riportato a Canossa da un sublime ingegno sopra un uomo vile e d’indole abbietta e spregevole

Finalmente giova esporre il modo come narra la morte di Gregorio VII accaduta in Salerno nel maggio del 1085.

«Gli ultimi suoi furono contrassegnati dalle sventure, sì per l’abbandono in che lo lasciarono i suoi amici, e sì per le infermità onde fu travagliato; ma niuna cosa non lo potette svolgere da ciò che una volta avea conosciuto siccome necessario a’ tempi suoi e conseguentemente divino. Morì dicendo: Dilexi justitiam et odi iniquitatem, propterea morior in exilio. Giammai uomo nel suo letto di morte non pronunziò parole più vere intorno alla sua vita.

......

«Il fine a cui si deve mirare in quale si voglia storia è che la forma, sotto la quale lo spirito si manifesta, sia sempre maggiormente spirituale e divina. Quindi allor quando ci vien fatto dimostrare un uomo che domina il suo secolo, lo dirige con mano vigorosa e de’ progressi rendesi ragione, de’ quali volge in mente il disegno, costui è da celebrare siccome un eroe, se anche l’opera sua soggiacesse alla sorte di tutti gli altri fenomeni e dalle opere de’ seguenti secoli fosse contraddetta ed annullata. Gregorio è senza dubbio il più vasto e vigoroso ingegno, l’anima la più sublime che ci presenti l’istoria del medio evo

Al detto sin qui aggiugniamo, che lo storico nel giudicare le azioni degli uomini vissuti in altre epoche, deve tener presenti le condizioni tutte religiose, morali, politiche del paese e dell’età, cui que’ personaggi appartenevano; e non dare il suo giudizio secondo le idee e le condizioni del luogo e del tempo, in cui scrive.                  (Nota dell’Edit. P. Sanfilippo).

XVII.

Urbanus Episcopus servus servorum Dei carissimo filio Rogerio Comiti Calabriae et Siciliae salutem et apostolicam benedictionem. Quia prudentiam tuam supernae majestatis dignatio multis triumphis et honoribus exaltavit: et probitas tua in Saracenorum finibus Ecclesiam Dei plurimum dilatavit, sanctaeque sedi Apostolicae devotam se multis modis semper exhibuit, Nos in specialem, atque carissimum filium ejusdem universalis Ecclesiae assumpsimus, idcirco de tuae probitatis sinceritate plurimum confidentes, sicut verbis promisimus, ita etiam literarum auctoritate firmamus: quod omni vitae tuae tempore, vel filii tui Simonis, aut alterius; qui legitimus tui haeres extiterit, nullum in terra potestatis vestrae, praeter voluntatem aut consilium vestrum legatum Romanae Ecclesiae statuamus: quinimo quae per legatum acturi sumus, per vestram industriam legati vice exhiberi volumus, quando ad vos ex latere nostro miserimus ad salutem videlicet Ecclesiarum, quae sub vestra potestate existant, ad honorem Beati Petri, sanctaeque ejus sedis Apostolicae, cui devote hactenus obedisti, quamque in opportunitatibus suis strenue ac fideliter adjuvisti. Si vero celebrabitur concilium, tibi mandavero, quatenus Episcopos, et Abates tuae terrae mihi mittas, quot, et quos volueris mittas: alios ad servitium Ecclesiarum et tutelam retineas. Omnipotens Deus actus tuos in beneplacito suo dirigat: et te a peccatis absolutum ad vitam aeternam perducat. Dat. Salerni per manum Joannis Sanctae Romanae Ecclesiae Diaconi card. III Nonas julii: Indictione VII. Pontificatus Domini Urbani Secundi an. XI.

XVIII.

Gibbon (Hist. of the dec. and fall of the R. E. ch. LVI) narrando la coronazione di re Ruggiero dice: «L’esempio d’un tiranno greco o d’un emir saracino era insufficiente a giustificare il suo titolo di re: ed i nove re del mondo latino potevano non riconoscere il loro nuovo compagno, a menochè non fosse consacrato dall’autorità del supremo pontefice.» Ciò mostra ch’egli più del parlamento di Salerno ignorava la storia di Sicilia. Quel parlamento, come si vede dalle parole del Telesino, non trasse l’esempio dagli emir saracini, ma dagli antichi re; e se cadde nell’errore di credere, che Palermo ere l’antica sede di tali re, asserì un fatto innegabile nel dire che la Sicilia aveva avuto re. Pirro fu riconosciuto re di tutta Sicilia; Gelone, Agatocle, Gerone II furono di nome e di fatto re e potentissimi, comechè il loro regno si fosse esteso ad una sola provincia dell’isola; può dirsi di essi un tiranno greco. Ma ciò che è maggiormente degno di nota è che lo stesso storico, dopo d’aver detto nel testo, che i nove re d’Europa avrebbero potuto non riconoscere un re non consacrato dal papa, nella nota (100) dice che tali nove re erano quelli di Francia, d’Inghilterra, di Scozia, di Castiglia, d’Aragona, di Navarra, di Svezia, di Danimarca e di Ungheria, dei quali «i tre primi erano più antichi di Carlo Magno; que’ d’appresso furono creati dalla loro spada; gli ultimi tre dal loro battesimo, e di questi il solo re d’Ungheria fu onorato, o degradato da una corona papale.» Quello storico, altronde pregevolissimo per l’immensa sua erudizione vuol far mostra piuttosto di bello spirito che di profonda filosofia; e non guarda di deturpare la dignità della storia con espressioni indecenti. Poche linee dopo chiama il re Ruggiero «il ladrone siciliano (sicilian robber). Villania sciocchissima, la quale non avrebbe potuto dirsi del primo conte Ruggiero, comechè il dritto di conquista ripugni alla ragione ed il volgo pensi che dalla conquista al furto la differenza sia solo nella quantità. Ma il filosofo conosce che gli uomini affiggono con ragione un’idea di vitupero al furto, di gloria alle conquiste. Gli uomini più volgari possono commettere il furto; ma per recare a fine una conquista sono necessarî straordinaria elevatezza di mente, straordinario valore, azioni straordinarie, dalle quali nasce quella permanente maraviglia, cui si il nome di gloria. lo stesso Gibbon troverebbe giusto il chiamar ladrone inglese il re Guglielmo I. Molto meno poi quel nome s’attaglia al secondo Ruggiero, che fu il successore legittimo del conquistatore. Se i successori di coloro, che colle armi acquistarono i regni potessero dirsi ladroni, tutti i principi della terra lo sarebbero.

XIX.

Di Blasi nel narrare la presa di Montepiloso, dice: Falcone Beneventano rapporta una circostanza, che essendo vera, mostra che il re Ruggiero, qualora era dominato dalla collera, vestiva un carattere così fiero, che meritava d’essere assomigliato a’ Fallari, a’ Dionisj e agli Agatocli. Racconta egli che il re condannò Ruggiero di Plenco alla forca, ordinò che il conte Tancredi lo strangolasse colle proprie mani, che questo signore fu costretto suo malgrado di ubbidire alla volontà del re. Il buon cassinese non seppe capire le parole del Beneventano, il quale dice: continuo Rogerium ipsum (de Plenco) laqueo suspendi praecepit. Praecepit etiam, ut Tancredus ipse manu sua funem laquei traheret... Tancredus ipse invitus regis voluntati obtemperavit. Se egli avesse riscontrato le annotazioni di Camillo Pellegrino alla cronaca del Beneventano, avrebbe trovato che comentando quelle parole (presso Caruso, Bibl. Hist. Tom. I, pag. 395) mostra esser costume in que’ tempi che coloro ch’erano appiccati, andavano al patibolo col capestro al collo, tenendone il capo il carnefice, che li precedeva. Il conte di Conversano, oltre alla ribellione, era reo di slealtà; però il re, non fu contento al mandarlo, come gli altri, nelle carceri Sicilia; per l’alta sua dignità gli risparmiò la morte; ma gl’inflisse un castigo, più severo, facendolo stare in figura di carnefice. È poi da considerare che il Telesino nulla dice di tale ignominia fatta al conte di Conversano. può credersi ch’egli abbia a bello studio taciuta quella circostanza; perchè narra l’essere stato appiccato il Plenco, l’essere stati o presi od uccisi gli altri militi che fuggivano, l’essere stata la città di Montepiloso arsa e dalle fondamenta distrutta; e, lungi di trovare un che di reprensibile in tutto ciò, esclama: Nunc itaque prudens lector diligenter consideret, quantum sceleris sit perjurii crimen committere. Dall’altro lato il Beneventano conchiude la sua narrazione col solito ut audivimus. Ciò può far dubitare della verità del fatto.

XX.

Innocentius episcopus, servus servorum Dei, carissimo in Christo filio Rogerio, illustri et glorioso Siciliae regi, ejusque heredibus in perpetuum.

Quos dispensatio divini consilii ad regimen et salutem populi ab alto elegit, et prudentia et justitia aliarumque virtutum decore decenter ornavit, dignum et rationabile est ut sponsa Christi sancta et apostolica romana mater ecclesia, affectione sincera diligat, et de sublimibus ad sublimiora promoveat. Manifestis siquidem probatum est argumentis quod egregiae memoriae strenuus et fidelis miles Beati Petri Robertus Guiscardus, predecessor tuus, dux Apuliae, magnificos et potentes hostes ecclesiae viriliter expugnavit, et posteritati suae dignum memoria nomen, et imitabile probitatis exemplum reliquit. Pater quoque tuus illustris ricordationis Rogerius per bellicos sudores, et militaria certamina, inimicorum christiani nominis intrepidus extirpator, et christianae religionis diligens propagator, utpote bonus et devotus filius, multimode obsequia matri suae sanctae romanae ecclesiae impertivit. Unde et praedecessor noster religiosus et prudens papa Honorius, nobilitatem tuam de praedicta generositate descendentem intuitus, plurimum de te sperans, et prudentia ornatum, justitia munitum, atque ad regimen populi te idoneum esse credens, valde dilexit, et ad altiora provexit. Nos ergo ejus vestigiis inhaerentes, et de potentia tua ad decorem et utilitatem sanctae Dei ecclesiae spem atque fiduciam obtinentes, regnum Siciliae, quod utique, prout in antiquis refertur historiis regnum fuisse non dubium est, tibi ab eodem antecessore nostro concessum, cum integritate honoris regii, et dignitate regibus pertinente, excellentiae tuae concedimus et apostolica auctoritate confirmamus. Ducatum quoque Apulie tibi ab eodem collatum et insuper principatum Capuanum integre nihilominus nostri favoris robore communimus, tibique concedimus. Et ut ad amorem atque obsequium B. Petri apostolorum principis, et nostrum ac successorum nostrorum vehementius adstringaris, haec ipsa, idest regnum Siciliae, ducatum Apuliae, et principatum Capuae, heredibuis tuis qui nobis et successoribus nostris, nisi per nos et successores nostros remanserit, ligium homagium fecerint, et fidelitatem, quam tu iurasti, iuraverint, tempore videlicet competenti et loco non suspecto, sed tuto nobis et ipsi, atque salubri, duximus concedenda, eosque super his quae concessa sunt, Deo propitio, manutenebimus. Quod super eos forte remanserit, iidem heredes tui nihilominus teneant, quod tenebant sine diminutione; censum autem sicut statutum est, idest sexcentorum schifatorum, a te tuisque heredibus nobis nostrisque successoribus singulis annis reddatur, nisi forte impedimentum nihilominus persolvetur. Tua ergo, fili carissime, interest ita te erga honorem, atque servitium matris tuae sanctae romanae ecclesiae devotum et humilem exibere, ita temetipsum in ejus opportunitatibus exercere, ut te tam devoto et glorioso filio sedes apostolica gaudeat, et in ejus amore quiescat. Si qua sive ecclesiastica, secularisve potentia huic nostrae concessioni temere contrarie tentaverit, donec praesumptionem suam satisfactione coerceat, indignationem Dei omnipotentis, et beatorum Petri et Pauli apostolorum ejus incurrat, et quousque resipuerit, anathematis sententia percellatur. Amen.

Ego Innocentius catholicae eccl. episcopus.

Ego Albericus Ostiensis episcopus.

Aymericus sanctae romanae ecclesiae diaconus card.

Datum in territorio Mamanensi per manum Aymerici cancellarii VI cal. Aug. ind. II, incarnationis Domini anno MCXXXIX pontificatus vero domini Innocentii pp. II, anno X.

XXI.

Il Fazello (dec. II, lib. VII) narra che re Ruggiero nel partire da Napoli, passate appena le bocche di Capri, fu soprappreso da una tempesta, nella quale fe’ voto che nella prima spiaggia che afferrerebbe, avrebbe eretto una chiesa a s. Giorgio, ed un gran tempio al Salvatore con un monastero di sacerdoti. Approdato in Cefalù sciolse il voto con trasportare la città d’in sulla rupe al lido, cingerla di mura, erigervi il gran tempio e fondarvi il vescovado. il Telesino, Falcone Beneventano, che per minuto scrissero le azioni di Ruggiero, fanno motto di ciò. Fazello dopo tre secoli mise fuori quel racconto, e molti storici posteriori, fra’ quali lo stesso Pirri lo adottarono sulla sua autorità. Ora è da considerare che il Fazello ingarbuglia tutti i fatti di re Ruggiero. Stabilisce la sua coronazione nel maggio del 1129 e poi fa pochi cenni de’ suoi disgusti con Callisto II ed Onorio II; non fa motto della rivolta de’ baroni di Puglia e dell’invasione di Lotario; dice che Innocenzio II venuto fuori con grande esercito assalì Sangermano ove era il re, lo mise in fuga e venne ad assediar il castello di Galluzzo, ove il re s’era rifuggito; Guglielmo principe di Taranto figlio del re, venne in aiuto del padre, disperse l’esercito pontificio, fece prigione il papa; fu fatta la pace; quindi il re col pontifice vennero in Napoli, ove il re dimorò un anno; partitone, accadde la tempesta e ’l voto. Tal guazzabuglio d’errori, rilevati dall’ab. Amico nella nota a quel capitolo, basterebbero a minorar la fede del racconto. Ma che il racconto sia favoloso è manifesto dall’anacronismo. Il re Ruggiero fu coronato nel natale del 1130; tosto dopo cominciò la guerra di Puglia, che bastò sino al luglio del 1139, come costa dalla bolla d’Innocenzio II; nell’anno appresso accadde l’invasione della provincia di Pescara, ed altri fatti, in seguito de’ quali il re venne in Napoli. Dunque quel viaggio da Napoli in Sicilia non potè accadere prima del 1140. Il diploma della fondazione del vescovado è del 1131; come dunque il vescovado potè essere stato fondato in seguito d’un voto fatto in quel viaggio? Non è da dire che la tempesta e ’l voto fossero accaduti prima, perocchè non è credibile che un re miracolosamente salvato da una tempesta, che fece un voto, voglia passar sotto silenzio un tanto beneficio ed un tal voto. Ora nel diploma, non solo non si fa motto della tempesta e del voto; ma si assegna tutt’altra ragione, per cui il re si mosse ad edificare il tempio ed erigere il vescovado: dignum et rationabile fore duximus (dice il diploma) ad Salvatoris nostri honorem domum costruere, et ad illius gloriam aulam fundare, qui nobis et honorem contulit et nostrum nomen laude regia decoravit... Hac itaque ratione ducti etc. È manifesto dunque che Ruggiero volle nell’erigere quel tempio mostrar la sua gratitudine all’Altissimo, per averlo elevato alla dignità di re. È perciò che il tempio fu cominciato a fabbricare tosto dopo la sua coronazione, e poi fu compito nel 1148, come si dice nell’iscrizione appostavi: Hoc sacrum Templum a pio Rogerio primo Siciliae rege ab anno 1131 ad annum 1148 fundatum, ornatum, dotatum fuit.

XXII.

Di questo messale fe’ menzione il chiarissimo monsignor Giovanni nel suo libro de divinis siculorum officiis: oltre le convincenti prove da lui addotte, pag. 88, a dimostrare, che sia quello de’ tempi normanni, è ancor manifesto da alcune orazioni ivi inserite pro domino nostro Imperatore, pro domina imperatrice Costantia: or essa Costanza o era la normanna, la figliuola del re Ruggiero e moglie di Arrigo imperatore morta nel 1198, o la Costanza di Aragona, moglie dell’imperador Federigo, morta in Catania nel 1222. Noi tralasciando le messe e le orazioni, qui solamente trascriveremo il rito, che si adoperava negli anzidetti giudizî. Ordo judicii aquae frigidae et calidae, panis et casei. In primis incipit judicium aquae frigidae. Si quis ex furto, homicidio, adulterio, vel qualicumque gravissimo accusatus fuerit delicto, et ipsam repudiare archivoluerit accusationem, tunc jubente episcopo vel diacono, presbyter suus ducat eum in ecclesiam et ammoneatur ab illo, quatenus si aliquod ei improperatur quod commisit delictum, humiliter confiteatur: quod si confiteri noluerit, et tale fuerit, quod non mereatur credi, tunc sacerdos missam pro eo celebret, quatenus dominus omnipotens cor ejus ad poenitentiam et confessionem emolliat; aut si induratum est cor ejus, et scindi ad poenitentiam non potest, ut ipse dominus omnipotens per judicium suum, quod faciendum est per aquam frigidam, veritatem pandere dignetur: ipsum hominem admoneat idem sacerdos, ut praeparet se ad communicandum, et judicium faciendum, et ut fiduciam aliquam non habeat in incantationes. Incipit Missa — Cum autem ad communicandum ventum fuerit, dicat sacerdos homini, cui crimen imponitur — Si autem tacuerit, communicet cum sacerdos dicendo, Corpus domini nostri Jesu Christi sit tibi hodie ad comprobationemExpleta missa, vadat sacerdos ad locum, ubi faciendum est judicium, et benedicat aquam. In primis cantet septem psalmos speciales cum letania. Postea dicat hanc orationem. — Conjuratio aquae — Postquam conjurata fuerit aqua, expolietur vestimentis homo, et osculetur evangelium sanctum, et crucem Christi, et aspergatur super eum aqua ipsa benedicta, vel de ipsa detur ei bibereConjuratio hominis — Et si adhuc perseverat, tunc mittat eum sacerdos in aquam dicens. Deprecamur te, Domine Jesu Christe, fac signum tale, ut si culpabilis est homo iste, nullatenus recipiatur ab hac aqua: hoc, Domine Jesu Christe, fac ad laudem et gloriam et invocationem nominis tui, ut cognoscant omnes, quia tu es dominus noster, qui cum patre et spiritu sancto vivis. Iudicium aquae ferventis. In primis interrogandus est homo, cui crimen imponitur, et missa celebranda est eo ordine sicut supra. In primis cantentur septem psalmi speciales cum letania. Postea oratio haec dicenda est — Post haec ponat manum in aqua ipsa ferventi, et abstracta, si statim judicium manifestum non fuerit, involvatur ipsa manus in panno mundo, et sigilletur ex cera sigillo episcopi aut archidiaconi. Post haec per triduum jejunet, pergens loca sanctorum orationis gratia, auxilium de Deo postulando. Sicque post triduum revertatur ubi ei fuerat imperatum; et amoto sigillo episcopi, inspiciatur manus cum brachio; et si sanus inventus fuerit, agant gratias Deo: si autem culpabilis, non interficiatur, sicut dominus per prophetam dicit, nolo mortem peccatoris etc. sed talis ei injungatur poenitentia, ut sustinere valeat, et in desperationem non cadat. Judicium ferri calidi. Agatur in primis interrogatio, et missa sicut supra. Post haec benedictio ignis — Postea cantentur septem psalmi speciales cum letania. Postea orationes — Post haec supponens manun, accipiat ferrum, portans illud passus tres in nomine Trinitatis. Deinde involvatur manus ejus panno, et sigilletur ut supra. Judicium panis et casei. Ad caseum benedicendum sicut supra — Conjuratio hominis — Tunc si non respuerit, ponat in os ejus sacerdos panem et caseum, dicendo hanc orationem — Quod si panem et caseum deglutierit, salvus erit: si autem deglutire non poterit, veluti reus judicabitur, non tamen ad mortem, sed ad poenitentiam, quia Dominus non vult mortem peccatoris, sed ut convertatur et vivat.

XXIII.

Dicti villani reddunt curiae annuatim ad mensuram generalem frumenti salmas decem et octo et tertiam, estimatas auri tarenos quinque pro qualibet salma frumenti, et de ordeo auri tarenos duos, et dimidium pro qualibet salma, qui sunt in summa tareni centum, triginta octo et grana quatuor. — Item sunt ex dictis villanis personae decem habentes boves, qui reddunt curiae annuatim cum pariclis et personis eorum tempore seminandi dietas decem, estimatas tamen grana septem minus tertia pro qualibet dieta, qui sunt ad idem pondus tareni tres et tertia. Ceteri autem villani reddunt curiae annuatim pro angaria dietas trecentas viginti novem, videlicet in seminando, zappuliando, maisando et aptando vineas, estimatas ana dietas decem pro tareno uno, qui sunt ad idem pondus tareni auri triginta duo, et grana decem et octo; et tempore metendi reddant dicti villani dietas sexaginta unam estimatas ana dietas quatuor pro tareno 1, qui sunt ad idem pondus tareni 14 et grana 5. Item reddunt annuatim gallinas 14 estimatas tarenos auri 2 et gr. 10, et ova 140, estimata grana 10. Dipl. ann. 1249 ex archiv. Eccl. Pactensis.

XXIV.

Si quis autem... tacere noluerit, si rusticus fuerit unum augustale, si burgensis duos, si miles quatuor, si baro octo, si comes sexdecim augustales curiae nostrae componat. Constit. L. I, tit. 32, pag. 21. Si quidem comes fuerit, qui quantitatem ipsam debeat declarare, sacramento ipsius comitis usque ad quantitatem centum unciarum auri credatur, baroni autem de quinquaginta, simplici militi de vigintiquinque, burgensi autem bonae opinionis et diviti de libra auri una, aliis autem usque ad tres uncias jurantibus credatur, l. cit. tit. 101, pag. 108. Sed in casu praesenti pro comite... centum augustales, pro barone quinquaginta, pro milite simplici vigintiquinque, pro burgensi duodecim, pro rustico sex de liberalitate nostri culminis conseguetur, loc. cit. lib. 2, tit. 3, pag. 116. Contra comitem criminaliter accusatum... duo comites fidem faciant, vel quator barones, aut octo milites, et sic per consequentiam sexdecim burgenses probationem plenam inducant; et sic gradatim contra baronem duo barones, aut loco duorum baronum quatuor milites, et vice quatuor militum octo burgenses; et sit idem in milite etc. Lib. 2, tit. 32, pag. 144. Da questi passi, in cui si ha la misura determinata e costante di ciascuna delle anzidette classi, non solo mostrasi la reale differenza, ma ricavasi ancora la gradazione e a così dire la scala di quelle.

XXV.

Romualdo de’ conti di Guarna, distinto pe’ suoi natali, a segno che si dice d’essere stato consanguineo de’ re di Sicilia, non lo era meno per la sua dottrina nelle facoltà ecclesiastiche e nelle scienze mediche, che allora fiorivano in Salerno, della qual città fu eletto arcivescovo nel 1135. Ebb’egli gran parte ne’ pubblici affari nel regno di Guglielmo I e nei primi anni di Guglielmo II. Nel 1156, assieme con Ugone arcivescovo di Palermo, Guglielmo vescovo di Cava e Marino abate della Cava trattò la pace tra Guglielmo e papa Adriano IV. Nel 1166, trovandosi vota la cattedra arcivescovile di Palermo, coronò Guglielmo II. Nel 1177 trovandosi assieme col conte d’Andria ambasciatore del re Guglielmo II al congresso di Venezia, fece con grand’onore conchiudere la pace generale tra l’imperatore Federigo I, papa Alessandro III, le città lombarde e lo stesso Guglielmo II. Il pontefice in quel congresso l’onorò a segno, che lo fece sedere alla sua sinistra, dandogli luogo prima de’ cardinali diaconi.

Scrisse egli una cronica universale dal principio del mondo sino al 1177, nella quale si mostra parziale pel grand’ammiraglio, esponendo la somma dei fatti, senz’accennarne le cagioni e le particolari circostanze, sfavorevoli a quel ministro. Per tale ragione ho seguito piuttosto la narrazione di Ugone Falcando, il quale narra più minutamente i fatti, e la sua narrazione ha tal nesso storico da escludere il sospetto di alterazione; senzachè un contemporaneo, che avrebbe potuto essere smentito, che parla di persone viventi, non è probabile che per inimicizia col grande ammiraglio avesse alterato i fatti; molto più che lo arcivescovo di Salerno non narra le cose diversamente, ma

Quae desperat tractata nitescere posse,
Relinquit
.

