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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO III. I. Stato della Sicilia, cacciati i tiranni. — II. Deucezio. — III. Distruzione di Trinacria. — IV. Prima spedizione degli Ateniesi. — V. Pace. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Quando i Greci vennero a fondare in Sicilia le prime colonie, in nessuna città della Grecia era democrazia: ed anche nelle età posteriori, tranne Atene e Corinto, sdegnarono le città greche sempre il governo, in cui la plebe avea parte. Gl’Ippobori reggeano allora la cosa pubblica in Calcide; Corinto ebbe da prima re, poi pritani e finalmente assoluti signori; i Greci del Peloponneso aveano, re, o, una col re, il senato. I primi coloni, che in Sicilia vennero, stabilirono nelle nuove città, da essi popolate, il governo de’ luoghi ond’eran mossi. Catana, Zancle, Nasso, Leonzio, Eubea, Mile, Imera, Callipoli, città calcidiche, ebbero un governo, che all’oligarchia s’accostava. Aristocratico fu il governo di Gela e d’Agrigento, fondate dai Rodioti e Cretesi, e tale fu anche da prima in Siracusa; ma poi s’era cambiato in ischietta democrazia, quando Gelone ne venne tiranno.
Pur, comechè quelle repubbliche fossero state tutte rette da una classe distinta dei cittadini, la distinzione non era in tutte la stessa. Nelle città doriche erano preposti al governo i nobili, nelle calcidiche i ricchi. È per questo che gli antichi scrittori dicono che, comechè dal miscuglio de’ Dorici e Calcidesi, che popolarono Imera, fosse nato un dialetto anche misto, pure calcidico fu il governo di quella città.
Nascevan da ciò le perpetue dissenzioni in tutte le città, e la facilità con cui gli uomini astuti ed ambiziosi usurpavano la tirannide; mettendosi alla testa dei plebei contro i nobili, dei poveri contro i ricchi. Tutte le città siciliane vennero allora sotto il dominio dei tiranni; ed Aristotile (17) le dà ad esempio per provare come sia facile il passare dalla oligarchia alla tirannide.
Pure, avvegnachè si fossero quei governi trasformati in monarchie, forti cagioni restavano per tenere in fermentazioni gli spiriti. Il partito escluso mordeva il freno, ed agognava sempre a riprendere la perduta autorità. A costoro venivano di tempo in tempo ad unirsi molti dì coloro che. aveano favorito il tiranno; e poi, o per invidia, o per non averne colto quel pro che aveano sperato, se ne staccavano. Le stesse persecuzioni dei tiranni contro i nobili e ricchi cittadini, mentre forse eran gradite alla plebe, accresceano l’odio dei più. E le forme larghe di governo, che pure restavano, teneano sempre vivo il desiderio di maggior libertà.
A stimoli così potenti s’aggiungeano le istigazioni di Pitagora e de’ suoi discepoli; i quali, nel misterioso silenzio del loro cenobio, ordinavano la distruzione di tutti i governi, che non erano repubbliche, di tutte le repubbliche, che non erano secondo i loro principî. I Siciliani, impazienti della tirannide, correano da tutte le parti a Crotone, sede del filosofo e della sua scuola. Nè di altra filosofia si trattava in quest’età in Sicilia. Pitagorici erano Caronda e Lisiada da Catana; Empedocle d’Agrigento; Petrone d’Imera; Ecfanto, Iceta, Leptine, Finzia, Damone da Siracusa; Cole da Selinunte; Clinio e Filolao da Eraclea. E le massime di quella scuola venivano spargendo Eschilo, Epicarmo, Ipparco e lo stesso Pindaro, mentre facea le viste di piaggiare Gerone e Trasibulo.
