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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO II. I. Panezio tiranno di Leonzio. — II. Cleandro ed Ippocrate di Gela. — III. Scite ed Anassila di Zancla. — IV. Falaride, Terone e Trasideo d’Agrigento. — V. Gelone di Gela e poi di Siracusa. — VI. Spedizione dei Cartaginesi. — VII. Battaglia d’Imera. — VIII. Condizioni della pace.— IX. Gerone I, Trasibulo. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Panezio per quanto si sa, fu il primo a dare il funesto esempio di usurpare la tirannide. Era nel 3o anno della 41a Olimpiade (614 a. C.) guerra fra’ Magaresi e Leontini. Panezio comandava le armi degli ultimi. Per farsi strada alla tirannide cominciò ad incitare la plebe contro i maggiorenti. Ciò in ogni età s’è tentato, e sempre con buon successo, da coloro che hanno voluto ridurre i popoli in servitù. Accesa la discordia, un giorno che molti servi e palafrenieri andavano a foraggio, Panezio promise loro i cavalli su i quali erano, se metteano a morte i loro padroni. Non era un comandante d’armi lieve promettitore. Il cenno fu eseguito. Nel trambustio Panezio accorse colla truppa, pose a sacco le case de’ ricchi e potenti cittadini, e venne signore della terra. Ignorasi quanto bastò e come ebbe fine la sua tirannide.
II. — Cleandro da Patara, città della Licia in Asia, nell’anno 3o della Olimpiade 68 (506 a. C.) fu tiranno di Gela; e nell’anno 1o della 70a Olimpiade (500 a. C.) fu messo a morte da un Sabillo geloo. A costui successe nella tirannide Ippocrate suo fratello, nell’anno 2o dopo la sua morte (anno 3o Olimp. 70a 498 a. C.). Sotto al costui governo, Gela divenne fiorente innanzi ad ogn’altra città. Sottomise Callipoli, Nasso e Leonzio. Trionfò de’ Sicoli in molti incontri. In una guerra co’ Siracusani disfece il loro esercito al fiume Eloro, detto oggi Tellaro; e ratto correndo a Siracusa, se ne sarebbe forse impadronito, se i Corinti ed i Corciresi, che ivi erano, non si fossero tramessi per la pace. I Siracusani cessero ai Geloi Camarina, da loro non guari prima espugnata e pressochè distrutta; e questi restituirono loro tutti i prigionieri fatti in quella guerra. In tutte queste imprese si segnalò Gelone, che allora comandava i cavalli geloi. Ippocrate fece risorgere Camarina, popolandola con una colonia de’ suoi. Finalmente dopo sett’anni di glorioso impero, trovò la morte sotto Ibla, che assediava nell’anno 4o della 71 Olimpiade (493 a. C.).
III. — Ma la stemperata ambizione di dominio trasse quel tiranno in un tradimento, che oscurò la sua gloria. Scite era in quei dì tiranno di Zancla. Aveano gli Zanclei invitati i Samî a venire a fondare una nuova colonia nella spiaggia settentrionale dell’isola, ove fu in appresso edificata una città, la quale per la vaghezza del sito fu detta Calatta (8). Molti da Samo e da Mileto aveano accettato l’invito, e cammin facendo, eransi fermati in Locri. Scite, in una spedizione contro i Sicoli, avea tratto da Zancla quanti erano atti all’armi. Colse quel momento Anassila, tiranno di Reggio, nemico di Scite e degli Zanclei, per opprimerli. Recatosi al campo de’ Samî, propose loro di accomunare le forze ed assalire Zancla, mentr’era indifesa. Fu accettato il partito, e la cosa avvenne per punto come il reggino aveala divisata. Gli Zanclei e Scite, saputo il caso, ebbero ricorso ad Ippocrate, antico loro confederato. Promise egli vendicarli; ma poi, indettatosi con Anassila, mise in ceppi lo sventurato Scite e Pitagone suo fratello, e li mandò prigioni nella città d’Inico a lui soggetta (9), mettendo avanti il pretesto che per colpa loro la città era caduta. Divise con Anassila le spoglie degl’infelici Zanclei; trecento de’ quali fece incatenare e mandolli ai Samî, insinuando loro di metterli a morte: ma coloro nol consentirono (10).