XXVI.

David Hume (Hist. of Engl. ch. X) dice che Tancredi, ch’egli crede fratello naturale di Costanza, all’arrivo de’ due re co’ loro eserciti, entrò in paura pel suo mal fermo governo; perchè Filippo era alleato dell’imperatore Arrigo; e Riccardo era disgustato del cattivo trattamento fatto alla regina vedova, che Tancredi avea confinato in Palermo, perchè essa s’era opposta alla successione di lui alla corona; che Tancredi si diede perciò a corteggiare i due principi, dicendo a Filippo: essere affatto improprio per lui sospendere l’impresa contro gl’infedeli, per attaccare uno stato cristiano e dando libertà alla regina Giovanna; che conchiuse un trattato con Riccardo, il quale prima di conchiuderlo, sospettando della fede e di Tancredi e dei Messinesi, prese allogio ne’ sobborghi, e s’impossessò di un forte allo ingresso del porto. Ora Hoveden, da cui abbiamo la narrazione di questi fatti, nulla dice del discorso tenuto da Tancredi al re di Francia; e, se Riccardo alloggiò nei sobborghi, ciò fu perchè Filippo, che giorni prima era giunto, era alloggiato in città e nel palazzo reale; però non potea esservi luogo per gli Inglesi. Le brighe tra questi ed i Messinesi non son certo da ascriversi a tradimento; di tali brighe, sulle prime che una truppa straniera mette piede in un paese, sempre ne nascono; ed altronde i Messinesi aveano grande ragione di guardar di malocchio il re inglese pellavventato procedere d’impossessarsi di un forte e di un monastero, cacciatone i monaci, senza chiederne permesso al re, ne’ cui dominj era.

Ma ciò, che veramente sorprende, è quanto lo storico inglese poco appresso soggiunge: «Tancredi, che per la sua sicurezza, desiderava d’infiammar l’odio reciproco (dei due re), usò un artifizio, che avrebbe potuto avere conseguenze anche più fatali. Egli mostrò a Riccardo una lettera sottoscritta dal re di Francia, recatagli, com’e’ diceva, dal duca di Borgogna, nella quale quel re volea che Tancredi assediasse i quartieri degl’Inglesi; e promettea di dargli mano nel farne macello, come nemici comuni. L’incauto Riccardo prestò fede a ciò; ma, franco com’era, mostrò il suo malanimo a Filippo, il quale negò d’avere scritta la lettera, e dichiarò di essere stata contraffatta dal principe siciliano. Riccardo fu, o mostrò d’essere soddisfatto della scusa

Se quel sommo storico avesse ben considerati i fatti, da lui stesso narrati, si sarebbe astenuto dall’imputare al re di Sicilia un’azione tanto infame. Primieramente Tancredi avea allora da più mesi conchiusa una pace con Riccardo, che s’era obbligato a difenderlo contro chiunque avesse voluto invadere il suo regno; dunque Tancredi per la sua sicurezza non avea alcun mestieri di usare quel vile artifizio, per infiammare l’odio reciproco di due ospiti re. Filippo all’incontro avea tutta la ragione di odiare Riccardo, per un fatto narrato dallo stesso Hume. Vivente il re Arrigo II suo padre, Riccardo, di lui nemico, sapendo le tresche amorose ch’eran corse tra lui ed Alicia di Francia, sorella di re Filippo, in ogni trattato di pace, per far dispetto al padre, metteva avanti il desiderio d’avere in moglie quella principessa. Venuto al trono, se ne levò dal pensiero e contrasse sponsalizio con Berengaria, figliuola di Sancio re di Navarra; ciò malgrado, accontatisi i due re in Messina, Filippo ripropose a Riccardo il matrimonio della sorella, e quello imprudentissimamente, non solo rigettò il partito, ma gli palesò gli amori corsi tra lei ed il padre di lui, e gli esibì le prove d’esserne nato un figliuolo. Non è questa offesa da sgozzarsi di leggieri; Filippo era tale da dimenticare i torti. Da quel momento l’odio di lui verso Riccardo fu atroce. Venuti in Palestina, gli si dichiarò apertamente nemico; abbandonata la crociata, tornò in Francia, ed in onta al giuramento prestato prima di partire, voleva invadere gli stati di Riccardo; ma i suoi baroni, che anche aveano giurato, non vollero seguirlo. Gl’imputò pubblicamente d’avere fatto uccidere a tradimento Corrado marchese di Monferrato, mentre era a tutti noto che quel delitto era stato commesso dal principe degli Assassini, soprannominato il vecchio della montagna, che se ne dava vanto. Quando Riccardo, reduce dalla crociata, fu carcerato da Arrigo IV in Germania, Filippo fece ogni opera per averlo nelle sue mani; mosse guerra all’Inghilterra; s’unì al ribelle Giovanni, fratello di Riccardo, per fargli perdere il regno.

Tancredi mostrò la lettera a Riccardo, e, perchè questo non volea credere al tradimento di Filippo, gliela diede, per poter egli esaminare se era contraffatta; contento a ciò sfidò a duello il duca di Borgogna, se negava d’avergliela recata. Riccardo, dice Hume, palesò tutto a Filippo; perchè dunque il duca di Borgogna non accettò la sfida? In quell’età ciò era una prova evidentissima di delitto. poteva egli dire d’andarne dell’onor suo, se combatteva con un barone siciliano; perchè tenendo la sua duchèa in capite dal re di Francia, come i conti di Marsico, di Lorotello, d’Andria ec. teneano le loro contèe dal re di Sicilia, era loro pari. Filippo non avrebbe tratta clamorosa vendetta di Tancredi, se quella lettera fosse stata inventata? Tutto adunque porta a credere, che il re di Francia realmente ordì quel tradimento.

XXVII.

Il Fazello (dec. II, lib. VII. cap. II) dice che in quel trattato il pontefice restituì a Federigo i titoli d’imperadore e di re di Sicilia e Gerusalemme: e Federigo s’obbligò a pagare al papa centomila once per le spese da lui fatte in quella guerra. Noi non sappiamo onde quello storico abbia tratta una tale notizia; certo è ch’è smentita dal trattato originale riferito dal cronista contemporaneo Riccardo da Sangermano, nel quale nulla si legge di tutto ciò. Il Di Blasi poi (Stor. civile del regno di Sicilia Tom. VI, lib. VIII, sez. I, cap. IX) dice che Federigo nel presentarsi a papa Gregorio, deposto il manto imperiale, s’inginocchiò e gli baciò i pedi; circostanza che ugualmente è taciuta da Riccardo da Sangermano. Il secondo storico dice che il primo lasciò scritto (e lo cita in piè di pagina) che Federigo non baciò il piede al papa, che glielo porse a quest’oggetto, ma fingendo ignoranza, gli abbracciò il ginocchio, e appena glielo baciò; ora il Fazello, non solo non dice ciò, ma non fa pur cenno della visita fatta da Federigo al papa in Anagni. Il Di Blasi adunque lascia inosservato un errore del Fazello di grave momento, perchè l’accettare la restituzione de’ titoli sovrani sarebbe stato un riconoscere nel pontefice il dritto di torli e darli; ed il pagargli le spese della guerra a lui fatta, sarebbe stato un darsi vinto del tutto, mentre era in istato di dare piuttosto che ricevere la legge. Ciò non parve al Di Blasi degno di nota; ed in quella vece appone al Fazello di aver detto ciò che non disse, e che al postutto a nulla monta. Federigo non avea combattuto per non baciare i piedi, ma per legar le mani al papa.

XXVIII.

In nomine Dei aeterni, et Salvatoris nostri Jesu Christi. Anno ab incarnatione millesimo ducentesimo quinquagesimo: die sabati, septimo die mensis decembris, nonae indictionis.

Primi parentis incauta transgressio sic posteris legem conditionis indixit, ut eam nec diluvii proclivis ad poenam effusio, nec baptismatis tam celebris tam salubris unda finiret, quin fatalitatis eventus mortalibus senescentis aevi praecinctis lascivie, transgressionis in poenam culpa tranfusa tanquam cicatrix ex vulnere remanet. Nos igitur Fridericus secundus Divina favente clementia Romanorum imperator, semper Augustus, Jerusalem et Siciliae rex, memores conditionis humanae, quam semper comitatur innata fragilitas, dum vitae nobis instaret terminus, loquelae et memoriae in nobis integritate vigente, aegri corpore, sani mente, sic animae nostrae consulendum providimus, sic de imperio, et regnis nostris duximus disponendum, ut rebus humanis assumpti vivere videamur; et filiis nostris, quibus nos Divina clementia fecundavit, quos praesenti dispositione nostra, sub poena benedictionis nostrae, volumus esse contentos, indignatione sublata, omnis materia scandali sopiatur. Statuimus itaque Corradum Romanorum in regem electum dilectum filium nostrum, nobis haeredem in imperio et omnibus aliis emptitiis et quoquomodo acquisitis, et specialiter in regno nostro Siciliae. Quem si decedere contigerit sine liberis, ei succedat Henricus filius noster, quo defuncto sine liberis succedat ei Manfredus filius noster. Corrado autem manente in Alemannia, vel alibi extra regnum, statuimus praedictum Manfredum Balium dicti Corradi in Italia, et specialiter in regno Siciliae, dantes ei plenariam potestatem omnia faciendi, quae persona nostrae facere posset, si viveremus; videlicet in concedendis terris, castris, villis, parentelis, dignitatibus, beneficiis et omnibus aliis, juxta dispositionem suam, praeter antiqua demania regni Siciliae: et quod Corradus et Henricus praedicti filii nostri, et eorum haeredes omnia, quae ipse fecerit, firma et rata teneant et observent. Item concedimus et confirmamus dicto Manfredo filio nostro principatum Taranti, videlicet a porta Roseti usque ad ortum fluminis Brandani, cum comitatibus Montis Caveosi, Tricarici et Gravinae, prout comitatus ipse praetenditur a maritima Terrae Bari, usque Pallinianum, cum terris omnibus a Palliniano per totam maritimam usque ad dictam portam Roseti, scilicet civitatibus, castris et villis intra contentis, cum omnibus justiciis, pertinentiis et rationibus omnibus, tam ipsius principatus quam Comitatum praedictorum. Concedimus etiam eidem civitatem Montis Santangeli cum toto honore suo, cum omnibus eidem honori pertinentibus scilicet, quae de Demanio in Demanium, et quae de servitio in servitium. Concedimus etiam, et confirmamus eidem quidquid in imperio est a nostra majestate concessum. Ita tamen quod praedicta omnia a praefato Corrado teneat, ac etiam recognoscat, cui Manfredo judicavimus pro expensis decem mille uncias auri.

Item statuimus ut Henricus filius noster habeat regnum Arelatense, vel regnum Jerosolymitanum, quorum alterum dictus Corradus praefatum Henricum habere voluerit: cui Henrico judicamus centum mille unciarum auri pro expensis.

Item statuimus ut centum millia unciarum auri expendantur pro salute animae nostrae in subsidium Terrae Sanctae, secundum ordinationem dicti Corradi et aliorum nobilium crucesignatorum.

Item statuimus ut omnia bona militiae Domus, Templi, quae curia nostra tenet, restituantur eidem; ea scilicet quae de jure deberet habere.

Item statuimus ut omnibus ecclesiis, et Domibus religiosis restituantur jura eorum, et gaudeant solita libertate.

Item statuimus ut homines regni nostri Siciliae sint liberi, et excepti ab omnibus generalibus collectis, sicut consueverunt esse tempore regis Guillelmi Secundi Consobrini nostri.

Item statuimus quod comites, barones, et milites et alii feudatarii nostri regni gaudeant juribus suis et rationibus omnibus, quae consueverunt habere tempore Regis Guillelmi in collectis et aliis.

Item statuimus ut ecclesiae Luceriae, et Sorae, et si quae aliae lesae sunt per officiales nostros, reficiantur et restituantur.

Item statuimus ut tota massaria nostra, quam habemus apud Sanctum Nicolaum de Aufido, et omnes proventus ipsius, deputentur ad reparationem et costructionem pontis ibi constructi vel costruendi.

Item statuimus ut omnes captivi in carcere nostro detenti liberentur, praeter illos de Regno, qui capti sunt ex proditionis nota.

Item statuimus quod praefatus Manfredus filius noster omnibus benemeritis de familia nostra provideat vice nostra in Terris, Castris, et Villis, salvo Demanio Regni nostri Siciliae, et quod Corradus et Henricus praedicti filii nostri, et haeredes eorum, ratum et firmun habeant quidquid idem Manfredus super hoc duxerit faciendum.

Item volumus et mandamus quod nullus de proditoribus Regni in aliquo tempore reverti audeat in Regnum, nec aliqui de eorum genere succedere possint: imo haeredes nostri teneantur vindictam de eis sumere.

Item statuimus quod Mercatoribus creditoribus nostris debita solvantur.

Item statuimus ut sacrosanctae Romanae ecclesiae Matri nostrae restituantur omnia sua, salvis in omnibus et per omnia jure et honore Imperii haeredum nostrorum, et aliorum fidelium nostrorum, si ipsa ecclesia restituat jura Imperii.

Item statuimus ut, si de praesenti infirmitate nos mori contigerit, in majori ecclesia Panormi, in qua divi Imperatoris Henrici, et divae Imperatricis Costantiae parentum nostrorum memoriae recolendae tumulata sunt corpora, corpus nostrum debeat sepeliri. Cui ecclesiae dimittimus uncias auri quingentas pro salute animarum dictorum parentum nostrorum, et nostrae, per manus Berardi venerabilis Panormitani Archiepiscopi, familiaris et fidelis nostri, in reparatione ipsius ecclesiae erogandas.

Praedicta autem omnia, quae acta sunt in praesenta dicti Archiepiscopi, Bertoldi Marchionis de Bemburgio dilecti consanguinei et familiaris nostri, Riccardi Comitis Casertani dilecti generi nostri, Petri Ruffi de Calabria Maniscaliae nostrae Magistri, Ricardi de Montenigro Magnae Curiae nostrae Magistri Justitiarii, Magistri Joannis de Ydronto, Fulconis Ruffi, Magistri Joannis de Procida, Magistri Roberti de Panormo Imperii, et Regni Siciliae, et Magnae Curiae nostrae Judicis, et Magistri Nicolai de Brundusio publici Tabellionis Imperii, et Regni Siciliae, et Curie nostrae Notarii nostrorum fidelium: quos praesenti dispositioni nostrae mandavimus interesse per praedictum Corradum filium et haeredem nostrum et alios successive, sub poena benedictionis nostrae tenaciter volumus observari, alioquin haereditate nostra non gaudeant. Id autem fidelibus omnibus nostris praesentibus, et futuris, sub sacramento fidelitatis, quo nobis et haeredibus nostris tenentur, injungimus ut praedieta omnia illibata teneant, et observent. Praesens autem testamentum nostrum, et ultimam voluntatem nostram quam robur firmitatis volumus obtinere, per praedictum Magistrum Nicolaum scribi, et signo Sanctae Crucis propriae manus nostrae, sigillo nostro, et praedictorum subscriptionibus jussimus communiri. Actum apud Florentinum in Capitanata anno, mense, die, et indictione praemissis, anno Imperii nostri trigesimo secundo, Regni Jerusalem vigesimo octavo, Regni Siciliae quinquagesimoprimo.

† Ego Fridericus Secundus Divina favente clementia Romanorum Imperator semper Augustus Hierusalem et Siciliae Rex dico et declaro hoc fuisse et esse meum solemne testamentum, meamque ultimam voluntatem, actum est scriptum de mei ordine, voluntate, et mandato per manus Magistri Nicolai de Brundisio publici Tabellionis Curiae nostrae, ac in praesentia supradictorum et infrascriptorum testium nostrorum fidelium, quos omnibus praedictis mandavimus interesse, ac in fidem omnium praemissorum manu propria subscripsimus, nostroque solito Imperiali et Regio sigillo signavimus.

† Ego Berardus Archiepiscopus Panormitanus rogatus praemissis omnibus interfui, manu propria me subscripsi ac sigillo Imperiali et Regio signavi.

† Ego Marchio de Bemburgio praesens fui, manu propria subscripsi, sigilloque Imperiali me signavi.

† Ego Ricardus Comes Casertinus rogatus supradicto Imperiali testamento interfui, manu propria me subscripsi, supradictoque Imperiali ac Regio sigillo signavi.

† Ego Ruffus de Calabria rogatus supradictis omnibus interfui, manu mea subscripsi, et Imperiali ac Regio sigillo me signavi.

† Ego Magister Joannes da Hidronto rogatus interfui, manu mea subscripsi et Imperiali ac Regio sigillo me signavi.

† Ego Fulcunon Ruffus rogatus interfui, manu propria subscripsi, et Imperiali Regioque sigillo signavi.

† Ego Joannes de Ogrea rogatus ut supra praesens fui, me subscripsi manu propria, ac supradicto Imperiali sigillo signavi.

† Ego Magister Ioannes de Procida supradictis omnibus interfui, subscripsi, sigillavi et testor.

† Ego Magister Robertus de Panormo rogatus me subscripsi et sigillavi, ac omnibus interfui, et testis sum.

† Ego Ricardus de Montenigro Imperialis Regiaeque Curiae Magister Justitiarius supradictis omnibus rogatus interfui, manu propria me subscripsi ac sopradicto Imperiali et Regio sigillo me signavi et testis sum.

† Ego Magister Nicolaus de Brundusio publicus Tabellio Imperii et Regni Siciliae, ac Imperialis Curiae Notarius, rogatus a Domino Imperatore ut supradictumn ejus testamentum, suamque ultimam voluntatem conficerem, quia praemissis omnibus, et singulis, una cum supradictis testibus interfui, et publicavi, ac in presentem publicam formam redegi, ideo subscriptione, et signis meis solitis et consuetis subscripsi et signavi.

Tratto dal Caruso, Bibl. Hist. Regn. Sic. Tom. II, pagina 669.

XXIX.

La costituzione del libro III, tit. 49, dopo di avere enumerato ciò ch’eran tenuti a fare gli artieri d’ogni sorta ed i venditori di carne, di pesci e di vino, perchè i compradori non fossero ingannati, conchiude: Et ut omnibus artificibus ipsis committendarum fraudium via, et materia praecludatur, per loca quaelibet duos eligi volumus fide dignos per terrae bajulos ordinandos, quibus imminentibus praedicta omnia in statu conservare debeant, et debitae executioni mandare, et contradicentibus se opponere. Ac per eos artificum fraudes nostrae curiae nuncientur. Quorum officialium nomina, etiam per literas sub sigillis, et subscriptionibus eligentium, et eorum qui in his consilium dederint eligendis, ad nos per locorum dominos (deve dire et locorum dominos) volumus destinari.

Con nostra grave sorpresa abbiamo osservato che il diligentissimo e laboriosissimo Gregorio, sia intorno a ciò caduto in due errori. Primieramente (Consid. sulla Stor. di Sic. lib. III, capitolo II) enumerando gl’incarichi dei bajuli dice ch’essi doveano punire i venditori frodolenti, e tassare la mercede alle opere dei mietitori, e di altri lavoranti ed operai. E ne adduce in prova (nota 3) la costituzione scritta di sopra, nella quale in fine si in vero ai bajuli l’incarico di fissar le mercedi dei lavoranti di campagna; ma l’incarico di vegliare alle frodi dei venditori è chiaro che la legge non lo dava ai bajuli, ma a due uomini onesti: per terrae bajulos ordinandos. E, perchè la legge stessa prescrivea che costoro doveano giurare sul vangelo di esercitare l’incarico con fedeltà ed intelligenza, furono poi detti Boni homines jurati. Ed è ciò tanto vero, che lo stesso Gregorio (Cap. V, libro III) non altronde trae la prima istituzione de’ giurati, che da questa legge, nella quale vede ciò che noi non sappiamo vedere. Da questo statuto, egli dice, raccogliesi apertamente, che fissò quel principe come un corpo stabile e permanente, composto da due buoni uomini giurati, il cui ufficio fosse di curare, che il popolo non soffrisse inganno frode nelle misure, ne’ pesi e in altri oggetti di civil commercio: fissò ancora la forma della elezione di quelli, avendo disposto, che dovea precedere un consiglio locale e pubblico, e poi degli eletti se ne dovea dar notizia per lettera sottoscritta e suggellata da coloro che aveanli eletti; il che suppone una elezion popolare ridotta in un atto solenne e legale. Potrebbe a prima fronte credersi, che egli tragga tutto ciò da altra legge; ma ch’egli parli della stessa legge è chiaro, perchè la cita nella nota (4); e nella nota (5) rischiarando il testo latino della legge col greco, fa vedere che ove nel latino si dica: Ad nos per locorum dominos, nel greco è προς ημας η προς τους δεσποτας των τοπων (A noi, o ai padroni dei luoghi): ciò che calza bene colle parole che nel testo latino seguono: ut ex approbatione nostra, vel aliorum quorum intererit. Ma come mai da una tal legge può trarsi l’idea che dovea precedere un consiglio locale e pubblico? La espressione della legge: Duos eligi volumus fide dignos per terrae bajulos ordinandos; a noi pare che escludano qualunque idea di elezione popolare. Forse il Gregorio sarà stato tratto in inganno da ciò che si dice in appresso, che le lettere, nelle quali si dava notizia dell’elezione doveano essere munite delle sottoscrizioni; eligentium et eorum qui in his consilium dederint eligendis, ma quel plurale eligentium non si riferisce ad una moltitudine di persone che in ogni città o terra concorrevano alla scelta, ma a tutti i bajuli del regno, ai quali la legge dava il dritto di scegliere. È poi da considerare che sin le memorie de’ tempi mostrano, che i bajuli esercitavano le loro funzioni giudiziarie ed amministrative coll’assistenza ed il consiglio di uomini probi della terra; è dunque probabile che la legge, supponendo una tal consuetudine, avesse prescritto, che per meglio conoscersi l’idoneità degli eletti, le lettere fossero sottoscritte, non che dai bajuli, che erano i naturali elettori, ma da coloro che aveano consigliata la scelta. Ciò è lontano dal mostrare una elezione popolare ridotta in un atto solenne e legale.

XXX.

Martio in Viterbo. De imperiali mandato facto per Magistrum Petrum de Vinea scripsit G. de Cusentia. Roggerio de Amic. Justitiario Siciliae ultra flumen salsum. Ex occupationibus nostris modicum temporis subtractione laudabili subtrahentes, ecce quod id haereditarium nostrum Siciliae, quod inter caeteras regiones ditioni nostrae subjectas delectabilius nobis, et praecipuum reputamus, gressibus festinatis accedimus, ut regnum et regnicolas ilariter videamus. Cum igitur apud Fogiam in festo Palmarum primo venturo colloquium indixerimus generale ubi de fidelibus nostris aliquos ex singulis regni partibus volumus habere presentes, fidelitati tuae praecipiendo mandamus, quatenus in praedicto termino personaliter nostro cospectui te praesentes, ducturus tecum duos nuntios de unaquaque civitate, et unum de unoquoque castro jurisdictionis tuae, quae demanio nostro tenentur ad praesens, praeter civitates illas, quibus de mittendis earum nuntiis litteras mittimus speciales, quas eis facias assignari... Similes G. de Anglone Justitiario Siciliae citra flumen salsum. Similes G. Montefusculo Justitiario Calabriae. Similes Tholomeo de Castellina Justitiario Vallis Cratis et terrae Jordanae. Regestum ann. 1239 et 1240.

XXXI.

Martio in Viterbo. De imperiali mandato facto per Magistrum Petrum de Vinea scripsit G. de Cusentia. Bajulis, judicibus, et universo populo Panormi. Ex occupationibus nostris (segue come a n. XXX). Fidelitati vestrae praecipiendo mandamus quatenus in termino supradicto, sicut gratiam nostram diligitis, duos nuntios vestros ad nostram presentiam destinetis, qui pro parte vestrum omnium serenitatem vultus nostri prospiciant, et nostram vobis referant voluntatem. Similes Nicosiae, Trapani, Castri Johannis, Platiae, Calatagironi, Lentini, Augustae, Siracusae, Cataniae, Messanae etc. Regest. anni 1239 et 1240.

XXXII.

SU CORACE E TISIA

Retori ed Oratori siracusani.

SAGGIO STRICO CRITICO DI AGOSTINO GALLO.

L’eloquenza e la poesia nacquero sull’alba dello sviluppamento dell’umana ragione. Cicerone attribuisce alla prima il vanto di aver aggregate le più antiche società, per l’influenza e la faconda insinuazione di un uomo, che n’era più degli altri dotato (675).