Finchè sedette sul trono di Siracusa Gelone, le sue virtù e lo splendore delle sue vittorie tennero a freno lo spirito repubblicano. Morto lui e mancato di vita Terone, tiranno d’Agrigento, i vizî e il poco senno de’ loro successori fecero venir meno il timore dei popoli, ed accrebbero l’odio generale per la tirannide; a segno che, scacciati Trasideo e Trasibulo, tutte le città siciliane scossero il giogo e vollero tornare all’antico stato. Dopo aspro conflitto venne fatto a’ Siracusani espellere dalla città tutti coloro, che Gelone vi avea fatto stanziare; i quali, per essere tutti di nobile nazione, e per lunga consuetudine usi al governo monarchico, si credeva di essere avversi alla democrazia. E, perchè in avvenire nessuno avesse potuto aspirare alla tirannide, si ebbe ricorso al pericoloso compenso di stabilire il petalismo, ad imitazione dell’ostracismo d’Atene; per cui ogni cittadino potea essere bandito senza prove, senza forma di giudizio e spesso ancora senza delitto. Si adunava il popolo, ed ognuno scriveva il nome di colui, che avea in sospetto. Raccolti tali voti, coloro che ne riportavano seimila, andavano in bando. L’ostracismo di Atene differiva dal petalismo di Siracusa solo in ciò, che colà il voto si scriveva in un coccio, o in un guscio d’ostrica, e l’esilio era per dieci anni; qui si servivano d’una fronda di olivo, e l’esilio era per cinque anni.
Ajutati dai Siracusani, quei Catanesi, che Gerone avea cacciati dalla città loro, di viva forza la ripresero, e le restituirono l’antico nome. Coloro, che l’aveano abitata, vennero a stabilirsi in Inessa, cui dissero Etna (18). Al modo stesso Agrigentini, Geloi, Imeresi, Zanclei, Nassi e Leontini, che dai tiranni erano stati espulsi dalle patrie loro, vi ritornarono.
Fu allora che Empedocle concepì il disegno di riformare lo stato di Agrigento. Era quella città retta da un consiglio di mille nobili, che si chiamavano chiliarchi; ed un supremo magistrato vi avea per eseguirne i decreti. Empedocle tolse il governo dalle mani dei nobili; restrinse a cento il numero dei chiliarchi, tratti da ogni classe di cittadini. Il popolo ne fu tanto lieto che gli offrì la corona; ma il largo repubblicano sdegnosamente la rigettò. Al tempo stesso quel filosofo riformò i governi di Tauromenio, d’Imera, di Catana e di tutte le città calcidiche.
Tutto allora era pace. La Grecia riposava tranquilla sopra i suoi trofei. Cartagine e la Persia agognavano alla vendetta; ma non s’erano riavute dal danno e dallo spavento della giornata d’Imera e di Salamina. Roma non portava ancora oltre i confini d’Italia le ambiziose sue mire. Nelle siciliane repubbliche le arti e le scienze fiorivano; i popoli rapidamente si moltiplicavano; la pubblica ricchezza d’ora in ora crescea. Siracusa ed Agrigento gareggiavano di gentilezza e di potenza; e tanto prevaleano, che tutte le altre erano astrette o a stare in pace quando esse lo erano, o a pigliar tutte le armi quando quelle venivano nemiche.
II. — La pace fu turbata dai Sicoli, che contravano palmo a palmo il terreno ai nuovi abitatori; e, comechè respinti da tutte le spiagge, restavano ancora minacciosi nel paese entro terra, ove molte e forti città aveano. Deucezio regnava fra essi. Univa costui a temerario ardire non comune ambizione ed estesa signoria. Oltre Neto, ov’era nato, ch’egli avea rifabbricato in sito migliore, Meneno e Palica da lui edificate (19), avea sottomesso Morganzio ed Inessa, o sia la nuova Etna (Olimp. 82, 452 a. C.). Mosse egli guerra agli Agrigentini; assediò il castello di Mozio sul loro tenere; e, malgrado la nuova gente che Agrigento vi mandò per rinforzarne il presidio, l’espugnò. Siracusa mandò un esercito in favore d’Agrigento, di cui fu dato il comando a Bolcone. L’esercito fu disfatto, il generale dai suoi dannato a morte. Esempio non raro ne’ governi popolari, nei quali anche la sventura si appone talvolta a delitto.
Nella nuova primavera i Siracusani tornarono con maggiori forze ed un altro generale in campo. Incontrarono i Sicoli ne’ campi tra Noma ed Amastrato (20), e n’ebbero compita vittoria. Al tempo stesso gli Agrigentini ripresero Mozio, Deucezio da per tutto circondato di nemici, abbandonato dagli amici, mal sicuro fra coloro stessi che lo seguivano, alcuni dei quali, sedotti da’ Siracusani, gl’insidiavano la vita, avanti che perire per mano di un assassino, corse di nascosto a Siracusa; si prostrò innanzi all’altare, ch’era nella gran piazza; e rassegnò sè ed il suo stato nelle mani del popolo siracusano. I Siracusani ne furono inteneriti; e, comechè taluno avesse proposto di punirlo di morte, i più nol consentirono, gridando esser viltà lordarsi del sangue di un supplichevole. Fu mandato a Corinto, sulla promessa di non far più ritorno; e la repubblica provvide all’onesta sua sussistenza.