Venne poi fatto a Scite campare dalla prigione. Ritirossi prima in Imera, e poi ricoverò in Persia presso il re Dario, che seco lo tenne e l’ebbe caro sino alla travecchiezza, in cui si morì, lasciando dopo di sè nome di somma probità.
Non ebbe Anassila ragione d’esser contento dei nuovi coloni di Zancla; però cominciò ad ordire insidie anche contro costoro. Invitò una mano di Messenî, che cacciati dalla patria loro, erano iti a ricoverare in Sardegna, ad unirsi alla sua gente, per cacciare i Samî da Zancla. I Messeni vi acconsentirono; e, capitanati da Mantilo e Giorgio figlio di Aristomene, si unirono al reggino. Zancla fu presa, i Samî espulsi. La città indi in poi Messena pe’ nuovi coloni fu detta, ed Anassila n’ebbe la tirannide.
Nè pago costui di aver chiamato gli stranieri in ajuto, per sottomettere la sola Messena, levò la mente a tradimento più vasto. Ei fu il primo che chiamò in Sicilia i Cartaginesi, in apparenza per vendicare Terillo suo suocero, tiranno d’Imera, in realtà per aver parte alle spoglie di Sicilia: ed unì le sue alle armi puniche nella famosa spedizione, che tornò poi tanto funesta a Cartagine. Tentò d’ingrandire i suoi dominî di terra ferma; ma gli venne fallito il colpo, per opera del gran Gelone, re di Siracusa.
Poco sopravvisse quel tiranno a tali inutili imprese. Prospere furono le cose di Messena finchè resse la cosa pubblica il virtuoso Micito, cui il tiranno lasciò il governo, sino a tanto che i due piccoli figli suoi fossero giunti in età di governare da per loro. Ma venuti costoro adulti, tanto abusarono dell’autorità, che la terra si levò in armi, li scacciò e cominciò a reggersi a popolo.
IV. — Circa a questo tempo tenne Falaride la tirannide d’Agrigento (Anno 536 a. C.). Costui, che Cicerone chiama ora tiranno efferato ed inumano, ora crudelissimo ed asprissimo; e che Aristotele, Plutarco, Iamblico, Ateneo ed altri gravissimi scrittori di quell’età tengon modello di crudeltà, a segno che Ateneo ingojò la favola che egli facea arrostire i bambini lattanti e mangiavali; ha trovato nell’età nostra più di un’apologista. Gl’inglesi Boyle e Dodwel si studiano di provare l’autenticità delle lettere, che portano il nome di lui, e poi se ne valgon di prova per discolparlo. Benthley combatte, e forse vittoriosamente, l’autenticità di tali lettere, che si credono opera di Luciano, o del sofista Adriano. Ma, posto ancora che autografe quelle lettere fossero, mostrerebbero i pensieri, non le azioni del tiranno: ned è di rado il caso tra gli uomini, e molto meno tra i principi, di non esser le azioni conformi ai pensieri.
È assai probabile che coloro, che tanto male dissero di costui, abbiano esagerate le sue colpe; ma non è credibile che le avessero del tutto inventate. L’esagerazione ha per base la verità. La schietta calunnia non si appicca, e molto meno può formare l’opinione comune di un’età e delle posteriori. Si conservò per secoli in Agrigento il famoso toro di bronzo, donato da Perilao a quel tiranno. Era esso vôto; si apriva nella schiena, per mettervi entro gl’infelici, che si voleano martoriare; vi si metteva il foco sotto al ventre; arroventito il metallo, le grida di quei miseri imitavano il muggito del toro. Vero è che nel ricevere quel dono, Falaride ne fece l’esperimento sul donatore; ma ciò prova anche di più la sua crudeltà. Colui non avrebbe certo fatto un dono di tal natura ad un principe meno inchinevole alle crudeltà: e, se era quello uno strumento ordinario di punizione, fu crudeltà ed ingiustizia punirne l’artefice; se non lo era; fu crudeltà il farne uso allora ed in appresso.
È poi innegabile d’essere stato egli in voce d’uomo furbo e di mala fede. Quando gl’Imeresi, per essere in guerra co’ loro vicini, offrirono a lui il comando delle armi loro; egli, recatosi in Imera, lo accettò, a patto di darglisi una guardia di soldati stranieri per sicurezza della sua persona. Era presente Stesicoro. Una volta, disse costui ai suoi concittadini, il cavallo venuto in cruccio col cervo cercò l’ajuto dell’uomo. Promise l’uomo di vendicarlo, purchè si lasciasse mettere la briglia e se lo recasse in dosso. Il cervo fu ucciso; ma il cavallo restò sottomesso all’uomo. Fu questo apologo di Stesicoro, che fe’ andare a vôto le trame del tiranno; e va tuttora in proverbio.