La poesia, co’ suoi maggiori allettamenti, cooperossi alla grand’opera, e v’introdusse la religione col celebrar le lodi di Dio, che si manifestava agli uomini nell’ordine e magnificenza dell’universo.

La rettorica, la dialettica, e l’arte metrica, nacquero dopo per guidar con norme certe l’eloquenza e la poesia; ma già gli oratori e i poeti trascinavano a lor volere, colla persuasione e l’allettamento, anche i più riottosi del consorzio sociale.

Non parmi che corrisponda al vero l’antica sentenza: poeta nascitur orator fit. La natura formò questo e quello, secondo le lor peculiari fisiche e intellettuali disposizioni, che per altro sono affini nel linguaggio, come scrisse Platone, ed han quasi lo stesso scopo, cioè, di rendersi utili col diletto, se non che l’eloquenza vi aggiunge l’altrui persuasione e convinzione, e diviene perciò più importante dell’altra in società.

La rettorica e la dialettica spiarono gli andamenti e gli spontanei artificii della eloquenza, e ne foggiaron regole a perfezionarla in coloro che ne avessero d’uopo, o per meglio stabilirne i canoni; laonde ben disse Cicerone: Quae sua sponte homines eloquentes fecerunt, ea quosdam observasse, atque id egisse, sic esse non eloquentiam ex artificio, sed artificium ex eloquentia natum (676).

La filosofia accolse poscia nella sua scuola l’eloquenza e l’ammaestrò a trattar sodamente i grandi interessi della società, a difender l’innocenza oppressa, e a rivendicare i dritti usurpati. E ciò appunto fu il suo maggior trionfo; ma, ahi, che l’uomo spesso ne abusa e la rivolge a mal fine!

Però quella facoltà intellettuale, che con lo strumento di splendida, efficace ed ornata parola commove, e conquide gli animi altrui, e li trascina se vuole all’utile e al giusto, fu concessa a pochi da natura, la quale, come delle gemme e dell’oro è sovente avara de’ pregevoli doni dell’ingegno. E anche a’ pochi suoi prediletti non la diè bella e forbita; ma, come le gemme e l’oro, grezza ed incolta; talchè abbisogna dell’arte, che può solo ridurla a quella perfezione di cui è suscettiva.

Or quest’arte di tanta importanza sorse prima in Sicilia dalla mente di Corace Siracusano, passò, qual elettrica scintilla, in Tisia suo concittadino e in Gorgia leontino, e da Sicilia trascorse con essi in Grecia, e formò que’ famosi oratori, le cui opere sublimi sono ancor l’ammirazione e il modello di tutti i culti popoli dell’Europa.

Ivi l’eloquenza afforzossi con le armi della dialettica, che Corace e Tisia diedero informi a Zenone di Elea, il quale, le rese forbite e forse affilate di troppo, e falsamente ne fu creduto inventore.

Marmontel dunque a torto credette che l’eloquenza fosse stata inventata in Grecia (677), contro le testimonianze di tutti gli antichi scrittori, come vedremo.

Di Corace e di Tisia, decoro e fasto della nostra antica letteratura farò ragionamento per accertar loro quel vanto da alcuni contrastato, o supposto diviso con altri.

Il mio dotto amico Nicolò Palmeri di acerba e cara ricordanza, tutto intento all’istoria civile di Sicilia, sfiorandone appena la letteraria, come oggetto accessorio, non potè esaminar con la sua consueta sagacissima critica alcune quistioni oscure e involucrate, che riguardan quest’ultima. Quindi asserì che la rettorica di Corace consistea nell’arte di trovare sofismi più presto che argomenti, ed adduce in prova la sfida, che ebbe col suo scolare Tisia di un dilemma capzioso; onde il primo ottenesse, e l’altro schivasse di pagargli la pattuita mercede dell’insegnamento.

Però con quel rispetto, che si debbe al Palmeri, io intendo valermi della stessa libertà, che mi accordava vivente ad oppuguare alcune sue opinioni, in questa che riguarda Corace e Tisia da lui poco apprezzati.

Costoro non furon soltanto, come egli crede, sottili e spregevoli sofisti, e quel dilemma loro attribuito appartiene a Protagora di Abdera e ad Evatlo suo discepolo, secondo riferisce Aulio Gellio (678). E siccome Protagora, cacciato da Atene per aver proclamato sfacciatamente l’ateismo, erasi ricoverato in Sicilia, rimanendo qui memoria di quella strana argomentazione, in tempi posteriori fu attribuita a Corace e Tisia, che si eran già resi famosi nella oratoria giudiciale e popolare.

L’arte sofistica, abuso della rettorica, esercitata di proposito e insegnata sistematicamente per precetti, sorse indi con Gorgia Leontino, il quale abbacinò Atene colle sue sfolgoranti ed armoniose arringhe, e col suo possente e rigoglioso ingegno, onde talvolta sosteneva il prò, e talora il contro sullo stesso argomento. Talchè fu proverbiato da Platone di esser simile ad abile cuoco, che dilettando il gusto co’ suoi intingoli e manicaretti, assassina lo stomaco e la salute de’ ghiotti.

Egli è vero che i germi di quest’arte esistevano nell’acuto ingegno de’ Siciliani, e certo in quello di Corace e di Tisia; ma costoro ne usarono discretamente nelle controversie del foro, ove talvolta è necessaria. Pertanto non devono accagionarsi del danno, che indi recò alla eloquenza, e se ad essi vuolsi ascriverne l’invenzione, non però l’uso continuato, rivolto a falsar di proposito il vero, e molto meno lo strano dilemma accennato dal Palmeri.

Il carattere de’ Siciliani, riconosciuto da Cicerone, gens acuta et controversae naturae, li ha spinto in ogni tempo ad assordare l’aule di giustizia con sofismi e declamazioni. Le forme di governo popolari, od oligarchiche sin dall’arrivo dell’elleniche colonie da Sicilioti adottate; e l’ambizion suscitata in molti di prestante ingegno, furon potentissime cause, che nascer fecero e progredir l’eloquenza in quest’isola, innanzi che in Grecia. Della favella che lor fioriva sulle labbra si valsero essi per trionfar presso i magistrati e sul popolo.

L’eloquenza precesse tra noi la coltura e l’arte, e cresceva in questo suolo, qual pianta spontanea e rigogliosa, che fiori e frutta pria che fosse coltivata. Il prisco Stesicoro, che di qualche secolo seguì Omero, con energica arringa, e con l’apologo del cavallo del cervo e dell’uomo debellò in Imera numeroso partito, sedotto dall’astutissimo Falaride, che sotto colore di difenderla, volea ridurla in servitù.

Tutti quelli che usurparono il supremo potere in varie nostre repubbliche si valsero dell’eloquenza, e de’ segreti maneggi per sedurre, illudere, e riportar l’assenso del popolo al loro innalzamento alla tirannide.

Nella guerra degli Ateniesi contro Siracusa, segnalaronsi come oratori di quella città Ermocrate di Ermone, e Atenagora (679), La più maschia eloquenza era spontanea nella loro bocca, pria che Corace ne avesse scritte le regole, che Tisia diffuse poi in Grecia, ove finallora erano oratori per natura, e non per arte.

A Corace Siracusano appartiene bensì tutta intera la gloria dell’invenzione della rettorica, e di averne scritto il primo i precetti. ciò è picciol vanto; perocchè quell’arte divina ingagliardisce e rende efficace la ragione, per mezzo di fulminanti od ornate parole, e soccorsa dalla dialettica, sua sorella, fa valere presso i magistrati i dritti degli uomini, e rivolta al popolo può salvar la patria da gravissimi pericoli. Se non che diviene talvolta fatale pel tristo uso che se ne fa; di che non deesi incolpar l’arte del dire, ma la natural tendenza degli uomini a rivolgere in male quanto dall’Essere Supremo è stato loro in bene concesso.

Il chiarissimo abate Domenico Scinà inclinava a credere nella sua egregia opera intorno ad Empedocle che a quel filosofo Agrigentino anzi che a Corace Siracusano attribuir si dovesse l’invenzion dell’arte rettorica. Col profondo rispetto, che debbo alla sua dottrina, alla memoria e riconoscenza che di lui perennemente conservo, son costretto da intima persuasione e da moltiplici antiche testimonianze a non togliere a Corace quel vanto, godendone altronde il grande Empedocle ben altri e di maggiore impor tanza.

Due testimonianze adduce lo Scinà a sostegno della sua opinione, quantunque confessi «che non è noto quanto quel filosofo si fosse distinto nell’affinar in Sicilia quest’arte novella

La prima testimonianza è di Laerzio, che nella biografia di quel filosofo così esprimesi: «Aristotile dice nel sofista avere Empedocle il primo inventato la rettorica.» Il che sembra in qualche modo confermato da Quintiliano nelle seguenti parole: Primus post eos, quos poetae tradiderunt, movisse aliqua circa rhetoricem Empedocles dicitur, ed è ripetuto quasi da Sesto Empirico. Soggiunge quindi lo Scinà che non senza fondamento è da credere di aver quel valentuomo «nobilmente accresciuto con traslati, figure e ogni altro bellissimo ornamento la rettorica; perocchè abbondò di cognizioni, fu dotato qual poeta d’imaginazione vivissima, ebbe per suo scolare il nostro Gorgia, oratore ornatissimo nel dire

E poscia conchiude «se quindi è singolar pregio d’un bravo oratore il persuadere, l’allettare, il commovere, ben sì comprende che Empedocle abbia dominato coll’arte della sua rettorica sul popolo Gergentino

Dalle addette antiche autorità e da quella dell’ottimo critico e dotto Scinà dovrebbe conchiudersi che Empedocle, e non Corace a lui di poco posteriore, sia stato l’inventor dell’arte rettorica; ma ove far si voglia una giusta distinzione tra la rettorica per precetti, e l’oratoria per eloquenza naturale, secondata e raffazzonata dall’esercizio di perorare, potrebbe deffinirsi meglio la quistione, il che non si è fatto fino adesso, onde conciliarsi le discrepanze degli antichi, e de’ moderni sull’assunto. La rettorica seccamente i precetti, che conducono all’esercizio dell’arte oratoria, cui serve di principal sostegno la dialettica.

La rettorica, come arte, nacque posteriormente all’oratoria, figlia dell’eloquenza, che nel suo progresso si giova della rettorica e dialettica e dell’industria ed acume dell’umano ingegno nel presentare e disporre gli argomenti, e le prove nelle aringhe.

E siccome l’eloquenza è più antica; perchè sorse con gli uomini, dotati da natura di pronta e facile facondia, così bene opinò in parte lo Scinà ch’Empedocle, gran filosofo, che maneggiar dovea ottimamente la dialettica, e qual riformatore del governo d’Agrigento sapea persuadere co’ suoi ragionamenti il popolo, dovette accrescere con traslati, figure, e ogni altro bello ornamento le sue aringhe. Molto più che ciò riusciva facile a quel sommo ingegno, esercitato nella lettura d’Omero, e poeta anch’egli omerizzante nella frase, e nelle metafore, come che i suoi poemi fossero filosofici. E appunto per quella sua spontanea eloquenza, dicesi, che Gorgia Leontino, che indi spiccò in Grecia qual sommo oratore, nella giovinezza fosse stato suo scolare (680), il che potrebbe intendersi più presto imitatore. Ma non saprei indurmi a credere che il sommo Empedocle, occupato a scriver lunghi poemi sulla filosofia pittagorica da lui riformata, sulle naturali scienze, sulla morale, e sinanco sulla medicina, e inteso a costituire nella sua patria un miglior governo, siesi dato qual pedante a scriver precetti di rettorica. La sua vasta mente, la onnigena dottrina non lo facevan certo abbassare a quest’utile, ma pur mezzano ufficio, proprio d’un ingegno subalterno. Preparandosi egli ad arringare come fan gli oratori anche estemporanei, avrà potuto specular gli artifici indispensabili per trascinare il popolo al suo imperioso arbitrio, e comunicarli anche a Gorgia. Però sdegnar doveva di scriverne trattati elementari che per quanto giovino, non sono l’occupazione di chi aspira a gloria maggiore, come un La Grange, un Piazzi non sognaron mai di scrivere le regole dell’aritmetica, ed ove ne avessero scritto per qualche peculiare ragione, non l’avrebbero curato.

Laonde dissemi bene e con nobile orgoglio Gaetano Batà, gran matematico, a cui erano stati usurpati i cartolari aritmetica ed algebra composti per necessità ad uso di alcuni suoi allievi «che importa a me che mi sia stato rubato l’alfabeto della scienza, come non importerebbe a voi se vi fosse stata involata una vostra grammatica

Ognun sa che Diogene Laerzio fu un indigesto, e spesso inesatto affastellator di notizie. La sua citazione del trattato del sofista di Aristotile, che si è perduto, non è recata nelle parole dello Stagirita, e non sappiamo come questi si fosse espresso. Quintiliano severo critico poi, che avea presente forse il sofista di Aristotile, accenna seccamente in modo indeterminato ch’Empedocle tentò qualche cosa sulla rettorica: movisse aliqua circa rhetoricen; ma pure giudiziosamente non afferma di esserne stato inventore, di averne scritto i precetti.

In ogni modo costoro non furon mai in Sicilia, onde da lungi non potevano averne che vaghe tradizioni. Non così Cicerone che vi soggiornò, e nelle sue Verrine mostrasi bene istruito di tutte le particolarità istoriche di quest’isola, e svolger dovette le opere de’ nostri antichi scrittori. Quindi a lui dobbiam credere anche su questo riguardo; dapoichè citando pure Aristotile, disse tutt’altro, che gli fe’ dire Diogene Laerzio, e solo a Corace e a Tisia, suo scolare, ascrive l’invenzion della rettorica Ecco le parole dell’Arpinate oratore: «Itaque ait Aristotelis, quum sublatis in Sicilia tyrannis, res privatae longo intervallo judiciis repeterentur, tuum primum, quod esset acuta illa gens, et controversa natura, artem, et praecepta siculos Coracem, et Tisiam conscripsisse; nam antea neminem solitum via, nec arte, sed accurate tamen, et de scripto plerosque dicere; scriptasque fuisse; et paratas a Protagora rerum illustrium disputationes; quae nunc comunes appellantur loci. Quod idem fecisse Gorgiam, quum singularum rerum laudes, vituperationesque conscripsisset, quod judicaret hoc oratoris esse maxime proprium, rem augere posse laudando, viturando, que rursus affligere (681).»

Ecco tracciata da Cicerone a grandi pennellate l’isto ria dell’origine dell’arte rettorica ed oratoria. Egli non ne avrebbe altronde tolto ad Empedocle l’invenzione, del quale avea altissima stima. Che se Cicerone cita anche Aristotile, non avrebbe omesso di nominare il filosofo Agrigentino, se di lui fatto n’avesse menzione, e se le notizie che l’Arpinate raccolse in Sicilia l’avessero confermata. Convien dunque riposar sulla sua asserzione e credere, secondo egli dice, che innanzi a Corace, e Tisia non conoscevasi arte, metodo nell’aringhe, ma che pure parlavasi, e concionavasi accuratamente; perocchè dagli oratori si scrivevano prima i loro discorsi. Però Corace e Tisia giovandosi dell’epulsione de’ tiranni, onde, per lo scompiglio delle fortune usurpate, erano agitati con infiniti litigi i tribunali, e secondando l’acutezza della mente, e l’indole contenziosa de’ Siciliani, dieronsi i primi a scriver precetti sull’arte rettorica, tum primum..... artem et praecepta siculos Coracem et Tisiam conscripsisse.

Ma che Aristotile non abbia nel sofista attribuito tal vanto ad Empedocle si argomenta pure da ciò che scrisse nella sua lettera ad Alessandro nell’inviargli due rettoriche, la sua e quella di Corace, ove, se non dice che costui fu inventor di quell’arte, accenna bensì d’essere stato l’autor antesignano del libro, però non parla affatto d’Empedocle (682), come neppure ne fa motto Ermogene, che solo a Corace attribuisce primieramente la nomenclatura, e l’artifizio della divisione delle parti dell’orazione (683) in che consiste principalmente la rettorica.

Ma io suppongo, che Laerzio e altri dopo lui, abbian confuso Empedocle filosofo d’Agrigento con l’altro Empedocle di Taranto, che fu scolare di Corace (684) e quindi è facile che quegli abbia scritto qualche cosa sulla rettorica, appresa dal suo maestro.

Laonde deferendo alla autorevole opinione di Cicerone, sostenuta in parte dalla testimonianza di Aristotile, e accogliendo a conferma quinto ne scrisse Ermogene, lasciamo intera la gloria a Corace di avere con l’aiuto del suo scolare Tisia inventata l’arte rettorica, e scrittine i precetti, che poi come vedremo furono ampliati da Tisia stesso.

Ad Empedocle adunque puossi dar lode più presto di avere spinto innanzi l’eloquenza; ma egli non fu il solo; perocchè adopraronsi pure al suo incremento i surriferiti Tisia e Gorgia e il suo discepolo Polo Agrigentino e Aristotile sicolo che rispose al panegirico d’Isocrate (685). Vi si adoprò anche Nicia, Lisia, Teodoro ed altri illustri oratori siciliani, che tutti devono riguardarsi come usciti della scuola di Corace. E dopo che il suo trattato di rettorica penetrò in Atene, recatovi forse da Tisia, e allor che questi e Gorgia ne diffusero l’insegnamento, levarono il grido nell’oratoria Trasimane di Calcedonia e Prodico di Ceo e Protagora di Abdera e il suo allievo Evatlo ed altri rammentati da Quintiliano (686). Ma Gorgia sopra tutti salì in altissima fama ed ebbe numerosi discenti, fra i quali Pericle, Isocrate, Prosseno, Alcidamo, Antistene, ed acquistossi tanta stima e ricchezza, che gli fu consentito l’innalzamento di una statua d’oro nel tempio di Apollo Delfico (687).

A Corace vuolsi bensì lasciar integra e indivisa la celebrità per la sua grande invenzione, la quale, imperfetta come uscir dovea della sua mente creatrice, pure gli diritto di preeminenza d’onore sugli altri, che poscia la migliorarono e all’eccellenza la spinsero; perocchè in ogni facoltà è difficile e torpido il primo passo, spediti e pronti sono gli altri, onde quell’antico assioma: facile est inventis addere.

Corace nacque in Siracusa verso l’olimpiade LXXI (196 an. av. G. C.) (688). Nella sua prima gioventù vide egli innalzar quel Gelone, che prode in armi, e maestro di astuzie, profittando delle fazioni de’ Geomeri e Callirii, che agitavano quella città, ne usurpò il potere, favorito dagli esuli da lui a disegno richiamativi, e ne divenne tiranno, ma indi meritò di esserne, e ne fu proclamato legittimo sovrano.

Essendogli succeduto Trasibulo, ed espulso costui dopo undici mesi di violenta oppressione, Corace pervenuto in età virile seguir dovette la fazione di Gerone, la quale gli assicurò la corona di Siracusa, lasciatagli dal suo fratello Gelone. Perocchè divenne a lui familiare, ed ebbe parte negli affari del governo, che per vero fu da pria più aspro ed abborrito di quello del suo predecessore. Se non che negli ultimi anni, oppresso da grave male, divenne egli più mite, e circondossi dello splendore delle lettere, che diessi a proteggere. Corace quindi partecipa al biasmo, alla gloria di Gerone, e all’onore di aver conversato con Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo ed Epicarmo, che erano alla corte di quel munificente sovrano, e lenivano la lunga ed affannosa infermità che consumava la sua vita. Ma i poeti che accostavano Gerone e Pindaro principalmente, con i sublimi encomii, non poterono cancellar le brutte e sanguinose pagine che pria lasciò di . Però il suo cortigiano Corace fattosi fautore, ed orator del popolo, colla sua mirabile invenzione, e con l’opera ingegnosa, che assoggettata avea a norme certe l’eloquenza, acquistossi eterna rinomanza.

Alla occupazione della curia e di arringare il popolo congiunse Corace l’altra dell’insegnamento della gioventù in quell’arte che procacciato gli avea tanto onore; e, poichè la ridusse a regole in iscritto, aprì scuola in Siracusa; e fu, come dissi, suo primo allievo Tisia. A quel gran precettore correr dovevano quanti in Sicilia e nella vicina magna Grecia ambivan di segnalarsi nell’eloquenza giudiziaria e della bigoncia, onde ottener influenza e cariche nelle repubbliche ed arricchirsi nell’esercizio della professione forense. Lo stesso Corace ne avea dato lo esempio; perocchè divenne opulento per mezzo della sua facondia, e l’arbitro del popolo siracusano di cui guadagnò la fiducia, non ostante che era stato il confidente e forse l’istrumento del tristo governo di Gerone. Nel foro echeggiava ogni la sua voce per sostener le controversie, recate innanzi a’ magistrati, dopo che cessarono i tumulti pel mutato regimento, e richiamativi gli esuli, domandavano essi la restituzione dei loro beni (689), e affollativi gli stranieri, ne sollecitavano la cittadinanza, contrastata loro dagli antichi nativi. Tisia allora divise col maestro i clienti, e divenne suo emolo ne’ piati, in cui vincea per acutezza di mente tutti gli altri suoi condiscepoli, e al dir di Pausania gli oratori della età sua, di che diechiaro argomento l’ingegnosa al certo e sottile orazione che profferì nella lite di una donna siracusana (690).

Il citato Pausania ci narra inoltre che Tisa fu scelto dai Leontini compagno di Gorgia nell’ambasceria da loro spedita agli Ateniesi per chieder soccorso contro Siracusa (691). Ma l’esser egli nativo di questa città, e il silenzio di Diodoro, scrittor siciliano, lo salva dalla taccia di traditor della patria, qual sarebbe stato, se accolto avesse quell’incarico da’ suoi nemici.

Tisia e Gorgia erano in Atene allo stesso tempo, il primo per farvi fortuna coll’ammaestramento nell’arte rettorica, e l’altro per sostenere l’onorevole ambasceria de’ suoi concittadini; ma poi vi si stabilì durevolmente, e cumulò anche ingenti ricchezze coll’insegnamento dell’arte oratoria.

Se gli antichi scrittori non ci riferiscono che Tisia perorasse in favor di Siracusa, che a questo officio non l’avea destinato, è da credere verisimilmente che l’abbia fatto da per debito ed amor verso la patria. Però se in Atene non conseguì i primi onori, al paragon di Gorgia, più splendido e ammaliante oratore, vi ottenne bensì i secondi, finchè sorse Isocrate. Ma quei che apprender voleano le regole dell’eloquenza, faceansi uditori ed allievi di Tisia e di Gorgia. Difatti il riferito Isocrate fu discente dell’uno e dell’altro, al dir di Plutarco e di Dionisio di Alicarnasso (692), e sembra che più si riconoscesse grato a Tisia; per la fama acquistatasi; perocchè nel suo sepolcro scorgeasi scolpita la immagine di costui, anzichè di Gorgia, essendosi egli più allo stile del primo accostato nelle sue orazioni che a quello dell’altro; e ciò argomentasi dall’esser men viziato dell’abbagliante orpello del Leontino oratore.

Platone però nel suo dialogo del Fedro taccia Tisia e Gorgia di anteporre nelle loro orazioni il verisimile al vero, d’ingrandire le piccole cose, e talvolta impicciolir le grandi, di farvi apparir nuovo ciò che è vecchio ed all’incontro, e infine di esser prolissi nella dizione. Ma Platone era educato alla scuola severa di Socrate, cui pone per interlocutore nel suo dialogo, e mostravasi avverso all’eloquenza artificiosa del foro, ed amava in preferenza quella più forte e di soda argomentazione filosofica, rallegrata bensì ed abbellita da fiori poetici, che ciascuno ammira nelle opere sue. Laonde far non poteva buon viso a Tisia, e molto meno a Gorgia, per cui altronde una certa ruggine han creduto i critici di ravvisare nell’animo suo (693).

Ecco quanto scrisse Ermogene sul proposito di Corace: «Syracusis Siciliae urbe primum coeptam exerceri rhetoricam, cum videlicet oppressae Gelonis, et Hieronis tyrannide vexarentur crudelissime, itaut etiam loqui prohiberentur lingua, et per signa manum, et pedum, nutus oculorum, conceptus animorum mutos promere cogerentur, quo tempore dicunt saltationes et tripudia coepisse. Ita vexati Syracusani supplicarunt Jovi, ut tam saeva tyrannide liberarentur, quod factum est numinis miseratione. Ab eo tempore Syracusanorum populus veritus, ne in similem tyrannidem incideret, non amplius res suas tiranno crediderunt, sed populari dominatione se regere caeperunt. Corax autem Syracusanus, unus ex populo, sapientior contemplatus populum rem incostantem, et mutabilem esse, sciensque orationem esse, qua omnia fierent, et gubernarentur, moresque hominum in primis componerentur; excogitavit oratione inducere populum ad loquendum, amissis signis, quibus antea tyranni timore utebatur; quare advocata concione, cum populus convenisset, primum coepit blando, et miti sermone plebem permulcere, et tumultum popolarem lenire, quae verba proemia, et principia vocant. Cum vero post modum multitudinem sedasset, et silentium omnes agerent, coepit consultare de necessariis et quae optabat populo persuadere; quod genus sermonis narrationis nominavit. Post haec quaecumque dixerat breviter resumens, in medium vulgi deprompsit. Primas itaque partes principia, vel proaemia vocavit, secundas exercitamenta, tertias epilogos, vel conclusiones; et ita Corax Syracusanus opus Rhetorices ostendens populo Syracusano, persuasit, quae voluit, quae finis est artis nostrae (694).