Ma non andò guari che alla bollente anima venne quell’ozio e quel soggiorno in fastidio. Finse che l’oracolo aveagli imposto di ritornare in Sicilia, e fabbricare una nuova città sulla sponda bagnata dal mar tirreno, in quel sito che si diceva Bel lido. Molte famiglie corintie lo seguirono. Come giunse, i Sicoli in gran numero a lui si unirono, frai quali Arconide, principe degli Erbitani. Con tali ajuti fabbricò nella Olimpiade 83 (448 a. C.) presso il fiume Chydas, detto oggi Rosmarino, la città che dalla bellezza del lido fu detta Calatta (21). Ma la morte venne ivi a poco a por fine ai vasti disegni di lui.
Il ritorno di Deucezio suscitò una guerra intestina. Gli Agrigentini, i quali a malincuore aveano tollerato, che i Siracusani, senza il consenso loro, avessero dato il perdono al comune nemico, stizziti maggiormente dal ritorno di lui, nell’anno 3 della 83 Olimpiade (446 a. C.), loro mossero guerra. Tutte le città greco-sicole presero parte o per l’una o per l’altra delle due repubbliche. I Siracusani corsero incontro ai nemici sino ai fiume Imera. Si venne alle mani. Gli agrigentini furono rotti; si acchinarono a chieder la pace; Siracusa la diede.
III. — Insuperbiti dalla vittoria i Siracusani, rivolsero il pensiero a sottomettere Trinacia, sola città dei Sicoli, che restava ancora indipendente. Era essa famosa per la sua ricchezza, per la sua potenza, pel gran numero dei cittadini, d’alto legnaggio, di gran senno, di gran cuore. Avvegnacchè soli, non si spaventarono i Trinacini. Vennero fuori con tutte le loro forze. Pugnarono in aperta campagna gran tempo; e quando poi, sopraffatti dal numero, ebbero a ritrarsi entro le mura, con sorprendente valore e longanimità, resisterono lunga pezza agli assalitori, che d’ora in ora venivano più numerosi per la nuova gente che sopraggiungea. Finalmente, periti combattendo tutti i giovani atti alle armi; mancati affatto i viveri; disperati di soccorso, anzichè arrendersi, si diedero da per loro la morte. I Siracusani trovarono la città allagata di sangue, gremita di cadaveri, pochi vecchi e donne in vita, che furono ridotti in servitù. Immenso fu il bottino, di cui la maggior parte fu mandata in olocausto al tempio di Delfo. La città fu spianata, in modo che pure un vestigio non resta, per additarci il sito in cui stette; solo si sospetta, che ebbe ad essere non guari discosta da Meneno e Palica (Olimp. 85; 400 a. C.).
Accresciuto a tal segno il loro dominio, i Siracusani agognarono a sottomettere tutte le città, che indipendenti erano. Moltiplicarono l’esercito; accrebbero l’armata; nuovi tributi esassero dalle città soggette. Era quella repubblica, più che ad altri, infesta a Leonzio. Comecchè i Leontini alle proprie non piccole forze avessero unito quelle di Camerina, di tutte le città calcidiche e di Reggio; pure erano queste a gran pezza inferiori a quelle di Siracusa, e di tutte le città doriche, che, da Camerina in fuori, per essa parteggiavano. Però i Leontini, volendo tarpare le ali alla potenza siracusana, implorarono soccorso dagli Ateniesi. Vi spedirono ambasciatore il celebre Gorgia, figlio di Carmantide, ch’era il più ornato oratore dei suoi tempi.