Pur, comechè questo fatto provi, che Falaride avea nome d’infido, prova egualmente di essere stato tenuto pro guerriero; e ben lo era. Ei fu l’inventore di quella macchina, di cui gli antichi si servivano per lanciare materie infiammate, per lui detta Falarida. Vittorioso uscì egli sempre dalle guerre co’ Sicoli suoi vicini; e, o per forza o per inganno, estese di assai il paese agrigentino; talmentechè sotto il suo governo Agrigento cominciò ad essere ricca, popolosa e potente.
E’ non è altronde da negare, che, per crudele che fosse stato, era Falaride capace di generosi sentimenti. Un Menalippo, per sua privata vendetta, concepì il disegno di metterlo a morte, e lo confidò a Caritone suo amico, pregandolo a procurargli alcun sicario. Questi, a scanso che il fare ad altri una confidenza così gelosa non mettesse in pericolo l’amico, volle tutto solo eseguire l’impresa per lui. Si recò al palazzo del tiranno con un pugnale soppanno. Scoperto dalle guardie, fu preso e tormentato per palesare i complici; ma in onta ai tormenti tacea. Menalippo, visto l’amico presso a morire per lui, corse a gettarsi ai piedi del tiranno; palesògli il fatto; e si studiò di provargli essere egli solo il reo. Sopraffatto dalla gara di tanta amicizia, Falaride li assolvè entrambi; restituì loro i beni; volle solo che sgombrassero.
Lo stesso Stesicoro, che certo male avea meritato di lui, non solo ne fu careggiato e largamente rimunerato con tutti i suoi finchè visse; ma, dopo la sua morte, cercò Falaride di onorare ed eternare in tutti i modi la memoria di quell’illustre imerese. Demotele, Epicarmo, Pitagora e quanti furono sapienti in quell’età erano da lui bene accolti. Ma l’amicizia di Pitagora ebbe alla fine a costargli la vita.
Non pago quel filosofo di consigliare apertamente al tiranno a restituire il governo popolare, nei suoi ragionari coi più illustri cittadini si studiava sempre d’ispirar loro odio per la tirannide, amore per la libertà. Falaride, per levarsi quel fastidio, finse un giorno altercare sull’immortalità dell’anima e sul culto dei numi con Abaride discepolo del filosofo, presente lui. Nella batosta si diè artatamente a farsi beffe della religione; sulla speranza che l’intollerante Pitagora, messo al punto, fosse venuto in escandescenza tale, da offrirgli buon destro di smaltirlo. Il filosofo all’incontro, con eloquente discorso, mostrò al popolo l’empietà del tiranno. Il popolo applaudiva e palesamente mostrava amore verso Pitagora, odio pel tiranno e per la tirannide. Ben sel vide il filosofo, e trovandosi a caso a passare per l’aria uno stormo di colombe inseguite da uno sparviere, rivolto al popolo, disse «ve’ l’effetto della paura! se una sola di quelle colombe avesse cuore di resistere, salverebbe sè e le compagne.» Tanto bastò, perchè il popolo, a furia di sassi, avesse di presente messo a morte Falaride (Ol. 68; 508 av. C.). E tale era l’odio degli Agrigentini, che per decreto del popolo fu stanziato il divieto di portar vesti azzurre; perchè di quel colore era l’assisa de’ familiari e de’ soldati dell’estinto tiranno.
Ma le ire dei popoli, ove rotti siano i costumi loro, tornano in vane giullerie. Gli Agrigentini, dati già alle lussurie, non seppero tenere a lungo il governo popolare. Terone ebbe la tirannide. Capi ed Ippocrate, comechè suoi congiunti e da lui beneficati, furono i soli a levarsi in armi contro di lui. Non soccorsi dagli altri, furono dal tiranno inseguiti sino all’Imera, ove le forze loro furono disperse.