Fin qui Ermogene: altrimenti Cicerone narrò l’invenzion della rettorica, attribuendone bensì il vanto non solo a Corace Siracusano, ma insieme a Tisia, suo concittadino e scolare, come abbiam veduto nel passo citato di sopra, e come in quest’altro conferma ciò sull’autorità di Carmada: «Nam primum, quasi dedita opera, neminem scriptorem artis (rhetoricae) ne mediocriter quidem disertum fuisse dicebat (Charmadas) quam repeteret usque a Corace, nescio quo, et Tisia, eos artis illius inventores et principes fuisse constaret, eloquentissimos autem homines, qui ista nec didicissent, nec omnino scire curassent, innumerabiles quosdam nominabat (695).»

Dagli addotti brani di Ermogene e di Cicerone puossi ritrarre che Corace, creato da natura abilissimo e facondo oratore, meditando sulle proprie arringhe, rivolte al popolo siracusano, ancora estuante pel cessato oppressivo governo di Gelone e di Gerone, abbia ricavato che ogni orazione ben condotta costar debba di tre parti; cioè l’esordio e la proposizione, la narrazione e prova dell’assunto, che gli antichi chiamavano exercitamenta e l’epilogo. Or siccome son queste le basi fondamentali dell’arte rettorica, e furon da Corace speculate; così a lui ascriver se ne debbe l’invenzione. Le due orazioni poi che sappiamo aver profferito al popolo, appartenendo la prima al genere dimostrativo, e l’altra al deliberativo, ed essendosi, come attesta Cicerone, esercitato in seguito nelle controversie forensi, onde è costituito il genere giudiziario, pria che gli altri col suo ingegno perspicace conobbe e stabilì i tre generi dell’oratoria che sono le nozioni più interessanti dell’arte rettorica.

Dalle osservazioni quindi sulle sue varie orazioni ricavò i principali precetti, che giovano all’oratore, e ridusse ad arte l’eloquenza, connaturale più o meno agli uomini; ma più o meno rozza, secondo la lor peculiare attitudine a ben ragionare e parlare. Cicerone rammentando insieme Corace e Tisia, come primi scrittori delle regole dell’arte del dire, par che ad entrambi ne accomuni l’onore, intendendo forse di averle Tisia accresciute e migliorate; ma da una lettera di Aristotile ad Alessandro Magno si ricava, che Corace composto avea un trattato di rettorica e tace di Tisia, suo allievo. Questi adunque potè in seguito estenderlo, e corredarlo di esempî, ma non già essere il primo a darne in iscritto le norme.

Da nessuno si è osservato finora che Corace coll’invenzion della rettorica e coll’esercizio del foro, in che divenne famoso, ritrovar dovette insieme la dialettica che n’è inseparabil compagna, della quale però si è attribuito il vanto a Zenone D’Elea (696) discepolo di Parmenide. Or questo Zenone è vero che fiorisse quasi allo stesso tempo che Corace; ma essendo la dialettica quanto a dire l’arte di argomentare base e sostegno della rettorica, la quale rende l’altra fiorita ed aggradevole con l’uso delle figure, non puossi supporre, che il nostro Siracusano nell’inventare e scrivere i precetti rettorici, non abbia allo stesso tempo speculato e inventato quelli della dialettica. Aristotile prova gl’intimi rapporti dell’una con l’altra (697). Gli stoici appellavano la prima, l’arte di ben parlare e di persuadere, e l’altra il metodo di ragionare con la cognizione del vero, del falso e del verosimile (698). Or perchè il retore col suo ornato parlare giunga a persuadere, ha mestieri di conoscere il metodo di ragionare, affinchè s’accinga a provare il vero e distinguerlo dal falso e dal verosimile: talchè se Corace, secondo la testimonianza di Ermogene, di Cicerone e di Quintiliano, fu l’inventor della rettorica, egli, fra’ più antichi oratori presso il popolo e i tribunali, fu parimenti l’inventor della dialettica, e a Zenone altro pregio non devesi ragionevolmente concedere che quello di averla migliorata ed applicata forse alla filosofia, come l’altro rivolta aveala all’oratoria.

XXXIII.

Io non credo doversi ciecamente abbracciare la sentenza dell’egregio Autore, poichè, secondo mio avviso, tutti gli scrittori di quell’epoca furono miserabili, tutti solamente scrissero sulle tante religiose controversie, alle quali dieluogo l’innesto, che fecero i Greci, della metafisica platonica sui precetti purissimi di Gesù Cristo. Forse non sarà discaro aggiunger qui un cenno sulla cultura della Sicilia in quell’epoca.

Poichè la sede dell’impero romano da Costantino venne trasferita in Bizanzio, quind’innanzi appellata Costantinopoli, e in Sicilia venne universalmente abbracciata la cristiana religione, i Siciliani meritevoli di qualche nome son tutti vescovi o monaci. Anche in Sicilia presso i soli ministri del Santuario non si spense la face dell’umano sapere; la quale, se non brillava di luce smagliante, pur dava tal lume da impedire, che i popoli non precipitassero nel tetro abisso, in che la barbarie delle orde settentrionali, l’eresie loro e dei Greci dominatori gli avrebbono senza fallo travolto.

Infatti quando la mala peste dell’eresia cominciò a travagliar la Chiesa, non pochi vescovi siciliani sorsero animosi a propugnare il domma cattolico. Il vescovo Capitone combattè contro Ario nel Concilio Niceno, il vescovo Giustino sulla fine del secolo V intervenne al Concilio Romano e impugnò gli errori di Pietro Fullone. E Giuliano vescovo di Catania nella seconda metà del secolo VII venne dal sommo pontefice chiamato in Roma a prepararvi con altri vescovi illustri di quei tempi gli articoli da discutersi nel concilio di Costantinopoli, per conquidere l’eresia dei monoteliti.

Convocato sotto l’imperatore Marciano dal pontefice s. Leone il Sinodo Calcedonese, per cancellare l’onta dell’efesino conciliabolo e confermare la dottrina cattolica contro i nefandi errori di Eutiche e Dioscoro, presedè alla veneranda assemblea Pascasino vescovo lilibetano; al quale varrà certo un sommo elogio il dire, che fu eletto a sì nobile ed importante ufficio da un pontefice virtuoso e dotto per guisa, che dalla memore e grata posterità fu e sarà sempre senza contrasto soprannominato Magno.

voglionsi lasciar senza lode i nomi de’ romani pontefici Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano IV nati in Sicilia; i quali colle opere, cogli scritti, colla santità della vita illustrarono la Chiesa e la tutelarono dai guasti dell’eresia vituperosamente protetta daglimperatori bizantini. La Sicilia, illuminata dalla luce evangelica della Chiesa Romana, quando fu adulta e robusta nella fede, le die’, quasi a sdebitarsi di tanto ricevuto benefizio, questi quattro egregi pontefici.

Ai quali devono aggiungersi Gregorio di Agrigento monaco, che prima in Antiochia, poscia in Costantinopoli scrisse eccellenti sermoni sui dommi cattolici e contro l’eresia dei monoteliti; il monaco Teodosio, dal quale abbiamo la miseranda narrazione dei durissimi stenti, della fame, degli strazj, onde fu travagliata l’infelice Siracusa, allorchè cadde sotto il giogo musulmano; e principalmente s. Giuseppe soprannominato Innografo per la copia degl’inni greci da lui composti in lode di G. Cristo, della b. Vergine e di alcuni santi. I quali inni, da me con ispeciale attenzione studiati, mi sono sembrati bellissimi e meritevoli di una versione italiana, la quale spero, che fra non guari potrà pubblicarsi da un giovane egregio da me confortato a quel lavoro.

Dovrebbe qui farsi un cenno anche del poeta Costantino, le cui poesie in parte sono state tradotte dal greco e pubblicate dal chiariss. Agostino Gallo: ma per darne un esatto giudizio è bene aspettare, che questi pubblichi la traduzione di tutte le poesie di Costantino e le ricerche intorno alla vita di lui.

Il Di Blasi enumera ancora fra gl’illustri Siciliani di quest’ epoca un Claudio Mamertino e un Latino Drepanio oratori, un Giorgio poeta, Elpide poetessa moglie di Boezio, la quale compose alcuni inni, di cui si vale ancora la Chiesa (699), e principalmente Giulio Firmico Materno. E poichè due sono gli scrittori di questo nome, egli asserisce, non so per quali argomenti, il Siciliano non essere stato colui, che scrisse dell’Astronomia, ma l’altro, che indirizzò agli imperatori Costante e Costantino il libro sugli errori delle profane religioni. Ma scarse notizie e talora molto incerte abbiamo sulla patria, sulla vita, sulle opere di questi ed altri scrittori.

Però non posso tacere di due illustri Siciliani, l’uno e l’altro dello stesso nome, i quali, per isfuggire la tirannide saracenica, passarono in Oriente e vi terminarono i loro giorni (700).

Pietro nato in Sicilia, fu vescovo di Argo nel Peloponneso, e scrisse un elogio funebre o meglio la vita del b. Atanasio, anch’ei siciliano e vescovo di Metone, città marittima della Messenia. Di questa operetta parlano alcuni scrittori, fra i quali i Bollandisti e il p. Ottavio Gaetani, che la inserisce nel tomo secondo delle Vite dei Santi Siciliani; e la copia fu tratta da un antico manoscritto greco, poi tradotto in latino, esistente nel monastero del ss. Salvatore di Messina. Ma il Gaetani, l’eruditissimo Mongitore fanno parola di una orazione dello stesso Pietro vescovo di Argo (701), la quale leggesi nel Menologio di Basilio pubblicato e tradotto dal cardinale Annibale Albani. Un’altra versione manoscritta se ne conserva nella biblioteca del collegio massimo in Palermo. L’eruditissimo Fabrizio nel tomo quinto della Biblioteca Greca fa anche parola di un elogio dei ss. Cosimo e Damiano scritto da Pietro vescovo di Argo (702).

L’altro Pietro, anch’egli soprannominato Sicolo, fiorì verso l’anno 870 dalla venuta di G. Cristo. In quel tempo per comando di Basilio e dei suoi figli Costantino e Leone imperatori di Oriente fu inviato in Tibrica città dell’Armenia, per trattarvi il cambio dei prigionieri, e, com’egli narra nella sua storia Della vana e stolida eresia dei Manichei, dimoratovi nove mesi, conchiuse felicemente il negozio. Questa legazione fu eseguita il secondo anno dell’impero dei sudetti Basilio e Leone, un solo anno prima della celebrazione dell’ottavo Concilio Ecumenico, quarto Costantinopolitano.

La storia sopra accennata è intitolata all’arcivescovo dei Bulgari poco innanzi convertiti al cristianesimo. Il nome dell’arcivescovo non è mai espresso o perchè probabilmente allora non era stato eletto, o perchè ignoravasi da Pietro, che trovavasi in Armenia.

L’autore di questa storia propone sei capi degli empj dommi dei Manichei, e ne promette la confutazione, sebbene poi nol faccia. Il Sirmondi afferma, che esisteva nella Vaticana la confutazione di due soli capi, e che in sostanza era un nudo tessuto dei testi della Sacra Scrittura.

Descrive in questo libro l’origine della setta dei Manichei cominciata da Scitiano, Terebinto e Manete, propagata e a quando a quando mutata da Paolo Samosateno, Costantino, Simone e Sergio eresiarchi, e di tutti costoro espone la vita, i vizj, i delitti, la morte in quel modo stesso, ch’egli apprese in Tibrica nei nove mesi, che vi soggiornò, parte dai Manichei, coi quali era entrato in disputa, parte dai cattolici ritornati dall’errore alla verità. Anzi afferma aver lette alcune carte contenenti le stolte ed empie loro dottrine. «Queste ciance si leggono nelle carte dei Manichei: queste noi medesimi abbiam letto, perchè avrem negato fede agli altrui detti; avendo voluto per la salvezza vostra studiare questa setta esiziale

Quanto Pietro Sicolo narra di Manete il trascrisse quasi a parola dalla catechesi di s. Cirillo Gerosolimitano, quantunque vi frammetta delle cose nuove sapute nella sua legazione: molte notizie anche trasse dal libro di s. Epifanio De justo Dei judicio e dall’altro contra ottanta eresie.

La storia dell’eresia dei Manichei conservossi lungo tempo manoscritta nella biblioteca vaticana. Nel 1604 fu pubblicata la prima volta ad Ingolstadt con una versione latina da Matteo Radero gesuita, che raccolse le notizie da me già esposte. Indi venne ristampata nel tomo decimosesto della Biblioteca Massima degli Antichi Padri (Lione 1677, pag. 753) e, se non mi fallisce la memoria, nel tomo nono di un’altra Biblioteca de’ ss. Padri.

Finalmente crediamo nostro debito l’avvertire, che alcuni critici credono e sospettano, che l’autore di quest’opera sia lo stesso Pietro Sicolo vescovo di Argo.

Di altri scrittori appartenenti per avventura all’epoca della dominazione bizantina dovremmo forse qui far parola. Ma basti per una nota il detto finora: riserbandoci d’illustrare quel periodo troppo mal conosciuto e giudicato in opera, che richiede più lungo tempo e più diligenti ricerche ed esami.          (Nota dell’Edit. P. Sanfilippo)

XXXIV.

Nell’antologia, che si pubblicava in Firenze, ci venne letto (n. 108) in un articolo sul volgarizzamento del libro di Ruth, testo del buon secolo della lingua, segnato K. X. Y. il seguente brano. «Un de’ quali volgarizzamenti egli reca a verso la metà del secolo XIII. Con che sarebbe dimostrato, che non in Sicilia fiorisse prima che in Toscana la lingua; cosa già chiarita abbastanza dal fatto: che dopo Federigo e Manfredi quella tanto vantata preminenza svanì tutt’a un tratto. Certo non è da credere che la lingua da Dante scritta da Cino, e da Guittone nelle sue rime potesse, trapiantata, fiorir d’improvviso e durare per tanti secoli nell’invidiabile sua bellezza, intantochè la vera madre di quelle eleganze, dopo qualche anno di gloria dovea vedersi abbassata alla condizione d’un dei più strani dialetti e de’ più lontani dalla lingua scritta, che in Italia si contino. Poche citazioni non bastano a distruggere un’argomentoforte

Veramente l’argomento non è tanto forte, quanto il signor K. X. Y. lo crede. Invece di conchiudere che i soli argomenti d’induzione non bastano a distruggere l’autorità di Dante, di Petrarca e di tutti gli antichi scrittori, egli conchiude che tali autorità (ch’egli chiama poche citazioni) non bastano a distruggere un suo argomento d’induzione. Ma qual è poi questo grande argomento? Che non è da credere che la lingua italiana sia nata in Sicilia; perchè dopo Federigo e Manfredi quella tanto vantata preminenza svanì tutt’a un tratto, e la lingua siciliana si vede tosto abbassata alla condizione di uno dei più strani dialetti; è evidente che nacque in Toscana; perchè senza di ciò non potea durare per secoli nell’invidiabile bellezza, in cui fu scritta da Cino e fra Guittone. Or se il signor K. X. Y. avesse saputo che, anche prima che fosse nata la lingua, in cui scrivessero i poeti che viveano in corte di Federigo, i Siciliani parlavano lo stesso dialetto di oggidì, avrebbe conosciuto che la lingua non s’abbassò alla condizione di dialetto; ma sparì allo sparir di quei due principi, che riunivano nella loro corte tutti gli ingegni leggiadri che la scriveano; ed i Siciliani restarono a parlare quel dialetto, che prima parlavano. Quel seme poi, che dalla corte di Sicilia fu sparso per tutta Italia, attaccò maggiormente in Toscana; ma non certo pegli scritti di Cino, di fra Guittone, di Brunetto e degli altri di quell’età, che son da tenersi in pregio come le anticaglie, solo perchè mostrano lo stato delle arti nelle antiche età; ma se la lingua fosse restata nello stato, in cui la usavano costoro, non sarebbe mai stata altro che un dialetto, tanto inferiore al dialetto siciliano, che il sig. K. X. Y. chiama strano, senza conoscerlo, quanto le leggiadre poesie di Meli sono al di sopra de’ versi di Guittone, di Jacopone e di ogni altro di quel secolo, nessuno de’ quali avrebbe potuto ridurre il dialetto a lingua e renderla generale. Lo poterono solo Dante, Petrarca, Boccaccio. Pel lungo studio fatto sui classici latini poterono costoro fare a bello studio ciò che i popoli italiani aveano fatto prima sregolatamente; e diedero così al dialetto toscano la copia e nobiltà de’ vocaboli, la maestà dei periodi, la varietà de’ modi, la regolarità de’ costrutti della lingua madre; insomma da povero e basso dialetto lo elevarono a lingua nobilissima. È per ciò che l’unanime consentimento dei secoli a questi tre sommi scrittori, e non a coloro che li precessero, ha dato il titolo di padri della lingua italiana. Ciò non però di manco non avrebbero costoro forse potuto render generale la lingua fra ’l popolo toscano, se non avessero scritto la divina commedia, la poesia amorosa ed il Decamerone.

La divina commedia è una delle rarissime opere, in cui il volgo ed i sapienti trovano, ognun per , un merito grande. Mentre il dotto vi ammira l’arditezza del disegno, la sublimità dello stile, la forza dell’espressioni, la gran copia di cognizioni, la profondità de’ pensieri, la finezza delle allegorie e quel modo di dipinger la cosa tanto al vivo, che nessuno ha potuto uguagliare; l’indotto si delizia nel leggere un poema, nel quale si descrivono le pene eterne che soffrono i malfattori, quelle che ad altri sono inflitte, per espiazione de’ loro falli e l’eterne beatitudini de’ buoni. Se ne deliziava particolarmente il popolo toscano; perchè vi leggeva fatti, di cui tutti eran testimoni; vi vedea dipinte al vivo persone che tutti avean conosciute: e per le fazioni, dalle quali era allora scissa la Toscana, quale per la compiacenza di leggere la pena inflitta al nemico, quale pel dispetto di vedervi mistrattato il consorto, tutti avidamente leggevano la divina commedia, la quale in breve tanto si divulgò, che i sette primi canti, che Dante ne avea scritto prima del suo bando, si cantavano per le strade dal volgo, presente il poeta. Son noti i due fatti narrati da Franco Sacchetti. Una volta, passando Dante avanti la bottega d’un fabbro, lo intese a cantare i suoi versi, e cantando li storpiava; a ciò Dante entra furioso nella bottega, piglia le tenaglie, i martelli e tutti gli strumenti del fabbro e li gitta via sulla strada, dicendogli: Tu mandi a male i miei versi, che sono gli strumenti dell’arte mia, ed io gitto via i tuoi. Altra fiata gli venne visto un uomo, che tenendo dietro ad alcuni somieri, iva cantando di que’ versi; Dante lo seguiva in silenzio; quello, mentre cantava, gridò Arri, per affrettare i somieri; Dante li scaricò un colpo del bracciale che portava, sulla schiena, gridandogli «questo Arri io non lo scrissi

Or se a nostri chiunque fa qualche studio sulla Divina Commedia, acquista gran proprietà di lingua, è facile il concepire quanta maggiore avesse dovuto acquistarne il popolo toscano, che la sapea per lo senno a mente. Tutti i vocaboli usati da Dante passaron così nella bocca della plebe; e bastava solo ciò a fargli acquistare quella straordinaria purità di voci, per cui questo popolo si distingue; ma non fu solo ciò. Vi concorse il Petrarca, le cui poesie trattano le cose di amore con una delicatezza ignota a tutti i poeti anteriori. E si sa quanto tal maniera di poesia è atta a diffondersi in società e particolarmente allora che le poesie di Petrarca si leggevano per delizia e non per istudio, come si fece in appresso. Finalmente il Decamerone assai concorse a formare la lingua del popolo toscano; perchè il volgo è sempre cupido di novelle ed intanto n’è più cupido, in quanto sono più licenziose. E vuolsi qui riflettere che non si trattava già d’introdurre un linguaggio del tutto nuovo; chè sarebbe stato difficilissimo; ma di una lingua uniforme nella desinenza e nel suono delle parole al dialetto usato allora dal popolo, ma nobilitata ed arricchita di vocaboli e di modi tratti dal latino, e di voci, che il Dante cominciò ad usare, col cernere gli altri dialetti italiani e particolarmente la lingua che si scriveva nella corte di Sicilia, da lui tanto lodata.

Que’ tre scrittori poi mentre pel solo effetto dell’argomento de’ loro scritti davan la lingua al popolo, per le intrinseche qualità di essi divennero modello di tutti coloro che in quel fortunato paese lor tennero dietro ne’ secoli di appresso; e così la lingua venne a gittar profonde radici in tutte le classi della società. Tutto ciò non avrebbe potuto prodursi da quel Brunetto, da fra Guittone o da alcun altro di que’ primi miserrimi scrittori. uomo può mai concepire come la dolcissima e purissima favella toscana possa esser nata da genitori tanto sconci.

Che che ne sia, in quest’età, in cui molto si è scritto intorno a ciò con molta dottrina e senza molta prestezza d’animo, noi non avremmo osato di entrare in simile discussione e ridire cose che le mille volte sono state dette, se dovere di storico non ci avesse stretto; dachè la storia della lingua di ogni popolo fa parte e parte essenziale della sua storia letteraria e civile. Ed in tanto più volentieri vi siamo entrati, in quanto siamo affatto convinti che non vien meno la gloria della coltissima Toscana, se fra’ molti suoi vanti non è quello d’esser la lingua italiana nata sulle sponde dell’Arno; si accrescono le calamità dell’infelice Sicilia, se alla perdita di prerogative di più grave momento, si aggiunge quella di un vanto, che per secoli ha goduto senza contrasto.

XXXV.

Molti scrittori asseriscono che Arrigo e Corrado morirono entrambi di veleno, fatto dare al primo dal secondo, ed a questo da Manfredi. Non è nuovo che il volgo abbia attribuito a veleno la morte di personaggi distinti, accaduta in tempi di pubbliche perturbazioni; ma è proprio scandaloso che papa Innocenzio IV abbia asserito, scrivendo al re d’Inghilterra Errigo III, che il primo Corrado fece avvelenare il fratello Arrigo. Qual pro poteva mai venire a Corrado dalla morte del minor fratello? Egli adulto, avendo già un figlio, essendo possessore del trono, non avea che temere da un fanciullo, il quale era chiamato alla successione dei regni paterni, nel caso che egli morisse senza figli; ma questi figli già li avea; e, non ne avesse avuti, avrebbe dovuto aver piacere che i regni paterni, dopo la morte, venissero in potere del suo legittimo fratello. Arrigo adunque avrebbe potuto guadagnare colla morte di Corrado, ma questi coll’avvelenare il fratello avrebbe commesso un delitto inutile, quanto atroce. È bensì da considerare, che papa Innocenzio volea in quel momento inretire il re Errigo d’Inghilterra, per valersi dei suoi tesori, come poi gli venne fatto, per sostenere la guerra tutta sua; e perchè il principe Arrigo era figliuolo di una sorella di re Errigo, credè il pontefice, che assicurando quelle calunnie allo zio, questi si sarebbe di leggieri indotto a vendicar la morte del nipote.