IV. — Se ambiziosa era Siracusa, Atene lo era anche di più. Resa del pari insolente per le ottenute vittorie, quella affettava il dominio di tutta la Sicilia, e questa follemente sperava di soggettare non che la Grecia tutta, la Sicilia. Però la richiesta dei Leontinî fu accolta come un bel destro di venire a capo del gran progetto, o per lo men d’impedire, che Siracusa non mandasse ajuti ai Lacedemoni. Malgrado il contrario parere di Pericle e la guerra con la metà della Grecia, l’eloquenza di Gorgia la vinse. Furono spedite in soccorso dei Leontini 20 galee, sotto il comando di Lachete e Careade nel primo anno della Olimpiade 88 (428 a. C.), che vennero a svernare in Reggio. Nella primavera dell’anno appresso, l’armata ateniese, rinforzata di dieci galee reggine, scontrò la siracusana: n’ebbe vittoria, ma vi perdè assai gente; e fra gli altri fu ucciso lo stesso Careade. Venne fatto a Lachete colle restanti forze espugnare Mile e avere di queto Messena. Tentò poi di assaltare il castello di Nisa (22), ove i Siracusani avean posto presidio. Ne fu respinto e con perdita. Passando dall’altro lato, diede il guasto ai campi d’Imera e a Lipara. Tornato in Reggio, vi trovò giunto Pitodoro, destinato comandante in sua vece.
Nell’estate del 3 anno dell’88 Olimpiade (426 a C.) i Siracusani occuparono Messena. Inanimiti da ciò vollero attaccare l’armata ateniese forte di diciotto galee. Trenta erano le siracusane; pure gli Ateniesi, più esperti nella marineria, ne affondarono una e fugarono le altre, che si ritirarono al capo Peloro, ove i galeotti presero terra. Avvistosene gli Ateniesi, tornarono ad assalirle, sulla speranza di trovarle vôte. I Siracusani non furono lenti a risalire sulle navi; e tanto fecero che quelli, perdute due galee, si ritrassero a Reggio, d’onde corsero a Camerina, che alcuni cittadini della fazione siracusana tentavano ribellare.
Si avvantaggiarono della loro assenza i Messenî e corsero a dare il sacco alla terra de’ Nassî, i quali, intimoriti dalla subita irruzione, si ritrassero entro le loro mura. A’ Messenî si unirono i Siracusani; i quali, accostando le loro galee alla foce dell’Acesine, vi presero terra. I Sicoli delle vicine montagne, sempre nemici dei Siracusani, loro corsero sopra. I Nassî, fatto cuore, sortirono ed attaccarono i Messenî, i quali fuggirono in rotta. Meglio di mille ne restarono sul campo, ed assai altri furono messi a morte da’ Sicoli montanari che l’inseguivano.
Parve ai Leontini di avere allora un bel destro di assalire Messena e vi corsero. Un Demotele da Locri, che con trecento dei suoi vi comandava, venne loro incontro; assai ne uccise, gli altri fugò; e maggior male ne sarebbe loro incolto, se gli Ateniesi, che lì presso erano, scesi dalle navi, non avessero frenato l’impeto de’ Locresi, che alla città tornarono. Gli Ateniesi, dopo ciò, si ritrassero a Reggio, per aspettarvi altri comandanti ed altre navi. Le città siciliane restarono a dilaniarsi fra loro.
V. — Era l’anno 4 della Olimpiade 88 (425 a. C.). La guerra era venuta in fastidio a tutti in Sicilia: Gela e Camerina conchiusero fra esse una lunga tregua. Sul loro esempio fu stabilito un congresso in Gela, per trattarsi un generale accordo. Tutte le città vi mandarono loro ambasciatori. Ermocrate da Siracusa disse agli altri: non ad altri mirare gli Ateniesi, che a far macerare scambievolmente i Siciliani, per poterli poi ridurre tutti in servitù; qual che fosse l’origine d’ogni città, esser da secoli divenute tutte siciliane; il bene della Sicilia dover tutte egualmente procurare; nè questo potersi ottenere, che collo stringersi in lega generale. Tutti assentirono. Si convenne, che ogni città restasse nel possedimento di ciò che avea. Solo Camerina, che avea occupato Morganzio, sulla quale Siracusa credea d’aver diritto, ne la compensò con una somma di danaro. La lega universale fu conchiusa; fu lasciato in libertà agli Ateniesi d’entrarvi.
Erano in questo giunti a Reggio gli altri due comandanti Eurimedonte e Sofocle, menando seco altre trentacinque galee. Saputo costoro della pace e della lega conchiusa dai Siciliani, buono o mal grado vi acconsentirono e fecero ritorno in Atene.