Per meglio afforzare il suo potere, contrasse Terone parentado con Gelone, tiranno di Siracusa, con dargli sposa la Demarata sua figliuola; ed egli stesso menò in moglie una figliuola di Polizzelo, fratello di Gelone. Credutosi allora forte abbastanza, per potere estendere a man salva il suo dominio; mosse guerra a Terillo, tiranno d’Imera. Gli venne fatto di cacciarlo dal solio, e farsi padrone di quello stato, contermine al suo. Così il paese a lui soggetto venne ad estendersi dall’una spiaggia all’altra dell’isola. Ei fu che eresse in Agrigento la maggior parte delle magnifiche opere ammirate da tutte l’età. Morì (ignoriamo in qual’anno) onorato e compianto da tutti gli Agrigentini.
Trasideo, suo figliuolo, brutalmente crudele, fu suo successore. Era stato costui posto dal padre al governo d’Imera; e tanto avea tribolato colle sue crudeltà gl’Imeresi, che costoro cospirarono per levargli il dominio, e l’offerirono a Gerone, tiranno di Siracusa. Ma ne incolse loro quel danno, che sempre hanno riportato i popoli sconsigliati, che hanno richiesto dagli stranieri rimedio alle interne oppressioni. Il siracusano, che per suoi fini volea tenersi amico Terone, non ebbe rossore di farla da vil delatore, palesandogli la congiura e i congiurati. Questi commise al figlio la loro punizione; ed egli tanti ne mise a morte, che fu mestieri far venire una nuova colonia di Dorici ed altri Greci, per ripopolare la città.
Ciò non però di manco non sì tosto venne Trasideo signore anche d’Agrigento, per la morte del padre, mosse guerra a Gerone. Venuti i due eserciti alle mani, gli Agrigentini n’ebbero la peggio; ed i Siracusani non ebbero ragione di esser lieti della vittoria, tanta fu la perdita loro. Il feroce Trasideo perduta la battaglia, odiando i suoi quanto n’era odiato, fuggissi a Megara; ove, o si die’ da sè stesso la morte, o, come altri dice, fu dai Megaresi dannato a quel supplizio, di lui ben degno.
V. — Ma, fra quanti furono in quell’età al governo delle città siciliane, nessuno giunse alla gloria di Gelone, tiranno prima di Gela e poi di Siracusa. Nato costui di chiarissimo sangue in Gela, giunse a comandar le armi sotto Ippocrate, e s’era segnalato in tutte le costui imprese; tanto che al valore ed alla capacità di lui si attribuivano le vittorie di quel tiranno. Un generale vittorioso giunge di leggieri al supremo potere nelle repubbliche, ove lo voglia. Gelone lo volle dopo la morte d’Ippocrate, nell’anno 2 della 72 Olimpiade (491 a. C.), messi in non cale i dritti de’ figliuoli dell’estinto tiranno, che da prima avea fatto le viste di sostenere.
Era allora Gela in tal floridezza, che, avendo avuto i Romani gran bisogno di frumento, aveano spediti due senatori in Sicilia a farne acquisto; ed era venuto loro fatto comprarne dagli altri tiranni a vil prezzo venticinquemila medinni*. Gelone ne die’ loro in dono altrettanto; ed a sue spese fece trasportarlo in Roma. Indi acquistò nome di generoso e magnanimo principe. E presto ebbe campo di far conoscere in più vasto teatro le grandi qualità sue.
Era in quei dì Siracusa scissa in due fazioni: l’una della marmaglia, che dei Cillirî si diceva; l’altra de’ patrizî, che de’ Gamori avea nome. Cacciati questi dai primi, s’erano ridotti in Casmena; e quindi richiesero di ajuto Gelone, il quale seco ne li menò, per indurre gli altri a riceverli. Tale era il nome di lui, che al solo suo avvicinarsi, tutto il popolo di Siracusa gli venne incontro; e, non che ricevere i Gamori, diede a lui il governo della città, nell’anno 1 della Olimpiade 74 (484 a. C.). Tenne indi in poi per sè Siracusa, lasciato al fratello Gerone la tirannide di Gela; dalla quale città trasse la metà degli abitanti ed in Siracusa li trasferì. Ed all’oggetto stesso d’ingrandire la città; distrusse la malsana Camarina, ed in Siracusa ne fece trasportare gli abitanti.