Anche più calunniosa è l’accusa fatta a Manfredi. Costui avrebbe potuto indursi a commettere il delitto per l’ambizione di succedere nel regno al morto fratello; ma in questo caso non dovea lasciarsi scappare il baliato del regno, che in forza del testamento paterno a lui spettava nell’assenza di Corrado; egli invece tollerò in pace che Corrado contro la paterna disposizione avesse lasciato bailo il marchese di Bembourg; anzi, se è da credere all’Anonimo, offertogli il baliato dal moribondo re e dallo stesso marchese, lo ricusò, e dal quel momento si ritrasse a menar vita privata; a qual pro adunque commettere il delitto? È poi da considerare che questo suposto avvelenamento è solo asserito da un Fra Tolomeo da Lucca e dai due Malaspina, tutti e tre guelfi accaniti, e da Giovanni Villani, che copiò i Malaspina; i quali tutti si contraddicono sul narrare i fatti, le circostanze ed il modo con cui dicono di esser stato dato il veleno. Ma, senza contare Matteo Spinelli, che schiettamente narra i fatti come diariamente accadevano, e dice d’esser stata naturale la morte di Corrado, Pietro Eurbio biografo contemporaneo d’Innocenzio IV, che scrivea secondo il dettato di lui, che di tanti delitti accagiona Manfredi, non fa motto di tale fratricidio; e lo stesso papa Innocenzio, che non ebbe ritegno a calunniar Corrado, imputandogli l’avvelenamento di Arrigo, che di tanti delitti fa reo Manfredi nelle sue lettere, non fa alcun motto di questo fratricidio, e certo non avrebbe lasciato di menarne gran rumore, se la calunnia avesse alcun che di simile al vero.

XXXVI.

Gli storici guelfi e particolarmente Ricordano Malaspina e Giovanni Villani, dicono che Manfredi per disfarsi di Corradino e succedere al regno, spedì in Germania suoi ambasciatori, dai quali fece presentare a quel principe della treggea avvelenata; che la regina vedova, madre del piccolo re, venutane in sospetto, in vece del figlio, fece vedere a quegli ambasciatori un altro fanciullo, il quale mangiato di quella treggea, ne morì. Gli ambasciatori siciliani allora vennero a dare a Manfredi la notizia che il colpo era fatto. È questa una di quelle favole grossolane alle quali solo lo accecamento delle fazioni può dare origine e credito. È mai credibile che si siano spediti ambasciatori da Sicilia in Germania, solo per portare una zana di treggea? In tutta la condotta tenuta fino allora Manfredi non avea mai dato luogo ad alcun sospetto di volere usurpare il regno. Se quel fanciullo fosse morto avvelenato colla treggea, recata in dono a Corradino, la costui madre, il duca di Baviera, il duca di Austria e tant’altri sovrani a lui stretti di sangue non avrebbero pubblicato l’atroce delitto? Lo aver poi la regina vedova, il duca di Baviera fratello di lei, spedita una solenne ambascieria, per invitar Manfredi a deporre la corona, perchè falsa era stata la voce della morte di Corradino, prova ch’essi teneano il principe ingannato, non reo.

Potè accadere allora, come accade tuttodì, di spargersi la notizia della morte di un principe lontano. Una tale notizia non potea essere di leggieri smentita in quell’età, in cui difficili erano le comunicazioni tra la Sicilia e la Germania: si era introdotto in Europa il costume di tenere ogni principe presso tutti gli altri stabilmente i suoi rappresentanti. I Siciliani odiavano i Tedeschi ed i guelfi; assai esser dovea loro grave il ricadere sotto la dominazione tedesca; ed assai avean da temere di Roma vicina, minaccevole irritata. La morte di Corradino, se non era desiderata, era certo gradita in Sicilia; e facilmente si crede ciò che giova. Potea adunque ben accadere che, sparsa quella notizia, i Siciliani tutti avessero fatto istanza a Manfredi, perchè, a scanso d’alcun contrattempo, precipitasse gli indugi e si mettesse in possesso del trono. In ogni modo poi, se difettava il titolo ereditario di Manfredi, potea egli vantare il più legittimo di tutti i titoli; il voto pubblico legalmente manifestato.

XXVII.

Diblasi (Stor. civ. del R. di Sic. T. VI, libro VIII, Sez. I, Cap. XV) dice che Manfredi, venuto in Sicilia, vi avea chiamato il parlamento. Dopo la sua coronazione tenne il premeditato parlamento; e cita in nota l’Anonimo e Saba Malaspina. L’Anonimo dice: Interim autem dum in Siciliam princeps iret, venit rumor in Regnum, quod nepos ejus Rex Corradus, filius quondam Regis Corradi primi in Alemannia obiisset: quo rumore audito, Comites, et Magnates Regni, prelati etiam Ecclesiarum in Sicilia ad Principem profecti sunt: singularum quoque magnarum Civitatum Nuntii ex parte civitatum suarum ad eundem principem perrexerunt, unanimiter omnes petentes ab eo, ut ipse Princeps, qui usque tunc pro parte praedicti Regis Corradi, et sua, Regnum rexerat, et in tanta pace costituerat, ipsius regni gubernaculum et coronam tamquam Rex, et ipsius Regni verus haeres acciperet: qua petitione unanimiter sibi facta ab omnibus, idem Princeps per concordem omnium Comitum, et Magnatum, ac etiam praelatorum regni electionem in regem electus, Coronam Regni Siciliae in majori ecclesia panormitana, juxta consuetudinem et ritum praedecessorum suorum Regni Siciliae solemniter accepit, anno Dominicae Incarnationis 1258 die 11 mensis augusti, primae Indictionis.

Non è da mettere in forse che tale riunione di tutti i conti i prelati, i sindaci delle città del regno, che trattarono uno affaregrave, debba chiamarsi parlamento. Ed altronde per l’antica costituzione del regno, in ogni caso di morte del re, si riuniva il parlamento, per riconoscere e giurar fedeltà al successore ed assistere alla sua coronazione. Ma è certo uno strafalcione di Di Blasi, il dire che quel parlamento ebbe luogo dopo la coronazione di Manfredi; come è errore del Mongitore (Stor. dei Parlam. T. I) il non annoverar tra gli altri parlamenti di quella età, questo, il parlamento convocato da re Manfredi in Foggia. In quella vece tien conto di un supposto parlamento di Barletta, sull’autorità del cronista Matteo Spinelli da Giovenazzo.

Ma, ove si ponga mente alle cose dette dal cronista, si vedrà non essere stato quello veramente parlamento. Dice costui che in quella riunione di Barletta vi furono tutti i Sindaci della provincia a vedere che se avea a fare: e tutti stavano in paura, che tutti li guai non venissero sopra di loro (Giornal. di Matt. Spinello da Giovenazzo, presso Muratori S. R. I. Tom. VII, pagina 1085 e seg.); ma una lettera scritta da Napoli di Aspreno Caraccioli, nella quale dava notizie dell’ingresso solenne di re Manfredi in Napoli, della grazia ivi fatta e della sua benignità, li confortò. Se dunque il re era lontano, quella riunione non era parlamento. L’errore intorno a ciò nasce dal non considerare che nel medio evo qualunque riunione di uomini, per parlare d’alcun affare, diceva: parlamentum, colloquium; ma ove trattavasi della legale e solenne riunione dei feudatarî, de’ prelati e dei sindaci delle città, ciò si chiamava: Curia generalis, curia sollemnis, curia procerum. E ben si rileva questa differenza dalle parole di Saba Malaspina, ove parla del supposto parlamento di Barletta e del vero parlamento di Foggia: Novus Rex... generale colloquium apud Barolum celebravit... Posthaec solemnem curiam apud Fogium universis citra portam Rosati nobilibus et baronis convocatis indixit, ubi, ad honoris Regii clarificanda fastigia, tam de conservatione justitiae, quam de aliis publici boni compendiis, statutis utilibus pubblicatis etc. (Saba Malaspina, presso Caruso, Tomo II, pag. 759). Ecco il vero Parlamento. E pongasi mente alla circostanza di essere stati chiamati in Foggia tutti i baroni di qua della porta di Rosato, ch’era il confine della Calabria, e perciò il punto ove terminava il regno, e cominciava il ducato di Puglia. Re Manfredi adunque convocò in Foggia il parlamento del regno, dopo di aver fatto riunire in Barletta tutti i sindaci della provincia, per far loro riconoscere con atto solenne la sua autorità. Infatti lo stesso cronista dopo le parole citate di sopra soggiunge, che furono scelti Coletta Conciajoco e il notajo Stefano Poppalettere, per recarsi in Napoli a giurar fedeltà al re, come sindaci di Barletta.

XXXVIII.

Di Blasi (Ivi, sez. 2, cap. 1.) dice che Carlo d’Angiò, per mettere a morte Corradino si determinò di eseguire la sua risoluzione, nel consiglio di un parlamento, lusingandosi che i parlamentarj non si sarebbero discostati dai suoi sentimenti. Nel mese dunque di ottobre dello stesso anno 1268 chiamò l’adunanza di tutti i baroni, dei sindaci delle università etc. Questo storico vede sempre parlamento, ove non è. Carlo voleva far proferire la sentenza ad un’adunanza sol per salvar l’apparenza e dar colore di giustizia all’assassinio; era egli crudelissimo, ma avvedutissimo, e ben sapea che, incaricando del giudizio il corpo de’ baroni, essi non sarebbero stati docili a profferire la sentenza ch’ei volea, a tollerare che, messo da parte il voto di tutti gli altri, si eseguisse la sentenza di un solo. Lo stato generale del regno altronde non consentiva la riunione del parlamento. La Sicilia e la Calabria, che costituivano il regno, s’erano già sottratte al dominio di Carlo; grandi perturbazioni erano in Puglia; restavano tranquille solo la Terra-di-lavoro e la Capitanata; ma dei baroni di queste provincie molti erano profughi, molti prigionieri, e tutti sospetti. Per avere un’adunanza servile si chiamarono due buoni uomini da ognuna delle città di quelle due provincie. Saba Malaspina espressamente dice: Rex autem ex generosis civitatibus Terrae laboris, et Principatus Syndicos duos bonos viros ex qualibet terra pro Corradini sententia Neapolim convocavit, ut non suum, quod acturus erat de Conradino judicium videretur, sed potius hominum de contrata. È poi degno di nota ciò che tale scrittore soggiunge: Fortassis enim circa hoc conscienzia mordebatur, quod eum captum de jure non posset ultimo damnare supplicio, qui ejusdem Regis hostis fuerat manifestus. Sed volebat, quod praedictorum periret judicio, et eorum sententia sanciretur, quorum spolia occupare et temeraria arripere intentaret (ivi, pagina 798). Ma la delicatezza di coscienza, ch’egli suppone in Carlo d’Angiò, sarebbe sparita, s’egli avesse narrato tutti i particolari di quel giudizio; perciò soggiunge: Factumque est ita quod contra Corradinum, Ducem Austriae, et Comitem Gerardum de Pisis apud Neapolim mortis est sententia promulgata. Ma le circostanze atrocissime di quel giudizio furono pubblicate da Ricobaldo da Ferrara (Histor. Imper. presso Muratori S. R. I. Tom. IX), il quale assicura che tutta la narrazione di questi fatti la ebbe da Gioachino del Giudice, amico e compagno del giureconsulto da Reggio Guido di Luzzara, che sedè in giudizio ed a lui la narrò.

XXXIX.

Il testo di Malaspina in questa narrazione è manifestamente monco. Dopo di aver detto che si davano a forza a soccio i porci, i buoi, le pecore, le giumente etc. viene descrivendo con quale condizione ognuna di quelle specie d’animali si dava; e dopo di aver parlato de’ porci conchiude: Ita quod de qualibet porca in omnem eventum viginti capita in universo post annum, velit, nolit de bona et aequa, ut ajunt, ratione resignet, e poi, dopo un (;) soggiunge: secundo vero anno, et deinceps quolibet XXX salmas frumenti et totidem ordei magistro massario curiae representet, receptis pro expensis et mercede servitii et laboris duobus tantum augustalibus per singulos duos boves. È chiaro dunque che manca il principio del periodo, in cui si parla di bovi, e si fa sapere cosa dovea prestare l’agricoltore, che ricevea i bovi, il primo anno, e la quantità delle terre o il numero de’ buoi secondo i quali dovea pagare 30 salme di frumento, ed altrettanto orzo. Non è possibile che ciò fosse stato per ogni pajo di buoi; due buoi non possono in un anno maggesare più di tre salme di terra della misura legale. Ove che da tre salme di terra semplicemente maggesata, non si potevan pretendere 60 salme di cereali, è chiaro; perocchè da due salme di maggese concimato collo stabbio delle pecore, non si voleva più di dodici salme di frumento.

XL.

A lu magnificu, et egregiu e putenti Re di Aragona, e conti di Barcellona, con tuttu vostru putiri, e signuria di chi nui ni raccumannamu tutti alla grazia vostra. In primu lu conti di Lintini, esti Misseri Alaimu, e Misseri Palmeri Abati, e Misseri Gualteri di Caltagiruni, e tutti l’altri baruni di la isula di Sicilia si vi salutanu cu onni riverenzia havendu sempri mercì di li nostri pirsuni, siccomu homini vinduti, e suggiugati comu bestii; ricumandamuni a la vostra signuria, et alla signura vostra muglieri, la quali è nostra donna, a cui nui duvimu purtari lianza, mandavumi prigandu, chi vui ni digiati libirari, e traiiri, e livari di li manu di nostri, e di li vostri nimici, si comu liberau Moisè lu populu di li manu di Farauni, e tali chi nui puzzamu tiniri li vostri figlioli pri signuri, e divengiari di li perfidi lupi malnati, divoraturi di chi ogni jornu (qui manca parte del testo) scrivirimu, e quannu nu putissimu pri nostri littri scriviri, criditi a Misser Gioanni, chi esti nostru sigretu.

XLI.

Nobilibus civibus urbis egregiae messanensis, sub Pharaone principe plusquam in luto et latere ancillatis, panormitani salutem et captivitatis jugum abiicere, et bravium accipere libertatis.

Consurge, consurge, filia Sion, induere fortitudinem tuam, quae jucunditatis exuta, vestibus et vestimentis tuae gloriae denudata, in die calamitatis et miseriae in die amaritudinis, et ignominiae contabescis. Noli ultra lamenta promere, quae tui contemtum pariunt, sed tolle arma tua, arcum et pharetram, et solve vincula colli tui. Jam enim facta es in opprobrium vicinis tuis, derisum et contemptum his, qui in circuitu ejus sunt, barbaris et Christi fidelium inimicis. Jam humiliati sunt velut Joseph in compedibus pedes tui et tamquam serva es pravis Ismaelitis viliter venumdata. Jam gentes tibi improperant: ubi est Deus tuus? et cur ultra expectas, et per patientiam vilis efficeris non solum hostibus, sed et Creatori? quid durius, quidve miserius plebs israelitica sustulit temporibus Pharaonis, quam quod draco iste magnus fecit, qui seducit universum orbem, et se in hortum B. Petri et electam ecclesiae vineam intulit his diebus? Hic est enim Satan solutus a vinculis, qui post mille ducentos annos conglutiens omnia, vitam aufert praesentium et gloriam futurorum. Quid igitur tibi profuit redemptio piissimi redemptoris, piissimi Salvatoris, si tunc eruta de fauce diaboli, nunc in escam dragonis magni et Ætiopum populi, devenisti. Heu miseri! quam vano fuimus errore decepti, nos et ecclesia mater nostra. Sicut enim Lucifer discutiens tenebras in suo ortu clarus apparet, et rutilans, sic istius adventum in nostrum opinabamur prodire lumen et gloriam caelitus inspiratam, dicentes intra nos: Noli timere, filia Sion, ecce rex tuus tibi venit mansuetus, qui omnem a te tribulationem auferet, omnemque tibi molestiam extirpabit. Hic est Angelus cujus ingresum piscina desiderat cordis tui, ut sanet omnes languores tuos, qui te oleo letitiae prae particibus tuis unget. Hic est Cherubin, qui portas tibi aperiet paradisi, et Raphael, qui te tamquam unicum Thobiae filium a mortis laqueo praeservabit. O infelix opinio et spes fallax! Hic revera est Nero saevissimus, qui Dei apostolos trucidavit, et in matrix necem crudeliter exarsit. Hic est ignis aeterni judicii aequaliter omnia dissipans et velut securis posita ad radicem. Proh dolor! quem pastorem credidimus, est verissime lupus rapax, et quem agnum putavimus mansuetum leonem ferocissimum experimur. Heu! Quid nostram sic fascinavit, prudentiam et vires nostri animi enervavit, ut gentes, quae ebrietati deserviunt, jugum nobis imponerent servitutis? Certe patientia ingens fecit: Si igitur patientia est virtutum omnium condimentum? cur nobis bonorum omnium attulit detrimentum? Sunt ne ista principis et pastoris, ut quos debet regere, pascere et fovere, destruat, dissipet et evertat? Vehementi tamen admiratione miramur dominam nostram et magnam apostolicam matrem ecclesiam feritatem hujus principis et nequitiam sub silentio transmittere? quomodo tanti ardoris fumus potuit latere in vicinia, cui de ultimis terrae finibus facta singula patefiunt? Sic autem jam humiliatus est in pulvere venter noster, quod jam dicere possumus et debemus; beatae steriles, quae non pariunt, et beata ubera, quae non lactant; et in laudem prorumpere Michaelis, quod non restat aliud dicere, nisi, Deus in adjutorium meum intende. Cum igitur divina potius quam umana inspiratione compulsi libertatis antiquae beneficium resumere intendamus, serpentibus omnibus, quae ad nostra pendebant ubera, penitus amputatis et aspidum auribus oppressis, hortamur vos, fratres carissimi, ne in vanum gratiam Dei vos recipere contingat. Ecce namque tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis vestrae. Nam milvus et hirundo visitationis suae tempus, testante domino, cognoverunt. Surge itaque surge, illuminare, civitas generosa, et noctis caliginem procul pelle. Jam enim a Domino tibi dicitur: Tolle grabatum tuum et ambula, cum sana facta sis. Quae sedebas in tenebris et in umbra mortis viliter tabescebas, leva in circuitu oculos tuos, et contemplare caelum et novam gloriam libertati. Non te decipiat falsus error, et simulata bonitas persuadeat tyrannorum, quae falsis blanditiis tuis intendit intentionibus obviare, dum virus eorum vires resumere valeat, quia nunc aquis divinae gratiae est sopitum. Sed attende, et considera, quod minus tyrannica pravitas exercuit in subjectis Chisticolis quam in rebellibus saracenis. Melius est igitur nos mori viriliter in conflictu, quam gentis nostrae mala conspicere et sub servitute tyrannica viliter deperire. Heu miseri! dum in laude divina diebus sacri jejunii, passionis et resurrectionis Dominicae petebamus ecclesiam, protinus ministri scelerum venientes nos inde convitiose trahebant et ducentes ad carcerem cum clamore dicebant: Solvite, solvite, Paterini. Nulla dies quantumcumque celebris propter hoc poterat divinis obsequiis deputari, nec feriae, quae ad laudem Dei fuerant per catholicos principes introductae, locum habebant apud tyrannicam potestatem. Eramus enim tamquam oves errantes et animae sine fide. Nunc igitur clamemus in coelum et miserebitur nostri Deus omnipotens, qui sanat contritos corde et alligat contritiones eorum, ut sit nobis turris fortitudinis a facie inimici, et gentes, quae in sua feritate confidunt, potentiae ipsius dextera comprimantur. Estote itaque fortes in bello et cum antiquo serpente pugnate, et quasi modo geniti infantes rationabile sine dolo lac concupiscite libertatis, ut accipiatis justitiae gratiam in praesenti et calamitatis fugiatis miseriam in futuro. Valete, carissimi. Datum Panormi XIII die aprilis X indictione.

Gregor. Bibl. Ser. Arag. Tom. II, pag. 145.

XLII.

Sanctissimo Patri eorum, et Domino, Domino papae Martino Sancte Romanae ecclesiae Summo Pontifici, Domini nostri Jesu Christi in terra vero Vicario, Petri apostolorum principis successori, ac totius christianae religionis antistiti generali; universitas Siculorum terrae osculum ante pedes et flexis poplitibus, ac manibus cancellatis.

Dudum, Sanctissime Pater patrum, loqui formidavimus, os in coelum ponere titubantes, sed ne taciturnitatis longa praescriptio per amplius delicta nostrarum videatur exaggerare culparum, si molestias ac jacturas innumeras ab altero Pharaone et ejus satellitibus infrunitis, nobis illatas inremissibiliter, et etiam incessanter personae vestrae conscientiae, si possemus, notas facere minime curaremus, atque ideo vestrae sinceritatis pectus agnoscat, in cujus propitiationis tabula scientiae perspicacis, virgam salutiferae correctionis et manna mellifluae pietatis absque ullius ambiguitatis errore fore credimus ministerio spirituum supernorum immissorum de imperio primae causae, quod Gallicana gens effera absque consilio et sine prudentia, cujus intuitus ad praesentia tantum et nunquam ad novissima figebatur, illa gens videlicet data nobis desuper forsan ad nostrorum piaculum peccatorum, quae suis culpis exigentibus passa est exterminium personale, subscriptis nos cladibus affligebat. Nam putavimus in ipsorum dominationis primordio, praedecessorum exactorum sepultis jurgiis importunis, sub pacis copia et opulentia, requie gaudere et bonis habitis et habendis, quoniam gens sancta populus peculiaris Domini a membris Ecclesiae dicebatur, et unde credidimus provenire subsidium, inde, proh dolor, invaluit intolerabile detrimentum, quoniam distractis bonis mobilibus, ubicumque poterant reperiri et domibus dirutis debitorum, populares et nobiles, mares et feminas, juvenes, virgines, senes et etiam juniores manicis ferreis immisericorditer alligabant, esculenta et poculenta negantes taliter alligatis, donec impiis exactoribus satisfieret de pecunia postulata. Qualiter insuper a ministris impietatis caederemur diversis generibus flagellorum, cum unusquisque ipsorum pugionem semper ad latus, gladium super femur, baculum seu clavam in manibus deportaret, nos scimus, qui inermes et caesi ante faciem persequentium absque fortitudine migrabamus, sed nostris cervicibus minabamur, lassis requies non dabatur. Mirum in modum cessaverat inter nos gaudium tympanorum et qui solebamus inter alios de Europae climatibus singularibus pollere tripudiis, in ficus fatuas et salices steriles suspendebamus organa super flumina Babilonis. O confusio confusi populi, quem Deus non homo confusibiliter sic confundit! flagellis et bonorum distractionibus non contenti, ad raptum filiarum nostrarum, sororum pariter et uxorum impudentius satagebant, violenter pudicas virgines violantes, et immaculatos thoros turpiter maculantes. Videat ergo vester oculus scientiae defaecatae et judicet vestra directionis virga judicii, et super ultiones tantorum scelerum vestrae manna dulcedinis conspergatur. Quae sequuntur autem de istius capite pravitatis, quod peractis tribus lustris et medio in nos exercuit tyrannicam tempestatem, sanctis vestris auribus non sordeant, nec vilescant. Quamquam enim vos natione Gallicum agnoscamus, et alicujus scintilla doloris contra nos interdum minarum et caedis mugitum erumpat, sicut humana tentatio vos, ut alios homines, apprehendit, tamen in corde vestro sancto pectori stabilito arca foederis sic defertur, quod quantumcumque vos patriae naturalis amor alliciat, ad dextram vel ad sinistram amore vel odio penitus non declinet; maxime cum vobis pateat luculenter, quam sit durum contra stimulum calcitrare. Nam si primus Pharao desaevit in pueros Israeliticae nationis et in luto et paleis afflixit populum Hebraeorum, erant haec eis possibilia, licet dura: secundus autem ad impossibilia obligabat populum Siculorum, cum impossibilium obligatio per leges supervacua judicetur, quoniam de salma tritici et hordei data per regios massarios violenter agricolis certam expetebat in areis supradictorum victualium quantitatem, de centenario ovium determinatum agnorum numerum, et agnarum, et certum pondus casei et butiri, pro qualibet sue praeterea certum porcellorum numerum annuatim. Nec est reticendum insuper de gallinis, pro quarum qualibet certos pullos et ova, aut pro ipsis pecuniam determinatam, pro quolibet apum alveario, cum sint ferinae naturae, mellis et cerae certam exigens quantitatem. O fastus vitanda lues! O protervi cordis insania, quae non cogitabat algores hyemis, brumaeque pruinas, caloris flammas, extingui gelu atque aredine segetes posse! Numquam cogitabat, quod posset deficere faecunditas autunnalis et vernalis amaenitas ordine temporum perturbato posset cursum mutare solitum, et flores et herbas non producere consuetas. Numquid natura Siculorum subdebatur imperio, ut ad ipsorum votum terra fructus temporaneos exhiberet? Numquid ad eorum nutum oves, sues, apes, simulque gallinae poterant fecundari? Aliud praeterea pestilentiae genus invenerat, auro ebrius ut alter Cresus, ut nullus evaderet, qui non sui morbi contagioso contagio tangeretur, cujus conctatus horribilis horrendae paupertatis aegritudinem afferebat, quoniam divitibus invitis faciebat dari officia sccretiae, mediocribus vero bajulationes, dohanas, certasque cabellas modicas, a quibus non secundum cursum temporis, quo officiales fungebantur officiis, officiorum introitus expetebat, scd secundum ratam anni VII Indictionis proximo praeteritae in quo praedicti proventus abundantius valuerunt: quidquid autem deerat de quantitate praedicta, de officialium facultatibus exigebat. Quid magistri forestarum impietatis in Siculis exercerent? Si quidem per aliquem aliqua fera bestia caperetur, quae jure gentium et naturali ratione statim, quod capiatur, conceditur occupanti, sicut gloriosorum principum asserunt sanctiones, gravissima ab ipsis passi rerum personarumque dispendia vix sufficiunt enarrare. Nec est sub silentio contegenda nefanda malignitas pincernarum, qui sub praetextu unius vegetis de Falerno, quae spatio magni temporis suorum dominorum poterat usque ad nauseam insatiabiles satiare voragines, omnes cives et cauponarios affligebant, universarum cauponarum videlicet vegetes sigillantes, sub certa insuper poena inhibentes eisdem, ne praedictas vegetes tangere quolibet modo attentarent, quas pro praefatis dominis volebant penitus conservari: cujus nequitiae molem sustinere tabernarii non valentes vegetes proprias pecunia redimebant. Illud idem ministri sceleris de supellectilibus pauperum faciebant, a quibus post habilitatem suorum corporum iniquorum, turbato juris ordine, ut ipsa patroni supellectilia redderent, danarios expetebant. His taliter prosequutis epistolaris sermo videtur extensus; sed conceptum sermonem tenere quis potuit? Non commisit talia Pharao rex Egipti, et tamen post primogenitorum omnium necem in mari rubro currus ejus et equites in mari et in aquis vehementibus sunt submersi. Absit quod de Nabucodonosor talia recitet Historia Danielis; sed per solam mentis elatam levitatem a consortio hominum est ejectus, inducens ferinam effigiem, et septem super ipsum tempora sunt mutata, ut in ipsorum curriculo temporum se cognosceret celsiorem. Et quid Baltassar ei in regno successor commiserit, nisi quod cum vasis sacratis sibi jusserit et suis propinari, nam legitur, et statim manus in pariete scribentis apparuit, quae appensum et minus habentem, atque ideo ab ipso descripsit regnum esse divisum. Numquid, Domine, manum Domini esse abbreviatam dicemus? immo extensa profusior ad iniquorum scelera mordacius ulciscenda. Igitur cum nihil in terra legitur fieri sine causa, sicut bene novit vester conspicuus intellectus, scripturarum diligentior indagator, privare nos vestra misericordia non debetis. Scitis enim, quod illico post stragem sceleris ministrorum, celitus destinatam, B. Petri vexillum levavimus, Sanctam Romanam ecclesiam invocavimus pro tutrice. Sed quia nos indignos B. Petri protectione et vestra reputastis, ille, qui adstat desuper infallibilis speculator, cui cura est aequalis de omnibus tam majoribus, quam pusillis, sicut lectio divina testatur, alterum Petrum loco Petri affectuosius invocatum ex insperato in praesidium nostrorum voluit cum paucis comitibus destinare, quod non vacat a mysterio, si historiam Gedeonis placebit diligentius perscrutari. Anticipet ergo nos, Domine benigne, vestra clementia, qua tenemini sequi vestigia opulentissimi largitoris, nec amplius contra nos vestrae zelus irae desaeviat, quoniam nunquam Deus vasis irae per nos reddidisset interitum, nisi detestabile reperirentur commisisse delictum.

Gregor. ivi, pag 153.

XLIII.

Carolus Dei gratia Jerusalem, et Siciliae Rex, Ducatus Apuliae, et Principatus Capuae, Andegaviae, Provinciae, Folcarcherii Comes, Petro Filio quondam illustris viri regis Aragonum.

Si de sanae menti consideratione, librata lance justitiae, tuum apprehendisses consilium, et si non ad fatuam animadversionem mentis denuo derilasses, profecto tuas rapidas manus more violentis praedonis ad regnum nostrum Siciliae, quod cum multis bellorum angustiis, et sanguinis effusione, et nostro proprio sanguine ab occupantium detentione retraximus, matre jubente et suadente Ecclesia, nulla honoris, et lucri affectione protractus, aliquatenus convertisses; sed veracissime intuemur, quod tuum est infatuatum consilium, dum tui rapacem dextram fuisti conatus extendere, ut capta praeda, raptisque spoliis exultares. Non considerasti, tu improbe, nostrae matris Ecclesiae insuperabilem excellentiam, quae cunctis habet nationibus imperare, et cui totus orbis terrarum, et omnes obediunt creaturae, haec est, in qua dominus Deus fixit totius Chistianae fidei fundamentum. Haec est, quam pontus, aethera colunt, praedicant et adorant, et tenentur ei omnes,qui sub sole sunt, reddere tributaria debita, et praestare obsequia capitibus inclinatis. Non considerasti celsitudinis nostrae potentiam, quae altitudinem collium reducit ad plana, montium cacumina declina ad infima, superborum elata cornua destruit et confundit, prava in directa convertit, et aspera in vias planas deducit. Et ne longaeva petantur exempla, considera, demens, considera ad quid quondam Manfridi principis Tarentinorum, filii olim Friderici Romanorum Imp., soceri tui, devenerit ingeniosa potentia, dum in campo Beneventano contra nos praelium attentasset. Ubi est ejus insuperabilis dignitas? ubi divitiarum opulenta faecunditas? ubi solationum et locorum amaena jocunditas? Haec omnia cum suo regno et principatu, et suo toto dominio unus dies maestus sustulit, et subjecit, dum ausus fuit in campo belligero contra nostram potentiam apparere. Animadverte, insane, ad quid quondam Conradini tui affinis devenerit elata superbia? quomodo suus numerosus exercitus nostro marte prostratus est, et quomodo praedio translatus in praedam, patibulum recto judicio invenisset, ac crudelissimi spiculatoris glaudio passus fuisset supplicium dirae mortis. Haec omnia te debuissent terrere, insipiens; dicis enim in corde tuo: non est Deus; corruptus et abominabilis factus es gentibus, dum in talibus matrem offendis Ecclesiam, hostem te praeparas ceteris christianis, sputum misisti in caelum, ipsum in faciem tuam cadet. Omnis enim, qui se ultra sui statum extendit, superbo spiritu ad alta ascendit, ruinae detrimentum attingit; stultum namque, et fatuum esse dignoscitur aliquem contra majorem, cui par esse non potest, contendere, et debilem inermem insurgere contra fortem; nam ei sua tenuitas tristes pariter eventus parat, et talium vita semper prosperis successibus caruit. Quare tibi tenore praesentium praecipiendo mandamus, quatenus contestim, lectis nostrarum literarum apicibus, a regno nostro Siciliae cum tua gente propera discedas, et numquam reversus ab eo te totaliter debeas absentare; alioquin nostra victoriosa lilia tam per mare quam per terras sic hostiliter, sic potenter contra te et tuos complices dirigemus, quod Deo dante, cujus res agitur, de te tuaque gente et de proditoribus regni nostri Siciliae ac aliis tales exterminium faciemus, sic quod vae illis erit, qui ad vasa non poterunt habere recursum, qui se non poterint a potentia nostri magnifici exercitus absentare. Datum, etc.

Gregor. ivi, pag. 149.

XLIV.

Petrus Dei gratia Aragonum, et Siciliae Rex, Carolo Andegaviae, Provinciae, et Folcalcherii Comiti etc.

De magna tui cordis arrogantia superba manavit epistola, quae in singulis suis partibus terribilibus coruscationibus visa ei ignes evomere, fulguris sagittas emittere, et atroces minas cervicibus eructare. Cujus epistolae intellecto et considerato tenore, de nullius statera justitiae ejus manabant loquelae, sed omni humilitate vacuae procellosas ampullas, et minarum grandines expergebant; sed considerare debueras, quod nec leporinam imitemur naturam, nec pertimeamus minas verborum tuorum, frondibus arboris leviores, nec meticulosarum ranarum mores persequimur, quae quovis sono pusillo fugiunt se securas stagnorum suorum latebris receptantes. Cito enim vero experimento recognoscere poteris, si nostros pedes convertemus in fugam, et si latebrosa receptacula requiremus. O quantae occisionis strage primo terra madescet! o quanti sanguinis aspersione mare tingetur! Nam ipsius procellae liquido tinctae cruoris liquore perempta corpora peregrina ad litora trasportabunt. Sed nunc si more bellorum Aragonenses in aliquo offendentur, cum sine strage utriusque partis bella non possint procedere, speramus tamen in Deo, in quo totum nostrum cogitatum et ancoram spei nostrae jactavimus, quod sic docebit manus nostras ad praelium, et digitos nostros fortificabit ad bellum, quod ingemiscet ac dolebit Gallica natio de diro exterminio suae gentis. Tristis erit Provincia, et sicut Rachel lugebit de occisione filiorum suorum, dum non videbit eos sua sabbata venerari. Insons Apulus et Calaber ingemiscent et Latinis, atque Grecis sonis in organum miserae lamentationis erumpent. Tune dicetur a singulis: Beatae steriles, quae non conceperunt et beatae mammae, quae nullum filium lactaverunt. Inflatus etiam tenor epistolae tuae praefatae Regis Manfredi soceri nostri nobilem potentiam fuisse tuo marte praeclusam, nec non et Regis Conradi Secundi nostris affinis floridam adolescentiam gladio tuo protervo, et iniquo judicio fuisse destructam, non sine tui elactione spiritus te jactabat. Sed non consideras, impie, quod unde credis acquirere gloriam, inde infamiae tibi nota assurgit et periculum reservatur. Sanguis enim ipsorum vociferatur super terram; justae lacrymae miserendae matris Regis Conradi ascendentes ad aethera jam coeli pulsavere tribunal et effusae ante conspectum Summi Judicis, et Regis Aeterni meruerunt exauditionem attingere. Ipse enim sanguinem justum vindicat, et ulciscitur interemptos filios innocentum: si vero tu regem juvenem adolescentem et agnum sine macula, regni sui jura recuperare volentem, raptum a te, et ad occisionem deductum, tua falsa et feroci sententia condemnatum turpitcr occidisti; credis tam facinorosum scelus sine poena transire, et peccatum transcendere sic enorme? O nephas! quantum tuus furor a rationis tramite deviavit, dum regem captum ad necis excidium tradidisti! O scelus nefandum! Quis unquam princeps captum principem trucidavit? Nonne ille magnanimus Alexander Porum Lindorum Regem captum in bello non occidit, sed potius conservavit?

Et ne longe exempla petamus, nonne tu et magnificus rex Franciae frater tuus capti a Saracenorum Soldano, misericordiam implorantes, fuistis ab eo misericordiam consecuti? Tu vero Nerone Neronior et crudelior Sarracenis, innocentem Agnum in tuo reclusum carcere mortis judicio subjecisti; propter quae destruat te Deus, quod tam nefanda praesumpsisti subvertendo Regum, Ducumque clementiam in severitatem et parcendi genus in severae ultionis mortem impie pervertendo.

Viri enim sanguinum et dolosi suos dies dimidiare non poterunt, ac regna diu non stabunt, quae benigna clementia non conservat. Considera, proterve, considera quantam affictionem miseris regnicolis intulisti. Nam non contentus eras indebitarum collectarum ipsos gravare oneribus, sed subtiles vias et occasiones tinctas colore mendacii invenire conatus es, per quas ipsos pro rebus reos faceres et ab eis tamquam a barbaris aurum subtiliter extorqueres, et quos purae fidei tenebat integritas, mendaciorum maculabas infamia, ut ipsos a divitiis spoliares; demum indifferenter omnes proditorum nomine maculabas; ut eorum substantiam tu insatiabilis usurarius usurpares, et post hoc eis insontibus dirae necis supplicium inferres. Unum tamen nefandum, et cunctis nationibus odiosum ab horrida Gallicorum gente non absque Dei judicio fuit commissum, quod prava gens tua Galica lectum miserorumn regnicolarum non sine magna, et eorum gravi injura violabat, et dum provindicandis eorum injuriis et puniendis hujusmodis sceleris patratoribus, ad te nitebantur recurrere, aditus negabatur eisdem. Tu vero tamquam surdus et non audiens, non intendere voces calamitosorum clamantium simulabas, et sic audacia sceleris crescebat et pullulabat undique licentia tam nefandi sceleris patratorum. Haec et alia innumerabilia scelera de summo cardine Deus ultionum respiciens, tuum ut veraciter credimus, dissipabit dominium, tuam superbam potentiam deponet de sede et nostram humilitatem dignabitur exaltare. Nam semper Deus in justas iras ultore percutit gladio, nec virgam peccatorum super sortem justorum diu stare permittit, ne justi extendant ad impia manus suas.

Quid ergo, impie, tamquam tubae vocem tuam exaltas? non desines, semper in tua superbia malignari? Jam regis nomen non habes, dum regnum amiseris. Hoc enim accidit ex nuto divinae spirationis, Siculorum corda tangentis, nec adhuc cognoscis, improbe, casum tuum? Jam tua cadit superbia, nam superbis Deus resistit, et frangens elatorum cornua, respicit mansuetudinem humilium servientium secundum meritum, superbia cunctis gradibus odiosa amicos non habet, et undecumque sibi congerit inimicos. Iustam namque causam fovemus. Nam hereditaria jura Regni Siciliae, Ducatus Apuliae, et Principatus Calabriae serenissimae Dominae uxoris nostrae, filiae quondam regis Manfridi, et amitae regis Conradi prosequimur, ad cujus prosecutionem negotii jam Deus vias prosperas praeparavit, suam nobis licet indignis auxiliantem dexteram porrigens, ut te altissimum, et tuis subditis, ac cunctis gentibus odiosum evellamus radicitus, et confundamus; et non labores contra nos cum spernendo tuo exercitu properare. Nos enim sic contra te, sic magnifice, sic potenter, Deo nobis favente, cum nostro victoriosissimo exercitu, tam per mare, quam per terras, cum nostris insignis vincentibus veniemus, quod te, tuam gentem, et prolem de facie terrae delebimus, et leonem, qui pullos aquilae interficiens deplumavit, nostro victoriosissimo dracone sic interficiemus morsibus toxicatis; et sic in nihilum reducemus, quod non invenietur de te memoria super terram. Tunc scies et senties, quid Aragonum dextra valet, quid tibi regum interitus profuerit, et effusio sanguinis innocentum. Datum etc.

Gregor. ivi, pag. 151.

XLV.

Bonifacius episcopus servus servorum Dei nobili viro Friderico, nato quondam Petri olim regis Aragonum, spiritum consilii sanioris.

Audi, fili, diligenter verba patris, et intellige tuae salutis augumentum grandi desiderio cupientis. Sane non ignorare te volumus, quod ab olim ante nostrae promotionis auspicia, domum tuam, et progenitorum tuorum generosis utique in orbe terrarum titulis coruscantem sinceris affectibus in nostra specialitate dileximus, plenisque favoribus fuimus prosecuti, ad exaltationis suae cumulum ubere vigilantibus studiis intendentes. Habuimus etiam sincerae caritatis affectum ad personam inclyti quondam Petri olim regis Aragonum patris tui, suique honoris, et commodi libenter soliciteque promovimus incrementum. Quamobrem pectoris intima punctionis acerbae sauciavit aculeus, cum nostris insonuit auribus, quod idem Petrus proprii honoris oblitus, suaeque famae decorem obnubilans, adversus romanam ecclesiam matrem suam inreverenter insurgens, virium suarum potentiam contra illam, ejusque fideles et subditos exercebat, gratis ipsam quam sibi favorabilem semper et gratiosam invenerat, prosequendo. Quandoque Alfonsum germanum tuum, cum vitae commodis frueretur, earum in pectore gessimus, suique fuimus zelatores honoris, cujus obitus praematurus nostris praecordiis non levis materiam turbationis ingessit: nam cum pridem pro hujusmodi, et aliis commissis nobis ab Apostolica sede negotiis essemus in ultramarinis partibus constituti, eum invenimus promptum et paratum ad omnia, quae devotionem sinceram et reverentiam filialem erga praefatam ecclesiam respicere dignoscuntur; nec ambigimus, quin ad ipsius ecclesiae beneplacita et mandata sub devotionis et humilitatis spiritu rediisset revera. Fili, nobis non existit incognitum, quod nonnulli ex progenitoribus supradictis probatae rectitudinis intendentes mentibus erectis ad Dominum; circa praefatam ecclesiam, ejusque pastores, qui fuerunt pro tempore, laudibilis devotionis et obedientiae titulis claruerunt; sed et ipsa velut mater benevola et sincera, et in gratiarum exhibitione munifica, favoribus illos constituit eximiis, amplis praevenit honoribus, et gloriosis impendiis extitit prosecuta, cum circa devotionis, et reverentiae filios suae irriguum influat largitatis. Cum itaque patris more benevoli de filiorum statu sollicite cogitantes, tuam, et fratrum tuorum salutem, honorem, et commodum cupiamus ac propterea te ac ipsos curiosis et sollicitis studiis revocare procuremus ab invio, per quod tu et ipsi periculose nimis inceditis, ut ad salubrem rectamque semitam libentissime reducamus, nobilitatem tuam hortamur attentius, tibique paternis affectibus suademus, quatenus sedula meditatione discutiens, quod durum est contra stimulum calcitrare, quodque pugnare non est facile contra Deum: considerans etiam, et prudenter attendens brevem stultitiam minoris esse dispendii, quam diffusam: quodque romana ecclesia mater et magistra fidelius, cujus supra fidei firmam petram summus ille pontifex verum constituit fundamentum, quanto amplius duriusque impetitur, tanto fortius invalescit, caelesti munimine stabilita, devotus et deferens redire non differas ad ipsius ecclesiae prompte semper ad veniam beneplacita et mandata, fratres tuos ad id vigilantibus studiis inducendo: nam tu et ipsi eam vobis invenietis procul dubio favorabilem et benignam. Porro dilectos filios nobilem virum Manfridum dictum Lanceam, et judicem Rogerium de Geremia nuncios tuos benigne et affectuose recepimus intuitu destinantis, et tam quae nobis ex parte tua proponere voluerunt, quam que continebantur in literis per eosdem nobis transmissis attente audivimus, et intelleximus diligenter, pro ut ipsi, quos de multae discretionis industria et sollicitudinis ac vigilationis studio commendamus, tibi referre poterunt oraculo vivae vocis. Quia vero super negotio, de quo agitur, quodque potissime insidet cordi nostro, tecum personaliter habere colloquium affectamus, sperantes in eo, a quo bona cuncta procedunt, quod exinde optati fructus et uberes producentur, ecce dilectum filium magistrum Bernardum de Camerino, cappellanum nostrum, latorem praesentium, virum utique providum et discretum, ac nobis et fratribus nostris meritis suae probitatis acceptum, propter hoc ad te specialiter destinamus, qui te super hoc de nostrae intentionis proposito plenius informabit. Nostrae autem voluntatis existit, quod in tuo, quem accelerari desideramus, adventu, Johannem de Procida, Rogerium de Lauria, et nuncios supradictos, ac nonnullos etiam probos viros de Siciliae partibus oriundos ac plenum et sufficiens mandatum habentes ad omnia et singula, quae negotium ipsum contingere dignoscuntur, tecum habere non omittas; ut illis praesentibus in praedicto negotio utilius et efficacius, favente Domino, procedatur. Ceterum literas de securo conductu tibi per cappellanum dirigimus memoratum. Datum Laterani tertio calendas martii pontificatus nostri anno I. Quae data fuit 27 februarii XI. Indict. anno Domini MCCXCV.

In Gregor. Bibl. scrip. Arag. Tom. II, pag. 163.

XLVI.

Illustri domino infanti Friderico etc. eorum Domino: bajulus et judices, et universi homines civitatis Panormi devoti sui seipsos ad pedes cum recommendatione, spiritum assumere, si placuerit, consilii melioris, quam quem apostolicae sedis apices assumendum eidem noviter descripserant.

Celsitudinis vestrae literas universitas nostra cum debita reverentia et honore suscepit, per quas claruit universis, quod vestrae intentionis et propositi sit in urbem ad apostolicae sedis praesentiam se conferre pro his, quae ad honorem spectant illustrissimi regis nostri, et vestrae magnificentiae procurandis, nec minus pro bono statu nostrae universitatis, ac omnium Siculorum. Interclusam quidem in eisdem literis recepimus formam literarum, quas vobis summus pontifex per suae sedis legatum ad vos noviter destinatum transmisit, per quas celsitudini vestrae persuasum invenimus ab apostolica sede praedicta, ut vos, quem ab invio, ut dicit, intendit ad viam reducere devotionis et rectitudinis, cum ad hoc eumdem summum pontificem moveat caritas, quam erga personam inclytam quondam divae memoriae regis Petri genitoris vestri, et erga quondam regem Alfonsum germanum vestrum gessisse se asserit, antequam ad summi sacerdotii gradum fuisset promotus, ad ejus praesentiam una cum quibusdam nobilibus in eisdem literis nominatis, et aliis de Siciliae partibus oriundis, pro habendo secum colloquio personaliter conferatis. Hiis vero receptis, ac intellectis eisdem litteris, et pensatis iis, quae praefatae sedis apostolicae literae continebant, quam sit sedula, quamque vigil existat ipsius romani cura pontificis, ut valeat intercipere machinationibus, contra quos armorum usus attribuit, et per quos potentia obpugnata prolapsa est, universi nostrum et singuli, dubitantes, ne dolus praevaleret, et ne forte, romanorum sagacitas excellentiam vestram, quod absit, hostibus, quam gerunt affectionem, et de vobis ac devotis vestris ultionem eis exhibendam contraderent: turbati pariter et diutius contristati de hujusmodi celsitudinis vestrae proposito posteriori consilio, per universitatis vestrae syndicos, et ambassatores, quos ad hoc tamquam fide dignos, et sufficientes elegimus, et quibus merito tantae causae pondus injungi potuit, videlicet Nicolaum de Mayda, judicem Petrum de Philippo, et judicem Philippum de Carastono concives nostros dilectos, quae inferius vobis scribemus, ac vestrae magnitudinis memoriae reducenda providimus, et supplicandum postremo duximus, ut his examinatis, et perquisito, cur talia sedes apostolica petat, et si ea compleri per magnificentiam vestram expediat, nec aliud, quam laqueum, et venenum diu machinata gignere valeat. Annuat celsitudo vestra, quod devotio devotorum cupit, et totis inhiationibus expetit, occurres, contra insidias in rectorem suum non modicis vigiliis hostium ordinatas. Quanta quidem affectione hic summus pontifex, aliique ministri romanae ecclesiae, ubi regni sui Siciliae dominum sumendum de jure gentium duxit, et ejus gubernacula Divino procul dubio nutu recepit, eundem genitorem vestrum tractaverunt, celsitudinem vestram non latet. Nam legatos ejusdem romanae ecclesiae cum quondam Philippo rege Francorum in gentes, et populos Catalaniae suam saevitiem exercuisse plusquam inlicite et contra semitam fundatoris ejusdem ecclesiae, ac doctrinam plurimorum novistis relatibus; nec dubie quiquam contra eumdem genitorem vestrum, et ipsius honorem, praefatae romanae ecclesiae ministrantes excogitare, agere, et perficere potuerunt, nulla ad eos simulatione praetermissa, cognoscitis. Quantis etiam exercitibus, quantisque hostibus contra inclytum dominum regem nostrum, et nos ac devotos vestros per eos admotis nisi sunt invadere regnum Siciliae, ipsiusque gentes dare supplicio ultimo, et in ore gladii sternere, omnes universae terrae habitatores agnoscunt. Quanta etiam sit fides eorumdem ecclesiae ministrorum, et quanta tenacitate pactiones et securitates observent, quantum impie in eos, quos contra se deliquisse dicunt, se gesserunt temporibus, quae prioritas generavit, ab experto didicerunt omnes Montis-Feretani, et Communitas Urbinatum. et hi, qui ex conflictu quondam dive memoriae domini regis Manfredi, et domini quondam Conradi procubuerunt in stragem, quorum mortis excidium eis imputando fore legitimum censemus, cum eos jam captos scientes, eos esse tradendos supplicio per quondam Carolum provinciae Comitem, eos dissimulatione peremerunt, ipsorum morti potentes occurrere; nam, ut dicit decretum, Error, cui non resistitur, approbatur. Quod etiam excogitarunt saepedictae pastores ecclesiae adversus illustrissimum quondam Fridericum II Romanorum imperatorem, divae recordationis proavum vestrum, dum in subsidium Terrae Sanctae transiens ad ultramarinas partes contra Sanctissimae Crucis hostes ipsius ecclesiae mandato feliciter militaret, et vos ab antiquioribus scire potestis, et ad nos prior aetas transmisit, quippe tradendus erat ipse Caesar Ministris ecclesiae, qui regni Siciliae ac imperii diademata aliis fallaciter procurabant. Scitis equidem quantis affectibus quondam inclytus dominus rex Petrus genitor vester negotium nostrum, et omnium Siculorum assumserit: et qualiter in eodem proposito perseverans suam personam, regnum patrimoniale, ac suos, et sua cuilibet periculo, et eventui deputaverit; eodem vero inclyto rege domino patre vestro in fata concidente, obvenit in filios memoria gestorum ab invictissimo genitore, ut aequo animo causam nostram reciperent, et a nostro auxilio nullatenus deviarent. Rex namque inclytus dominus Jacobus frater vester simul atque recepit diadema regni Siciliae, suas vires suorumque exercuit diutius contra hostes, et eo postmodum vocato ad Aragonum regni patrimoniale diadema sumendum, commisso per eum celsitudini vestrae regimine regni Siciliae, nos totis nisibus ab insidiationibus hostium protexistis. Nunc vero, citra conscientiam dicti domini fratris vestri, ut ex tenore praedictarum summi pontificis literarum plene collegimus, in urbem ad eumdem summum pontificem ire disponitis: de quo nimium universi et singuli universitatis nostrae mirantur, si forte confiditis in promissionibus et assecuratione praedicti summi pontificis, quibus praedecessores principes Carolus aliique hostes regii olim captivi auctores perjuriorum et perfidiae speraverunt, et reipsa senserunt aut experti sunt. Si terrent verba ipsius summi pontificis scribentis, durum foret admodum contra stimulum calcitrare, et non facile contra Deum pugnare. Nam nec genitor vester, aut dominus frater vester, nec vos, aut nos contra hostes pugnantes, si contra Deum hae pugnae fuissent, victoriam reportassemus aut gloriam; sed pauci, Deo comiti, multos in manus nostras inclusimus. Justam enim, immo justitiae causam fovemus; et certamen licitum. Saepe quidem vestram, et nos nostram referentes ad Deum, hostes vero venerunt ad nos in multitudine contumaci, et superba, ut disperderent nos, et uxores nostras, et filios nostros, et nos etiam spoliarent. Nos vero pugnavimus pro animabus nostris, et ipse Dominus Dominorum contrivit eos ante faciem nostram miraculose. Quippe dominium ministrorum romanae ecclesiae ac nostrum adversus hostes egisse omnibus patuit inhabitantibus terram, ut unus fugaret mille, et duo fugarent decem millia. Non itaque contra Deum pugnatis, sed ob justam, et licitam defentionem honoris Domini regis, et vestri, et protectionem gentium vobis cum omni spe et fiducia commissarum. Quare universi nos et singuli Celsitudini vestrae procumbentes ad pedes, suppliciter exoramus, quatenus recordantes, quod commissa sit vobis nostra gubernatio et protectio, quas libenter nos sumsisse fatemur, et magnitudo vestra nobis, in quibus poscemus, recommendata extiterit per Dominum Regem nostrum, in his regimento, ac gubernationibus maneatis, quae vobis committenda de nobis, et e converso providit salubriter regia Celsitudo: pensantes, quod discessus vester aliorumque nobilium de regno Siciliae non posset aliud, quam mala plurima generare; et etiam quae Celsitudini vestrae super praemissis ambassatores praedicti pro parte nostra retulerint viva voce, credere dignemini, et efficaciter exaudire, si placet. Nos autem pro vestrae Celsitudinis honore offerimus vobis nos, et nostra omnia ad vestrae beneplacita et mandata.