Megara ed Eubea gli mossero guerra. Ambe furono da lui sottomesse. I maggiorenti ebbero la cittadinanza di Siracusa, la geldra fu venduta agli stranieri; chè a quel valente principe, di popolo non di plebe era mestieri.
Mentre in Sicilia tali cose seguivano, la Grecia e la Persia si preparavano alla famosa guerra, che dovea dar luogo ad azioni memorande. D’ambe le parti si cercavano alleanze. Conosceva il persiano quale possente ajuto poteano i Greci avere dalla Sicilia; però per privarneli persuase i Cartaginesi ad attaccare l’isola con grandi forze.
Già da lung’ora agguatava Cartagine il destro di metter piede in Sicilia; e v’era stata stimolata da Anassila, tiranno di Messena, genero di Terillo già tiranno d’Imera; il quale, cacciato da Terone, era ito a cercare rifugio in Cartagine, ed univa le sue forze alle istigazioni del genero, per indurre quella repubblica a portar le armi in Sicilia.
Dall’altro lato, Sparta ed Atene spedirono messi a Gelone, chiedendo alleanza e soccorso. Il principe siracusano, che per la comunanza del sangue era inchinevole a questa parte, offerì di dare alla Grecia un’armata di dugento galee, ed un esercito di ventimila fanti, diecimila cavalli, altrettanti arcieri, altrettanti frombolieri, e ventimila di truppa leggiera. Ed oltracciò esibiva tutto il frumento necessario per lo mantenimento delle forze della lega, durante la guerra; a patto che a lui se ne desse il comando, come a colui, che contribuiva più forze egli solo, che non tutta la Grecia unita. Quest’ultima condizione fece sdegnosamente rigettare da que’ messi l’offerta, comechè Gelone fosse poi condisceso a contentarsi del comando della sola armata o del solo esercito, secondochè i Greci volean per sè o l’uno o l’altro. Rotto così il trattato, Gelone, che forse ad arte avea messo avanti quella condizione, alla quale sapea che i Greci non avrebbero assentito, per non dilungarsi da Sicilia, mentre l’isola era minacciata da una invasione straniera, s’accinse a respingerla.
VI. — I Cartaginesi intanto, fatti gl’immensi appresti per la guerra, di cui diedero il governo ad Amilcare, mossero verso Sicilia. Erano trecentomila combattenti, tratti da Cartagine, dalla Libia, dalla Spagna, dalla Corsica e dalla Sardegna; ed un’armata di duemila galee, oltre ai legni da carico che erano forse meglio di tremila, dei quali alcuni furono dispersi da una tempesta. Posto piede a terra in Panormo, il punico generale disse: la guerra essere a buon termine; che il solo timore suo era, che i Siciliani non fossero stati ajutati dalla tempesta.
Dato tre giorni di sosta alla gente, mosse Amilcare verso Imera; perchè l’apparente oggetto della guerra era di restituire nel governo l’espulso Terillo, e perchè costui avea fatto loro credere di avervi assai dipendenze. L’esercito si avviò per terra, l’armata lo convogliava radendo il lido. Come giunsero nella vasta pianura, che sta a fior di lido poco di lungi dalla città a ponente, le navi furono tutte tratte in terra e chiuse in un ricinto, entro il quale furono poste anche le bagaglie. L’esercito si accampò di là dai colli, che dallo stesso lato fronteggiavano la città.
Così disposte le cose, il cartaginese con una mano de’ suoi corse a dar l’assalto. Loro si fe’ contro una schiera d’Imeresi, la quale dopo lungo combattimento fu rotta. Terone, che, al primo annunzio dello sbarco dei Cartaginesi si era da Agrigento recato di volo in Imera con quanta gente avea potuto, spedì, dopo quella disfatta, corrieri a Gelone, pregandolo di pronto soccorso. Questi, che da lung’ora s’era messo in punto, mosse tosto da Siracusa con cinquantamila fanti e cinquemila cavalli. Scortando quanto potè la via, giunse e si pose ad oste nella pianura contigua alla città dalla parte di mezzogiorno. Una mano di cavalieri fu da lui destinata a spazzar la campagna, per impedire al nemico d’andare a foraggio. Tutte quelle schiere africane, che sbrancate ivano scorazzando per lo contado, soprapprese da costoro furono o morte o prese; intantochè trassero entro la città diecimila prigionieri.