Gregor. Bibl. Scr. Arag. Tom. II, pag. 165.

XLVII.

Fredericus infans, illustris regis Aragonum et Siciliae clarae memoriae filius, bajulo, judicibus et universis hominibus Paternionis devotis suis salutem et gratiam.

Feliciter dudum per partes vallis Mazariae discurrentes indefessis studiis circa reformationem status prosperi Siciliae, et opportuna remedia exhibendo rumoribus aliquibus intellectis, quibus fides aderat veritatis, perpensa deliberatione providimus pro pacifico statu et tranquillo et salubri apud civitatem Panormi inter syndicos omnium terrarum, et locorum Siciliae, citra flumen salsum generale alloquium celebrare: quibus ibidem coadunatis quampluribus Comitibus, Baronibus et aliis nobilibus, juxta promissionem, quam Siculis dudum in colloquio per nos apud Melacium celebrato nostra fecerat Celsitudo, quod universos rumores et singulos undecumque ad nostram pervenientes conscientiam, et specialiter super tractatu pacis habito inter dictum dominum fratrem nostrum, ecclesiam romanam, et principem Carolum hostem nostrum eis patefacere deberemus, gerentes de condictione et tractatu pacis ipsius notitiam et certitudinem plenariam, non absque vehementi turbatione mentis et dolore cordis magnitudinem nostram oportuit inter alia, in eodem colloquio ibidem undecimo praesentis mensis celebrato, publice nunciare, et deducere ad notitiam singulorum, illustrem regem Jacobum dominum fratrem nostrum praedictum; cujus personam, honorem et exaltationem nostram propriam reputamus, in tractatu compositionis et pacis praedictae tractatae et firmatae inter eum, ecclesiam romanam, et praedictum principem Carolum hostem nostrum, Insulam Siciliae et alias terras regni Siciliae ultra farum suo subjectas dominio dimisisse romanae ecclesiae, et dicto principi Carolo, cedendo et renunciando juri, et dominio, quod habet et habere posset aliquo modo, ratione, vel causa in dicto Siciliae regno: cujus qualitatem negotii iidem, ut praedicitur, memorati comites, barones, milites, et syndici praedicti, quos tanti casus concussit acerbitas, considerantes se tanti regis et domini dominio et auxilio irrationabiliter destitutos, et attendentes, quod in manu dicti principis, qui quantum eorum sitiat mortem et sanguinem per diversa mundi climata publica fama laborat, de facili poterant, quod absit, incidere, nos in eorum Dominum unanimiter, et humiliter implorarunt. Nos igitur in virtute altissimi confidentes, qui fuit auctor et principium status et negotii Siculorum, ad precum nobilium, et syndicorum instantiam, petitionibus suis benigne praestitimus voluntatis assensum, immensae devotionis ac fidei constantia, quam inviolabiliter, apud eos huc usque invenimus, nobis rationabiliter et misericorditer suggerente, ut ad defensionem et conservationem ipsorum personam nostram et singula, quae habemus intrepide et liberaliter exponamus, et speramus in eo, qui huic principio salubriora media clementia sua concessit, in manu nostra continuabit in melius finem negotii, et tempora erunt Siculis omnibus sub nostro dominio et protectione tranquilla. Considerato etenim, quod ex quo praedicto Domino fratri nostro placuit juri et dominio dicti regni cedere, et de predictorum nobilium, et syndicorum unanimi voluntate processit, nos in eorum Dominum eligere et habere, unde dicti Domini fratris nostri locum et vicem amodo nos tenemus, et provisum extitit de consilio sapientum quo praescripto titulo nostrae literae dirigantur, et quod bannitores et praecones in singulis terris et locis nostri dominii quotiens banna publicare contigerit, dicant, et banniant: Audite bannum et mandatum illustris domini nostri Friderici; et publicis instrumentis deinceps conficiendis in eadem terra Paternionis, videlicet in principio instrumentorum Notarius publicus verbis istis utatur videlicet; Dominante inclyto domino nostro domino Friderico, illustris regis Aragonum, et Siciliae clarae memoriae filio, dominii ejus anno primo feliciter amen. Quae omnia in praedicta terra Paternionis observetis et faciatis inviolabiliter observari. Nuperrime autem certo certius nostra didicit Celsitudo, quod die sabbati XXIX die mensis octobris proxime praeteriti praesentis IX indictionis, praedictus dominus rex apud villam Bertram de partibus Cataloniae Siculorum nunciis finale responsum hujusmodi dedit, quod insulam Siciliae in tractatu dictae pacis romanae ecclesiae, et dicto principi Carolo dimisit et cessit renuncians juri, quod in ea habebat, ut superius est expressum. Qui Siculorum nuncii immensa doloris acerbitate propterea contristati, coram multitudine copiosa baronum, militum et aliorum nobilium partium earundem, fuerunt legitime et solemniter protestati, quod ex quo praedictus dominus rex ipsos deseruerat, ut praefertur, quod ipsi nomine et pro parte omnium Siculorum, et ipsi Siculi se eximebant a suo dominio, et omnimoda potestate et quod erant, et reputabant se legitime absolutos et penitus liberatos ab omni sacramento, fidelitate, promissione, et homagio, quibus ipsi eidem regi tamquam Domino hactenus tenebantur; quod de cetero libere possunt, et debent eis providere de Domino et rege juxta eorum arbitrium. Voluntatem quorum et protestationem praedictus dominus rex legitimam reputando, coram praedictis nobilibus voluntarie acceptavit. De quibus protestatione et acceptatione ad aeternam rei memoriam et Siculorum cautelam praedicti nuncii fecerunt sibi fieri legitima publica documenta. Eodem die a praedicto rege memorati nuncii recesserunt, quos in eorum recessu praefatus dominus rex rogavit, ut ipsi deberent dominam reginam carissimam matrem suam, et dominam Yolandam sororem ejus recommendare Siculis carius quam valerent, dicendo nunciis memoratis. De domino Friderico aliquatenus non rogamus, quia ipse cum miles sit, quod debeat agere non ignorat, et vos quod oporteat facere bene scitis. Et sequenti die Dominico penultimo ejusdem mensis per archiepiscopum..... ecclesiae romanae legatum, tunc ibidem praesentem, interdictum, quo dicta terra dicti regis erat supposita, fuit penitus relaxatum. Et eodem die praedictus dominus rex ibidem colloquium celebrans, omnibus publicavit se insulam Siciliae dimisisse totaliter, ut superius est expressum. Subsequenti autem die lunae ultimo mensis ejusdem praedictus rex ad quondam terram vocatam Figeriae, distantem a praedicta villa Bertra per milliaria duo, se personaliter contulit, ubi princeps Carolus cum filia sua domina Blanca ejusdem regis praestolabatur adventum, qui princeps memoratam filiam suam eidem regi tradidit in istanti, et praedictus dominus rex statim immediate restituit dicto principi filios suos, et alios omnes obsides, quos suo detinebat carceri mancipatos, memorato rege cum dicta domina Blanca ad praedictam villam Bertram die eodem redeunte. Subsequenti vero die martis primo novembris ibidem praefatus dominus rex eamdem dominam Blancam duxit, celebratis nuptiis, in uxorem. Et quia supradicti comites, barones, nobiles, et syndici ipsi consultius providerunt, quod vocatis et coadunatis syndicis omnium terrarum, et locorum totius insulae apud civitatem Cathaniae XV mensis januarii proximo venturi hujus IX indictionis debemus ibidem generale colloquium celebrare et a syndicis supradictis nomine et pro parte omnium terrarum, et locorum ipsorum fidelitatis, et homagii consueta recipere sacramenta, nosque eis sacramento firmabibus inviolabiliter observare ea quae ipsis pro bono, et pacifico statu regni Siciliae in ipso colloquio promittemus die statuto, in quo regni Siciliae diadema feliciter assumemus, quo circa devotioni vestrae mandamus, quatenus statim praesentibus receptis, syndicos vestros et de melioribus et nobilioribus, sapientibus, ditioribus, et suficientioribus vestrum numero sex eligere studeatis, quos electos cum decreto electionis et approbationis ipsorum, ac vestrum omnium super praemissis, et aliis plenaria auctoritate suffultos, ad nos apud eamdem civitate Cathaniae pro causa praedicta infallibiliter in praescripto termino destinetis. Datum etc. XII decembris IX indictionis.

Ivi, T. II, pag. 168.

XLVIII.

De pompis Messanensium in primo occursu Friderici Regis post ipsius coronationem.

Nec vacat presentis narrationis stilo perstringere quanta varietate tripudii transeuntem Regem Policium, Nicosia, Randacium, et quecumque loca sunt his media, pro viribus receperunt; quoniam superest precellentem alios ditiori cultu apparatu Messanensium explicare. Occurrunt Regi longe ante civitatis ingressum populares turme forensium cum vexillis variis in habitu incedentes; occurrunt et religiosi viri in psalmodiis et canticis exultantes: occurrunt etiam turbe nobilium in equis velatis auro, et sericis in vestibus, quas Consularis Romanorum dignitas etiam in suis magnificentiis indui non horreret. Cumque appropinquasset Rex menibus civitatis, ecce matronarum et virginum turba spectabilis Regi obviam incedebat. Harum quidem varios cultus, et pretiosos habitus pirticulariter scribere non presumo, quas nec hebreorum Hester, nec Helena troyanorum, nec Dido Regina Carthaginis suis temporibus superasscnt. Sed quid referam? Omnis gemmarum varietas, omnis pretiosus et discolor in auro et sericis habitus orientis, cunctaque aromata Indorum e harabum in ea turba videbantur esse congesta. Rex civitatem ingreditur palliatus, pallio quidem pretioso, quod in auratis hastis electi nobiles sustentabant. Vox exultationis et laudis Regie preconis voce premittitur. Qui precedebant, et qui sequebantur id ipsum cum gaudio concinebant. Exultabant siquidem in claustris virguncule, pueri comitantes parentibus et nutricibus applaudebant. Solum civitatis opertum est floribus, parietes auratis vestibus rutilant, et domorum tecta, maxime qua Rex ad Regale palatium ducitur, resonant melodiis; ingressus est ergo Rex comitante gloriosa turba palatium, atque declinans ab equo spectabilis, ad ulnas gloriose matris suscipitur; et dum ei manuum oscula cum reverentia prestitit, maternos quidem amplexus cum beneditione suscepit. Exultat, inquam, diligens mater in filio, et gloriosus filius in reverenda genitrice letatur. Yolanda virgo regia fratrem Regem amplectitur, quem ab ipsis cunabilis inter fratres alios preamavit. O felix mater in prole spectabili, et gloriosa nimis in cospectu regnantium filiorum. O soror, quantum forsitan ab hujus dilecti fratris amplexu tepesceres, si te ipsius fratris hosti futuram conjugem estimares? — Ivi, Tom. I, pag. 356.

XLIX.

Fridericus Tertius Dei gratia rex Siciliae, Ducatus Apuliae et principatus Capuae ec.

Insulam et fideles nostros Siciliae a nostrorum hostium insultibus et insidiis defensare conantes, cum nostro extolio die veneris tertio praesentis mensis julii in sero pervenimus ad maritimam S. Marci de valle Deminae, ubi intellexerat nostra serenitas praedictorum hostium galeas insistere, et sequenti die sabbati quarto ejusdem in praedictas galeas hostium morantes ibidem viriliter et animose irruimus, et dum pugna inter utrumque extolium committeretur, et fortuna et casu accideret, quod tam galea, in qua eramus, quam multae galeae nostrae, videlicet meliores et magnae et sufficienter armatae, per quarum vigorem et potentiam sperabamus in domino de praedictis hostibus obtinere victoriam, sic intra seipsas remis involutae, et impeditae fuerunt quod aliqua ipsarum contra praedictas galeas hostium pugnare non potuit, qua de causa de galeis nostris a sexdecim usque ad decem et octo per praedictas galeas hostium captae fuerunt nobis, omnibus aliis galeis dicti nostri extolii redeuntibus in Messanam. Et quia bellorum et guerrarum requirit status, et qualitas conflictus, hinc inde fieri, et quandoque uni parti, et quandoque alteri concedi et dari victoriam, et sit notorium est, nec minus ipsa rei veritas, et publica fama testatur, quod de praedictis hostibus multipiples, majores, ac diversas victorias terra marique nobis concessit Altissimus, et in eo firmiter credimus, et pro certo speramus, nedum praedictam insulam, et fideles nostros a praedictis hostibus viriliter et potenter defendere, verum etiam, resumti et collectis hinc inde viribus et fortitudine, hostium ipsorum cladem et excidium procurare: fidelitatem vestram hortamur, requirimus et nihilominus expresse praecipimus quatinus occasione captionis praedictarum galearum corda vestrae devotionis et fidei non vereantur, nec dubitent: sed consideratis victoriis, quibus Omnipotentis dextra nobis dotavit, et dotabit in melius, spiritum totius confortationis et vigoris erga dominium, et fidem nostram assumatis; et circa diligentem salubrem et tutam custodiam, fortificationem, et defentionem praedictae civitatis sic die noctuque ferventer, inviolabiliter, et efficaciter intendatis, quod civitas ipsa a praedictorum hostium studiis, machinationibus, et insultibus et potenter et salubriter custodiatur, et defendatur illaesa; et affectus operum vos commendabiles nostro conspectui merito repraesentet; unde vos sic donis et gratiis ampliare et gerere pollicemur, quod tot et tantis servitiis insudasse gaudebitis, et ceteri alii ad similia, et majora promptius et animosius inducentur. Nos enim habita certitudine de processibus praedictorum hostium, quod intendant agere, et versus quas partes procedere, quocumque illos velle declinare sciverimus, et nostrum succursum et auxilium magis necessarium fore videbimus, inter nostrum cum toto exfortio post se cum nostris feliciter dirigemus. Datum Messanae VI julii XII indictionis regni nostri anno IV.

Ivi, Tom. II, pag. 175.

L.

Fridericus Dei gratia rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae, universis hominibus civitatis Panormi.

Ut vestra et nostrorum corda fidelium de nostrorum felicitate successuum festive jubilationis gaudiis hilarescant, vobis tenore praesentium ad gaudium annunciamus, quod per illius gratiam, qui causam nostram pio favore prosequens et defendens, manus nostras ad praelium docuit, et digitos nostros ad bellum, hodie primo praesentis mensis decembris hujus XIII indictionis in campis infra terras Trapani et Marsaliae de illustri Philippo filio Caroli hostis nostri, qui se Tarentinum scribebat in principem, et terrestri exercitu, cum quo in Siciliam infeliciter declinarat, per nos nostrumque victoriosum exercitum feliciter obtenta victoria, eodemque Philippo, nec non filio comitis Thomasii de S. Severino, Hugone de Viezi, Vilielmo de Ammigdala, et aliis quampluribus nobilibus et equitibus aliis captis, et in nostro carceri mancipatis, reliqui omnes fuerunt in ipso praelio in manu forti, et extento brachio interempti; ita quod de sexcentis equitibus et peditibus aliis, quos in Siciliam cum eodem principe infelicia eorum fata traxerunt, nullus manus nostras evadere potuit, quin in ipso conflictu potentiae nostrae gladio trucidatus extiterit, aut nostro fuerit ergastulo carceris mancipatus. Ex hac igitur victoria, quam nobis est Dominus dignatus concedere, nobiscum largitori bonorum omnium gratias referentes, gratuite iteratis plausibus exultetis, firmam spem, et fiduciam habentes in eo, qui processus et actus nostros favorabili protectione prosequitur, quo de aliis nostris hostibus existentibus in Sicilia debitam ac speratam victoriam continuatis successibus consequamur. Et quia galeae hostium eorumdem semiarmatae sunt in insulis Trapani, et per modicas ex galeis nostris facile poterunt expugnari fidelitate vestrae firmiter et expresse mandamus, quatenus incontinenti receptis praesentibus omnni mora sublata, galeas, quas in civitate ipsa mandavimus armari, per commune, et omnem alium modum, per quem celerius fieri poterit, armetis instanter, et cum eis, et aliis galeis Januensium existentibus in nostris servitiis, quorum est admiratus nobilis Ægidius Auriae dilectus amicus, et devotus noster, cui exinde scribimus, ad espugnationem, et captionem praedictarum galearum hostium procedatis, ut eis, auctore Domino, superatis, felicia felicibus, et gaudia gaudiis cumulentur. Datum Trapani primo decembris XIII indictionis regni nostri anno IV.

Ivi, tom. II, pag. 178.

LI.

Fridericus Dei gratia rex etc.

Antiquae legis servatur edictum, novi testamenti institutio exercetur, et christianae fidei roboratur auctoritas, dum pax mundo praestatur, quam Omnipotentem Christum Summi Patris Filium post gloriosam Ascensionem suam constat ejus Apostolis reliquisse, in quo gloria in excelsis Deo extollitur discordantium voluntates ad conformitatem status debiti reducuntur, cessant caedes gentium, alta guerrarum vitantur discrimina, et totius jubilationis, et laetitiae nascitur incrementum; propter quod scire vos volumus, quod vicesimo nono praesentis mensis Augusti infra Saceam, et Calatabilloctam inter Nos, nec non magnificos et spectabiles Dominum Carolum illustris regis Francorum filium, Alenzoni, Valesiae, Carnoti, Andaegaviae inclytum Comitem, consobrinum, et Dominum Robertum illustris Caroli primogenitum, et ducem Calabriae, cognatos nostros carissimos, et ceteros alios tam magnates, quam alios ex parte eadem pax et compositio ad laudem et exaltationem divini nominis firmata extitit et completa: ita quod habemus insulam Siciliae, et rex Siciliae remanemus. Quocirca fidelitati vestrae mandamus, quatenus de praedicta pace et concordia gaudium in Domino assumentes, a missione equitum, peditum et aliorum armigerorum, quos per vos apud Corilionum pro honorabili tractatu praedictae compositionis et pacis mitti mandavimus, penitus desistatis, et praedictam pacem inviolabiliter observetis. Datum Calatabilloctae ultimo augusti XV indictionis regni nostri VII.

Ivi, Tom. II, pag. 181.

LII.

Fridericus Dei gratia rex Siciliae bajulo, judicibus, juratis, et universis hominibus civitatis Panormi, fidelibus suis, gratiam suam, et bonam voluntatem.

Licet cum consiliaris nostris habita deliberatione consulto ordinatum extitisset hactenus et provisum, quod nos praedictum regni Siciliae titulum resumere deberemus, nos tamen id usque nunc decrevimus differendum. Verum ex quo hostes nostri contra nos, ac vos, et alios fideles nostros venire infeliciter se accingunt, quod licite et juste facere possumus, ulterius sub dissimulatione nolumus aliquatenus prorogare, praedictum titulum, sicut deliberatum extitit et provisum, feliciter in Christi nomine resumemus; propter quod fidelitati vestrae mandamus, quatenus singulis notariis publicis dictae civitatis Panormi ex parte nostri culminis injungatis, quod in istrumentis, et aliis scriptis pubblicis, et occultis per eos de cetero faciendis, nostrum apponunt titulum praelibatum. Datum apud Castrum Joannis sub parvo sigillo nostro secreto, nono augusti XII indictionis.

Ivi, Tom. II, pag. 193.

LIII.

Dicti vero expulsi, qui dicuntur Gibillini fecerunt, et tenuerunt consilium eorum apud in Sahona, continuantes semper de bono in melius dictam obsidionem, et fecerunt cum inclyto Domino Frederico, rege Siciliae, vocantes et tenentes cum in eorum Dominum. Quae unitas firmata tempore veris anni tertiae indictionis primo tunc sequentis, idest anno a nativitate Domini MCCCXX, et proinde idem rex Fredericus faciens colloquium XVII julii ejusdem tertiae indictionis in Messena cum syndicis totius Siciliae, manifestavit eis dictam unitatem fecisse, et misit propterea postea infra octo fere dies, videlicet post dictum colloquium; ab insula Siciliae ad civitatem Januae galeas quadraginta armatas per eum infra menses madii, junii et julii ejusdem anni, simul cum galeis undecim dictorum Januensium gibillinorum, quae venerant ad associandas dictas galeas Siculorum; in quo viagio dictae galeae transeuntes per Calabriam destruxerunt Policastrum, videlicet hospitia, vineas et jardina dictae terrae, et interficientes etiam homines terrae ipsius, et deinde iverunt ad Isclam, et illius vineas, et jardina, ac arbustos incidentes, et devastantes, recesserunt abinde euntes ad..... quam similiter devastaverunt: et postea in principio sequentis mensis septembris pervenerunt ad portum Januae, et tenentes ipsam per aliquos dies obsessam, iverunt demum ad terram Vulturi, et ipsam violenter ceperunt, interficientes viros, et mulieres, pedites, et equites, magnos, et parvos terrae, a nativitate Domini praedicto anno MCCCXX. Et sic deinde euntes galeae ipsae per ante portum Januae, et dantes ipsi civitati per mare, et per terram assaltum, et nequeuntes de dicta civitate aliqui obtinere: et deinde euntes ad alia loca ripariae Januae, in fine dicti mensis septembris recesserunt abinde, redeuntes in Siciliam die dominico nono novembris dictae quartae indictionis. Pro cujus guerrae expensis faciendis idem dominus rex Fredericus rex Siciliae imposuit in ea insula Siciliae cassiam unam, dictam cassiam propter guerram, quae solvuntur mirando, et exeundo cum rebus mercimonii quibuscumque, a primo die dicti mensis septembris ejusdem quartae indictionis in antea, ob quam solvuntur tria per centum.