Gl’Imeresi, che alla prima disfatta eran cagliati, fecero cuore. Gelone, per far mostra di stoppare il nemico, fece aprire le porte della città, che gl’Imeresi dapprima aveano chiuse; e di nuove ne fece tagliare, per più facile comunicazione tra il campo e la città.
Stettero più giorni gli eserciti, molestandosi con ispesse avvisaglie; senza venirne a campal battaglia. Non osavano i Cartaginesi tentare l’assalto in presenza dell’esercito siracusano; aspettava Gelone il suo vantaggio, prima d’avventurare la gente.
In questo, i cavalli siracusani intrapresero un messo, che i Selinuntini spedivano ad Amilcare, per dargli avviso che la cavalleria, da lui richiesta, sarebbe giunta al suo campo, nel giorno da lui assegnato per fare un solenne sacrifizio a Nettuno. Scelse allora Gelone un drappello di cavalieri, ai quali die’ ordine di circuire il monte Euraco, e, dalla strada per a Selinunte, giungere alla pianura ove erano le navi cartaginesi, nel giorno posto da Amilcare. E scolte pose sopra le alture frapposte, per dargli avviso del loro arrivo.
VII. — Sul far dell’alba d’uno de’ primi giorni di agosto dell’anno 1 della 75 Olimpiade (480 a. C.), la cavalleria siracusana giunse al campo de’ Cartaginesi; i quali, tratti in inganno dal vederne venire da quella via, in quel giorno, li tennero gli aspettati Selinuntini; e, perchè di cavalli aveano bisogno, gli accolsero con alte grida di giubilo. Quelli, come furono dentro il ricinto, diedero addosso a tutti coloro che lì erano. Amilcare, i sacerdoti, i capitani, i galeotti furono fatti in pezzi. In quel tramazzo alcuni de’ Siciliani, dato di piglio agli ardenti stizzi, ch’erano sull’ara disposta per lo sacrifizio, misero foco in più parti alle navi; e, per esser queste spesse, e confitte al suolo, la fiamma in poco d’ora dall’una all’altra si appiccò.
Come ebbe avviso Gelone di ciò che da quel lato seguiva, ad un punto preso spinse avanti l’esercito, per attaccare dentro i ripari i Cartaginesi; e questi vennero fuori ad incontrarlo. Pari era il desiderio di venire alle mani; pari il valore dei due eserciti. Nell’uno prevaleva il numero; nell’altro la disciplina, l’amor della patria, il gran nome del capitano. Però con ostinata ferocia si pugnò per più ore, finchè il fumo e le fiamme dell’altro lato non superarono i frapposti colli. Tutti i combattenti in un punto si soffermarono e colà rivolsero gli sguardi. L’ira diede luogo alla maraviglia. Ma la maraviglia fu seguita da un subito spavento degli Affricani, al divulgarsi la nuova del duce loro estinto e del naviglio inceso.
Quell’immenso esercito, che s’era dato vanto d’allagare tutta la Sicilia, si trovò, quando meno se lo pensava, in terra nemica, senza capitano, senza viveri, senza bagaglie, senza speranza d’ajuto, senza pure una scafa per salvarsi. La stessa innumerevole moltitudine accresceva la confusione dei Cartaginesi. Molti, sopraffatti dal terrore, si volsero a fuggire in rotta: ma pur nella fuga non trovavano scampo; come passavano su quel d’Agrigento, v’erano presi a man salva. Degli altri, che in alcun modo tenean la puntaglia, i Siciliani fecero macello; che Gelone avea bandito di non dar quartiere. Centocinquantamila, che ne restavano ancora, ritrattisi sulla giogaja dell’Euraco, tentarono di far fronte. Ma, vinti in breve dalla sete (che il sito è aridissimo), si resero tutti prigionieri sul far della sera.
Ove si ponga mente alla perdita, ch’ebbe a soffrire Cartagine, di trecentomila soldati, di cinquemila navi, delle bagaglie e degli immensi tesori profusi per quella spedizione, si vedrà che gli annali del mondo non offrono esempio di uguale vittoria.
Accadde la battaglia d’Imera il giorno stesso della famosa fazione delle Termopili (11). «Quasi che — dice Diodoro — un qualche Dio avesse a ragion veduta disposto, che quinci fosse una vittoria chiarissima, e quindi una morte gloriosissima, in uno stesso tempo, in pari modo, esempio pari di virtù, onde fosse ambiguo il giudizio di chi dovesse essere in lode preferito (12).»
Gelone, dopo la vittoria, rimunerò in primo luogo generosamente que’ prodi cavalieri, che aveano ucciso Amilcare e dato fuoco a’ suoi legni. Delle nemiche spoglie, le opime furono destinate ad ornare i tempî di Siracusa e d’Imera, il resto, una coi prigionieri, fu diviso fra’ soldati, all’avvenante del grado e del merito di ognuno. I prigionieri, venduti e sparsi in tutte le città, furono in tal numero, che, al dire di Diodoro, avresti detto che tutta l’Affrica fosse serva della Sicilia. La stregua degli Agrigentini fu tanta, che molti v’ebbe, ad ognuno dei quali cinquecento ne toccò. E questi furono tutti destinati all’agricoltura ed a tagliar pietre, per la costruzione di que’ magnifici edifizî, dei quali oggi ammiriamo le rovine.
Di tutto il punico naviglio, solo venti navi, che in altro sito erano, si sottrassero all’incendio, e cercarono di fuggire; gran quantità di gente vi si affollò sopra per campare; ma, dilungatisi appena, surta una tempesta, sopraccariche com’erano, si sommersero; e coloro, che sopra v’erano annegarono, tranne pochi, che si salvarono in un paliscalmo, e portarono a Cartagine l’annunzio della catastrofe. Quivi lo spavento fu tale, che si raddoppiarono le guardie della città; perchè parea a’ Cartaginesi d’avere già addosso l’esercito vincitore.
VIII. — La moderazione di Gelone dopo la vittoria fu pari alla solerzia mostrata nell’ordinare la battaglia. Pace concesse agli oratori, che da Cartagine a lui furono spediti. Il partito fu: che pagasse Cartagine duemila talenti ai Siciliani, per le spese della guerra (13); che mandasse a Siracusa due navi allestite, in segno di riconoscenza per la pace ottenuta; e che abolisse la rea consuetudine d’immolare umane vittime a Nettuno. «Fu questo — dice Montesquieu — il bel trattato di pace di cui la storia parli. Gelone, dopo d’aver disfatto trecentomila Cartaginesi, impose una condizione, ch’era utile solo ad essi; o piuttosto egli stipulò in pro di tutta l’umanità (14).»
Tanto furon lieti i Cartaginesi di tali condizioni, che per mostrare la gratitudine loro a Demarata moglie di Gelone, che s’era adoperata per la pace, la presentarono d’una corona del valore di cento talenti d’oro; della quale essa fece coniare monete, ognuna delle quali pesava dieci dramme, e, dal suo nome, demarazie furono dette.
Recata a sì glorioso fine la guerra, rivolse Gelone il pensiere alle cose di Grecia. Già sin dal momento che i greci ambasciatori s’erano da lui accomiatati, non prevedendo fine lieto a quella guerra, avea spedito in Coo un suo confidente, con gran somma di danaro, per istarvi ad aspettare l’evento, e comprare dal Persiano la pace, nel caso ch’ei fosse stato vincitore. Visto di non esser venuto fatto a Serse di allagare la Grecia, come ebbe smaltiti i Cartaginesi, si accingeva a recarsi colà con tutte le sue forze, quando gli giunse la nuova della strepitosa vittoria ottenuta in Salamina, e della vergognosa fuga di Serse; per che se ne rimase (15).
Pur, comechè tanto bene avesse meritato Gelone della Sicilia, e massime di Siracusa, persone vi furono (e ne’ paesi liberi mai non ne mancano), che cominciarono a dargli voce di agognare al potere assoluto. Avutone egli lingua, fece adunare il consiglio generale; ed ordinò, che ognuno vi si recasse armato. Egli solo vi venne, non che inerme, affatto ignudo, involto nel mantello. Espose quanto avea fatto; die’ ragione d’ogni sua azione; e conchiuse dicendo d’esser egli venuto ignudo ed inerme fra tanti armati, perchè ognuno, che lo credesse reo contro la patria, potesse metterlo a morte. In questo dire apre il mantello. A quell’atto magnanimo, tutti ad una voce lo gridarono re.