Redditus etiam honorum ecclesiarum singulorum ecclesiae cepit dicto primo die dicti mensis septembris in antea in subsidium expensarum praedictarum, pro quorum reddituum captione idem dominus rex vocavit ad se praelatos dictarum, per ejus literas formae talis.

Fridericus Dei gratia rex Siciliae religioso viro abbati s. Spiritus de Panormo devoto suo salutem in Domino Jesu Christo.

Cum pro structione, reparatione, munitione, et armatione galearum nostri felicis extolii, quod in proximo futuro vere in maiori numero et forti, quo fieri potuerit, construi, reparari, muniri, et deinde feliciter armari providimus, ad defensionem, et statum prosperum tam nostrorum fidelium, quam monasteriorum, et ecclesiarum quarumlibet procurata indemnitas, et tranquillitas agitur possessorum; ad quod perficiendum, ut expedit, proventus, et jura insulae nostrae Siciliae bono modo sufficere non videntur: diligenti communicato consilio, ne tot, et tanta necessaria, et opportuna servitia remaneant imperfecta; provisum et determinatum extitit, quod de omnibus juribus, proventibus, et redditibus singularum ecclesiarum, nec non quorumlibet archiepiscoporum, episcoporum, abbatum, priorum, nec non canonicorum, et beneficialium quorumlibet insulae nostrae Siciliae a primo septembris proxime futurae quartae indictionis in antea, in praedicta forma, et pro dicta causa pecuniale subsidium recipere, et habere penitus debeamus. Et propterea te praesentes habere velimus, et devotionem tuam requirimus, quatenus incontinenti, receptis praesentibus, pro praedicta causa celeriter ad nostram praesentiam debeas te conferre. Et si propterea commode nequiveris venire, procuratorem tuum ad hoc sufficienter instructum, et omni tua auctoritatae suffultum, responsurum, tractaturum, et facturum nobiscum super his et aliis, ac si praesens esses, ad nostram praesentiam celeriter mittas: adeo quod te, vel praedictum procuratorem tuum ut sopra infra dies quindecim a die datae praesentium in antea numerandos in curia nostra praesentem infallibiliter habeamus. Datum Messanae XXVIII augusti tertiae indictionis.

Ivi, Tom. II, pag. 212 e 213.

LIV.

Sanctissimo et in Christo patri sacrosanctae romanae ac universalis ecclesiae summo pontifici, Jacobus Dei gratia rex Aragonum, suus devotissimus filius, seipsum ad pedum oscula beatorum.

Vestra sanctitas non ignorat, quam dura quamque gravis guerrarum commotio suscitatur inter illustres reges Robertum et Fridericum, occasione Siciliae, quae guerra non erit modicum damnosa dictis regibus, ac totae Christianitati, nisi per sanctitatem vestram de opportuno remedio succurratur. Ea propter sanctitati vestrae preces porrigimus subjectivas, quatenus vos, qui estis universorum christianorum caput et custos, et de animabus eorum estis redditurus altissimo rationem ipsis christicolis ad bella et guerras mortiferas se viriliter et potenter parantibus, pio et paterno compatientes affectu, dignemini, et velitis, si placet, super his taliter interponere partes vestras, quod inter nominatos reges, et eorumdem regnicolas non fictae pacis tranquillitas, et unanimitas effectualiter reformetur, ne sanguis ipsorum in die districti examinis de vestris inanibus requiratur: alioquin constet vobis, quod nos non possemus ullo modo deficere in necessitatibus suis dicto regi Friderico fratri nostro, quin immo ex nunc intendimus ipsum juvare contra praedictum regem, et quoscumque valitores suos, cujuscumque condictionis, et status existant: describentes nobis, si placet, quidquid vestra sancitas duxerit super his, dante Domino, salubriter disponendum. Altissimus per sui misericordiam vos conservet ad sui condignum servitium, et ecclesiae suae sanctae. Datum decimotertio martii anno Domini MCCCXI.

Ivi, Tom. II, pag. 214.

LV.

Et dum dicta panormitana urbs manebat in dicta obsidione, Messanenses per eorum literas scripserunt Panormitanensibus, ut infra, in dictis eorum literis recordantes tenorem literarum Panormitanensium supra scriptarum directarum ipsis Messanensibus, tempore rebellionis factae contra Gallicos incipientium, Consurge, consurge filia Sion, per haec verba.

Nobilibus, et egregiis viris urbis panormitanae felicis civitas Messanae salutem, ac jugo servitutis abjecto, adeptum bravium defendere libertatis.

Contemplare in speculo tuae celsitudinis urbs numerosa, quia olim consurgere, arcum, et pharetram sumere, et grabatum tollere pro patriis legibus suasisti. Exalta igitur vocem tuam. Die civitatibus cunctis, intuemini quis es iste, qui ad nostras gentes ingreditur propulsandas? Quid enim Siculo jamdudum et Carolo, ut ipsum nomen nesciri licuisset? Hic est enim de illa oriundus prosapia, quae sic nostram dissipavit terram, mare concussit, onera patribus nostris imposuit juxta assertionem tuam, plusquam sub lutu, et latere ancillatis, et in tantum vires animi enervavit, quod lamentabiliter exclamasti nostram fascinatam prudentiam in gentibus, quae ebrietati deserviunt, importabili jugo subditam. An ignorat, quod gentem suam toties misit ad victimam judiciorum Dei judicia manifesta, quae ad revelandam justitiam nostri propulsati tanti gravaminis multifarie claruerunt? Sed revera more Pharaonico obduratus popolum nostrum gravat, ut in sui poenam peccati ab illo, qui dissipat colligationes impietatis, multarum ferat flagella plagarum, juxta propheticum illud: Haec via illorum scandalum ipsis, postea in ore suo complacebunt: sicut oves in inferno positi sunt. Velut inquam Ægiptii in suis equis, et curribus confidentes, absorti penitus, et de terra deleti, ut exinde justitia nostra luceat coram hominibus, paterque noster glorificetur in coelis; qui ulciscendo semper nostras injurias procul pellit. Profecto, dilectissimi, sicut quem credebatis pastorem, lupum invenistis rapacem, sic iste est lupo rapace deterior, asserens per suas literas civibus Barchinonensibus bona quaeque omnium Siculorum fore jam pridem suae curiae confiscata etiam in tempore pacis inter dominum nostrum regem, et ipsum initae, et per ecclesiam confirmatae. O impietas detestanda, quae reali paci non innititur, sed vocali! O nefanda temeritas, quae sub fictae pacis velamento captato romanam majorem ecclesiam veritatis amicam innuit suae fictionis illusionibus inhaesisse! O inflata scientia, quae utens verbo resolutorio, quasi sofismati logicali, infiscationem praedictam ex manifeste falsis medio inepto conclusit! Accingimini igitur viri fratres, et estote potentes in bello. Urbs etenim fortitudinis vestrae Sion titulo est regalis solii redimita. Salvator equidem positus est in ea murus, et antemurale. Nam qui suo divino nutu, et instinctu mirabili insperate potentes de sede deposuit, et humiles exaltavit, absolvet subito a servitute tyrannica, juxta vestram epistolam, vincula colli nostri benignorum, et humilium principum, quorum fiducia salus, et gaudium potissime Christus est. Sic nos dulcitur regens, et gubernans dominio, quod non sint beatae steriles, ut scripsistis, sed quae pariunt nunc faecundae; in gloriam namque tuam de inclyto Domino rege Petro II in te nato potes merito dicere urbs praeclara; Os nunc es ex ossibus meis, et caro de carne mea; totaque Sicilia non lamentum, sed canticum istud potest promittere canticorum: Quis dedit te mihi fratrem meum in me ortum, sugentem ubera matris meae? quia nutritius est panormitanae civitatis, ut videam te foris in ea, sed coronatum, et deoscules te, et per familiaritatem benignam, et jam me nemo despiciet quasi insultans mihi de cetero alienigenam principantem. Verum quia Dei perfecta sunt opera, speramus, quod in ejus virtute agonem nostrum sic agemus viriliter, quod opus per ipsum in vobis incaeptum, et in nobis prosequtum, ac etiam prosequendum, ad quod totis viribus, et prompto libentique animo nos paramus, post tot diutinos guerrarum incursus, ac insurgentes fremitus tempestatis, victrici superante triunpho, nunc feliciter consummabit. Scriptum Messanae XXVI madii VIII indict.

Ivi, Tom. II, pag. 218.

LVI.

Tenor privilegii concessi per dictum Regem Petrum cunctis civibus civitatis Cataniae, per quem fecit eos immunes dare posatas.

«Petrus secundus Dei gratia rex Siciliae ete. Et si Reges et Principes suorum natalitia celebrantes, urbes et civitates sui regiminis immunitatibus decorant, sparguntque honores in populis, qui merentur, Nos, qui dei nutu in trono Regio presidemus, ubi desideratam prolem nobis concessit Altissimus, honores impendere, amplas immunitates, et gracias fundere sine parcitate debemus. Presentis itaque privilegii serie notum fieri volutum universis tam presentibus quam futuris, quod considerantes insigne beneficium, quod pridie in civitate Cataniae, intercedente gloriosa virgine Agatha, quae tutela Regni nostri est, cujus titulo eadem civitas insignitur, de manu Dei nostri suscepimus, cum illustris Reginam Helisabet consors nostra dilecta filium nobis peperit, quem nos et fideles nostri Siculi propter virilis carentiam longo tempore optabamus; volentes etiam afflictiones, labores, et damna, quae Catanenses ipsi occasione frequentis et continue hospitalitatis nostrorum curialium aliorumque Regalium in eorum hospitiis et roba, quotiens recolende memoriae dominus genitor noster Rex, et nos in eadem civitate, quasi continuatis temporibus, morabamur hactenus, et moramur, perpessi sunt, quo casu eis adversa et importabilia incomoda plurima contingebant, ut de nativitate novi domini letam assumant et notabilem suis posteris materiam gaudiorum, eosdem Catanienses ab honere suscipiendi hospites, ed dandum robam nobis, nostrisque curialibus, et quibuscumque personis aliis, cujuscumque gradus et conditionis existant, pro quacumque causa de speciali gratia et nostra certa scientia in perpetuum duximus eximendos. Qua propter ab eodem onere Catanienses ipsos exim imus, volentes, et presentis privilegii tenore descripti sub obtentu gratiae nostrae mandantes, ut nullus presentem exemptionem nostram quovis modo temptet infringere, vel eam aliquatenus contrahire. In cujus nostrae exemptionis et gratiae certitudinem, et dictorum Cataniensium cautelam, presens privilegium eis exinde fieri, et sigillo Majestatis nostrae pendenti jussimus communiri. Datum Cataniae per venerabilem Damianum de Palicio de Messena juris civilis professorum, Regni Siciliae logothetam, et cancellarium, ac cappelle nostre magistrum cappellanum, anno domini MCCCXXXVII mense februarii XII ejusdem VI indictionis

Ivi, Tom. I, pag. 542.

LVII.

La pachi seu tregua facta infra Ludovico, et Joanna.

Facta la recuparacioni di lu castellu, et terre di Lipari, como di supra ej dictu, lo prefato conti Raymundo con quilli galey subtili, che avia di Lipari, si partono andao discurrendo per li maritimi lochi di Napoli, et altri lochi vichini di quilla, multi, et diversi damni fachia a li regniculi, pigliando genti; et accussì, como plassi a Deo declinando hostilimenti in lo portu di la chitati di Napoli, multi chitatidini di la predicta chitati di Napoli incommenxaro a exclamari dichendo, faczasi piachi, faczasi piachi, che non potiano omni jorno comportari quisti simili invasioni, et insulti, et guerri; di li quali vuchi, e tumulti di populu la dicta Joanna perterrita, seu da Deu ispirata, sto predicto conti Ramundo cum certa securitati destinau certi soy ambaxiaturi, fachendo chiamari in sua presencia a lu dicto Conti Ramundo per raxunarili di la pachi infra ipsa Joanna, et Lodovico; undi avendo andato a lo dicto Conti Ramundi, xisi in terra, et andato in presencia di la supradicta Johanna, cum la quali ad plenum havendo super lo trattato di la pachi raxunato, mandao cum lo predicto conti Ramundo per ambaxiaturi in Sicilia a lo predicto Johanni, et Lodovico a lo nobili Sandalo de Imbriachi di Napoli, et certi altri colleja, li quali cum li galej di lo dicto conti Ramundo venendo in Sicilia in presencia di Lodovico, di consenso, et volontati di lo dicto Johanni duca Ciano di Lodovico, devinniro in accordo et pachi. Lo dicto Ludovico, scripsi ali siciliani in la forma subscritta.

Exemplutn licterarum super tractatu pacis.

Etsi ad evitanda exicidia, et labores iam actae et revolutae guerrae varias successiones itinerum inter reverendos Dominos predecessores nostros ejusdem regni reges illustres gloriosae memoriae, nosque ex una parte, hostesque olim nostri ex altera; nec minus ad procurandum remissionem excommunicacionis, et interdicti per Dominos summos pontifices in dicto regno nostro ad peticionem adversae partis iamdiu impositi, dicti predecessores laboraverint, nosque ipsi nullis parcentes sollicitudinibus, laboribus, et expensis, et nihilominus nunquam potuerunt optinere; novissimum agente omnium conditore, in cujus manu sunt corda regum, potestates, et regna, hostes ipsi quondam per eorum ambaxiatores, et nuncios ad nostram excellenciam, destinatos tractatum pacis inter nos, et eos componi sub certis pactis, et convencionibus petierunt. Quibus auditis, et diligenter examinatis, desiderantes finem imponere tantis malis, quae vos per tempus longissimum perplessi fideliter exstitistis, quamquam ob tractatum pacis hujusmodi, onus aliquod, quod in dictis convencionibus aperte exprimitur, in tantum quod pax ipsa firma fuerit, et ut dictorum excomunicacionis, et interdicti nostri totaliter exolvamus, nobis immineat supportandum; ferre onus ipsum propterea eligentes, annuimus eidem tractatui dictae pacis. Chisti nomine invocato, et ut vobis non lateat dictae pacis phedera, ipsa per seriem in quadam cedula interclusa presentibus vobis duximus declaranda. Quapropter fidelitati vestrae praemissa omnia intimantes, ut vobis aptissime nota fiant, eidem fidelitati vestrae mandamus, quatenus treuguas iam dictas inter nos, et eosdem olim hostes, hinc scilicet ad festum Sancti Joannis Baptistae, facientes statim voce praeconiae divulgari, dictunque tractatum in forma, et modo in eisdem pactis, et convencionibus, et capitulis declaratis observantes, durante tempore supradicto, quod per eundem summum Dominum pontificem expedit tractatum hujusmodi confirmari. Et eoscumque eorumdem dudum hostium fideles subditos, et vassallos, tamquam amicos auctoritate tractatus praedicti habentes, atque tractantes, ipsosque ad partes nostras nec minus fideles, et subditos nostros, ad partes eorumdem olim hostium secure venire, et pergere, durante eodem tempore, permictatis, fidelitas vestra in omnibus, et per omnia semper salva, nullusque vestrum prefatos dudum hostium vassallos, subdictos, et devotos, infra dictus tempus, in personis, et rebus impediat, sive molestet, sicut indignacionem nostram cupitis evitare. Data Cathaniae anno domini MCCCXLVII novembri, primae indictionis.

Ivi, Tom. II, pag. 237.

LVIII.

«Lodovicus Dei gratia Rex Sicilie, vobis Juratis civitatis Catanie presentium tenore mandamus, ut, cum benedictus Deus, qui nostros patres et avos in Regno Sicilie, jam est diu regnare disposuit, nobis, qui tamquam Regi, heredi, et successori eorum ejusdem Regni coronam largitus est, ad etatem perfectam, infra scilicet quintumdecimum annum, non perduxit, ex quo dictum Regnum nostrum possumus, et debemus nostro arbitrio regere, et etiam gubernare, ipsum reducendo in statu tranquillo cum adjutorio summi Regis; velimusque propterea vos, aut duos, seu tres pro ordinando et disponendo ea que sunt necessaria circa utilem, et tranquillum statum Regni predicti coram nostram excellentiam habere presentes, statim receptis presentibus, preter alicujus more dispendium, et contradictionis alicujus persone cujuscumque status, gradus, et condictionis existat, ad ejusdem Majestatis nostre presentiam accedatis. Nos enim vos vestrosque famulos, et etiam comitivam, veniendo de dicta civitate Catanie apud Messanam, ubi Majestas nostra feliciter residet quo ad presens, et abinde ad propria redeuntes, cum omnibus rebus vestris, ex nunc prout ex tunc, affidamus et assecuramus, et per omnes Siculos singulo et officiales, et fideles nostros presentium tenore assecuratos esse volumus, et etiam affidatos. Data Messane anno dominice Incarnationis MCCCLII. XXIII Februarii V Indictionis

Ivi, Tom. I, pag. 615.

LIX.

«Sacrae Regiae Majestati Jurati civitatis Cataniae approbati fideles vestri terre osculum ante pedes. Majestati vestrae humili subjectione deferimus nobis hodie XXVI presentis mensis Februarii per Guillelmum Miliniana de Tauromenio Regiam fuisse presentatas literas continentie subsequentis, videlicet, Ludovicus etc. tenor est supra insertus, sequitur responsio videlicet. Ad quarum significata aciem mentis dirigentes, aperte cognoscimus, dignitatem Regiam, cui de jure omnis anima fidelis subicitur, non dominari, quod dolenter referimus, scd subjci hostibus, et infidelibus manifestis. Et utinam, ut non solum quintumdecimum annum, sed decimum vestra Majestas attingeret, ut fideles justitie libra discerneret, et seditiosos rebelles juxta demerita judicaret. Nam si excellentia vestra proprio arbitrio potens est gubernare regnicolas, unde hoc, quod hujus guerre principes, et seditionis auctores super cortem dignitatis Regie regnare permittitis? quod si in libertate essetis, propria virga Regia, ut opinamur, certissime destrui faceretis. Dignemini igitur temptatores ipsos a conversatione vestre Majestatis procul abicere, et longius mandare, ut sic viris pacificis ad latus vestrum astantibus, tam nos quam ceteri vestri fideles cum securitate et gaudio pedes vestre possimus excellentie visitare. Vel si ad tantam gratiam in reverentiam beate Agathe vestre, et dicte civitatis protectricis Majestas vestra inclinare dignabitur, placeat sine adversariorum, quos supra meminimus, turma ad civitatem istam iter dirigere. Et ibi assistentibus Regio lateri viris pacificis, et fidelibus approbatis, more majorum divorum principum predecessorum vestrorum, de justitia et pace hujus Regni tractare. Et, Altissime Domine, arbitrium Regium, quod in presenti calumniam patitur..... erit liberum, et dyadema vestrum, quod conculcatur a pessimis, debite erit exhibitioni reverentia sublimatum. Scripta Catanie XXVI Februarii quinte Indictioni

Ivi, Tom. I, pag. 616.

 

 

 

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* Veramente Taormina fu più volte presa e ripresa dai Saracini e dai cristiani. Le storie delle cose arabo-sicole conosciute sino ai tempi dell’Autore non faceano motto di ciò distintamente. Ma nel 1841 Noel Des Vergiers pubblicò una Histoire de l’Afrique sous la dynastie des Aglabites et de Sicile sous la dominatiom musulmane, nella quale questi fatti sono narrati e illustrati dal traduttore coll’autorità di altri storici musulmani.        (Nota dell’Editore).



659 Paquis, Storia di Spagna e di Portogallo, lib. IV, cap. 8, p. 411. Lugano 1842.



660 Questi sono i nomi dei due palazzi. Chi poi voglia sapere, perchè vengano cosi appellati, può consultare un Discorso dell’ab. Morso pr. Capozzo, Memorie sulla Sicilia, vol. III, pag. 351.



661 Descrizione dell’Italia ed isole aggiacenti. Venezia 1561. Veggansi le pag. 48 e seg. della descrizione delle Isole appartenenti all’Italia, in fine del volume.



662 Ved. Rerum Arabicarum, quae ad Historiam Siculam spectant, ampla collectio, pag. 233-240. Panormi 1790.

Veggasi pure la Biblioteca Arabo-Hispana del Casiri, dalla quale il Gregorio trasse principalmente le sue notizie.



663 Ginguené, Storia della Letteratura Italiana, tom. I, c. 4, pag. 128-9, Firenze 1826.



664 DHerbelot, Bibl. Orient. pag. 289. Maestrict 1776.



665 Di Blasi, Stor. di Sic. Tom. IX, pag. 392. D’Herbelot a pag. 290 dice, che Ruggiero re di Sicilia e di Calabria avea fatto fare quel globo.



666 La Geografia Nubiense fu neI secolo passato recata in italiano dal p. Domenico Magri dell’Oratorio, e pubblicata nel tomo VIII degli Opuscoli di Autori Siciliani e arricchita di dotte note da Francesco Tardia. V. Gregorio, Discorsi intorno alla Sicilia, Tom. II, pagina 84. Palermo 1821.

Cantù nel tomo IX della Storia Universale, pag. 693 in nota, dice, che una nuova versione fu recentemente fatta di quest’opera da Amodeo Jaubert, in cui trovansi molti passi negletti nelle precedenti, e alcuni di molta importanza.



667 DHerbelot, Bibl. Or., pag. 289 e 290.



668 Solouan Almothà vuol dire: Viri obtemperantis Solamen. DHerbelot, l. c. pag. 805.



669 T. I, p. 213. Il Casiri chiama questo scrittore Gemaleldinus.



670 Questo comentario gli fruttò anche molta lode, perchè le opere di Harirèo aveansi come incomparabili esempli di araba eloquenza.



671 T. XIV, lib. I, c. 2, pag. 497. Amsterdam et Leipzig 1761.



672 Taormina venne più volte in potere dei Saracini, a quali i cristiani la ritolsero.



673 Storia d’Italia nel Medio Evo, Libro IV capo IV, § 5 e 6.



674 Era questo il nome di Gregorio VII.



675 De invent. lib. 2.



676 Cic. De Orat. lib. 1.



677 Enciclop. metod., art. Rettorica.



678 Noct. attic. lib. X, cap. 10.



679 Tucid. tit. Ist. lib. 6.



680 Ciò è contrastato da alcuni antichi scrittori che lo credono scolare di Tisia.



681 Cic. Brutus de claris Oratoribus n. XII.



682 So che quella lettera è stata da un letterato Tedesco messa in dubbio di autenticità, e creduta d’un sofista anzichè di Aristotile; ma nessuno ch’io sappia de’ critici ha secondato i suoi argomenti sottili, e non sodi, ed io credo di averli altronde annullato.



683 Hermoy in Rhot. comp.



684 Schoel lettera greca, vol. 2, par. 3, pag. 8, ediz. di Milano 1827.



685 Empedocle fior. 444 av. Cristo e Corace 479.



686 Laerzio nella vita di Aristotile il filosofo.



687 Inst. orat. loc. cit.



688 Ho stabilito l’epoca approssimativa della nascita di Corace sull’asserzione di Ermogene e di altri, che egli visse sotto Gelone, e fiorì dopo la morte di Gerone, di cui, al dir dello scoliaste dello stesso Ermogene, fu cortigiano. Gelone morì dopo sette anni di regno nell’olimpiade LXXV, 3, e Gerone dopo un regno di undici anni cessò di vivere nell’olimpiade LXXVIII, 2. Or supposto che Corace, divenuto uomo di stato sotto Gerone, contasse allora almeno l’età di anni trenta, dovette nascere verso l’Olimpiade LXXI.



689 Ciò ricavasi da Cicerone nel passo citato de clar. orat.



690 Descript. Graec. l. VI, cap. 18.



691 Descript. Graec. loc. cit.



692 Plut. in vit. X Rhetor. Dion. de antiq. rhetor.



693 Garofalo discorsi sopra Gorgia.



694 Hermogenes in Rhetor. comdend.



695 De Orat. lib. I, n. 20.



696 Diog. Laerz. nella vita di Zenone d’Elea.



697 Trattato della rettorica in tre libri, cap. I, del lib. I.



698 Diog. loc. cit. tom. I, pag. 413.



699 Alcuni moderni mettono in dubbio, che Elpide sia siciliana.



700 Credono alcuni, che questi due, Pietro vescovo di Argo e Pietro Sicolo, fossero la stessa persona.



701 Il titolo di questa orazione è: Oratio in Conceptione s. Annae, quando concepit sanctam Dei Genitricem.



702 V. Fabricii Bibl. Graeca, vol. IX, pag. 68.



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