La nuova dignità non fece cambiare i suoi costumi. Colle spoglie cartaginesi edificò i magnifici tempî di Cerere e Proserpina in Siracusa. Mandò in dono al tempio di Apollo in Delfo, per mostrarglisi riconoscente dell’ottenuta vittoria, un tripode d’oro del valore di sedici talenti. Die’ mano a fabbricare in Enna un tempio a Cerere dalla nuova luna: ma tratto a morte nell’anno 3 della 75 Olimpiade (478 a. C.), non potè recarlo a fine.
Presso a morire dichiarò suo successore Gerone, suo maggior fratello, da lui lasciato al governo di Gela; ed ordinò, che nel suo funerale si eseguisse esattamente la legge, poco prima dal popolo bandita, per frenare il lusso delle pompe funebri. Destinò il luogo della sua sepoltura in una possessione di sua moglie detta le nove torri. Il popolo tutto volle accompagnare il feretro sino a quel sito, ch’era dugento stadî (16) discosto. Ivi, a spese del pubblico, fu eretto un sontuoso monimento.
IX. — Tutto da lui diverso si mostrò Gerone. Sin dalle prime volle una guardia di mercenarî stranieri. Tale diffidenza bastava a produrre l’odio del popolo: egli, vi aggiunse più forti ragioni d’essere odiato. Siracusa fu inondata di delatori; i più nobili cittadini furono o messi a morte, o banditi; e i beni loro furono dal tiranno appropriati. Odiava il fratello Polizzelo, perchè era stato caro a Gelone; e lo era a’ Siracusani. Per disfarsene, gli diede il comando d’un esercito, ch’avea in animo di mandare in soccorso de’ Sibariti contro i Crotoniati, sulla speranza che dovesse restarvi morto o preso. Quegli non vi si lasciò cogliere e rifiutò il comando. Gerone ne venne in tanto cruccio, che Polizzelo, per sua sicurezza, ebbe a rifuggirsi in Agrigento presso Terone suo genero. Fu allora che Gerone, temendo non l’Agrigentino entrasse nell’impegno di sostenere il suocero per farselo amico, gli svelò la congiura degl’Imeresi. Per opera poi di Terone i due fratelli si riconciliarono.
Mosse Gerone guerra a Nasso ed a Catana; le sottomise; ne cacciò gli abitanti e le fece popolare da cinquemila Greci del Peloponneso ed altrettanti Siracusani. Volle che Catana, lasciato il nome, Etna quindi innanzi fosse detta; ed egli, che vantavasene fondatore, Etneo faceva chiamarsi.
Pure Gerone amava la gloria, ed agognava soprattutto alla gloria letteraria. Simonide, Pausania, Bacchilide, Eschilo, Epicarmo e più di ogni altro Pindaro a lui furono cari, Tre volte ottenne la palma ne’ giuochi olimpici, celebrato dalle tre odi di Pindaro. Trionfò degli Agrigentini, ed, unendo le sue galee a quelle de’ Cumani, purgò affatto il mare dei corsali tirreni. Finalmente, dopo undici anni di regno, si morì in Catana nell’anno 2 della 78 Olimpiade (467 a. C.).
Trasibulo, suo fratello, che gli successe, lo superò di gran lunga nelle cattive qualità, senza averne alcuna delle buone. Avaro, ingiusto, crudele, mosse i Siracusani alla rivolta. Per sostenersi accrebbe il numero de’ suoi mercenarî, e truppe fece venire da Catana. Diedero soccorso ai Siracusani Gela, Agrigento, Solunto, Imera e le città d’entro terra. Con tale ajuto venne loro fatto di cacciarlo finalmente da Siracusa. Rifuggitosi in Locri, vi menò il resto dei giorni suoi. La tirannide fu allora abolita in Siracusa. Una statua colossale fu eretta a Giove; e furono istituiti giuochi pubblici, da celebrarsi in avvenire negli anniversarî di un tale avvenimento; ed in questi giorni s’immolavano 459 tori. Fu allora che si coniarono quelle monete d’oro, d’argento e di rame, nelle quali è improntata da un lato la testa di Giove coll’epigrafe ΖΕΥΣ ΕΛΕΥΘΕΡΙΟΣ (Giove liberatore), e nel rovescio un pegaso con una stella sotto e il motto ΣΙΡΑΚΟΣΙΩΝ.
Calcolando così il medinno siciliano, il frumento regalato da Gelone ai Romani fu salme 4849, tumoli 15, mond. 2, quarti 6, once 9,6.